Carcere e criminalità. Come rompere il legame? di Sebastiano Zinna Città Nuova, 17 gennaio 2017 Occorre investire per evitare che l’abbandono e l’isolamento siano il terreno di coltura per il reclutamento della malavita. I soldi ci sono ma vengono spesi male (braccialetto elettronico) o restano inutilizzati (Cassa delle Ammende). Se il carcere può diventare luogo privilegiato di radicalizzazione, c’è bisogno di un tutto un profondo ripensamento del modello formativo degli operatori. Psicologi, mediatori culturali, autorità religiose, insegnanti e istruttori professionali sono alcune delle figure che occorre rendere sempre più presenti nel contesto penitenziario. Il modello formativo poi deve puntare a far condividere i dati che, da diversi punti di vista, gli operatori raccolgono. In definitiva occorre rimodulare un metodo di lavoro in gruppo che il vigente ordinamento penitenziario ha sempre sollecitato. L’approccio individuale ai complessi problemi del sistema penitenziario, oltre che fonte di ansia, è inadeguato e fallimentare. Tutte le esperienze penitenziarie che, nel rispetto della particolare problematicità, hanno cercato di tenere in debito conto i cardini della rieducazione hanno portato buoni frutti. Quando invece si è voluto solo guardare agli aspetti securitari, i risultati non sono stati altrettanto soddisfacenti. So bene che in talune persone detenute il riconoscimento della dignità è messo a dura prova. Ciò però non può significare che, come recita una certa vulgata, occorre chiuderli dentro e buttare la chiave. La forza di uno Stato si afferma nel far sì che "gli istituti penitenziari siano luoghi di rieducazione e di reinserimento sociale, e le condizioni di vita dei detenuti siano degne di persone umane"(papa Francesco, 4-01-2017). È vero tuttavia che le parole non bastano e la sicurezza ha un costo. Molto spesso, tuttavia, i soldi disponibili sono spesi in maniera incomprensibile. Due esempi per tutti. Il primo è senz’altro il braccialetto elettronico. Come ha fatto notare Maurizio Tortorella su Panorama del 21 dicembre 2016, si tratta del "monile più caro del globo" Perché "dal 2001 a oggi il braccialetto elettronico per i detenuti (che in realtà è una cavigliera) è costato almeno 173 milioni di euro". Nella fase sperimentale durata un decennio si sono impiegati solo quattordici apparecchi impiegati per una spesa di 110 milioni di euro, mentre dal 2011 in poi "con una spesa di cifra di 10-11 milioni di euro all’anno" ne sono stati usati altri 2 mila circa. Il secondo esempio riguarda i fondi disponibili nella Cassa delle Ammende. Al 31 dicembre 2015 ammontavano a 53.292.719,00 euro, al netto di una spesa nello stesso anno di euro 9.228.139,00. Grazie a una modifica legislativa (nel 2009) parecchi fondi sono stati dirottati dalla sperimentazioni di misure alternative alla pena agli interventi di manutenzione straordinaria degli istituti penitenziari. Su 128 progetti elencati sul sito del Ministero della giustizia, appena nove riguardano l’esecuzione penale esterna e delle sanzioni di comunità mentre il dettato della Legge 27 febbraio 2009 dispone che "la cassa delle ammende finanzia programmi di reinserimento in favore di detenuti ed internati, programmi di assistenza ai medesimi ed alle loro famiglie e progetti di edilizia penitenziaria finalizzati al miglioramento delle condizioni carcerarie". Questa la finalità chiara e semplice definita dalla norma anche se l’ultima aggiunta (edilizia penitenziaria) tende sovrastare le altre. Quello che dovrebbe radicalmente cambiare è la gestione. Un fondo così non può chiudere il proprio esercizio annuale con un attivo eccessivo (ripetiamo oltre 53 milioni di euro) sicuramente esuberante rispetto alle somme effettivamente impiegate per le finalità che la legge stabilisce. Si registra con soddisfazione l’accresciuto numero delle misure alternative, ma non c’è una vera analisi delle condizioni di vita sociale e umana che tutte queste persone in esecuzione di una pena e le loro famiglie vivono. In tal modo si corre seriamente il rischio della "radicalizzazione" criminale. Senza l’investimento in programmi di reinserimento non dovremmo meravigliarci se un giorno, spaventati da qualche grave fatto di cronaca, il legislatore scoprisse, paradossalmente, che le misure alternative sono da abolire o restringere severamente. Siamo in tempo di scarse risorse, ma quelle poche che abbiamo non possono essere tenute in cassa o essere utilizzate, forse impropriamente, per finalità che dovrebbero essere finanziate da altre fonti. Per questo motivo alla Cassa delle ammende occorre attingere per attività e progetti che preparino il reinserimento dei condannati detenuti ma anche per sostenere l’auspicato allargamento del ricorso alle misure alternative e di comunità. L’abbandono a se stessi e l’isolamento sociale sono il miglior terreno di coltura di radicalizzazione e reclutamento criminale. Lingua italiana, insegnarla in carcere vuol dire garantire il diritto di saper comunicare di Silvia Buffo fanpage.it, 17 gennaio 2017 Cosa vuol dire insegnare italiano in carcere? In primis garantire ai detenuti il diritto di potersi esprimere, restituire l’arma della comunicazione a chi ha bisogno di resistere. Ce lo racconta Marco Rovaris insegnante di lingua italiana al carcere di Bergamo. Insegnare lingua e letteratura italiana in carcere significa dare strumenti importanti ai detenuti, che hanno il bisogno fondamentale di comunicare e, soprattutto, di saper argomentare, saper difendere le proprie posizioni, poter coltivare obiettivi e mettere a fuoco le proprie mete. Apprendere l’italiano nel modo migliore possibile è indispensabile a tutti ma mille volte di più se sei un detenuto che sta scontando una pena o se devi difendere la tua innocenza. A raccontarci questo particolare universo dei detenuti, intenti a studiare la lingua italiana, è Marco Rovaris, dottore in Culture Moderne Comparate, che insegna Letteratura italiana e Storia nel carcere di Bergamo, all’interno di un corso ITC, e si occupa anche di cinema e documentari, fra questi si ricorda "Dante a mezzogiorno". L’intervista. La lingua è indispensabile a tutti ma in particolare a chi si trova in una condizione di svantaggio e la capacità di comprenderne le sfumature e di approcciarsi in modo adeguato a diverse persone e circostanze può fare la differenza. Credo che insegnare italiano in carcere sia una delle mie missioni proprio per queste ragioni. I miei studenti se ne rendono di quanto siano importanti i processi comunicativi, in particolare uno che si è diplomato lo scorso anno impazziva letteralmente per Pirandello e per i concetti di "ruolo" e "maschera", consapevole di come tutto può essere arbitrario e relativo a seconda del punto di vista; non a caso era uno degli studenti con più anni di carcere alle spalle ed era ben cosciente di quanto l’uso della lingua fosse necessario per chi si deve approcciare, con obiettivi chiari, ad un avvocato, appuntato, magistrato o ad educatrice, solo per fare alcuni esempi di figure con le quali è necessario discutere. Mi ha subito incuriosito molto la loro reazione all’uso delle parole: "Anche quando non ci sono prove immediate, non mi definiscono presunto innocente, anche se io mi dichiaro tale; bensì sta a me dimostrare che non sono colpevole, perché risulto poco credibile a priori". Non si può sottovalutare l’effetto psicologico che una certa terminologia ha su un soggetto, indipendentemente dalla effettività della colpa. Chi parte già costretto a rincorrere, deve avere gli strumenti per stare nel gioco della comunicazione, o ne viene schiacciato subito. Pensiamo a Manzoni, che dimostra come chi non è in grado di confrontarsi - cioè chi è ignorante, inteso in un’accezione tutt’altro che negativa - è destinato a soccombere nel momento in cui si muove tra le frange più complesse della società. Ed è quello che, sostanzialmente, sostiene anche Verga: meglio che i meno istruiti stiano tra loro e non si spingano oltre; credo sia per questo che Verga non piaccia quasi a nessuno in un contesto come il carcere, perché è un autore che suggerisce di rinunciare a un miglioramento della propria condizione. Lo stesso "burocratese" di cui parla Calvino è un problema che sussiste ancora oggi, forse addirittura peggiorato, e che mette in ginocchio tantissime persone che non sono in grado di interpretare documenti, avvisi, moniti, etc. E questo paralizza il sistema e spinge chi non ha gli strumenti a delegare, perdendo così la facoltà di essere padrone unico delle proprie decisioni. Quante volte mi sento dire, a proposito dell’ambito penale, "Ma che logica ha la giustizia italiana?", "I miei capi di accusa sono in contraddizione, non possono sommarsi!", e così via; non è mia facoltà né possibilità dare giudizi ed entrare nel merito, ma questa è la prova che i detenuti capaci vanno a sfogliare il Codice penale, studiano, si fanno delle idee e le mettono in circolo, dimostrando che la cultura non è erudizione, ma capacità di saper leggere le situazioni e interpretarle. Se dovessi spiegare ai tuoi studenti detenuti il prezioso valore della lingua con quale opera lo faresti? Ho cercato di illustrare l’efficacia di un’opera come il De vulgari eloquentia di Dante, che si rivolge ai piani alti, quindi usando il latino, per legittimare però il valore della lingua volgare e provare a innalzarla a strumento di comunicazione illustre: un’operazione raffinata e sottile, che solo un genio della lingua poteva concepire. La lingua scritta deve essere compresa e potenzialmente usata da tutti, ecco perché Galileo sceglie il volgare con Il Saggiatore, dove non conta tanto il contenuto, ma l’uso del ragionamento che lo scienziato mette in atto. Per fortuna un po’ di Illuminismo arriva a influenzare per un attimo anche l’Italia, perciò sto preparando una lezione su Dei delitti e delle pene di Beccaria e sulle implicazioni sulla società disciplinare, che sono certo che mi darà soddisfazioni. Io cerco sempre di far riflettere sul significato delle parole e, laddove mi è possibile, lavoro molto sul lessico e sulle sue sfumature; venendo da una formazione classica, insisto sull’etimologia per dimostrare che il gioco della lingua ha radici antiche e c’è sempre un motivo se si usa un vocabolo piuttosto che un altro. La difficoltà è saper scegliere la parola giusta nel momento giusto, ecco perché padroneggiare la lingua italiana può aprire qualsiasi porta nella comunicazione, assolutamente a tutti i livelli. Io stesso, conoscendo lo slang della strada, posso parlare a molti di loro e creare un’empatia che permette di superare le diffidenze e stabilire un rapporto più genuino e reale, che dà poi adito al campo libero per l’apprendimento e il confronto. La lingua trova la sua più alta espressione nel confronto, nel dibattito, nella dialettica ma anche nei diari e nelle lettere di chi vuole raccontarsi… Cosa avviene tra i banchi di un’aula in carcere? Il desiderio di dare opinioni e di intervenire è altissimo tra i detenuti e questo rende le mie lezioni vivissime e ricche di dibattito. Sono voci che vogliono essere ascoltate e la loro dedizione si manifesta in continue e spontanee produzioni scritte: saggi, racconti, poesie, lettere… Devo dire che sono molto affascinato da questa rinascita del modello epistolare che avviene in carcere, un po’ per condizione obbligata un po’ per voglia di raccontarsi; vedere persone che scrivono a penna su fogli strappati, in un’era digitale come la nostra, è un’esperienza che mi nobilita, soprattutto nel momento in cui mi viene chiesto, a volte timidamente, un giudizio. Mi sembra di rivedere me, bambino, portare alla maestra i miei primi tentativi di sceneggiature. Un mio studente che soffre di insonnia si sveglia alle 4 del mattino, poi si mette in bagno e inizia a scrivere a qualcuno che lo aspetta a casa: io leggo quasi tutto con piacere. Sono molto fortunato per questo scambio continuo e per me è un onore riscuotere tutta questa fiducia, perché non mi ritengo un intellettuale, ma un umanista: mi interessa il parere di ogni essere umano, soprattutto se escluso e rinchiuso. Pensi che i tuoi studenti vogliano coltivare anche da sé le proprie competenze nell’uso della lingua, una volta ricevuti giusti stimoli in classe? Conoscere i miei studenti e le loro inclinazioni mi consente di personalizzare il lavoro in classe - visto che io e loro preferiamo lavorare insieme e non attraverso il "compito a casa" - e di portare loro delle letture con le quali arricchirsi e passare il tempo. I detenuti sono lettori compulsivi, credo che leggano anche più di me, e assorbono in maniera impressionante i libri che a loro interessano davvero. La lettura inoltre li aiuta laddove abbiano difficoltà a livello di sintassi, punteggiatura, qualche aspetto di grammatica; leggendo si impara molto a costruire frasi di senso compiuto e a memorizzare sintagmi e locuzioni, di certo di più rispetto alla lezione frontale in classe. Infatti io lavoro in classe più sui contenuto e sul ragionamento, che sono gli aspetti più importanti per chi vive nel disagio; avendo a che fare anche con stranieri, non posso pormi come la maestra della scuola primaria che fa ripetere a memoria le regole: non potrei mai farlo e, insegnando nel triennio della secondaria di secondo grado, non ne ho nemmeno bisogno. Pensi si possa trovare incoraggiamento attraverso i classici della letteratura? Quali sono i modelli letterari più in voga fra i detenuti? L’aspetto della scrittura in carcere richiama necessariamente tanti casi di letterati italiani costretti nella stessa condizione nei momenti drammatici delle loro vite, da Campanella a Machiavelli, da Pellico a Bruno. Ognuno di questi ha prodotto durante la detenzione e alcuni di loro erano rinchiusi nello stesso posto contemporaneamente: incredibile quanto la Controriforma abbia influito su tutta la nostra cultura e abbia minato la libertà di espressione. Questo aspetto affascina e incoraggia molto gli studenti, che decisamente si immedesimano in queste figure e nella loro lotta continua per non essere messi a tacere, per la dignità con la quale hanno continuato a scrivere e a non abbassare la testa mai contro i poteri forti. Consolazione, ancorché magra, per chi è dentro nel 2017 e scrive e va a scuola per avere una chance in più di trovare serenità. Guide spirituali musulmane nelle carceri: un progetto bresciano sarà esportato in tutta Italia di Gaetano Costa Italia Oggi, 17 gennaio 2017 Per assistere nella preghiera i detenuti di fede musulmana ed evitare la radicalizzazione. Si può diventare jihadisti anche dietro le sbarre. Secondo l’Intelligence, le carceri vanno monitorate per evitare che i detenuti possano radicalizzarsi e avvicinarsi a cellule terroristiche. Nelle celle italiane, i prigionieri stranieri sotto sorveglianza sono 373. Le misure si sono intensificate dopo che l’attentatore di Berlino, Anis Amri, ha trascorso quattro anni nelle carceri della Sicilia prima di scomparire nel nulla e pianificare la strage ai mercatini di Natale. A Brescia, nelle case circondariali di Canton Mombello e Verziano, per supportare i detenuti stranieri nella preghiera è imminente l’ingresso di due guide spirituali. Non veri e propri imam, ma operatori religiosi di fede musulmana che verranno affiancati ai prigionieri per scongiurare il rischio di radicalizzazione. "Questo è un primo passo importante contro il rischio di radicalizzazione", ha spiegato Luisa Ravagnani, Garante per i diritti dei detenuti del Comune di Brescia che, insieme con l’Associazione carcere e territorio e al corso di criminologia penitenziaria tenuto dal professor Carlo Alberto Romano alla Statale di Brescia, sta lavorando a un progetto che risponda al pericolo di radicalizzazione con l’integrazione. Secondo il Corriere di Brescia, al momento non risulta che nella città lombarda siano detenuti stranieri per reati di terrorismo. Il monitoraggio, comunque, prosegue con la massima attenzione, insieme col progetto delle guide spirituali per cui vanno formalizzate le ultime pratiche burocratiche. "La presenza di persone qualificate che si occupino dell’assistenza religiosa dei detenuti musulmani rappresenta una garanzia importante affinché il recluso non abbracci tesi radicali e integraliste", ha proseguito Ravagnani. Il progetto, inoltre, prevede un lavoro a tappeto per conoscere che cosa percepiscano i detenuti musulmani del fenomeno e come si pongano davanti al rischio di radicalizzazione. A tal proposito, sono stati distribuiti alcuni questionari ai detenuti di Brescia per poi passare a Roma e al carcere di Rossano Calabro, in provincia di Cosenza, uno dei penitenziari italiani dove sono custoditi stranieri accusati di reati di terrorismo. "Ora abbiamo avuto le autorizzazioni per poter entrare nelle carceri del Veneto con la nostra ricerca, potendo ampliare ulteriormente la base sulla quale lavorare", ha aggiunto la dottoressa Ravagnani. Brescia, in questo caso, ha fatto scuola in Italia. I primi risultati dello studio hanno attestato che il 70% dei detenuti interpellati ritenga necessaria la presenza di una guida religiosa per evitare il rischio di radicalizzazione. "Sinora abbiamo incontrato situazioni di profonda disperazione in cui versano molti detenuti stranieri", ha aggiunto Ravagnani, "per i quali è anche difficile comprendere alcune dinamiche di cui possono diventare vittime". "Ecco perché la migliore arma contro la radicalizzazione è quella dell’integrazione e della rieducazione. L’Europa sta lavorando su questo fronte con buoni risultati. Noi prediligiamo ancora misure come l’espulsione, che potrebbe non rappresentare il modo migliore per eliminare il problema alla radice". Tra poco, le guide spirituali di fede islamica entreranno nelle carceri di Brescia per evitare che dietro le sbarre crescano potenziali jihadisti. Terrorismo, come cambia la strategia dei detenuti integralisti di Nadia Francalacci Panorama, 17 gennaio 2017 Sono 9 i soggetti tenuti sotto stretta osservazione. Ma stanno modificando il modo di comunicare con l’esterno. Saber Hmidi, il tunisino arrestato ieri mattina perché appartenente all’organizzazione terroristica Ansar al-Sharia, affiliata all’Isis, era solo uno dei dieci detenuti ad essere monitorati costantemente, ormai da diversi mesi, dagli uomini del Nic, Nucleo investigativo Centrale della Polizia Penitenziaria. Nelle carceri italiane, oltre ai 373 reclusi sotto osservazione per sospetta radicalizzazione e 39 terroristi, ve ne sono 9 considerati "estremamente pericolosi" per i loro contatti esterni ed interni alle carceri, la loro capacità di coinvolgere gli altri detenuti musulmani e la determinazione di andare a combattere. Tre sono di nazionalità tunisina, proprio come Saber Hmidi, due sono egiziani e gli altri del Marocco, Algeria, Somalia e persino un italiano. Il lavoro d’intelligence del Nic - Per individuare questi soggetti, gli agenti del Nic, hanno effettuato silenziosamente per moltissimi mesi un lavoro certosino monitorando ogni singola parola, atteggiamento ma anche conversazioni telefoniche o epistolari, versamenti di denaro effettuati a loro favore da soggetti esterni al carcere, pacchi recapitati e ovviamente visite. Un lavoro che è diventato ancora più complesso negli ultimi mesi, dopo l’attentato di Nizza. A rendere più difficoltosa l’acquisizione di informazioni all’interno alle celle e tra i detenuti, sarebbero state alcune dichiarazioni dei politici sul monitoraggio dei detenuti all’interno degli istituti di pena. Sarebbe stato proprio uno dei detenuti a dare questa spiegazione al cambiamento improvviso di abitudini così come della scomparsa di scritte, immagini e frasi tra i soggetti musulmani più religiosi e praticanti dalle celle delle carceri italiane. I terroristi in carcere hanno cambiato abitudini - Quasi beffandosi della nostra intelligence, il detenuto, spiegò che dopo le dichiarazioni dei politici, i reclusi di fede musulmana per paura di essere assimilati ai terroristi hanno smesso di professare il loro culto. Coloro che hanno tendenze e simpatie integraliste hanno smesso di palesare tali atteggiamenti agendo nell’ombra e facendo sparire immagini, fotografie e scritte compromettenti. Non solo. Adesso, ancor di più, stanno attenti sia alla corrispondenza epistolare che telefonica e fanno a meno di simboli che possono ricondurli alla sub cultura integralista come abiti tradizionali, barba, atteggiamenti ed azioni. Ancor più inquietanti sono le parole che questo detenuto che avrebbe detto: "Per farsi belli i politici italiani hanno dato una grossa mano ai terroristi che adesso conoscono le loro armi". Nuove tecniche investigative, nuovi monitoraggi - Sicuramente il cambiamento operato dagli integralisti in carcere cercando di dissimulare la loro fede e soprattutto la loro tendenza all’integralismo, ha reso difficoltoso il lavoro degli agenti del Nucleo investigativo Centrale della polizia penitenziaria che proprio per questo motivo ha già affinato nuove tecniche investigative. Dopo l’attentato di Nizza avvenuto il 14 luglio 2016, infatti, si è assistito ad una graduale e lenta diminuzione delle presenze all’interno delle stanze delle carceri adibite a moschee. Addirittura nel mese di agosto, la preghiera del venerdì, all’interno delle carceri è andata spesso deserta. L’operazione di ieri, è la dimostrazione di quanto sia delicato e fondamentale il lavoro svolto dagli agenti della polizia penitenziaria all’interno delle strutture carcerarie. Quegli italiani sedotti dagli imam. Così in cella cresce l’odio islamico di Gian Micalessin Il Giornale, 17 gennaio 2017 Rapporto dell’intelligence sulla radicalizzazione in carcere. Tra i nuovi musulmani anche un condannato per mafia. Per ora sono solo 13, ma sono il sintomo di una tendenza capace di amplificarsi e moltiplicarsi. Non a caso i tredici casi di detenuti italiani, tra cui una donna, convertiti all’Islam durante la reclusioni nelle patrie galere sono evidenziati in un elenco segretato allegato all’"Analisi di contesto e scenario 2016", il documento del Dipartimento amministrazione penitenziaria dedicato al fenomeno della radicalizzazione nelle carceri. Quell’elenco spiega come la rete della predicazione clandestina gestita dai 148 detenuti stranieri che si auto-attribuiscono il ruolo di "imam" nelle carceri italiane non attragga più solo detenuti di origine musulmana, ma faccia proseliti anche tra i delinquenti comuni italiani. Un fenomeno già evidente in quelle prigioni europee dove da anni si assiste - come nota l’analisi del Dap - "a un aumento delle conversioni di individui fragili, che cercano nell’islam una tregua da un passato inquieto". Il caso italiano più inquietante è quello di R.T. un detenuto originario della provincia di Brindisi condannato a oltre trenta anni di detenzione "per i reati di associazione a delinquere di stampo mafioso, rapina furto e altro". Indicato come un affiliato alla cosiddetta "cosca dei mesagnesi", R.T. è, fino al processo svoltosi nel 2011, il capo carismatico di una banda di criminali pugliesi affiliati alla Sacra Corona Unita, ma "ispirati", per loro ammissione, dalle gesta del boss corleonese Totò Riina. L’ex capo dei "mesagnesi" inizia il suo processo di avvicinamento all’islam durante la detenzione nel carcere di Trapani e abbraccia definitivamente la fede musulmana dopo il trasferimento all’Istituto di San Gimignano. "È stato assegnato spiegano le note sui convertiti - nella camera detentiva assieme al detenuto Zarnoune Hicham di nazionalità marocchina e di fede musulmana successivamente trasferito a seguito di provvedimento di declassificazione. Durante un’udienza con il personale di polizia penitenziaria riferiva che già nell’istituto di Trapani aveva iniziato una graduale conversione all’Islam che poi si sarebbe concretizzata nell’attuale istituto anche aiutato dal fatto di occupare con un detenuto musulmano la medesima camera detentiva". Ma quel che più sorprende gli operatori carcerari è il mutamento di carattere del detenuto. Descritto durante le cronache del processo come un personaggio spavaldo e tracotante, pronto ad accogliere con una risata sprezzante la condanna a oltre trent’anni di galera, il capocosca "mesagnese" sembra ora un’altra persona. "Dall’osservazione attuata del detenuto si evince che lo stesso mantenga un processo corretto, dignitoso e riservato. Si evince altresì che lo stesso sia molto perseverante e preciso nella pratica religiosa in quanto si reca sempre per primo nella sala preghiera e spesso si intrattiene per molto tempo con il conduttore della preghiera dal quale si fa spiegare alcuni passi del Corano". Quei mutamenti caratteriali vengono evidenziati non a caso. Tra gli indicatori di un progressivo e avanzato processo di radicalizzazione vi è, nei casi più estremi, la tendenza ad assumere atteggiamenti riservati e apparentemente distaccati. Questo elemento inquieta, evidentemente, i suoi angeli custodi consapevoli di come dietro lo zelo di R.T. si nasconda il tentativo di spingere alla conversione anche il figlio minorenne. "Inoltre si fa presente - riporta l’allegato - che il T. abbia cercato di convincere il proprio figlio di 12 anni a praticare la religione islamica tenendo all’oscuro la madre, In particolare gli avrebbe riferito le seguenti frasi da quando mi sono convertito all’Islam sto meglio perché l’Islam non è quello che si vede in tv. E ancora una scritta in arabo con la relativa traduzione Dio è grande Dio è la luce spero che quando ti sentirò tu mi risponderai allo stesso modo. Chiaro segno di una volontà di conversione anche da parte del figlio". Buone leggi contro l’odio online di Andrea Orlando (ministro della Giustizia) Il Foglio, 17 gennaio 2017 Le società web non sono meri vettori di contenuti, ma lo stato non è un censore. Ci scrive il ministro della Giustizia. Alcuni spunti di una conversazione tra me e il direttore Claudio Cerasa hanno riacceso un dibattito molto ampio, e a mio avviso utile e interessante, sui problemi connessi allo sviluppo dell’uso dei social media. Il primo a intervenire con una lettera molto ficcante è stato il sottosegretario Antonello Giacomelli. Ammetto di non avere le stesse conoscenze degli "over the top", di Cupertino, e in generale della rete, del sottosegretario Giacomelli. Non credo però che lo scarto, almeno quello apparente, tra i nostri approcci dipenda da questo. Giacomelli si è occupato di rete in generale, delle sue indubbie potenzialità, del valore economico che ha progressivamente assunto. Io, così come gli altri ministri della Giustizia Ue, mi sono imbattuto nel tema affrontando le questioni del terrorismo jihadista e della propaganda d’odio. In questi anni, infatti, si è evidenziato come la rete sia uno dei veicoli principali della propaganda d’odio, vero e proprio innesco dei processi di radicalizzazione violenta e insieme uno degli strumenti principali d’incitamento terroristico. Il problema è che le leggi, tutte, sono di difficile applicazione in un contesto come quello dei social network e della rete. È difficile per le autorità competenti intervenire. Per il numero dei contenuti, per l’incertezza delle competenze, per l’indeterminatezza degli autori e infine per la velocità con la quale si diffondono a livello virale e permangono sul web. Gli strumenti della giurisdizione da soli non riescono a far fronte all’insieme degli illeciti che si realizzano sulla rete. È per questa ragione che si è chiesto la collaborazione delle piattaforme. È lo stesso tipo di collaborazione che la legge chiede, nel mondo reale, ai gestori dei servizi di rilevanza pubblica, cioè di cooperare con la giustizia allo scopo di prevenire e contrastare i fenomeni illeciti. Su pressione di Italia e Germania, la Commissione europea ha costruito una prima cornice continentale di cooperazione con le principali società di servizi informatici (Facebook, Twitter, Youtube e Microsoft). A Maggio del 2016 è stato varato un codice di condotta con un elenco di impegni per combattere la diffusione dell’illecito incitamento all’odio online. Con la firma del codice di condotta, le aziende informatiche si sono impegnate a perseguire l’obiettivo di contrastare qualsiasi illecito incitamento all’odio online, attraverso l’elaborazione di procedure volte a esaminare entro le 24 ore i contenuti d’odio segnalati e a rafforzare il rapporto con la società civile, al fine di sviluppare adeguate contro-narrazioni. Per assicurare una efficace misurazione dei progressi, il 5 ottobre 2016 il sottogruppo della Commissione sulla lotta all’illecito incitamento all’odio online ha stabilito una metodologia comune per la valutazione delle reazioni delle società informatiche, a seguito della notifica dell’illecito incitamento all’odio. Per 6 settimane 12 organizzazioni con base in 9 diversi stati membri (Italia, Austria, Belgio, Danimarca, Francia, Germania, Paesi Bassi, Spagna e Regno Unito) hanno applicato questa metodologia. Le organizzazioni hanno notificato il presunto illecito incitamento all’odio online (così come definito nei codici penali nazionali di recepimento della Decisione Quadro) alle società di servizi IT e hanno utilizzato un template convenuto di comune accordo, al fine di registrare i tassi e i tempi delle rimozioni come risposta alle notifiche. I risultati indicano che su 600 segnalazioni il 28 per cento portano a una rimozione dei contenuti. Solo il 40 per cento di tutte le risposte sono state ricevute entro le previste 24 ore, arco temporale entro il quale le segnalazioni andrebbero riviste. Inoltre, i primi mesi di applicazione hanno mostrato una controversia su cosa si debba intendere per hate speech al fine della rimozione da internet. L’industria di settore mantiene un atteggiamento più restrittivo rispetto alle ong. L’esercizio di monitoraggio è un processo continuo. Tali dati iniziali costituiscono un punto di riferimento e una prima indicazione preziosa della situazione corrente. Un secondo ciclo di monitoraggio verrà svolto durante il 2017 per osservare le tendenze. Questa esperienza denuncia una tensione costante tra esigenza di intervenire a tutela dei soggetti vittime di hate speech e la tutela dell’autonomia (ma anche dei profitti) delle piattaforme. Ed è tenendo conto di questa tensione che esiste tra due istanze, entrambe reali e meritevoli di tutela, che credo ci si debba muovere. In questo senso ho parlato di responsabilizzazione delle piattaforme, che non possono considerarsi soltanto dei meri vettori dei contenuti. In questo senso dico che si può e si deve chiedere loro di più. E lo si può fare non sulla base di una generica delega, ma come sino a qui è stato fatto, utilizzando e armonizzando i criteri che i paesi dell’Unione si sono dati per il contrasto a questo fenomeno. Le stesse piattaforme si stanno ponendo il problema, sicuramente per ragioni etiche, ma anche perché, credo, avvertono il rischio che vi siano luoghi della rete progressivamente "impraticabili" per fasce crescenti di utenti. All’esigenza, da me segnalata, di responsabilizzare di più le piattaforme è stata formulata l’obiezione che delegare questa attività di controllo assegni una funzione di censura impropria e non fondata su criteri oggettivi. È vero esattamente il contrario. Senza un patto tra stati e piattaforme saranno queste, come in parte si sta già avverando, a decidere cosa è e cosa non è corretto pubblicare. La censura si svilupperà per esigenze commerciali se la democrazia, se le democrazie non sapranno far vivere le loro regole anche nella rete. Non soltanto non vedo nella California tecnologica e liberale "il male assoluto", come pure qualcuno ha voluto addebitarmi, ma segnalo che la riflessione su come contenere un uso violento dei social nasce proprio da là. Nessuno rimpiange le vecchie gerarchie che la rete ha dissolto. E in ogni caso siamo tutti consapevoli che non torneranno. Non mi rassegno però all’idea che le nuove si debbano basare sull’odio e la manipolazione, esattamente come molte di quelle al tramonto, ma con l’accentuazione dovuta all’immediatezza. Sono poi convinto che la Brexit, la sconfitta della Clinton e del Sì al referendum abbiano radici ben più profonde di quelle che si cercano nella rete. Si trovano nella politica e nella società. Non per questo ritengo che giovi alla rete stessa consentire a chi vuole utilizzarla contro la nostra sicurezza e la nostra convivenza civile, di farlo. L’insidia che il rapporto tra società della rete e stati, reso necessario da esigenze di sicurezza e di tutela della persona, possa tralignare verso forme di restrizione delle libertà, esiste. Come esiste ogni qualvolta un potere pubblico interviene per tali finalità. Tuttavia non vedo questo rischio se il processo avviato sarà pubblico, trasparente e costantemente sottoposto al controllo delle opinioni pubbliche e della società civile. Non a caso, la Commissione ha voluto rendere quest’ultima protagonista del monitoraggio. La questione si è posta in modo drammatico con il terrorismo, ma si pone anche in termini più generali. La rete è una, istantanea, globale. Gli ordinamenti restano divisi e lenti, rinchiusi nei vecchi confini. E questo può far diventare la rete un luogo dove le regole di tutela della persona, che valgono nel mondo reale, restano sospese. Le conseguenze sono gravi. Soprattutto per coloro i quali non possono difendersi da soli, quelli che vengono ogni giorno discriminati nel mondo reale e che, in assenza della cogenza della legge, rischiano di esserlo doppiamente in quello virtuale. La censura, siamo d’accordo, non è la via. Ma neppure la rassegnazione. È necessario porsi il tema se tra luddismo e ingenua (a talora colpevole) ammirazione a ogni cambiamento globale non ci sia lo spazio per recuperare una visione critica del mondo, la capacità di leggere le opportunità e insieme i limiti che ogni innovazione comporta. Diversamente il rischio è quello di una crescente subalternità all’esistente. Un elemento che forse, questo sì, può essere una chiave di lettura per interpretare gli esiti delle consultazioni elettorali e referendarie richiamate. Quasi due secoli fa ci hanno messo in guardia rispetto al fatto che "non tutto ciò che è reale, è razionale". Il rischio è, infatti, quello di non essere compresi da coloro i quali subiscono l’irrazionalità di questo reale. Parlo distintamente di fake news e post verità, perché indubbiamente, rispetto al tema dei messaggi contenenti propaganda d’odio, risulta un terreno ancora più sdrucciolevole. Ma parto da un punto di contatto tra i due fenomeni. Ci sono notizie che formano il substrato per la propaganda d’odio. Leggende nere costruite su falsi che mirano a screditare minoranze religiose, etniche, culturali o orientamenti sessuali. Questa dinamica (di cui mi interessa affrontare questo specifico aspetto) non si contrasta con verità di stato, che rischiano di essere rimedi peggiori del male. La via, a mio avviso, è quella della costruzione degli anticorpi necessari a reagire sulla rete. È vero che il problema è sempre esistito, ancor prima dei "Protocolli dei savi di Sion". È altresì vero, però, che la rete produce effetti immediati nell’opinione pubblica e determina una asimmetria tra chi diffonde le notizie e chi ne è vittima, perché si moltiplica all’ennesima potenza la regola secondo la quale è assai più letta una notizia falsa (e talvolta è esattamente questa la ragione per cui la si scrive) che la sua smentita. Gli anticorpi a cui mi riferisco sono la capacità di reazione sulla rete dei soggetti più frequentemente colpiti da questo tipo di notizie. Con l’Unar (Ufficio nazionale anti discriminazioni razziali) stiamo cercando di percorrere questa strada: stimolare la nascita di soggetti non pubblici che siano in grado di monitorare e smentire quando necessario le notizie false, funzionali alla propaganda d’odio. Le associazioni coinvolte hanno aderito positivamente alla nostra sollecitazione, che può essere soltanto tale. Qualunque soggetto governativo dovesse cimentarsi direttamente in questo campo non potrebbe che suscitare sospetti e illazioni e determinare il rischio effetti distorti e censori. Il compito dello stato dunque non può che consistere, a mio avviso, nel supporto ai soggetti colpiti dalle notizie false o distorte. Se la rete è ormai uno dei luoghi principali del conflitto e della dialettica democratica la risposta più efficace, autorevole e tempestiva non può essere quella della criminalizzazione. Il compito degli stati, nel confronto con i soggetti che agiscono nella rete, è quello di dare confini certi a questo campo di gioco e al contempo aiutare i soggetti più deboli a reagire e a difendersi, utilizzando la potenza stessa del web. Per aiutare i cittadini a discernere, la cosa migliore che possiamo fare è consentire che la lotta che si svolge nel web, spesso tra vero e falsa, sia giocata ad armi pari. Mafia e corruzione. Appello alle Camere: salviamo le leggi per la lotta contro i clan di Antonio Maria Mira Avvenire, 17 gennaio 2017 Approvare rapidamente le leggi per rafforzare la lotta alle mafie. Alcune approvate da un ramo del Parlamento ma ferme da mesi nell’altro. È quanto chiede un appello al Governo e alle Camere, firmato da Libera, Avviso Pubblico, Legambiente e Cgil, Cisl e Ibi. "Un modo concreto - scrivono associazioni e sindacati - per rafforzare prevenzione e contrasto alle mafie e alla corruzione nonché per accrescere la credibilità delle istituzioni verso i cittadini". Si tratta delle misure riguardanti gli amministratori locali minacciati e intimiditi, il riconoscimento ufficiale del 21 marzo come Giornata nazionale della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie, le modifiche alla normativa in materia di beni e aziende confiscate alle cosche, la riforma della prescrizione dei processi, le misure di contrasto delle mafie nel settore dell’azzardo legale e illegale, il provvedimento a favore dei testimoni di giustizia. Iniziative legislative, alcune delle quale sostenute da un’ampia maggioranza trasversale, frutto del lavoro della commissione Antimafia, già approvate da mesi o dalla Camera e dal Senato. Ma ora, si legge ancora nell’appello, "con la possibile fine anticipata della legislatura, vi è il rischio concreto che tutto questo importante lavoro possa essere disperso, mentre assistiamo ad un’aumentata e pericolosa pervasività e presenza dei mafiosi e dei corrotti nella vita politica e economica del Paese, con danni ingenti per la democrazia e lo sviluppo dell’Italia". "Quello che lanciamo al Parlamento e al Governo - spiega il presidente di Avviso Pubblico, Roberto Montà - è un appello alla responsabilità della politica. Non possiamo permettere che il tanto importante e qualificato lavoro finisca nel nulla. Ne va della credibilità delle istituzioni e del nostro Paese". "Chiediamo, a nome di tante associazioni e realtà sociali presenti nel nostro Paese, alla politica di fare la propria parte - sottolinea il presidente di Libera, don Luigi Ciotti. Le leggi che aspettano di essere approvate in via definitiva rappresentano riforme irrinunciabili per dare più forza alla lotta contro le mafie, la corruzione e ogni forma di illegalità e di negazione dei diritti e della dignità delle persone". Proprio per questo, dicono sulla stessa linea il segretario generale della Cgil, Susanna Camusso e il segretario confederale, Giuseppe Massafra, "è inaccettabile un iter così lungo per leggi che intervengono su ferite così profonde e su nodi determinanti per il presente e il futuro del Paese, anche sotto il profilo economico". Questa, afferma il segretario generale della Cisl, Annamaria Furlan "è una battaglia che sta nel Dna del sindacato perché non ci può essere sviluppo economico nel nostro Paese sen -za sicurezza nei territori e legalità nella vita pubblica". La "rapida approvazione" di queste norma, ricorda il segretario generale della Uil, Carmelo Barbagallo, "sarebbe il modo giusto per onorare la memoria delle vittime innocenti delle mafie. Un impegno collettivo delle Istituzioni e della società civile in vista anche della giornata del 21 marzo dedicata proprio al ricordo di quelle vittime". Anche perché, sottolinea la presidente di Legambiente, Rossella Muroni, "solo con leggi più adeguate e pertinenti lo Stato può dimostrare la sua presenza e garantire il suo appoggio alle comunità, agli amministratori e ai cittadini onesti, minacciati e vessati dalla criminalità organizzata". In carcere da innocente, crea una fondazione per le vittime degli errori giudiziari di Franca Selvatici La Repubblica, 17 gennaio 2017 Giuseppe Gulotta fu condannato per l’omicidio di due carabinieri. Dopo 40 anni ha ricevuto i 6,5 milioni di indennizzo dallo Stato. È arrivato finalmente l’indennizzo dello Stato per Giuseppe Gulotta e per la sua vita devastata da un tragico errore giudiziario. In tutto 6 milioni e mezzo di euro, che dopo anni di carcere, di disperazione e di difficoltà economiche permetteranno all’ex ergastolano, accusato ingiustamente dell’atroce esecuzione di due giovani carabinieri, Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta, trucidati il 26 gennaio 1976 nella piccola caserma di Alcamo Marina, di assicurare un po’ di agiatezza alla moglie Michela e ai figli e di aiutare chi, come lui, è finito in carcere innocente. Giuseppe, che vive da molti anni in Toscana, a Certaldo, ha inoltre deciso che parte del denaro andrà a sostenere il parroco che tanto ha aiutato lui e la sua famiglia e si è permesso qualche segno tangibile di riscatto dalla profonda sofferenza che ha segnato la sua vita: una vacanza sulla neve, l’acquisto di una Porsche Cayenne. L’ha comprata a rate perché non se la sentiva di versare tutti insieme 75mila euro e poi si è anche fatto venire dei dubbi. "Ho sbagliato a comprarla?", ha chiesto all’avvocato Pardo Cellini. "Ma no, devi pensare un po’ a te stesso", lo ha incoraggiato il legale. Gulotta però "è un uomo orientato all’impegno sociale", spiega l’avvocato: "Lo sente profondamente e vuole aiutare chi come lui subisce una condanna ingiusta. La prossima settimana sarà costituita la Fondazione che prenderà il suo nome. Giuseppe non ha ancora deciso quanto denaro devolvere ma ha ben chiaro che sarà una sorta di gratuito patrocinio privato per chi è stato oggetto di errori giudiziari ed è in carcere innocente. Sarà tutto chiaro e trasparente e noi speriamo che anche altri avvocati aderiscano al progetto. La nostra parola d’ordine è: condivisione". Intanto la storia di Giuseppe è stata raccontata in due servizi televisivi: "Cacciatori", andato in onda il 3 gennaio sul canale Nove, e "Sono innocente" su Rai Tre, trasmesso il 14 gennaio. Giuseppe Gulotta, nato il 7 agosto 1957, aveva poco più di 18 anni quando finì nel "tritacarne di Stato". Chiamato in causa con altri da un giovane che, dopo essere stato trovato in possesso di armi, fu torturato, costretto a ingoiare acqua, sale e olio di ricino e a subire scosse elettriche ai testicoli, anche lui fu incatenato, circondato da "un branco di lupi", picchiato, insultato, umiliato e torturato, finché - come ha raccontato nel libro Alkamar scritto con Nicola Biondo e pubblicato da Chiarelette - "sporco di sangue, lacrime, bava e pipì" - non ha firmato una confessione che, seppure ritrattata il giorno successivo, gli ha distrutto la vita. Il 13 febbraio 1976 fu arrestato e dopo ben nove processi il 19 settembre 1990 fu condannato definitivamente all’ergastolo. Scarcerato nel 1978 per decorrenza dei termini della custodia cautelare, era stato allontanato dalla Sicilia. I genitori lo mandarono in Toscana, a Certaldo, e qui - fra un processo e l’altro - Giuseppe ha conosciuto Michela, sua moglie, che gli ha dato la forza di resistere nei 15 anni trascorsi in carcere. Nel 2005 ha ottenuto la semilibertà. Sarebbe comunque rimasto un "mostro" assassino se nel 2007 un ex carabiniere non avesse deciso di raccontare le torture a cui aveva assistito. Da allora Giuseppe - assistito dagli avvocati Baldassarre Lauria e Pardo Cellini - ha intrapreso l’impervio percorso della revisione del processo. Il 13 febbraio 2016 - esattamente 40 anni dopo il suo arresto - è stato riconosciuto innocente e assolto con formula piena dalla corte di appello di Reggio Calabria. Quattro anni più tardi, il 12 aprile 2016, dopo altre estenuanti battaglie gli è stato definitivamente riconosciuto l’indennizzo di 6 milioni e mezzo a titolo di riparazione dell’errore giudiziario. Anche gli altri tre giovani condannati come lui sono usciti assolti dal processo di revisione, incluso Giovanni Mandalà, morto in carcere disperato nel 1998. Per i suoi familiari lo Stato si appresta a versare un indennizzo record, il più alto mai riconosciuto in Italia: 6 milioni e 600 mila euro. Storia kafkiana di un condannato che non è stato mai imputato di Paolo Delgado Il Dubbio, 17 gennaio 2017 Franco La Maestra è un ex brigatista che avendo rifiutato sia il pentimento che la dissociazione, ha scontato per intero la sua condanna. Una volta libero diventa socio della Cooperativa 29 giugno fondata da Salvatore Buzzi. La Maestra non è uno dei capi della cooperativa: fa l’operaio addetto al recupero rifiuti. Ma il giorno in cui Buzzi finisce in manette, 2 dicembre 2014, La Maestra è nella sede della cooperativa e sulla porta incrocia Buzzi. Il presidente della cooperativa gli rivolge qualche parola che poi, debitamente intercettata, assume una valenza poco proporzionata. Da quel momento, almeno secondo l’Ufficio Misure di Prevenzione del Tribunale, La Maestra diventa il braccio destro di Buzzi. L’uomo non verrà mai inquisito né indagato, eppure il Tribunale dispone la sua sospensione dal servizio "per motivi di ordine pubblico". Per valutare l’inchiesta che ha fatto tremare Roma sin dalle fondamenta bisognerà aspettare la sentenza di primo grado e forse non basterà neppure quella. Ma che la corte d’assise accetti o meno l’azzardato impianto accusatorio del processo Mafia Capitale, quello che ha trasformato in storia di criminalità organizzata quella che all’apparenza sembrerebbe una vicenda di "normale" corruzione, non sarà indifferente, anche se solo dopo il terzo grado di giudizio si potrà definitivamente avvalorare quell’impianto che in quel caso finirebbe senza dubbio per fare scuola. Però non c’è bisogno di aspettare la sentenza per rendersi conto che quel capo d’imputazione incandescente ha prodotto alcuni esiti nefasti, dei quali bisognerebbe tenere conto, per evitarli in circostanze simili, indipendentemente dal fatto che la corte accetti o meno l’impostazione della procura di Roma. Un caso esemplare è quello di Franco La Maestra, ex brigatista rosso che avendo rifiutato sia il pentimento che la dissociazione, ha scontato per intero e sino all’ultimo giorno la sua condanna a 14 anni e mezzo di carcere. Una volta libero, la maestra diventa socio della cooperativa 29 giugno fondata da Salvatore Buzzi, il perno stesso dell’inchiesta Mafia Capitale. La Maestra non è uno dei capi della cooperativa. Fa l’operaio addetto al recupero rifiuti. In un’intercettazione si sentono lui e un compagno di lavoro lamentarsi senza mezzi termini perché "ci trattano come bestie da soma". Il giorno in cui Buzzi finisce in manette, 2 dicembre 2014, La Maestra è nella sede della cooperativa per una vertenza sindacale di quelle dure, con tanto di scioperi, e sulla porta incrocia Buzzi in manette. Il presidente della cooperativa gli rivolge qualche parola che poi, debitamente intercettata, assume una valenza poco proporzionata. Buzzi invita a "non litigare" e ordina di tenere lontano Giovanni Campennì, indicato dagli inquirenti come uomo della ‘ndrangheta e elemento di raccordo tra il clan Mancuso e la super cooperativa di Buzzi: "Non lo voglio tra i piedi". Buzzi aggiunge alla raccomandazione di non litigare una frase, "Adesso il capo sei tu", che secondo l’Ufficio Misure di Prevenzione del Tribunale di Roma sarebbe rivolta proprio a La Maestra e che secondo quest’ultimo era invece indirizzata al gestore del servizio. Essendo poco credibile il salto repentino da operaio semplice addetto alla raccolta differenziata dei rifiuti a "capo" è probabile che La Maestra dica la verità. Anche perché, capo o non capo, è un fatto che Franco La Maestra non solo non verrà mai inquisito per i fatti di Mafia Capitale ma neppure indagato. Ciò nonostante quasi un anno più tardi, il 30 ottobre 2015, la sezione Misure di Prevenzione dispone la sua sospensione dal servizio e dalla retribuzione "per motivi di ordine pubblico", che diventa operativa il giorno seguente. Da questo momento si configura una di quelle situazioni proverbialmente definite "kafkiane". La Maestra, pur non essendo oggetto di alcun provvedimento penale, è indicato come persona che mantiene "rapporti con la ‘ndrangheta" e svolge un "ruolo di primo piano nella gestione criminale della cooperativa". Dovrebbe difendersi, ma non essendo né inquisito né indagato mica è facile. Non può accedere al fascicolo, non può spiegare e chiarire durante un interrogatorio, non sa a chi rivolgersi. In compenso è privo di stipendio, non gode di alcun ammortizzatore sociale e a rigore non è neppure un disoccupato, essendo stato solo "sospeso" e non licenziato. Potrebbe licenziarsi da solo, ma sospetta che con sulle spalle una sospensione spiegata con quelle motivazioni trovare un nuovo lavoro non gli sarebbe facile. Quindi prova a impugnare la sospensione. Solo che in questi casi a decidere sull’impugnazione è il presidente della stessa sezione Misure di Prevenzione che ha disposto l’ordinanza, e ci mancherebbe solo che non si desse ragione da solo. Quindi respinge, è la motivazione rende ancora più surreale il quadro: "Si deve rilevare che i provvedimenti del giudice delegato in un procedimento di prevenzione sono provvedimenti sostanzialmente amministrativi / autorizzativi / dispositivi emessi per la gestione dei beni sequestrati nell’ambito del procedimento di prevenzione e non rientrano tra i provvedimenti di prevenzione espressamente previsti dal Dlvo 159/2011. Si tratta, dunque, di atti liberi, che non sono e non possono essere inquadrati in ipotesi tipizzate come misure di prevenzione". In questo modo, per il soggetto in questione, il non essere indagato diventa per magia giuridica un punto di massima debolezza invece che un sostegno. Non essendo indagato e non essendo quindi sottoposto ai "provvedimenti di prevenzione espressamente previsti" non può fare altro che sperare in qualche miracolo, nel frattempo cercando di cavarsela senza reddito di sorta Detenuto non verrà consegnato alla Romania "non garantisce lo spazio vitale in cella" di Valentina Stella Il Dubbio, 17 gennaio 2017 La Cassazione ha accolto il ricorso dei difensori del cittadino rumeno, domiciliato nel bresciano. Il ministro della Giustizia di Bucarest ha ammesso di aver mentito alla Corte europea dei diritti umani sui provvedimenti presi per migliorare la situazione carceraria. Non verrà consegnato alla Romania il cittadino rumeno, attualmente domiciliato nel bresciano, ma condannato nel suo paese d’origine per una serie di reati che vanno dal bracconaggio al contrabbando fino al concorso in rapina, commessi nel 2011 proprio nella regione dei Carpazi. Lo ha deciso pochi giorni fa la Corte d’appello di Brescia in quanto lo Stato richiedente non garantisce nelle celle lo spazio minimo vitale per un detenuto, ovvero i tre metri quadrati calpestabili. La vicenda ha inizio lo scorso marzo quando il quarantenne rumeno era finito nel carcere di Canton Mombello in esecuzione di un mandato di arresto europeo. La Corte d’appello ne aveva disposto la consegna alla Romania. Ma nel mese di luglio la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso degli avvocati dell’uomo, Alessandro Bertoli e Mauro Bresciani, che hanno evidenziato ai Supremi giudici la mancata richiesta alle autorità da parte della Corte di appello di Brescia delle garanzie sul trattamento penitenziario a cui sarebbe stato sottoposto il detenuto. "Abbiamo dimostrato - spiegano a Il Dubbio i due legali - che la Romania ha un ordinamento penitenziario afflitto da particolari condizioni carcerarie che avrebbero comportato un concreto rischio di condizioni inumani e degradanti per il nostro assistito, alla luce dei criteri fissati dalla Corte di giustizia Ue il 5 aprile 2016". Dopo l’annullamento della sentenza, con rinvio a un’altra sezione, la Corte d’appello si è attivata, attraverso il ministero della Giustizia, per ottenere le dovute garanzie. La Romania ha fatto sapere che il detenuto avrebbe usufruito di uno spazio minimo individuale di tre metri quadrati in caso di esecuzione della pena in "regime chiuso" e di due metri quadrati in caso di "regime semiaperto o aperto". Per la seconda sezione della Corte d’Appello di Brescia la risposta rumena non garantisce lo "spazio individuale intramurario conforme agli standard euro-rumene pei" che "va individuato in tre metri quadrati calpestabili" perché, essendo il letto normalmente pari a circa 1,5 metri quadrati, al detenuto resterebbero "in caso di regime chiuso non più di 1,5 metri quadrati e in caso di regime semiaperto o aperto non più di 0,5 metri quadrati sempre calpestabili" in "aperta violazione" rispetto a quanto stabilito dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Gli avvocati si dicono molti soddisfatti di questa decisione "anche perché è forse la prima pronuncia nella quale si dà conto della insufficienza delle garanzie proposte dal Paese richiedente. Tali richieste non partono in maniera automatica ma è onere della difesa proporle. Adesso il nostro cliente è tornato in libertà, mentre la Romania, in tempi ragionevoli, può fornire le assicurazioni dovute che, qualora accolte, potrebbero aprire alla possibilità della sua consegna alle autorità rumene". È singolare che l’Italia chieda garanzie alla Romania, quando proprio il nostro Paese è spesso condannato dall’Europa per le condizioni carcerarie. "L’Italia è stata più volte condannata spiegano Alessandro Bertoli e Mauro Bresciani - a partire dalla famosa sentenza Torreggiani, ma il nostro Paese almeno per un certo periodo, e forse adesso si sta ripresentando il problema, ha fatto in modo di spostare i detenuti, aprire le celle, trovare cioè un sistema per cui non vi fosse più il sovraffollamento. Viceversa la Romania non solo non ha fatto nulla ma noi abbiamo anche dimostrato nell’ambito di questo processo che il ministro della Giustizia rumeno aveva mentito alla Cedu sui provvedimenti presi per migliorare la situazione carceraria". Una circostanza che i due legali spiegano: "Nel corso della seduta del Consiliul Superiur al Magistraturii lo scorso 6 ottobre il ministro della Giustizia rumeno, Raluca Pruna, ha ammesso di aver mentito alla Cedu in ordine allo stanziamento di fondi destinati agli istituti penitenziari rumeni". Una posizione che avrà, secondo gli avvocati delle conseguenze: "Il presidente dell’Unione Nazionale Giudici della Romania, Dana Girbovan, l’equivalente del nostro Csm ha osservato che le false dichiarazioni rese dal ministro della Giustizia certamente avranno un forte impatto sulle relazioni con gli altri Paesi dell’Unione Europea in materia di cooperazione giudiziaria". Il maltrattamento dei minori causa ostativa alla sospensione dell’ordine di esecuzione di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 17 gennaio 2017 Corte di cassazione - Sezione I - Sentenza 7 dicembre 2016 n. 52181. In tema di sospensione dell’ordine di esecuzione di pene detentive, la condanna per il reato previsto dall’articolo 572 comma 2 del codice penale costituisce causa ostativa alla sospensione dell’ordine di esecuzione, nonostante l’abrogazione di detta norma operata dal Dl 93/2013, convertito nella legge 119/2013, attesa la natura mobile del rinvio contenuto nell’articolo 656 comma 9 del Cpp all’articolo 572 del Cpe la continuità normativa tra l’ipotesi formalmente abrogata e l’analoga previsione di cui al combinato disposto degli articoli 572 comma 1 e 61 comma 1 n. 11-quinquies. Ad affermarlo è la Cassazione con la sentenza 52181/2016. Il caso - La questione posta all’attenzione dei giudici di legittimità trae origine dalla richiesta di revoca dell’esecuzione della pena detentiva, ai sensi dell’articolo 656 comma 5 del Cpp, disposta nei confronti di un uomo condannato per il reato di maltrattamenti in danno dei figli minori di cui all’articolo 572 comma 2 Cp. La richiesta veniva respinta dal giudice dell’esecuzione perché il comma 9 della medesima disposizione esclude la possibilità di sospendere l’esecuzione per le condanne relative a determinati reati, tra i quali rientra anche l’articolo 572 comma 2 del Cp. Il condannato, tuttavia, ricorreva in Cassazione, ritenendo che il giudice non avesse considerato adeguatamente il quadro normativo risultante dal decreto legge 93/2013, convertito con modificazioni nella legge 119/2013. Il rapporto tra articolo 572 comma 2 Cp e l’articolo 61 comma 1 n. 11-quinquies- La Cassazione ritiene infondato il ricorso precisando che il giudice dell’esecuzione non può procedere alla sospensione dell’esecuzione della condanna per il reato di cui all’articolo 572 comma 2 del Cp, nonostante l’abrogazione di tale disposizione, avvenuta con l’articolo 1 comma 1-bis del Dl 93/2013, convertito con modificazioni nella legge 119/2013. Ebbene, il reato di maltrattamenti in famiglia in danno di minori, che si verifica quando le condotte illecite siano posti in essere nei confronti dei propri figli minorenni, è stato solo formalmente o apparentemente abrogato, in quanto lo stesso provvedimento legislativo che ha eliminato il comma 2 dall’articolo 572 del codice penale ha contestualmente inserito una nuova aggravante generale all’articolo 61 comma 1 n. 11-quinques, che ricorre anche in caso di delitto di cui all’articolo 572 Cp commesso in presenza di minori di anni diciotto. In sostanza, affermano i giudici di legittimità, nulla è cambiato sussistendo una continuità normativa tra il vecchio articolo 572 comma 2 del Cpe il combinato disposto tra l’articolo 572 comma 1 Cp e l’articolo 61 comma 1 n. 11-quinquies Cp. Il rinvio è mobile - Ciò posto, il problema si pone in riferimento al rinvio operato all’articolo 572 comma 2 Cp dall’articolo 656 comma 9 Cpp. Si tratta, cioè, di stabilire se tale rinvio è fisso o mobile, ovvero materiale o formale. E per la Corte la risposta è chiara: il rinvio è mobile, con la conseguenza che la condanna per maltrattamenti in danno di minori rimane un reato ostativo alla concessione della sospensione dell’esecuzione di cui all’articolo 656 comma 9 Cpp. Tale soluzione, affermano i giudici, è coerente con la ratio dell’intervento legislativo del 2013, che ha sostituito l’aggravante originaria con una disposizione "in funzione di maggiore rigore punitivo", nonché con la natura e lo scopo della stessa disposizione processuale e, in generale, "appare più coerente con il carattere permanente del potere del legislatore di compiere le scelte punitive". Stalking, alternatività e reciprocità degli atti persecutori. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 17 gennaio 2017 Stalking - Articolo 612- bis cp - Atti persecutori - Configurabilità del reato - Eventi alternativi - Sufficienza anche di uno solo di essi. Commette il reato di stalking il padre che mette ossessivamente in discussione le scelte della madre nei confronti della figlia minore, sottoponendo quest’ultima a controlli medici continui. Per la Corte, la contestazione eccessiva del ruolo dell’altro genitore e la cura "maniacale" dimostrata verso la propria figlia, fino a comprometterne il suo normale sviluppo psico-fisico, fanno scattare il reato previsto dall’articolo 612-bis. • Corte cassazione, sezione V, sentenza 24 novembre 2016 n. 50057. Reati contro la persona - Stalking - Vittima dello stalking - Reazione violenta - Persecutore - Condanna - Minacce reciproche - Reazioni incontrollate delle vittime. La reazione anche violenta della vittima di stalking non salva il persecutore dalla condanna. Per la cassazione l’esistenza di minacce reciproche rientra nelle reazioni incontrollate della vittima all’ansia e allo stress e nulla impone che la perseguitata debba restare inerme. • Corte cassazione, sezione V penale, sentenza 14 aprile 2016 n. 15603. Stalking - Condotte reiterate in un arco di tempo molto ristretto - Atti autonomi - Sufficienza di un effetto destabilizzante della serenità e dell’equilibrio psicologico della vittima. Il delitto di atti persecutori ex articolo 612 bis c.p., cd. stalking, si ravvisa anche quando le singole condotte sono reiterate in un arco di tempo molto ristretto, purché si tratti di atti autonomi e la loro reiterazione sia la causa effettiva di uno degli eventi previsti alternativamente dalla norma incriminatrice, quali il perdurante e grave stato di ansia o di paura, il fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto e l’alterazione delle abitudini di vita. Ai fini dell’integrazione del reato de quo, non è tuttavia necessario l’accertamento di uno stato patologico, in quanto è sufficiente che gli atti ritenuti persecutori abbiano un effetto destabilizzante della serenità e dell’equilibrio psicologico della vittima. (Nella fattispecie si riteneva sussistente il reato de quo, avendo le persone offese lasciato trasparire un forte timore per la loro incolumità e per quella dei due figli minori, soprattutto per il fatto che l’imputato, che li minacciava e molestava continuamente, aveva un agevole accesso alla loro abitazione, essendoci delle parti comuni nello stabile in cui vivevano). • Tribunale di Trento, penale, sentenza 13 giugno 2016 n. 491 Stalking - Reciprocità dei comportamenti molesti - Valutazione. Il reato di atti persecutori può sussistere anche quando la vittima abbia più volte cercato un contatto con lo stalker ed in alcuni casi l’abbia fronteggiato reagendo energicamente. La reciprocità dei comportamenti molesti non esclude infatti la configurabilità del delitto di atti persecutori, incombendo, in tale ipotesi, sul giudice un più accurato onere di motivazione in ordine alla sussistenza dell’evento di danno, ossia dello stato d’ansia o di paura della presunta persona offesa. Il termine reciprocità non vale, dunque, ad escludere in radice la possibilità della rilevanza penale delle condotte come persecutorie ex articolo 612-bis c.p., occorrendo che venga valutato con maggiore attenzione ed oculatezza, quale conseguenza del comportamento di ciascuno, lo stato d’ansia o di paura della presunta persona offesa, o il suo effettivo timore per l’incolumità propria o di persone a lei vicine o la necessità del mutamento delle abitudini di vita. Deve, in ultima analisi, verificarsi se, nel caso della reciprocità degli atti minacciosi, vi sia una posizione di ingiustificata predominanza di uno dei due contendenti, tale da consentire di qualificarne le iniziative minacciose e moleste come atti di natura persecutoria e le reazioni della vittima come esplicazione di un meccanismo di difesa volto a sopraffare la paura. Né può dirsi che la reazione della vittima comporti, comunque, l’assenza dell’evento richiesto dalla norma incriminatrice, non potendosi accettare l’idea di una vittima inerme alla mercé del suo molestatore ed incapace di reagire. • Corte cassazione, sezione III, sentenza 14 novembre 2013 n. 45648. Reciprocità dei comportamenti molesti - Stalking - Configurabilità del reato. La reciprocità dei comportamenti molesti non esclude in assoluto la configurabilità del reato di stalking. In un caso del genere, però, all’autorità giudiziaria tocca un compito ancora più incisivo per quanto riguarda la dimostrazione dell’esistenza del danno, cioè dello stato di ansia o di paura della presunta persona offesa, del suo timore per la propria incolumità o per quella di persone vicine o, ancora, della necessità del cambiamento delle proprie abitudini di vita. Il giudice deve verificare se, in caso di reciprocità degli atti minacciosi, esiste una posizione predominante di una delle due parti coinvolte, tale da permettere di qualificare le iniziative minacciose e moleste come atti di natura persecutoria e le reazioni della vittima come messa in atto di un meccanismo di replica indirizzato a sopraffare la paura. Nè può dirsi che la reazione della vittima comporti, comunque, l’assenza dell’evento richiesto dalla norma incriminatrice, non potendosi accettare l’idea di una vittima inerme alla mercé del suo molestatore e incapace di reagire. Anzi, non va escluso che una situazione di stress o di ansia possa provocare reazioni incontrollate della vittima anche nei riguardi del proprio aggressore. Quanto al numero di condotte violente che possono essere considerate tali da configurare il reato, bastano anche due soli episodi per arrivare alla condanna per atti persecutori. Certo, serve una reiterazione della condotta aggressiva, però non è necessario che questa sia anche assillante. • Corte cassazione, sezione III, sentenza 14 novembre 2013 n. 45648. Gli innocenti in galera non sono un semplice "errore giudiziario" di Francesco Petrelli* Il Dubbio, 17 gennaio 2017 Scriveva Wittgenstein che "non basta constatare la verità, occorre invece trovare la via dall’errore alla verità". Occorre infatti non accontentarsi della funzione consolatoria della verità, ma occorre sempre ricostruire il percorso che l’errore ha compiuto, fino a risalire alla sua fonte ed alla sua causa. È questo ciò che in fondo è mancato all’indagine televisiva sui casi di innocenti sbattuti in galera per via di errori giudiziari ai quali si è poi "felicemente" posto rimedio. A chi giova vedere quell’errore come un male fatale? Non serve a molto rappresentare tali errori come una sventura caduta dal cielo, una malattia dalla quale si è per fortuna guariti, senza tuttavia ricostruire i possibili nessi di una colpa degli inquirenti, di un’avventatezza inescusabile del pubblico ministero, di un travisamento colpevole del Giudice. Affermare così la "verità" dell’innocenza può divenire un’operazione non tanto inutile quanto pericolosamente assolutoria. Messa così la storia dell’innocente (al netto di una encomiabile attenzione ad una materia solfurea che molti vorrebbero tradotta in cenere e nascosta sotto un tappeto, cosa che il programma "Sono innocente", in onda in questi giorni su Rai tre, comunque scongiura), si trasforma infatti una sorta di ex voto, per la grazia ricevuta di essere scampati all’orribile sorte di un carcere che strappa via assieme alla libertà anche l’identità. Per il resto, pubblici ministeri, avvocati e giudici vivono in un universo altro, rarefatto e distante, segnato dai ritmi di una procedura algida, inossidabile al male. La giustizia come macchina certo fallibile, ma innocente, incolpevolmente inceppata da coincidenze ed errori, ma esente da vizi. Una giustizia che assiste indifferente agli esiti dell’errore non toccata dal dubbio di averlo prodotto. Vi pone rimedio con l’aria di un medico che somministri un antidoto o un farmaco contro un malanno preso chissà come. Un po’ di studio della eziogenesi dell’errore giudiziario porterebbe a vedere qualcosa di più di un accidente. Qualcosa su cui tuttavia è meglio sorvolare, qualche tratto insano del quale è meglio tacere al pubblico televisivo, dal cui disvelamento discenderebbe la non fatalità dell’errore. Discenderebbero in particolare le colpe di una magistratura insensibile alla atrocità del rimedio cautelare in carcere, la superficialità con la quale il giudice valuta le richieste del pubblico ministero, la cultura comune con la quale giudici e pubblici ministeri soppesano la capacità rappresentativa di una prova o la indispensabilità di quella custodia cautelare in carcere, che dovrebbe sempre rappresentare l’extrema ratio, e dal cui uso spesso poco accorto derivano danni irreparabili. Ne deriverebbe l’ovvia necessità di avere nel nostro ordinamento giudiziario una netta distinzione fra controllore e controllato, così da ottenere quel giudice veramente "terzo", che pure sta scritto nella nostra costituzione, dotato di una vera e sana "cultura del limite" che vigili sui risultati dell’attività dei pubblici ministeri, che si fermi dove si ferma la prova, e che sorvegli la libertà dei cittadini. Solo se spieghiamo perché un innocente ha subito l’atrocità di un’esperienza che poteva essere evitata, possiamo dare un senso a quelle storie, cercando di svelare quali niente affatto oscuri meccanismi producono l’errore, ed evitando così di ripeterne in futuro. *Segretario dell’Unione Camere Penali Italiane Uomini violenti, mostriamo i volti di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 17 gennaio 2017 Novantasette su cento delle ragazze giovani e carine che vengono assassinate finiscono dritte dritte, con le loro foto, sulle prime pagine. Non è una cifra: è un faro acceso sul femminicidio. E la società in cui viviamo. Lo dice il confronto con la presenza sui giornali, sul web, sui tiggì di altre donne ammazzate dal marito, dall’ex di turno, dal compagno o dallo spasimante. Stessi omicidi, stessa ferocia, stesse pistole, stessa benzina, stessi coltelli. Ma più anni hanno, quelle donne, meno interessano... Fiori appassiti. Certo, è normale che un fiore reciso nel momento in cui sboccia e s’illumina colpisca di più. Si pensi alle parole di Marinella dove Fabrizio de André racconta, pare, la storia di Maria Boccuzzi, uccisa a colpi di pistola nel gennaio 1953 e poi gettata nel fiume Olona da un "lui" che aveva seguito "senza una ragione / come un ragazzo segue un aquilone". Ma l’inchiesta condotta da Emanuela Valente sui casi delle 571 donne assassinate negli ultimi dieci anni per motivi di gelosia e possesso, le ultime due nelle ultime ore a Milano e a Santa Maria di Capua Vetere, sta alla larga dalla poesia. Fatti, numeri, riferimenti, verbali di polizia e dei carabinieri, sentenze della magistratura. Il quadro che ne esce, come dicevamo, spiega molto di come vengono vissuti questi fatti. Sui quali la Valente creò nel 2013 la prima banca dati (inquantodonna.it) a costo di tirarsi addosso le ire di maschi inveleniti al punto di scrivere sui social network cose orrende tipo "purtroppo tra le ammazzate non c’è ancora la Valente, ma speriamo che presto il vuoto venga colmato". Con tanto di indirizzo, via e numero civico. Spiega la blogger, da anni impegnata ad approfondire il fenomeno, che "le foto delle donne assassinate sono pubblicate in media nell’80% dei casi, anche quando si tratta di foto che le ritraggono ormai cadaveri, gettate in un campo o a pezzi". Ma mentre quelle delle uccise tra i 14 e i 35 anni "sono pubblicate nel 97% dei casi" e "vengono spesso scelte le immagini in costume da bagno, in pose avvenenti o con abiti attillati", la quota cala bruscamente al 74% se le vittime di anni ne hanno più di 36 e precipita al 39% se ne hanno più di 65. Diciamolo: è una scelta condivisa salvo eccezioni, tra mille contraddizioni, da un po’ tutti i mass media. Scelta sulla quale anche "La ventisettesima ora", il blog al femminile del Corriere, ha discusso più volte. Chi è senza peccato... Emanuela Valente, però, aggiunge un dato nuovo. O meglio: un dato mai sottolineato. Fatti i conti, "le foto degli uomini che hanno ucciso sono state pubblicate nel 59% dei casi totali" e "quasi mai prima del 2012". Certo, negli ultimi anni, con una inversione di tendenza crescente, molto è cambiato. Anzi, negli ultimi mesi, per quanto le immagini siano a volte poco riconoscibili (foto in lontananza, in auto, di spalle, il volto semi-coperto) c’è stata un’accelerazione: 92%. Positiva. Prima del 2010, l’uomo veniva addirittura, troppo spesso, "reso irriconoscibile con le fascette sugli occhi anche quando si trattava di un reo confesso o di un recidivo/seriale". Al punto per caso" con un mattarello che "casualmente" portava addosso. Lo stesso vale per la descrizione della coppia. Salvo il 10% di testimonianze, "nei primi momenti dopo l’uccisione vengono sempre raccolte notizie di due persone tranquille, senza problemi, famiglia perfetta, si amavano tanto e non litigavano mai...". Solo "nei giorni successivi i vicini iniziano a ricordare urla ricorrenti e rumori di oggetti rotti provenienti dall’appartamento, mentre amici e parenti iniziano a ricordare confidenze e preoccupazioni della donna...". Il tutto nonostante "il 40% delle vittime" avesse denunciato i futuri carnefici "anche più volte". Come Marianna Manduca, la trentaduenne di Palagonia, in provincia di Catania, che nel 2007 fu ammazzata da Saverio Nolfo con dodici coltellate. Dodici come le denunce per aggressione, minacce, violenze che la moglie aveva fatto contro di lui per proteggere non solo se stessa ma pure i tre figlioletti. Denunce colpevolmente sottovalutate anche secondo la Cassazione, che un paio d’anni fa ha riconosciuto che investigatori e magistrati, informati dei rischi, erano stati negligenti e dovevano risarcire i bambini rimasti orfani. A proposito di Nolfo: la foto? Mai vista. Come se il criminale avesse diritto alla privacy. Tra gli altri numeri dell’inchiesta, come la percentuale bassissima di assassini mandati all’ergastolo (solo il 4%) o quella altissima di riduzioni di pena col risultato che "tra sconti, indulto e buona condotta spesso gli uomini condannati per femminicidio escono dopo meno di 10 anni", Emanuela Valente sottolinea come vada rovesciata l’idea che siano una moltitudine gli immigrati che ammazzano italiane: semmai è il contrario. Stando alla banca dati citata, infatti, è vero che 57 stranieri (ripetiamo: su 571 femminicidi) hanno ucciso le compagne tutte della loro stessa nazionalità o comunque con passaporto estero. Ma i "delitti incrociati" vedono uno squilibrio inatteso. Gli italiani che hanno assassinato una immigrata sono stati dal 2010 a oggi 43 e gli immigrati che dal 2008 hanno assassinato un’italiana sono stati (a dispetto dei titoli strillati per motivi di bottega elettorale e dei commenti politici presenti nel 40% dei casi), poco più di un terzo: diciassette. Cinque erano marocchini, cinque tunisini, due senegalesi, un cubano, un albanese, un bosniaco, un cileno e un egiziano. Descritti dai vicini di casa e nelle cronache con toni assai diversi da quelli su citati: "Lo straniero è socievole, gentile e gran lavoratore solo nel 35% dei casi; un buon padre e marito solo nel 18%". Quanto alle condanne, sono state tutte decisamente più alte della media rispetto al "colleghi" nostrani. Ma c’è un dettaglio in più: di quegli assassini immigrati che hanno ammazzato un’italiana "in quanto donna", abbiamo tutte ma proprio tutte le foto. Giustissimo. Nessuno, a loro, ha messo una pecetta sugli occhi. Ma perché farlo con qualche aguzzino nostrano? Alessandria: allenatore morto suicida in carcere, il caso non è chiuso alessandrianews.it, 17 gennaio 2017 Proseguono su un doppio binario le indagini legate agli atti di violenza su minori da parte dell’allenatore morto in carcere: da un lato la procura di Torino per escludere altri coinvolgimenti negli abusi, dall’altro quella di Alessandria per stabilire la dinamica del suicidio. Restano aspetti da chiarire dopo l’arresto e la morte in carcere per presunto soffocamento di Tonino Marci, 63 anni, allenatore di squadre giovanili di calcio arrestato martedì scorso, 10 gennaio, con la pesante accusa di detenzione di materiale pedopornografico e violenza su minori. Le vittime erano ragazzini tra i 9 e i 13 anni, sui allievi nelle squadre di calcio che Marci ha allenato, in trent’anni. A squarciare il sipario su una tragedia raccapricciante, fatta di incontri e abusi con le piccole vittime nell’abitazione di lui, nel quartiere Cristo, era stato il racconto, reso ai carabinieri, di un ex giocatore che, quando subì violenza, aveva 11 anni. Oggi quarantenne, lo aveva riconosciuto in un locale della città ed aveva deciso di non tacere più. I carabinieri hanno avviato le indagini e sono intervenuti quando Marci è stato visto entrare in casa con un tredicenne. Nell’abitazione sono stati trovati centinaia di filmati, foto, pagine di diario, lettere che testimoniavano anni e anni di abusi. Le vittime potrebbero essere una decina. Qualcuno, in questi giorni, dopo che la notizia aveva iniziato a circolare, ha preso contatti con i carabinieri di Alessandria, per raccontare fatti, o timori. O anche solo per essere tranquillizzati, per chiedere come riconoscere eventuali segnali di abusi subiti da parte dei figli. Il fascicolo a carico di Marci non è stato chiuso, nonostante lui sia deceduto: è ora in mano alla procura dei minori di Torino che coordinerà l’inchiesta, a questo punto mirata ad escludere il coinvolgimento di altri adulti. Da quanto è emerso finora, il materiale pedopornografico non è stato diffuso, né sono coinvolte altre persone. Nulla sarebbe mai uscito dalle mura del bilocale del Cristo. Marci approcciava i ragazzini sui campi da calcio, instaurava con loro una rapporto personale, quasi esclusivo, usando lusinghe e mettendo in atto atteggiamenti di convincimento, fino alla coercizione psicologica. Con le vittime trascorreva tempo anche fuori dai campi da pallone, invitandoli al cinema, a cena, fino a portarli con loro in vacanza. Aveva cambiato spesso team per i quali svolgeva il ruolo di allenatore. Era stato dal Derthona, all’Aurora, al Don Bosco, al Castellazzo. Nessuno si era mai accorto di nulla o, se si diffondeva qualche voce, sussurrata o supposta, Marci veniva semplicemente allontanato. L’allenatore si sarebbe tolto la vita in carcere, la notte di venerdì 13, soffocandosi con un sacchetto di plastica. Cosa sia potuto accadere nel carcere di piazza Don Soria, dove era rinchiuso, cercheranno di stabilirlo i carabinieri, su disposizione della procura di Alessandria. Marci era in isolamento, non aveva contatto con altri carcerati, ma sembra non fosse stato ancora disposto l’isolamento riservato a quei detenuti peri quali esiste il rischio ragionevole di suicidio. Il difensore aveva fatto richiesta di trasferimento a Vercelli, dove esiste un’ala apposita per chi ha commesso questa tipologia di reati. Il trasferimento non era ancora arrivato. Giovedì dovrebbe essere eseguita l’autopsia dal medico legale per accertare la causa della morte. Reggio Calabria: nell’inferno del carcere con la delegazione del Partito Radicale di Ilario Ammendolia zoomsud.it, 17 gennaio 2017 Quando entriamo nel cortile del carcere, i reclusi sospendono la loro passeggiata che si svolge ad uno strano ritmo di quadriglia. Sanno già che siamo: una delegazione del partito radicale che è in visita nelle carceri della provincia di Reggio Calabria. Ci vedono entrare e si collocano in semicerchio intorno a noi. Sappiamo di trovarci nella sezione di massima sicurezza dove quasi tutti i detenuti sono accusati di associazione mafiosa. Catalogare gli uomini è stato sempre una fissazione della burocrazia umana. Anteporre la parola "mafioso" serve per espellere la parola uomo da un corpo umano. I nazisti ne hanno fatto una scienza! Una società, che non rimuove privilegi e le ingiustizie, deve catalogare e marchiare le persone quando non è interessata a guardarsi dentro. Quando è incapace di scavare, scoprire, curare le proprie piaghe infette in cui nidifica e si nutre quella parte di umanità smarrita che, per comodità burocratica, definiamo come "devianza criminale"! Nei casi estremi, la catalogazione degli uomini è servita a cancellare con un tratto di penna migliaia di esseri umani. Penso agli "ebrei". Penso all’uso distorto che si fa oggi di parole come "musulmano", "immigrato" con le quali ci ripuliamo la coscienza, rimuovendo in questi giorni di freddo intenso, le inumane sofferenze di coloro che abitano nella tendopoli di San Ferdinando. Ritorniamo al cortile, forse è meglio! Adesso, ci guardiamo lungamente negli occhi, ci scrutiamo, iniziamo a dialogare. Da una pesante coppola di lana nera vengono fuori due occhi da "bambino". Copre la fronte di un ragazzo appena maggiorenne, cresciuto quanto basta per essere rinchiuso in carcere. La persona che gli sta accanto invece ha la scorza dura: è un ergastolano. Un "fine pena mai"! Quando il "ragazzino" è nato, il suo vicino era già in carcere da anni. Che ci fanno insieme? Non avresti bisogno d’altro per capire la stupidità del carcere ma non possiamo dirlo altrimenti il divo antimafia si alza dalla sua soffice poltrona con l’indice di accusa puntato contro di noi! Allora dovremmo restare in silenzio. Si pretende omertà per non dire che quel "ragazzino" e quell’ergastolano insieme costano a voi circa cinquecento euro al giorno. Soldi spesi inutilmente, anzi utilizzati per creare danni. Uso criminale e distorto del pubblico denaro! Il giovane presumibilmente lascerà presto il carcere e gli unici momenti di "socializzazione", di "rieducazione", di "recupero" che ha vissuto sono quelli trasmessi da detenuti di lungo corso. C’è da scommettere che ne farà "buon uso"! Eppure c’è chi ha fato le proprie fortune scaricando materiale di scarto in questa discarica indifferenziata. Il personale del carcere, la polizia penitenziaria fa il possibile per rendere più umane queste mura ma il carcere è una istituzione medioevale e barbarica e il "potere" vuole che resti tale e ne vedremo le ragioni. In questi luoghi lugubri, lo Stato perde ogni autorità morale mentre si legittima l’uso della violenza. Un ragazzo, ammalato di tumore, aspetta la visita oncologica da due mesi. In carcere la burocrazia è esasperante ed il tempo sembra fermarsi ma il tumore non si ferma. Morire di malattia può essere naturale, morire di burocrazia è criminale. Si tenga conto che la maggioranza dei detenuti sono da anni in attesa di giudizio! Questo carcere non è fatto per combattere il crimine e, meno che mai, per combattere le mafie. Il carcere è fatto contro di voi. Così come nel medioevo erano contro il popolo -e non contro i criminali- le forche e gli strumenti di tortura a disposizione del potere medievale. Tommaso Campanella lo aveva capito qualche secolo addietro e per questo lo rinchiusero in prigione. Queste carceri sono la fabbrica della paura. Un orrendo spettro per spaventare gli indifesi. Il mondo contemporaneo crea paure ed insicurezza, riteniamo che il pericolo sia sempre in agguato e, pur vivendo, in un ambiente permanentemente illuminato da una luce artificiale, il nostro animo piomba nella lunga notte medioevale. Costruiamo le forche e le catene che saranno usate contro di noi. Pensiamo di perdere la nostra agiatezza, la nostra vita, i nostri beni. Ed, infatti, il "ceto medio" non esiste più! Milioni di famiglie vivono sotto la soglia minima di povertà e molte altre rischiano di finirci dentro. Quanto succede non è colpa della peste o delle carestie. Le responsabilità sono altre. In questi ultimi trenta anni un mare di soldi si è spostato dai salari e dagli stipendi alle rendite, alle mafie, al parassitismo. Banchieri e grandi operatori finanziari operano come Robin Hood di segno opposto! I giovani alienati e frustrati fanno uso di droga alla ricerca di una felicità artificiale ed il potere ha appaltato alla mafia il monopolio della droga. Le fabbriche si spostano dove trovano nuovi schiavi da sfruttare. Lo Stato sociale, che avevamo costruito con tanta fatica e tante lotte, viene smantellato pezzo per pezzo. Questa è la vera grande rapina. Questa è la mamma di tutte le violenze! La gran madre di tutte le mafie! Ma bisogna far in modo che la gente non lo capisca! Bisogna incanalare la paura contro il l’immigrato, il piccolo criminale (che va combattuto con severità), il "mostro". Tutto serve per nascondere il ventre immondo che genera costoro. Bisogna costruire delle discariche umane, prigioni, campi profughi, ghetti urbani, da riempire con i reietti delle Terra per costruire il potere e l’immensa fortuna dei pochi. Bisogna indicare il falso nemico per nascondere quello vero. Trump ha trovato i poveri messicani, sfruttati da generazioni, e li agita dinanzi agli occhi del popolo credulone ed in perenne ricerca di un "capo", come il nemico da circondare con un muro. Crescono e si diffondono i leder populisti, i divi antimafia, (accanto a tante persone serie che le mafie le combattono davvero e ne sopportano le conseguenze). Panna montata a volontà! Non pensate neanche per un attimo che io sia indulgente verso chi usa la violenza. Ho sempre dinanzi agli occhi la foto del piccolo "Cocò" assassinato ad appena tre anni dalla manovalanza mafiosa. Conservo nella mia mente l’immagine dei balordi che, qualche girono fa, nell’ospedale di Catania sono andati all’assalto di un medico mentre era intento a curare gli ammalati. Ho visto in tv la scena dei camorristi che a Napoli hanno sparato contro gli ambulanti di colore che si rifiutavano di pagare il pizzo ed hanno colpito una bambina di dieci anni. Ed è appunto perché sono contro la violenza - a qualunque livello e sotto qualunque forma - che sono decisamente contro il nuovo "ordine" che si va imponendo. Sono contro questo concentrato di miseria umana e di violenza che sono le galere. Ci sarebbero mille altri modi, e tutti più sicuri, per punire, neutralizzare, recuperare, (quando è possibile) i "criminali". So altrettanto bene che in carcere si entra anche da perfetti innocenti. Sabato scorso la Rai ha mandato in onda una trasmissione sconvolgente: "Innocente". Sono state raccontante le storie infami di persone perfettamente innocenti - al di là di ogni ragionevole dubbio- estranei ad ogni condotta illecita e finiti in carcere per errori giudiziari. Io direi per colpa grave che nessuno pagherà mai. Bisogna mostrare i muscoli, soprattutto quando non si corre pericolo, per incutere paura ai deboli e così il "braccio violento della legge" si abbatte sugli innocenti. Concludo: durante la visita al carcere di San Pietro di Reggio, abbiamo visto un bel laboratorio "inaugurato" una decina di anni fa dall’ex ministro Mastella: un moderno capannone, macchinari di avanguardia, attrezzi da lavoro. Mai entrato in funzione, tutto è in rovina. Qualora l’avessero fatto funzionare, avrebbe tolto dall’ozio forzato, dai cattivi pensieri, dall’abbiezione centinaia di detenuti che sono passati in questi dieci anni da quel carcere. Avrebbe dato loro un mestiere, una possibilità di riscatto. Avremmo avuto un centinaio di delinquenti in meno e molti lavoratori in più! Sarebbero bastato qualche migliaio di euro per farlo funzionare. Probabilmente quanto ci costa una sola ora di scorta destinata a qualche personaggio che la deve esibire come segno distintivo della propria autorità. Perché nessuno se ne è mai curato? Perché della lotta alla ndrangheta al "potere" vero - che di "ndranghete" vive e sulle "ndranghete" cresce - non gliene fotte proprio nulla. Molto più interessato ad inscenare costose fiction o meglio a lunghe telenovele che possono andare avanti all’infinito e gabbare, fintanto che ci riusciranno, il nostro popolo. Alba (Cn): carcere, tutto fermo da un anno… nessun cantiere, nessun appalto di Cristina Borgogno La Stampa, 17 gennaio 2017 A gennaio 2016 la struttura di Alba fu sgomberata per evitare un’epidemia. Il carcere vuoto da un anno potrebbe ospitare i profughi. L’europarlamentare Cirio: "Non vorrei che il Governo intendesse farne un centro accoglienza". Il responsabile regionale degli Istituti di pena aveva promesso lavori di sistemazione in tempi rapidi. Nessun cantiere, nessun appalto, forse neppure un progetto definitivo. Solo rassicurazioni verbali fatte a Roma e ad Alba e tre sopralluoghi confermati dalla direzione. A un anno esatto dalla chiusura della casa di reclusione "Giuseppe Montalto" per l’epidemia di legionella e il trasferimento dei 122 detenuti in altre strutture piemontesi e non solo, le certezze sono poche, le preoccupazioni crescono e alcune voci cominciano a farsi insistenti. Come quella che il carcere potrebbe non riaprire. Ventiquattro agenti "Sono fortemente preoccupato - attacca l’europarlamentare Alberto Cirio, che visiterà la struttura di località Toppino, presidiata quotidianamente da una ventina di agenti, martedì 24 gennaio. Un anno fa ho promosso l’incontro in municipio con il ministro Enrico Costa in cui il provveditore regionale Luigi Pagano annunciò che i lavori sarebbero stati finanziati ed eseguiti per riaprire al più presto. È passato un anno e non è stata mossa una pietra, non sono neanche iniziate le procedure di appalto". "Sono allarmato per due motivi - dice Cirio: per il disagio del personale della polizia giudiziaria distaccata ogni giorno in vari istituti del Piemonte con spreco di risorse ed energie e anche per il dubbio che il carcere riapra con la sua destinazione d’uso. In un momento in cui nelle stanze di Governo si fa un gran vociare sulla necessità di individuare centri di raccolta profughi, non vorrei che qualcuno intravedesse la comodità di una struttura già pronta". Un’ipotesi quest’ultima più volte paventata dall’avvocato albese Roberto Ponzio che rappresenta un gruppo di agenti dipendenti del "Montalto". "Un anno trascorso senza nessun tipo di provvedimento va interpretato - interviene. Se per quanto riguarda un Cie non ci sono fondamenti, sicuramente sembra mancare la volontà di ripristinare un servizio che rappresenta un presidio di sicurezza per la cittadinanza a discapito di un territorio sempre più "ramo secco" se guardiamo altre realtà come il tribunale, l’autostrada e la ferrovia verso Asti". Invita alla calma e a non strumentalizzare la vicenda il sindaco Maurizio Marello: "Quello che sappiamo da Roma, dal direttore generale per personale e risorse del Dipartimento amministrazione penitenziaria nazionale Pietro Buffa a cui ho chiesto un incontro per fare il punto della situazione, è che il progetto dovrebbe essere ultimato e spero che a breve ci sia l’approvazione e l’appalto. Bene che tutti si interessino. Ma non vorrei che si facessero allarmismi oltre il dovuto. L’intenzione di recuperare il carcere più volte confermata da Roma e dal Dap credo non sia in discussione. Noi faremo tutto il possibile per accelerare i tempi". Alba (Cn): ex recluso reso invalido dalla legionella accusa l’amministrazione penitenziaria di Cristina Borgogno La Stampa, 17 gennaio 2017 La vicenda della legionella nel carcere albese ha avuto negli anni anche strascichi giudiziari. Mesi fa a Torino, un ex detenuto del "Montalto" ha intentato una causa contro il ministero della Giustizia, rivolgendosi anche all’Amministrazione penitenziaria regionale e alla direzione locale, sostenendo "di aver contratto nel gennaio 2012, durante la permanenza ad Alba, il batterio della legionella e aver subìto danni neurologici e fisici valutati all’80% di invalidità anche a causa di un ritardo nella diagnosi e nell’ospedalizzazione". "Non ho dichiarazioni da fare in merito, ma vorrei precisare che durante quell’episodio l’Asl ha riscontrato valori nella norma e i controlli sono risultati tutti negativi - spiega Giuseppina Piscioneri, che oggi dirige anche l’istituto di Fossano. Da quando sono arrivata ad Alba come vicedirettore nel 1997 e poi anni dopo come direttore, ho più volte segnalato il problema agli organi preposti, al ministero e il Provveditorato, con richieste scritte formali per verifiche, valutazioni di rischi e soluzioni. Purtroppo i provvedimenti presi in itinere come gli shock termici si sono rivelati dei palliativi e puntualmente il problema si è ripresentato. Quello che serviva forse, e speriamo venga fatto al più presto, era un intervento strutturale a tubature e impianti che comporta un impegno di spesa che un direttore non può decidere e sostenere". E aggiunge: "Ci sono persone che, per scarse difese immunitarie, sono soggetti maggiormente a rischio". Saluzzo (Cn): nuovo padiglione inaugurato il 10 dicembre, già arrivati 43 detenuti di Andrea Garassino La Stampa, 17 gennaio 2017 Aperto da un mese, ospita 43 detenuti. È il nuovo padiglione del carcere "Morandi" di Saluzzo, inaugurato il 10 dicembre dopo 7 anni di cantiere. È capace di 196 reclusi in 4 sezioni di alta sicurezza, ma in questa prima fase ne sono state attivate due (per 98 persone totali). "La prima sezione è quasi completa - dice il direttore, Giorgio Leggieri - perché abbiamo solamente 5 posti ancora da occupare. La seconda è disponibile e gli arrivi proseguiranno". Per il completamento del "Morandi bis" non ci sono certezze sui tempi. "Bisogna predisporre un nuovo appalto - aggiunge Leggieri - e questo sarà fatto da Roma e non dipende da noi. Gli interventi da completare riguardano l’edificio del nuovo padiglione e anche altre opere complementari, come l’ampliamento della cucina, il completamento della lavanderia centrale e interventi sull’impiantistica e sulla recinzione esterna". L’aumento del numero di reclusi, che oggi sono 280, comporta nuove sfide. "Cerchiamo da sempre - sottolinea il direttore - di offrire stimoli ed opportunità ai detenuti. Prosegue l’attività dello storico birrificio interno e proponiamo, fra le varie cose, le lezioni del liceo artistico e il biennio delle scuole professionali". Numerosi i nuovi progetti in cantiere. "Vogliamo attivare un’iniziativa - prosegue - con una cooperativa della zona per creare orti e aree agricole negli spazi verdi all’interno del muro di cinta per poi vendere i prodotti all’esterno. Abbiamo contatti con una nota azienda dolciaria della provincia per realizzare un laboratorio di torroni e cioccolati e con un’altra azienda di trasporti per allestire un call-center. Infine, ci sono progetti con la Cassa delle Ammende per far svolgere ai detenuti interventi di manutenzione interna ai locali del carcere, dopo un periodo di formazione professionale". Appello del direttore "Ora che la popolazione interna è aumentata - dice Leggieri - c’è bisogno sempre più del coinvolgimento di tutto il Saluzzese per creare ulteriori opportunità di formazione, di lavoro, di contatto e scambio tra chi sta dentro e la popolazione". Cagliari: Caligaris (Sdr), detenuto indiano non vede i familiari da anni vistanet.it, 17 gennaio 2017 La denuncia proviene da Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione Socialismo Diritti Riforme, che reclama la condizione in cui versa il detenuto nelle carceri sarde i cui unici parenti si trovano si trovano a Goito, nei pressi di Mantova. L’uomo ha trascorso una parte della detenzione nel carcere di Oristano-Massama dopo essere stato trasferito dal carcere di Pavia. "Un detenuto J.S., 44 anni, di Punjab (India), recluso attualmente nella Casa Circondariale "Ettore Scalas" di Cagliari-Uta, dopo un periodo trascorso nel carcere di Oristano-Massama proveniente da Pavia, dal 4 novembre 2013 non effettua colloqui con i familiari. Una circostanza inaccettabile per il mancato rispetto della territorialità della pena ancora più grave perché riguarda una persona straniera ristretta da 5 anni e 10 mesi". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme", facendosi interprete del disagio dell’uomo i cui unici parenti in Italia si trovano a Goito, vicino a Mantova. "J.S., che ha effettuato l’ultimo colloquio con i parenti a Pavia prima di essere tradotto a Oristano-Massama, ha inoltrato - sottolinea Caligaris - alcune istanze al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria per ottenere il trasferimento ma, nonostante il comportamento corretto e la partecipazione attiva al reintegro sociale documentata dalla struttura penitenziaria, sono rimaste senza risposta". "Ancora una volta il Dap dimostra di non tenere in considerazione la risocializzazione dei detenuti e di ignorare il principio della vicinanza dei ristretti ai familiari. La vicenda di J.S. è però anche un’ulteriore testimonianza della scelta di trasferire in Sardegna gli stranieri extracomunitari senza una motivazione palese. In attesa che il cittadino indiano possa avvicinarsi ai suoi familiari almeno per effettuare i colloqui - conclude la presidente di SDR - sarebbe opportuna una ricognizione su quanti cittadini extracomunitari privati della libertà ormai definitivi si trovano nelle carceri isolane pur non avendo commesso il reato nell’isola e neppure il processo e sebbene abbiano nella Penisola i parenti. Sarebbe un’occasione per verificare il rispetto delle norme vigenti in uno Stato di diritto". Alessandria: "un solo agente con 100 detenuti" e il rischio della radicalizzazione di Miriam Massone La Stampa, 17 gennaio 2017 "Controllarli è diventato quasi impossibile": al San Michele di Alessandria gli agenti della polizia penitenziaria dovrebbero essere 243, invece sono ormai novanta in meno. Da dieci anni nel minimarket del carcere San Michele non si vendono più gli alcolici, nemmeno il Tavernello. Eppure l’altra sera è scoppiata una rissa tra detenuti ubriachi: "Per calmarli il mio collega ha dovuto coinvolgere altri carcerati, ha chiesto a loro aiuto per "negoziare" la pace e ci sono volute ore". A raccontarlo è un agente stremato, uno di quelli che dal 22 dicembre rifiuta il pasto in mensa per protesta. Accetta di raccontare il suo sconforto, senza essere citato. Ma se l’alcol è vietato come fanno i detenuti a ridursi così? "Macerano la frutta: ormai è prassi collaudata". Cioè la lasciano quasi marcire e poi la spremono: "Esce alcol puro: peggio di una grappa. Una volta abbiamo scoperto persino un alambicco artigianale, erano riusciti a costruirlo con un filo dell’antenna svuotato che utilizzavano come serpentina per far passare il liquido, una pentola sul fuoco per caldaia e il filo poi passava nel lavandino dove avveniva il raffreddamento, sul fondo raccoglievano il distillato". Controllarli è diventato quasi impossibile: gli agenti della polizia penitenziaria dovrebbero essere 243 al San Michele, invece sono ormai 90 in meno. "L’organico non viene rinnovato, i colleghi invecchiano, l’età media è di 50 anni, negli ultimi tempi poi in 32 risultano in servizio ma in realtà sono in carico all’ospedale militare, in seguito a malattia, e non sono rimpiazzabili, non ci sono più avvicendamenti, né arrivano nuovi agenti dai corsi". I turni sarebbero da 6 ore, "ma ormai sono diventati di 8, spesso anche di più. Siamo arrivati a coprire da soli due sezioni: vuol dire trovare un agente che, senza supporto, deve seguire 100 detenuti". In tutto, al San Michele in questo momento sono 314 i reclusi, "spalmati" su tre piani, dovrebbero essere 267: "Le celle sono da 9 metri quadri, a volte ci stanno in 2, fino al 2014 è capitato anche in 3: immaginateci da soli a dover garantire a uno la visita medica, all’altro la lezione a scuola, al terzo il colloquio con i famigliari, poi assicurare l’ora d’aria a tutti". Il clima all’interno è cambiato, "peggiorato" puntualizza l’agente che qui lavora da almeno 15 anni: "Prima avevamo a che fare con detenuti di lungo corso, che intraprendevano un percorso di reinserimento, dunque più propensi anche loro al quieto vivere, al rispetto dell’ambiente nel quale erano costretti a restare per chissà quanto, ora invece tanti si fermano per poco, un paio d’anni al massimo" (nonostante sia un carcere per la lunga detenzione). E poi ci sono gli stranieri, che sono 143 (il 58%). Avere a che fare con loro è sempre più difficile: "Non è raro vederli trasformare, all’inizio sono più tolleranti, poi diventano fondamentalisti". Da cosa si capisce? "Rifiutano i colloqui e le visite mediche se psicologo e medico sono donne, a volte qualcuno ha più potere sugli altri, è evidente, avvicina un gruppo, parla in arabo, noi non capiamo. Ora comunque segniamo nome e cognome di tutti quelli che entrano nella stanza adibita a moschea per pregare, ci sono anche corsi per riconoscere i segnali della deriva fondamentalista all’interno del carcere". Molti riescono a restare in contatto con l’esterno attraverso i cellulari. Vietati. Negli ultimi due mesi ne sono stati sequestrati sei, funzionanti: "Riescono a nasconderli, nelle intercapedini dei muri", dentro i pacchetti di sigarette, nelle spine della corrente, dentro il gabinetto. "Se li procurano ai colloqui, ma noi siamo troppo pochi per assicurare controlli efficaci e anche per le perquisizioni ordinarie: è durante questi controlli che scopriamo i telefonini, ma in queste condizioni non siamo più in grado di garantirli e ne va della nostra sicurezza". La sera (turno 16-24) della rissa tra ubriachi "dovevamo essere in 13, invece eravamo rimasti in 5: un’altra volta hanno provato a sfilare le chiavi a un agente, ed è gravissimo, temiamo rivolte che non sapremmo gestire". C’è il rischio che prendano in mano il carcere. "E un pomeriggio c’era la festa con i parenti in teatro: eravamo solo 2 agenti con più di 40 detenuti e tutti i loro famigliari". E poi, l’altro problema: "Questo è uno dei pochi carceri ad avere lo psichiatra disponibile quotidianamente, per questo abbiamo tantissimi reclusi con forti problemi ed è molto faticoso trattarli". L’ultimo rapporto del garante per i diritti delle persone sottoposte a misure restrittive, Davide Petrini, confermava che oltre il 50% dei detenuti ad Alessandria fa (ab)uso di psicofarmaci. Una situazione critica e cronica, secondo il poliziotto: "Se fossero di più ad avere la possibilità di uscire per lavorare, credo che il clima sarebbe migliore". Invece sono appena in 20. In ogni caso "per noi solamente l’arrivo di nuovi agenti può aiutare: se le cose non cambieranno oltre a smettere di mangiare in mensa, finiremo per rimanere dentro ad oltranza". Catania: minori detenuti "in viaggio" contro l’indifferenza blogsicilia.it, 17 gennaio 2017 Prende forma il nuovo anno per l’associazione "Gianfranco Troina" che apre il calendario delle proprie attività proprio all’Istituto Penale Minorile "Bicocca" di Catania dove i giovani detenuti dopo aver dato brillante prova nelle precedenti manifestazioni sui temi dell’amicizia e della libertà, si cimenteranno adesso sul "viaggio". Una tematica accattivante, che suscita immaginari diversi, e che viene reinterpretato dai ragazzi ristretti attraverso una serie di brani, stralci di poesie e romanzi, accompagnati da musiche e immagini. L’occasione sarà propizia per un gemellaggio con gli alunni del liceo "Leonardo" di Giarre, da sempre sensibili alle tematiche sociali. Finale suggestivo con Stefania Bruno, artista della sabbia, che per questa manifestazione ha generato un momento di particolare interesse attraverso la sua abilità. "È stato un lavoro intenso - commenta Cristiana Cunsolo, psicologa e psicoterapeuta - con i ragazzi che hanno dimostrato un grande interesse e una grande attenzione a cimentarsi in questo nuovo evento che li vedrà nuovamente coinvolti in prima linea". La manifestazione (in programma martedì 17 gennaio alle 15:30) rientra nel mosaico del progetto "Vincere l’Indifferenza" portato avanti dal 2015 dall’associazione "Gianfranco Troina". Ascoli Piceno: concerto in carcere, serata da applausi a Fermo Il Resto del Carlino, 17 gennaio 2017 Oltre 30 detenuti hanno apprezzato l’esibizione della Corale Fra Marcellino da Capradosso. La musica è un viaggio oltre i limiti che la vita ci impone. Come quello che nei giorni scorsi la Corale Fra Marcellino da Capradosso ha regalato ai detenuti del carcere di Fermo. Una serata magica all’insegna della solidarietà e dello scambio costruttivo tra casa circondariale e territorio. Non a caso hanno assistito al concerto anche il sindaco Paolo Calcinaro e l’assessore alle Politiche sociali, Mirco Giampieri. Ad accogliere la formazione corale e il maestro Stefano Corsi, c’erano gli agenti e gli operatori di polizia, la direttrice Eleonora Consoli, il comandante Gerardo D’Errico e l’educatore Nicola Arbusti. Ma i veri protagonisti erano i detenuti, i quali hanno ascoltato canti e brani tratti dall’ultimo cd pubblicato dal coro fermano. E hanno ricambiato il dono con applausi, incitamenti, strette di mano e sorrisi. Motivi in più per ripetere il viaggio la prossima primavera. Migranti. L’Italia incalza Bruxelles: adesso rendere effettivi i rimpatri di Emilio Pucci Il Messaggero, 17 gennaio 2017 Pieno appoggio al piano Minniti. Rendere effettivi i rimpatri, proteggere chi ha diritto a restare nel nostro Paese, chiedere all’Europa di confermare gli impegni presi dal governo Renzi e di modificare i trattati di Dublino. Il Pd prepara su questa traccia la mozione sull’immigrazione da presentare mercoledì nell’Aula di Montecitorio. Sulla gestione dei flussi migratori ci sarà un ampio dibattito alla Camera. Nei dem, in realtà, non c’è una totale unità di vedute sulle nuove regole. Per esempio sulla riapertura dei Cie, i Centri di identificazione ed espulsione previsti della legge ma caduti in disuso, avevano espresso qualche perplessità i governatori di Toscana e Friuli Venezia Giulia, Enrico Rossi e Deborah Serracchiani. Proprio per cercare una ampia convergenza il responsabile del Viminale ieri ha avuto una lunga riunione al gruppo dei deputati Pd. Minniti presenterà le linee guida del suo programma mercoledì in commissione Affari costituzionali ma ha bisogno prima di ricercare la compattezza dei suoi colleghi di partito. Nell’incontro prolungatosi fino a tarda sera non si è registrato alcun dissenso. Nessuna voce fuori dal coro, ma erano presenti soprattutto i membri dem della Affari costituzionali e gli esponenti che fanno parte della Commissione parlamentare d’inchiesta sui Cie e i Cara. Il ministro ha ribadito la necessità di procedere uniti con il testo messo a punto per arrivare ad espulsioni più veloci. "L’obiettivo è quello di arrivare a mettere nero su bianco l’importanza di essere severi sui rimpatri". Indicazioni che sono state recepite nella stesura della mozione che verrà votata in Parlamento. Compreso l’annullamento del secondo grado di giudizio in caso di negazione del diritto d’asilo per accelerare le procedure. Nella mozione non è previsto alcun passaggio sul reato di clandestinità ma - riferiscono fonti parlamentari dem - l’obiettivo è quello di modificarlo proprio perché è un ostacolo all’effettività dei rimpatri. Obiettivo che Minniti ha intenzione di realizzare anche se non in tempi celeri. Del resto lo stesso Gentiloni è stato sempre favorevole ad una correzione di rotta, purché - ha sempre sostenuto - venga inserita "in un pacchetto di riforma di diverse norme". Sul piano Minniti potrebbe esserci la sponda anche dei partiti dell’opposizione. "Se in Aula arriva qualcosa che condividiamo la votiamo", ha detto il leader del Carroccio Matteo Salvini. Ma la mano tesa al ministro dell’Interno dovrebbe arrivare anche da Forza Italia. Oggi il partito azzurro presenterà il suo piano per affrontare l’emergenza. Tredici punti. Che in parte ricalcano la svolta impressa dal Viminale. Compresa la possibilità che per avere lo status di rifugiato sarà richiesto l’impegno in attività socialmente utili. Fi chiederà di "rilanciare gli accordi con la Libia", di "utilizzare la Marina militare e la Guardia costiera per combattere lo scafismo" e "un solo grado di giudizio per le domande d’asilo". Inoltre di "rivedere alcune norme di Schengen" e "maggiori controlli, mezzi ed uomini" per fronteggiare l’immigrazione. Del resto lo stesso Berlusconi nei suoi colloqui privati ha più volte elogiato il lavoro portato avanti da Minniti. "Se continua così - spiega un alto dirigente di Fi - toglierà ogni ragione di protesta alla Lega". Migranti. Minniti: "Chi chiede asilo deve lavorare". Mercoledì il piano in parlamento di Leo Lancari Il Manifesto, 17 gennaio 2017 Avanzata a più riprese in passato dal prefetto Mario Morcone, capo del Dipartimento Immigrazione e libertà civili del Viminale, l’idea di utilizzare i migranti che presentano richiesta di asilo nel nostro paese in lavori socialmente utili entra ora a far parte del pacchetto di proposte sull’immigrazione che il ministro dell’Interno Marco Minniti presenterà mercoledì in parlamento insieme alla riapertura dei Cie e a una modifica del norme che regolano la richiesta di asilo. Raccogliendo per ora consensi quasi unanimi. Salvo qualche eccezione - tra le quali la Lega nord e, anche se per motivi diversi, il sindaco di Taranto Ezio Stefano - sono stati molti infatti i sindaci che si sono detti favorevoli all’utilizzo dei rifugiati. Sarà la commissione Affari costituzionali del Senato ad ascoltare da Minniti come pensa di impiegare i migranti. Di certo l’utilizzo dovrà essere su base volontaria e senza alcun compenso in cambio, ma sembra di capire che la disponibilità a rendersi utile potrebbe essere tenuta in considerazione nel momento in cui la domanda di asilo viene presa in esame dalla commissione territoriale di competenza. E un elemento a favore in più potrebbe essere rappresentato dalla decisione del migrante di frequentare un corso d italiano. Tutte cose che dovrebbero rappresentare altrettante dimostrazioni delle volontà di integrazione. Chi accetta di entrare nel circuito lavorativo riceverà un documento con indicate le generalità che gli consentirà anche di partecipare a stage con aziende con le quali verranno stipulate delle convenzioni. Per quanti riguarda i Cie, i Centri di identificazione ed espulsione ne è previsto uno per regione, con la sola eccezione di Valle d’Aosta e Molise, per un totale di 1.500 posti. Il piano dovrà essere discusso anche con l’Anci e Conferenza delle Regioni. Intanto, però, si sono detti favorevoli già molti primi cittadini. Favorevole all’impiego dei migranti è per esempio Giuseppe Sala: "Un po’ lo stiamo già facendo, penso che quello debba essere un punto di arrivo" ha spiegato ieri Giuseppe Sala ricordando come in città i migranti siano già impiegati in lavori socialmente utili. Esperienza avviata già in molti comuni del Salento mentre d’accordo con Minniti si è detto anche il sindaco di Messia Renato Accorinti. Contrario, invece, quello di Taranto: "Non sono d’accordo perché un’iniziativa de genere può andare bene nelle realtà dove ci sono pochi disoccupati, ma non a Taranto dove purtroppo il problema è acuto". Contrario anche il leader della lega Matteo Salvini ("con quattro milioni di italiani disoccupati, preferirei che gli stage e i quattrini fossero spesi per loro") mentre il segretario dei Radicali italiani Riccardo Magi individua nella legge Bossi-Fini un limite alla proposta di Minniti."È giusto che i richiedenti asilo lavorino ma se una persona viene formata e poi non ottiene protezione non può neppure accedere a un permesso di soggiorno per rimanere legalmente in Italia". Intanto potrebbe sbloccarsi l’emergenza in Serbia, dove migliaia di migranti sopravvivono al gelo. Il governo e Unhcr hanno messo a punto un piano per trasferirne un migliaio in alcune caserme nei pressi della capitale Belgrado. Migranti. Conetta, la morte di Sandrine arriva a Strasburgo di Ernesto Milanesi Il Manifesto, 17 gennaio 2017 Sabato a Padova è in programma un’assemblea di coordinamento della "rete" di associazioni, amministratori, volontari che hanno assunto come impegno la chiusura dei "lager" nel cuore del Veneto. In centinaia domenica nonostante il gelo sull’argine di Rottanova, frazione di Cavarzere. Lanterne cinesi, fiori di campo, testimonianze e dolorose scuse in riva all’Adige: nel nome di Sandrine Bakayoko, la 25enne ivoriana stroncata il 2 gennaio nel bagno del "campo" che ospita oltre un migliaio di migranti all’ex base Silvestri di Conetta. In mezzo alla piccola folla anche Mohammed, il compagno della ragazza che dopo il ricordo pubblico (organizzato da "Bassa padovana accoglie") verrà finalmente tumulata, grazie alla disponibilità di Davide Gianella, sindaco di Piove di Sacco, che ha firmato la deroga al regolamento comunale. Intanto il "caso Cona" approda a Strasburgo: alla Corte europea dei diritti dell’uomo sono formalmente ricorsi quattro migranti (di cui tre minorenni) con il supporto legale di Asgi, Giuristi Democratici, Melting Pot Europa, Campagna LasciateCIEntrare. Hanno denunciato le "condizioni inumane e degradanti di accoglienza". Così la Corte ha già disposto che il governo Gentiloni "fornisca informazioni sulla natura della struttura di accoglienza, sulle condizioni lamentate, sulla presenza di minori e sulle misure eventualmente adottate a loro tutela". La prefettura di Venezia, proprio domenica mattina, ha provveduto a trasferire i tre minori in un’altra struttura. Tuttavia, un effettivo "censimento" all’interno dell’ex base di Conetta potrebbe confermare la presenza di altri minorenni con il conseguente rischio di sanzioni europee nei confronti dell’Italia. Il contenzioso legale fa il paio, del resto, con la vera e propria "vertenza" aperta da mesi nei confronti della coop Edeco-Ecofficina, che gestisce anche analoghi centri nel Padovano e nel Trevigiano. In prima fila Giovanni Paglia (deputato Sinistra Italiana) presente anche durante il sopralluogo di Nicola Fratoianni due settimane fa. "Tutto quello che è successo poteva essere evitato: a novembre abbiamo visitato il Cpa di Cona e presentato un’interrogazione parlamentare al ministro dell’Interno in cui denunciavamo gravissime carenze strutturali: sovraffollamento, condizioni di vita insostenibili, circa il 50% degli oltre mille ospiti analfabeti a fronte di 73 tirocini formativi, difficoltà di garantire assistenza sanitaria, un centro considerato di transito dove risiedevano persone da ben oltre 12 mesi", ricorda. E ora il regista Andrea Segre, che aveva lanciato l’appello per la cerimonia pubblica in ricordo di Sandrine, afferma: "Non si tratta di essere pro o contro l’accoglienza, ma di come farla. Vanno chiusi i posti dove c’è eccessiva concentrazione e vanno creati progetti diffusi che permettono di stare in luoghi più umani come appartamenti e case. Servono forme di accoglienza che creano e continuano a creare lavoro, eliminando le formule di appalto "in grande" che oltre a produrre condizioni disumane inducono anche, la magistratura ce l’ha detto, profitti "inadeguati", se non addirittura meccanismi di corruzione". Sabato a Padova è già in programma un’assemblea di coordinamento della "rete" di associazioni, amministratori, volontari che hanno assunto come impegno la chiusura dei "lager" nel cuore del Veneto. Infine, va segnalato il ricovero per sospetta meningite (per altro, già verificato non contagiosa) di un migrante bengalese di 19 anni. Alle 19 di sabato è scattato l’intervento del Suem-118: nella nebbia, l’ambulanza è arrivata in mezz’ora a Conetta. In infermeria, il ragazzo era assopito con la febbre e decisamente in condizioni urgenti. Tant’è che dal pronto soccorso di Piove di Sacco è stato trasferito al reparto di Malattie infettive dell’Azienda ospedaliera di Padova, che ha attivato tutte le procedure necessarie. Italiano morì in un carcere messicano: "tre giorni senza acqua, cibo e cure mediche" di Chiara Spagnolo La Repubblica, 17 gennaio 2017 Le motivazioni della sentenza con la quale i giudici di Lecce hanno condannato cinque dipendenti del carcere di Playa Del Carmen. Dai magistrati una lettura innovativa del concetto di tortura. Recluso in una cella del carcere messicano di Playa Del Carmen per tre giorni, senza acqua né cibo e con una grave disfunzione epatica in corso: così fu torturato e ucciso Simone Renda, il bancario leccese che il 3 marzo 2007 fu trovato cadavere nel penitenziario. La Corte d’assise di Lecce ha depositato le motivazioni della sentenza con cui il 15 dicembre un giudice, due vicedirettori del carcere e tre agenti furono condannati a pene tra i 21 e i 25 anni per omicidio volontario. Nelle sessantanove pagine a firma del giudice estensore Francesca Mariano e del presidente Roberto Tanisi, si dà una lettura innovativa del concetto giuridico di tortura, contenuto nelle Convenzioni internazionali alle quali l’Italia ha aderito. "La tortura non deve essere concepita solo come l’aguzzino che infligge sofferenze all’arrestato - è scritto - ma come qualunque forma di sofferenza fisica e psichica indotta verso un soggetto privato della libertà personale per ragioni di giustizia, che ha diritto di essere trattato nel rispetto della dignità della persona". Cosa che, evidentemente, non accadde a Simone Renda. Il turista fu trovato in stato confusionale nella sua camera d’albergo a Playa del Carmen il primo marzo e arrestato per un non meglio precisato disturbo alla quiete pubblica. Derubato di portafogli e carta di credito fu portato in carcere - con un buco di un’ora nella ricostruzione dei fatti, in cui potrebbero essere stato picchiato, come dimostrerebbero alcune ferite alla testa e a un braccio - e lì abbandonato in isolamento, nonostante un medico ne avesse constatato il malessere e disposto il ricovero per effettuare elettrocardiogramma e altri accertamenti. "Ma un giovane uomo, in condizioni fisiche visibilmente compromesse - spiegano i giudici - descritto come poco lucido e orientato al momento dell’arresto e con una sospetta crisi cardiaca in atto, non poteva essere gettato in una cella e dimenticato, né lasciato senza acqua e cibo per tante ore". Ad uccidere il leccese non fu un infarto - come indicato dall’autopsia messicana - ma un’insufficienza epatica e poi renale che, a detta del medico legale Alberto Tortorella, "si sarebbe potuta evitare con una rapida terapia infusionale". Simone, insomma, poteva essere salvato: "se fosse stato supportato da cure adeguate non sarebbe morto", così come ha sempre sostenuto la madre, Cecilia Greco, che per dieci anni ha portato una battaglia giudiziaria per ottenere la verità. E, alla fine, è arrivata la condanna per sei degli otto imputati individuati dalla pm Angela Rotondano e che, secondo la Corte, "con le loro varie condotte produssero una sofferenza psico-fisica di portata indicibile, qualificabile come tortura secondo i parametri internazionali, perché sofferenza di tale intensità da portare la vittima alla morte". Turchia. Erdogan incassa una Costituzione a misura di sultano di Andrea Milluzzi Il Dubbio, 17 gennaio 2017 C’è il primo ok del Parlamento alla controversa riforma che dà pieni poteri al presidente. Non sono bastate le risse in aula né le manifestazioni fuori dal Parlamento a fermare la riforma della Costituzione turca voluta dal presidente Recep Tayyp Erdogan. I sei giorni spesi a discutere i 18 articoli da modificare si sono conclusi domenica con l’approvazione del pacchetto. La riforma avrà bisogno di una seconda lettura, in programma da domani, prima di essere sottoposta al referendum già in primavera. La nuova Costituzione cambierebbe in senso presidenzialista l’ordinamento istituzionale del Paese. Per la prima volta dal 1982, anno in cui la Turchia adottò la Costituzione, sparirebbe la figura di primo ministro e il potere esecutivo ricadrebbe tutto sul Presidente della Repubblica e il suo vice (o più di uno). Il presidente avrebbe fra le sue prerogative la nomina e la revoca dei ministri, l’emanazione di decreti legge e la possibilità di "interferire e controllare" l’operato della magistratura. Il nuovo capo dello Stato potrebbe essere eletto per due mandati consecutivi, della durata di cinque anni l’uno e non quattro come adesso, e, a differenza di adesso, potrebbe avere legami con un partito politico. Considerato che se passasse la riforma le prossime elezioni si terrebbero in contemporanea con quelle parlamentari del novembre 2019, e che il conteggio inizierebbe con il nuovo presidente, Erdogan rischia di rimanere al comando della Turchia fino al 2029, dopo aver ricoperto il ruolo di primo ministro dal 2003 al 2014 e di presidente della Repubblica da allora. Da qui le paure dell’opposizione e dei manifestanti dispersi con gas lacrimogeno e cannoni d’acqua insieme ai loro cartelli "no all’uomo solo al comando". Voci contrarie si sono alzate anche dalla società civile, come l’appello di 62 ex diplomatici: "La Repubblica turca perderà i suoi requisiti di stato democratico, laico e basato sullo stato di diritto se questa proposta verrà approvata". La riforma è passata con 344 voti favorevoli, più dei tre quinti necessari a indire il referendum. La soglia è di 330 parlamentari su 550 e l’Akp, il partito di Erdogan, ne ha 316 che senza l’apporto dei 39 nazionalisti dell’Mhp non sarebbero stati sufficienti. Ben poco hanno potuto fare i repubblicani del Chp e i curdi del- l’Hdp, rispettivamente secondo e terzo partito. "Questa riforma esporrà la Turchia a problemi ancora più profondi" ha detto il leader del Chp Kemal Kiliçdaroglu, mentre Selahattin Demirtas e altri 11 parlamentari dell’Hdp non hanno potuto partecipare al voto perché agli arresti con l’accusa di favorire il terrorismo. Anche per questo il partito filocurdo Hdp sta boicottando i lavori parlamentari. La macchina del Sultano si è messa in moto, e da tempo. L’inatteso exploit dell’Hdp nelle ultime elezioni ha solo rallentato il ritmo dell’Akp, che ha trovato nell’alleanza con i nazionalisti la soluzione ai numeri mancanti. Dopo il presunto golpe fallito del luglio scorso si è creato un nuovo clima di repressione, controllo e retorica nazionalista che ha partorito uno stato d’emergenza che non è ancora terminato. In questo quadro è passato, contemporaneamente alla riforma costituzionale e un po’ sotto traccia, un decreto legge sul diritto alla cittadinanza. Erdogan e i suoi hanno rispolverato un vecchio decreto della giunta militare degli anni 80 (che proprio l’Akp osteggiò e abolì nel 2009) secondo cui le persone che si trovano all’estero e sono indagate dalla magistratura turca perdono il diritto alla cittadinanza se non fanno rientro in patria entro 90 giorni. Nello stesso decreto, chiaramente rivolto contro Fetullah Gulen, il nemico giurato di Erdogan, si prevede il diritto alla cittadinanza per gli stranieri che abbiano acquistato proprietà in Turchia dal valore di almeno un milione di dollari, abbiano fatto investimenti per due milioni, conservino almeno 3 milioni nelle banche turche o abbiano creato 100 posti di lavoro. Oltre che "prevenire un altro colpo di Stato", probabilmente Erdogan spera che queste nuove misure lo aiutino a uscire da una recessione feroce e galoppante. Spagna. A Bilbao 80mila in marcia per i diritti umani dei detenuti baschi di Enrico Baldin popoffquotidiano.it, 17 gennaio 2017 Un fiume di gente ha attraversato Bilbao per denunciare le condizioni di detenzione dei detenuti baschi, torturati e dispersi nelle prigioni dello stato spagnolo. La ferocia di Rajoy, la timidezza di Podemos. "Diritti umani, soluzione, pace. I prigionieri baschi nei paesi Baschi": questo lo striscione che apriva il corteo di Bilbao. Come da alcuni anni a questa parte, ogni gennaio si tiene la consueta grande manifestazione carica di significato politico, sociale e anche emotivo. Le emozioni in effetti non possono mancare, per un fenomeno che - a ragion veduta e numeri alla mano - non si potrebbe di certo definire irrilevante. In genere si è abituati a pensare ai detenuti come una parte marginale della società, anche per rilevanza numerica. Nei Paesi Baschi invece è difficile trovare qualcuno che non conosca almeno una persona, un familiare o un conoscente, che non sia stato detenuto. La manifestazione convocata anche quest’anno dalla piattaforma Sare punta specialmente su una questione sentita e condivisa da larghissima parte della società basca. Il problema infatti non è soltanto quello delle misure repressive applicate dallo Stato spagnolo. È anche lo status dei detenuti. Una storia che si protrae da decenni, dal regime franchista a quello post franchista. Euskal Herria è una terra in cui associazionismo e impegno civile sono una continua primavera: un pezzo importante dell’associazionismo basco si pone il problema dei detenuti. Ci sono organizzazioni che riuniscono i familiari dei detenuti, altre che studiano il fenomeno carcerario. Euskal Memoria per esempio è una sorta di centro studi che alcuni mesi fa ha pubblicato una dettagliata ricerca sul fenomeno della tortura dal 1947 in poi, certificando oltre cinquemila casi di tortura e solo 62 torturatori condannati, a testimonianza della sostanziale impunità di cui godono. Etxerat invece raggruppa i familiari dei prigionieri baschi. Ieri i membri di Etxerat dicevano che questo è l’unico fine settimana dell’anno in cui i loro congiunti non riceveranno la loro visita in carcere. Oltre che sulla tortura si punta il dito in particolar modo sulla dispersione dei prigionieri politici, incarcerati a centinaia e centinaia di km da casa, fuori Euskal Herria, dall’altra parte della Spagna e a volte pure all’estero, in Francia. La politica della dispersione pare voler portare allo sfinimento non solo i carcerati ma anche i loro familiari costretti mediamente, per un’ora di colloquio a settimana, a oltre 500 km all’andata e altrettanti al ritorno. Etxerat ha denunciato anche in passato che la tanta strada ha portato anche ad alcuni incidenti mortali nel tragitto. Il PP di Rajoy però anche a queste richieste ha sempre fatto spallucce. Non si tratta solo dell’avversione politica di Madrid alle rivendicazioni basche. È anche la scelta del PP di continuare a cercare nel resto del territorio spagnolo, una rendita di posizione dalla manifesta avversione a qualsiasi richiesta proveniente da settori sociali che possano avere un qualche collegamento con ETA. Il PP che in Spagna governa grazie anche ai voti di un PSOE sempre più in crisi di identità, in questi anni ha sempre affossato il tentativo di soluzione di quel conflitto che si è lasciato alle spalle una lunghissima scia di sangue e sofferenze. Il PP infatti era il principale bersaglio della manifestazione di ieri a cui hanno partecipato 80mila persone. Nelle vie principale di Bilbao, col sole che tramontava lasciando spazio alla suggestione di luci della città, il passo era pacifico e silenzioso. La televisione basca EITB dava conto dello svolgimento del corteo intervistando i portavoce organizzativi e raccogliendo testimonianze di partecipanti. Ma a farsi notare, oltre alle tante presenze, erano anche le assenze. Il leader di Sortu Arnaldo Otegi si trovava a Berlino alla "Conferenza Rosa Luxemburg": di fronte ad ospiti internazionali relazionava sullo stato dei detenuti baschi, ricordando di aver passato otto degli ultimi dieci anni in carcere. In questo tempo, racconta Otegi, non aveva potuto stare vicino a sua madre durante i suoi ultimi mesi di vita. Il partito di Otegi, come tutta la sinistra basca che costituisce il cartello EH Bildu, hanno aderito alla manifestazione, non mancando di polemizzare con Podemos e il Partito Nazionalista Basco (PNV) che invece avevano deciso di non aderire. "Così danno una mano al Partito Popolare" aveva detto Otegi negli scorsi giorni. In realtà a tempo quasi scaduto era arrivato un tweet del segretario politico di Podemos, Inigo Errejon, che a poche ore dalla partenza del corteo dichiarava il suo sostegno alla causa. Il corteo terminava nella piazza davanti al municipio di Bilbao. "Che questa sia l’ultima volta che manifestiamo per i diritti umani di chi sta in carcere" hanno detto gli organizzatori al microfono dal palco. In un paese democratico i diritti civili non dovrebbero essere oggetto di discussione. Stati Uniti. Obama intende commutare pena di centinaia di detenuti condannati per droga aduc.it, 17 gennaio 2017 Il presidente uscente degli Stati Uniti, Barack Obama, intende commutare la pena di altre centinaia di detenuti. Usa in carcere per reati di droga prima della scadenza del suo mandato alla Casa Bianca, venerdì prossimo. Il dipartimento di Giustizia Usa ha annunciato ieri di aver completato l’esame di 16 mila domande di clemenza presentate da altrettanti detenuti delle prigioni federali nell’arco degli ultimi due anni, e di aver inviato raccomandazioni al presidente per la commutazione di centinaia di sentenze legate a reati non violenti. Il procuratore incaricato delle amnistie, Robert A. Zauzmer, non si è concesso un solo giorno di ferie dallo scorso febbraio 2016 per riuscire esaminare le domande arretrate prima della conclusione del mandato di Obama. Nei mesi scorsi il presidente uscente ha comminato la pena di centinaia di detenuti condannati per reati di droga non violenti. In un editoriale non firmato, la direzione del "New York Times" critica però il presidente per le sole 148 grazie concesse nell’arco dei suoi otto anni di mandato: un numero insignificante, sostiene l’editoriale, per un presidente che ha messo al centro della sua retorica la necessità di concedere una seconda possibilità ai condannati esclusi dalla società. Bahrain. Dopo le esecuzioni pugno duro di Re Hamad con gli oppositori di Michele Giorgio Il Manifesto, 17 gennaio 2017 Stampa sotto pressione. La monarchia sunnita intensifica la repressione per contenere le proteste seguite all’esecuzione di tre bahreiniti accusati di aver ucciso tre poliziotti nel 2014. L’ordine di non postare in rete altri aggiornamenti è giunto ieri nella redazione di al Wasat, l’unico quotidiano indipendente del Bahrain, intorno alle 19. "La polizia ci ha ordinato, per ragioni di sicurezza nazionale, di non aggiornare più il sito e di interrompere il nostro flusso di informazioni sui social. Temiamo una svolta ancora più autoritaria, anche contro la stampa", ha detto al manifesto una giornalista di al Wasat chiedendoci di non rivelare la sua identità. Timore giustificato anche dall’apertura poche ore prima del processo nei confronti della giornalista Nazeeha Saeed, di France24 e Radio Montecarlo, accusata di aver lavorato per testate straniere senza autorizzazione. Notizie che hanno appesantito una giornata di tensione altissima, con le forze di sicurezza schierate ovunque in questo minuscolo arcipelago del Golfo, posto in una posizione strategica, di fronte alle coste saudite e non lontano da quelle dell’Iran. La tensione è riesplosa due giorni fa quando sono state eseguite tre condanne a morte, le prime di cittadini bahreiniti dal 1996. Ali al Singace, 21 anni, Abbas al Samea, 27, e Sami Mushaima, 42, tutti e tre sciiti, sono stati giustiziati perché ritenuti dai giudici gli autori nel 2014 di un attacco con un ordigno contro una pattuglia della polizia costato la vita a tre agenti, uno dei quali appartenente alle unità speciali inviate nel 2011 dagli Emirati arabi uniti in appoggio di re Hamad bin Isa al Khalifa alle prese con la rivolta di Piazza della Perla, a Manama. I tre, originari del villaggio di Sanabis, sono stati sepolti nel cimitero di Mahooz, ad appena due km di distanza dalla base della V Flotta americana. Re Hamad che si proclama vittima di un "complotto sciita iraniano", non ha mostrato clemenza. È dallo scorso giugno che usa il pugno di ferro contro ogni tipo di opposizione. Ha fatto revocare la nazionalità alla guida religiosa sciita Shaykh Isa Qassim, poi ha bandito il principale partito di opposizione, al-Wefaaq, e ha fatto arrestare il noto attivista dei diritti umani Nabeel Rajab. Una dissidente, Zeinab al Khawajah, è stata costretta all’esilio. Ali Salman, leader di al-Wefaaq, sconta in carcere una condanna a nove anni. Gli scontri tra dimostranti e polizia vanno avanti da domenica sera, nella capitale Manama e nei centri abitati a maggioranza sciita. I dimostranti ieri avrebbero dato fuoco alla sede della municipalità settentrionale. Nel villaggio di Diraz dove più di frequente la polizia lancia i suoi raid, le condizioni di vita della popolazione sono insostenibili, denunciano gli abitanti. Di fronte a ciò l’Amministrazione Obama e l’Ue restano in silenzio, per interessi strategici e perché l’alleata Arabia saudita, protettrice del Bahrain, sostiene che le tensioni nel Golfo sono frutto della "sedizione fomentata dall’Iran". Re Hamad mantiene rapporti stretti con Londra. Negli ultimi due mesi hanno visitato il Bahrain il principe Carlo, la premier Theresa May e il ministro degli esteri Boris Johnson, mostrandosi sempre calorosi nei confronti del monarca bahreinita. Egitto. Oggi l’ennesima udienza per il fotoreporter Shawkan di Riccardo Noury Corriere della Sera, 17 gennaio 2017 Il pomeriggio del 27 dicembre 10 degli oltre 730 imputati del maxiprocesso del Cairo per i fatti dell’agosto 2013 sono stati rilasciati in attesa di giudizio per motivi di salute. Della lista non faceva parte Mahmoud Abu Zeid, meglio conosciuto come Shawkan, il fotoreporter dell’agenzia londinese Demotix, che infatti attende oggi la nuova udienza. Shawkah, 29 anni, è stato arrestato il 14 agosto 2013 mentre stava scattando fotografie in uno dei giorni più bui della storia recente dell’Egitto. Quel giorno, le forze di sicurezza dispersero con estrema violenza il sit-in della Fratellanza musulmana in piazza Rabaa al-Adaweya, uccidendo oltre 600 persone. Shawkan, in carcere ormai da tre anni e cinque mesi e del quale hanno chiesto la liberazione anche i genitori di Giulio Regeni, rischia una condanna all’ergastolo per questo lungo elenco di pretestuose accuse: "adesione a un’organizzazione criminale", "omicidio", "tentato omicidio", "partecipazione a un raduno a scopo di intimidazione, per creare terrore e mettere a rischio vite umane", "ostacolo ai servizi pubblici", "tentativo di rovesciare il governo attraverso l’uso della forza e della violenza, l’esibizione della forza e la minaccia della violenza", "resistenza a pubblico ufficiale", "ostacolo all’applicazione della legge" e "disturbo alla quiete pubblica". Il suo unico "reato" è aver fotografato il primo sanguinoso atto di repressione dopo il colpo di stato di Abdel Fattah al-Sisi. Di rinvio in rinvio, la detenzione preventiva di Shawkan ha superato ampiamente il massimo di due anni consentito dalla legge egiziana. Le sue condizioni fisiche non sono buone e nelle fotografie scattate nel corso delle ultime udienze è apparso emaciato e affaticato. In carcere ha contratto l’epatite C e ma per almeno 20 volte la richiesta di scarcerazione per motivi di salute è stata respinta.