Alle associazioni che parteciperanno alla "Giornata di dialogo contro la pena di morte viva" Ristretti Orizzonti, 16 gennaio 2017 Alle associazioni che parteciperanno alla Giornata di dialogo contro la pena di morte viva, il 20 gennaio 2017 nella Casa di reclusione di Padova. Gentili Associazioni, a chi arriva a Padova il giorno 19 proponiamo di incontrarci nella nostra sede a Casa Comboni, via Citolo da Perugia, 35 (dieci minuti dalla Stazione) alle 20.30 e mangiare insieme (organizzeremo una "cena volante" a base di pizze). Saranno presenti anche alcuni famigliari di detenuti. Questo ci permetterà di scambiare opinioni sulla Giornata di dialogo Contro la pena di morte viva, e mettere le basi per il lavoro che vorremmo fare insieme, in particolare per far funzionare l’osservatorio su pene lunghe, ergastolo, circuiti di Alta Sicurezza, 41 bis. Riteniamo particolarmente importante incontrarci prima, perché non vogliamo che la Giornata si concluda come una qualsiasi iniziativa che finisce alle ore 17 del 20 gennaio, vogliamo che sia l’inizio di un lavoro comune, vogliamo che si apra una stagione nuova in cui lavoriamo insieme perché finalmente "i tempi siano maturi" per abolire l’ergastolo e pensare a pene più umane. E poi proponiamo che, oltre ai grandi obiettivi che ci accomunano, a partire dalla lotta contro l’ergastolo ostativo, si lotti insieme per i piccoli obiettivi della quotidianità, nella consapevolezza che la vita detentiva può cambiare da subito, per TUTTI, quindi per i detenuti comuni e per i detenuti reclusi nei circuiti, e non a caso le Regole penitenziarie europee ricordano (regola 103.8) che "un’attenzione particolare deve essere prestata al programma di trattamento e al regime dei condannati a vita o a pene lunghe". A Padova venerdì 20 gennaio ci saranno gli interlocutori giusti, primi fra tutti i dirigenti dell’Amministrazione penitenziaria, ai quali cominciare a chiedere delle risposte chiare su questi temi. Comunicate alla mail progetti.ristretti@gmail.com se pensate di partecipare. La Redazione di Ristretti Orizzonti Per qualche metro e un po’ d’amore in più Il Mattino di Padova, 16 gennaio 2017 Un volume di 400 pagine e 200 testimonianze sul tema degli affetti in carcere. Un lungo percorso ha portato all’imminente pubblicazione (20 gennaio 2017) del nuovo volume dell’associazione Granello di Senape: "Per qualche metro e un po’ d’amore in più. Raccolta disordinata di buone ragioni per aprire il carcere agli affetti", a cura di Angelo Ferrarini, introduzione di Ornella Favero, Turato Editore Rubano (15 €). Nel 2014 la Redazione di Ristretti Orizzonti aveva discusso sul tema "affetti e carcere", pubblicato testi sulla sua rivista, coinvolto gli studenti, bandito un concorso e una raccolta di firme e organizzato un convegno sullo stesso tema: "Per qualche metro e un po’ d’amore in più nelle carceri". "Salvare e liberare" gli affetti delle persone detenute significava, e significherà sempre, anche un "investimento sulla sicurezza, perché solo mantenendo saldi i legami dei detenuti con i loro cari, genitori, figli, coniugi, sarà possibile immaginare un reinserimento nella società al termine della pena". Dal convegno si è sviluppato un Manifesto, base e guida del concorso che ne è seguito: alcune proposte concrete per rendere il carcere "più umano", per modificare tempi e frequenze delle telefonate, per realizzare migliori sale colloqui, con una attenzione adeguata alle esigenze di anziani e bambini; una maggiore trasparenza sui trasferimenti, che dovrebbero essere ridotti al minimo, rispettando i principi della vicinanza alle famiglie. Indispensabile poi costruire reali percorsi di reinserimento sul territorio. Il bando omonimo invitava a riflettere sul tema "carcere e affetti". Erano previste tre sezioni: testimonianze delle persone detenute, di familiari, e testi scritti dai ragazzi delle scuole. Nel 2015 sono arrivati 300 tra testi e materiali, da 60 carceri italiane, da una ventina di scuole venete, da volontari, docenti universitari, ricercatori, molti famigliari, figlie, mogli, compagne. Spesso uno risponde all’altro, una poesia dilata una riflessione, una denuncia chiarisce una lettera e completa le domande aperte o altre ne aggiunge, dirette e gravi: "È questa la Costituzione italiana che ci fa onore?", oppure: "Perché non possiamo imitare gli altri stati europei?" o, come scrive Lorenzo, "perché devono pagare anche le famiglie?". Alcuni testi venivano intanto pubblicati sul "Mattino", "Ristretti" e "L’Impronta" (rivista del carcere di Venezia). All’inizio del 2016, dopo un’ulteriore revisione, per i 207 testi rimasti cominciava il lavoro editoriale affidato ad Angelo Ferrarini, esperto di scrittura del laboratorio di "Ristretti", con sistemazione in unico ordine alfabetico, commento o note ai testi, più indici e un’appendice di materiali e riferimenti legislativi. Il corposo volume - vero codice di esperienze, vite, riflessioni - arriva dunque in stampa a due anni dal bando grazie anche ai circa cento donatori del crowfunding organizzato per l’occasione sulla piattaforma "Produzioni dal basso" sostenuta da Banca Etica. Il tutto a cura di detenuti e volontari che seguono da anni le iniziative dell’Associazione "Granello di Senape", con varie attività presso il Carcere di Padova e sul territorio (rivista, rassegna stampa, newsletter, TG 2 Palazzi, laboratorio di scrittura, incontri con le Scuole, attività di mediazione…). Il sottotitolo definisce la natura particolare del libro, come spiega Ornella Favero, direttrice di Ristretti Orizzonti, nell’introduzione, "Questo libro abbiamo voluto definirlo una raccolta disordinata di testi proprio perché c’è disordine in tutto quello che riguarda il carcere, ma è un disordine che qualche volta va salvato per opporsi a chi vorrebbe "riordinare" le vite difficili in modo da averle sotto controllo. Quando abbiamo iniziato la campagna sugli affetti, non ci aspettavamo di ricevere quella valanga di testi che ci ha invece sommerso in tempi brevissimi: testi scritti a mano, poesie, racconti, lettere, narrazioni autobiografiche; testi scritti da una platea allargata di persone che in qualche modo sono state "toccate" dal carcere, detenuti, figli, fratelli, amici, operatori, volontari. Quel disordine, che abbiamo voluto mantenere nel libro, offre così il quadro dettagliato del disastro degli affetti in carcere, un disastro con tante sfumature, ma una unica origine: quella di un Ordinamento penitenziario, che all’articolo "Rapporti con la famiglia" riserva in tutto diciannove parole: "Particolare cura é dedicata a mantenere, migliorare o ristabilire le relazioni dei detenuti e degli internati con le famiglie". Il carcere in realtà stritola le famiglie, spesso già umiliate e provate dall’aver attraversato tutto il "prima della galera", con l’arresto, gli articoli sulle pagine della cronaca nera dei giornali, il processo". Tra le testimonianze che non mancheranno di toccare i lettori abbiamo voluto anticipare alcuni brani, che danno la natura degli interventi. Un primo tipo di testi - come quello di Alfredo S. - chiarisce le ragioni della campagna e della denuncia: "Parlare di affetti non è facile per un detenuto: il carcere è prima di tutto distruzione sociale, famigliare e personale di chi ha commesso reato, e privare dell’affettività sembra essere la punizione adeguata per qualunque reato commesso. La pena da infliggere, così pensata, non punisce soltanto il detenuto, ma tutta la sua famiglia: padre, madre, fratelli, moglie e figli". C’è chi affida la sua testimonianza a una comunicazione più poetica: "Fuori dalle mura un esercito silenzioso, coraggioso nelle proprie dolenze, muove i passi con i pacchi per i colloqui, novelli Re Magi; donne madri, mogli, figlie, in fila, quasi un lungo cordone ombelicale collegato alle mura, una dura placenta che alimenta e sostiene e nutre i corpi e gli spiriti che vi sono rinchiusi. Non ho avuto mia figlia tra le braccia, la sento crescere al telefono, sento la sua voce tra le altre: venti minuti al mese sono quattro ore l’anno. Una goccia è cosa le ho detto, un oceano le cose taciute. Le ho appena scritto, nel tentativo di stabilire un ponte, che mi è sempre mancata ed ho temuto a tal punto di perderla che l’ho perduta" (Carmelo L.). E poi ci sono gli ultimi, nella scala dell’interesse che la società dimostra nei confronti di detenuti e famiglie, i "figli del 41-bis", cioè di quei detenuti rinchiusi in un regime detentivo particolarmente duro. Qualcosa andrà fatto anche per loro, non certo quel trattamento disumano che ora gli è riservato, un’ora al mese di colloquio con il loro padre, separati da un vetro, e solo per i minori di dodici anni la possibilità di un abbraccio e un contatto fisico negli ultimi dieci minuti del colloquio... Il volume parla anche di legislazione per le detenute madri, tempi e condizioni di riscatto, rieducazione, ripresa, come viene chiamato il cammino che passa anche per scuole, attività, lavoro, corsi. La sua attualità durerà a lungo, purtroppo, perché le circa duecento carceri italiane, con le loro mura antiche o la dislocazione lontano dai centri, devono fare ancora tanta strada per diventare vere "case" come la legge del 1975 ha voluto chiamarle. Venerdì 20 gennaio le prime trecento copie del volume usciranno sui tavoli del Convegno dedicato all’ergastolo e agli affetti all’interno della Casa di Reclusione Due Palazzi. La presentazione ufficiale si terrà invece in un istituto scolastico padovano, una di quelle scuole cha ha partecipato in questi anni al lungo percorso "Il carcere entra a scuola, le scuole entrano in carcere" con migliaia di studenti all’anno, nel contatto e ascolto dei detenuti e della loro dura e lenta risalita. Il volume ha anche una sua attualità in questo momento in cui l’Italia si interroga sulla rete del terrorismo. C’è una rete degli affetti, fatta di attività di gruppo, di trattamenti umani e di lavoro, di offerte culturali, a favore dei detenuti più esposti e con meno affetti, i giovani stranieri, spesso sbandati da percorsi di droga. Un lavoro lungo ma a rendimento sicuro, con i contatti, con la fiducia, togliendo l’isolamento attorno ai giovani soprattutto. In queste iniziative che riguardano il carcere il cittadino si chiede sempre quale attenzione venga dedicata alle vittime. È giusto ricordarle sempre - sottolineano a Ristretti: per noi sono sempre al centro delle nostre riflessioni sulla responsabilità, nei convegni, negli incontri con le scuole, nei seminari espressamente dedicati alla mediazione tra vittime e autori di reato. Isis, nelle carceri arriva l’esperto. Una guida per individuare chi fa proselitismo di Marzia Paolucci Italia Oggi, 16 gennaio 2017 Sbai, ex vicepresidente dell’Ucoii, darà una mano alla Polizia penitenziaria. Sfuggire gli altri, isolarsi, diffondere versetti del Corano estrapolati dal contesto, usare la scusa delle pratiche religiose per sottrarsi a interrogatori giudiziari, colloqui e ai propri oneri durante l’inevitabile restrizione della libertà personale che la vita carceraria comporta. Sono i campanelli d’allarme contro il pericolo di proselitismo e radicalizzazione al terrorismo di matrice islamica che la nostra polizia penitenziaria deve imparare a riconoscere, intercettare e segnalare in tempo tra i circa 6 mila detenuti di fede islamica presenti sul nostro territorio. Più che una sfi da, un’impresa da funamboli a cui il Ministero della giustizia prova a dare una prima risposta chiamando in causa l’Unione delle comunità islamiche in Italia e quello che ne è stato il vicepresidente: Youssef Sbai, un professionista di fede islamica originario del Marocco e da 34 anni in Italia, incaricato di aiutare la polizia penitenziaria a relazionarsi al meglio con i detenuti di fede islamica e al contempo riconoscere eventuali casi di proselitismo e radicalizzazione nelle carceri, luoghi di possibile coltura del fondamentalismo. L’uomo, 56 anni, ex vicepresidente nazionale dell’Ucoii, insegnerà agli agenti penitenziari come si riconoscono proselitismo e radicalizzazione in quella che il Papa ha di recente definito "una terza guerra mondiale a pezzi" contro l’Isis, l’Organizzazione terroristica autoproclamatasi nel 2014 Stato islamico dell’Iraq e della Siria ma nata in Iraq al meno dieci anni prima. Si tratta del primo esponente di fede musulmana diventato docente di islamologia nelle scuole italiane di Polizia penitenziaria. Profondo conoscitore del pensiero islamico, ha così spiegato il suo compito: "L’esigenza è doppia: permettere ai detenuti di fede musulmana di praticare liberamente la loro religione spiegando al personale di polizia i loro reali diritti e fornire poi ai secondini gli strumenti per capire quando la religione viene strumentalizzata. Un esempio: frequento molte carceri di tutta Italia, dove a volte vengo chiamato come Imam e ho incontrato molti detenuti furbi che utilizzano l’ora di preghiera per sottrarsi ai propri doveri, agli incontri con i pm, agli interrogatori. Non esiste un’ora precisa per la preghiera: si parla di archi temporali, che variano a seconda delle stagioni e che il personale penitenziario deve conoscere, per evitare di essere gabbato. Il mio compito è insegnare le basi della religione musulmana, per evitare che i detenuti possano raccontare ciò che vogliono". Nelle carceri - ritiene Sbai - i sermoni del venerdì dovrebbero essere pretesi in lingua italiana, i problemi nascono quando i detenuti nominano un imam interno, che è lui stesso un detenuto che vive la religione da una prospettiva di carcerazione. Un quadro che non definirei pericoloso, ma problematico. Questo insegno, a capire comportamenti e sfumature di pensiero. La conoscenza è la chiave non soltanto per l’integrazione ma anche per la pace". E apprezzamento per la scelta del Ministero, arriva anche dall’Associazione Antigone attraverso la voce del suo presidente Patrizio Gonnella: "Il rischio radicalizzazione", dichiara, "si combatte solamente attraverso l’applicazione degli standard internazionali del Consiglio d’Europa e cioè attraverso il riconoscimento dei diritti religiosi, degli stranieri, da accompagnare ad una costante informazione, possibile solo attraverso un staff specifico fatto di mediatori culturali e linguistici. Oggi", denuncia, "anche nei reparti dove sono reclusi detenuti sospettati di terrorismo di matrice islamica, nessun operatore parla e legge l’arabo, vivendo così nell’impossibilità di capire e dialogare con queste persone. Inoltre, salvo rarissime circostanze, gli Imam non sono abilitati a entrare negli istituti di pena italiani. Questo porta i detenuti stessi a scegliere tra loro chi debba guidare la preghiera, senza alcuna garanzia rispetto a quanto viene professato. La presenza del ministro di culto porterebbe invece in carcere un Islam aperto e democratico". Isis, in carcere le voci dell’odio: "Deve scoppiare tutta l’Italia" di Gian Micalessin Il Giornale, 16 gennaio 2017 Rapporto dell’intelligence su imam e detenuti radicalizzati. La gioia dopo gli attentati in Europa: "Facciamoli fuori". "Se dovesse passare un agente di custodia, una donna, un medico, questi non sono nulla davanti a Dio. L’agente di custodia è un cane infedele e finirà all’inferno". Sono le voci dell’odio. Voci che riecheggiano quotidianamente dietro le sbarre delle nostre prigioni. Incoraggiate da alcuni dei 148 sedicenti imam che predicano nelle carceri e vengono identificati nel documento del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria di cui il Giornale pubblica alcuni stralci. Ma quelle voci non sono vacue esternazioni. Come spiega l’"Analisi di contesto e scenario 2016" sul fenomeno della radicalizzazione nelle carceri, quelle parole e quelle tesi servono a manipolare i detenuti musulmani "convincendoli a odiare coloro che professano altre fedi religiose". Per capirlo ecco i passi di una "preghiera collettiva", citata nel documento, in cui un imam, ascoltato e registrato dal Nucleo Investigativo Centrale invita a denunciare i collaboratori delle forze dell’ordine e a mantenere atteggiamenti omertosi. "Chi collabora con le forze dell’ordine come informatore, devi raccontare quello che ha fatto. Mentre chi ruba, dice bugie, fa un omicidio, tu non devi andarlo a raccontare. Imparate a non raccontare i fatti dei vostri fratelli". Lo stesso imam in un’altra parte della predica insegna a disprezzare la civiltà europea. "In tutta l’Europa non c’è pudore né rispetto, è pieno di malattie e d’immoralità". Passaggi che gli analisti del Dap interpretano come "un chiaro esempio d’intolleranza per qualsiasi religione che non sia quella musulmana", per far capire che "chiunque non sia seguace di questo culto è un miscredente, un alleato di Satana e pertanto un nemico di Dio". La radicalizzazione passa insomma attraverso le prediche dell’odio disseminate da alcuni imam durante le preghiere quotidiane seguite dai 7.646 musulmani delle nostre galere. E per capire come le prediche dei cattivi maestri rischino d’ influenzare le menti degli 11mila detenuti provenienti da Paesi di religione musulmana ecco i passaggi dell’analisi del Dap, in cui un criminale comune spiega la progressiva adesione delle tesi dello Stato Islamico. "In tale luogo il ristretto avrebbe conosciuto delle persone che lo ascoltavano e superavano l’afflizione della pena rivolgendosi a Dio. La fede li univa, e mentre lui cercava di rispondere in maniera sempre più solerte ai dettami del Corano, cresceva nel gruppo l’odio nei confronti dei loro carcerieri e di tutti quelli che mancavano nei loro doveri verso Dio. In questo momento sarebbe cambiata radicalmente la sua mentalità portandolo anche a pensare che chiunque non avesse rispettato la sharia avrebbe meritato la morte per decapitazione". Atteggiamenti da cui scaturiscono le numerose manifestazioni di esultanza con cui, come ammette l’analisi del Dap, sono state salutate le stragi dell’Isis in Europa. "Il detenuto, a voce alta, a seguito degli attentati di Parigi dell’11 novembre 2015, pronunciava frasi quali: Li dobbiamo fare fuori tutti, noi siamo i più forti prima i francesi e poi anche gli italiani. E poi ancora: Adesso tocca agli italiani, simulando l’esplosione di colpi da arma da fuoco". Ma gli esempi citati dall’analisi del Dap non si fermano qui. "Nella sera del 22 marzo 2016 alcuni detenuti hanno esultato per l’attentato terroristico di Bruxelles. Gli stessi, infatti, venivano sorpresi in camera a festeggiare ballando e gridando je suis Paris, je suis Bruxelles. Ascoltando il telegiornale che parla dei fatti di Parigi del 13 novembre 2015 il detenuto ha esultato con urla di gioia per oltre cinque minuti. Fonte confidenziale riferivano che un detenuto, durante la visione in tv della notizia dell’accoltellamento di 8 persone in un centro commerciale in Minnesota rivendicato dall’Isis, ha applaudito dicendo "ha fatto bene, Allah lo ricompenserà sicuramente. Se io fossi fuori farei una cosa peggiore al costo di morire perché andrei in Paradiso". La stessa fonte riferiva che un altro detenuto nell’apprendere della bomba scoppiata a New York esultava con le mani, alzando la testa al cielo e dicendo "Deve scoppiare tutta l’Italia". Passi inquietanti che raccontano come, prima dell’Italia, rischiano di scoppiare le sue carceri. Se il totalitarismo è giudiziario di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 16 gennaio 2017 A Roma non si sa dove e quando e come potranno essere collocate le bancarelle dei libri (che ci sono da sempre, e sono un meraviglioso momento di sosta) perché lo deve stabilire la magistratura. Nel Texas la Apple è stata messa sotto accusa giudiziaria perché un automobilista, usando FaceTime mentre era alla guida, aveva violentemente urtato un’altra macchina provocando la morte di una bambina che era a bordo. La colpa è di aver inventato la app per le videochiamate senza la funzione che la disattiva nei veicoli in movimento. Cioè la colpa non è solo del deficiente criminale che fa videochiamate mentre guida, ma della società che non ha previsto l’esistenza di un deficiente criminale che guarda dentro al telefonino ammazzando la gente con la macchina che guida. Intanto in Italia si stabilisce che le leggi elettorali non le fa il Parlamento ma la Corte Costituzionale. La quale Corte Costituzionale aveva già deliberato su importanti provvedimenti di politica economica del governo, come l’intervento sulle pensioni. Con l’approvazione della legge sulle unioni civili, pare non abbia molta importanza la disciplina della stepchild adoption perché valuteranno i magistrati caso per caso. E del resto, l’assenza di una legge sul testamento biologico demanda alla magistratura anche l’ultima parola sui temi decisivi come la vita e la morte. La magistratura francese può decidere se a un intellettuale è permesso di sottolineare i pericoli dell’islamismo politico senza essere portato in tribunale come "islamofobo". In Italia la magistratura può disporre il sequestro giudiziario, con conseguenze economiche notevolissime, della centrale termoelettrica di Vado Ligure mentre in un’altra regione un’altra centrale identica può continuare a lavorare con gli stessi livelli di inquinamento accertati dalle autorità sanitarie e ambientali. Cosa ci dice questa macedonia di casi tanto diversi tra loro? Cosa hanno in comune tutti questi episodi? Hanno in comune in tutto il mondo lo strapotere della dimensione giudiziaria su ogni altro aspetto della vita pubblica. La "giuridicizzazione" radicale e totale dei rapporti sociali, politici, economici, antropologici in cui si imbatte l’umanità. L’idea che l’ultima parola spetti sempre a un’autorità giudiziaria. In Italia e ovunque. Vi sentite tranquilli nel mondo del totalitarismo giudiziario? Il partito delle toghe contro la riforma di Pietro De Leo Il Tempo, 16 gennaio 2017 Non solo le pensioni: ecco perché l’Anm diserta l’inaugurazione dell’anno giudiziario. Tiene ancora banco la tensione tra l’Anm e il governo. L’Associazione magistrati ha annunciato l’altro ieri, al termine del suo comitato direttivo centrale, la decisione di non presenziare all’inaugurazione dell’anno giudiziario nell’Aula Magna presso la corte di Cassazione, il prossimo 26 gennaio. Ieri è intervenuto anche il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini che ha espresso il suo augurio che "il confronto riprenda al più presto. Spero anche - ha proseguito - che si possa evitare il rischio di delegittimazione della Suprema Corte di Cassazione in un momento solenne quale è l’inaugurazione dell’anno giudiziario, in occasione della quale l’istituzione giudiziaria più importante parla al Paese e alle sue istituzioni". Legnini, tuttavia, ha espresso "soddisfazione" di fronte al fatto che l’Anm non abbia proclamato lo sciopero, una delle ipotesi inizialmente sul tavolo. Tuttavia, i nodi del contendere sono due. Il primo, è quello del pensionamento dei giudici. La proroga a 72 anni dell’età pensionabile è stata sancita dal governo con un decreto approvato con la fiducia, ma vale soltanto per i vertici delle magistrature. L’Anm, invece, chiedeva l’applicazione del principio a tutti e, si aspettava, dopo trattative intercorse nella fase finale dell’esecutivo Renzi, di poter ottenere il risultato nel mille proroghe. Il che non è avvenuto e ciò ha scatenato l’indignazione e l’accusa al governo di non aver mantenuto le promesse. Altro punto di frizione, anche se questo non concerne apparentemente la protesta del 26 prossimo, riguarda il ddl sul processo penale, in particolare il cosiddetto principio di "avocazione obbligatoria": cioè la Procura Generale richiama a sé il fascicolo qualora il pm titolare dell’indagine, in un termine di tre mesi, non decida tra la richiesta del rinvio a giudizio e la prescrizione. Questa norma, infatti, secondo quanto affermato da Piercamillo Davigo, presidente dell’Anm, qualche mese fa, potrebbe creare dei problemi per la gestione del personale nelle procure. La riforma del processo penale, quindi, appare stretta in una morsa. Da un lato, i magistrati sul piede di guerra. Dall’altro, il quadro politico non proprio consolante con Ncd e Ala (che soffre anche dell’esclusione dalla compagine di governo) critiche verso l’allungamento dei tempi di prescrizione. Per questo, l’idea di Orlando sarebbe (come in passato) quella di porre sul provvedimento la questione di fiducia. Probabilmente questa settimana si deciderà sulla calendarizzazione in Aula. Un secondo rinvio, dopo quello d’autunno per tenere la maggioranza unita in vista del referendum, potrebbe sancire il de profundis della riforma. I penalisti: "Ormai i magistrati badano solo ai propri interessi" dalla Giunta dell’Unione delle Camere Penali Il Tempo, 16 gennaio 2017 L’Associazione Nazionale Magistrati non andrà all’inaugurazione dell’Anno Giudiziario che si terrà, come ogni anno, presso la Corte di Cassazione. Una protesta inedita quanto significativa. Perché è proprio in Cassazione che siedono le toghe "pietra dello scandalo": il Presidente Giovanni Canzio e il Procuratore Generale Pasquale Ciccolo, beneficiari, secondo Anm, di una proroga iniqua. A ben vedere si direbbe che la rivendicazione sindacale di Anni, costruita intorno al Dl 168/2016 sulle pensioni, si tinga di un ancor più pericoloso colore politico e culturale che non solo muove la magistratura associata contro il governo, ma che muove anche le diverse anime della magistratura al proprio interno. Se ne dovrebbe trarre un’indicazione preziosa e convincersi di una verità, che sta nel comprendere come, in questo difficile momento, interessi poco all’Anm una vera riforma del processo penale e si tratti al contrario di una associazione tutta ripiegata su se stessa a difesa dei propri interessi e delle proprie prerogative. E appare davvero sintomatico il fatto che accanto al contenzioso relativo a trasferimenti e pensioni, interessi ad Anm che dal Ddl sulla riforma del processo penale venga eliminata quell’unica norma, disegnata dall’art. 18, con la quale si è cercato di introdurre un meccanismo di accelerazione del procedimento, per impedire che il 70% dei processi si prescriva fra le mani dei Pm. Una norma vista dalla magistratura come un insopportabile condizionamento a quello sterminato potere di cui gode ogni magistrato nel determinare, nel bene e nel male, le sorti di un processo. Detta questa evidente verità, ci chiediamo quali siano le "altre" richieste dell’Anm, oltre quella che formalmente giustifica la clamorosa protesta, sulle quali il ministro Orlando dice essere in atto una opportuna "riflessione"? È forse proprio su quell’art. 18 che si giocano i destini della riforma? Che il ministro rifletta sull’incoerenza di un Ddl che accanto a norme che tutelano i principi del "giusto processo" ne prevede altre come il "processo a distanza", che ne costituiscono la più insensata mortificazione. Si vedano, dunque, le reali emergenze, come quella di una condizione carceraria tuttora degradante (anziché approvare l’irragionevole proposta Gratteri sulle videoconferenze, perché non ci si chiede come mai, nonostante la riforma sulla custodia cautelare, non diminuisce ma aumentali numero dei detenuti in attesa di giudizio?). Si acceleri sulla legge delega per la riforma dell’esecuzione penale. Si cerchino convergenze su tutto ciò che possa restituire un minimo di legalità al mondo delle carceri. La riforma del ministro Orlando ha un titolo che pone l’accento sul "rafforzamento delle garanzie difensive e la durata ragionevole dei processi nonché all’ordinamento penitenziario per l’effettività rieducativa della pena". Si usi quel titolo ambizioso come criterio selettivo e si eviti con saggezza di portare davanti al Senato tutte quelle norme che risultano, francamente, "fuori tema". Il ministro Orlando: riforma del processo penale, "ok solo con la fiducia" di Wanda Marra Il Fatto Quotidiano, 16 gennaio 2017 Il testo nell’Aula del Senato a breve, per Orlando non passerà senza una prova di forza con Ncd. Gentiloni trema. Dopo la campagna elettorale più duratura della storia d’Italia (quella referendaria), dopo una lunga pausa natalizia, il lavoro del Senato rientra nel vivo. Governo nuovo (si fa per dire), problemi vecchi: il primo scoglio da affrontare resta la giustizia. Ovvero la riforma del processo penale (la legge delega è stata approvata ormai due anni e mezzo fa dall’esecutivo Renzi) ferma in Commissione da mesi. L’ultimo rinvio risale a un paio di mesi fa e fu motivato dalla scelta di non inimicarsi il centrodestra prima del voto sulle riforme. L’oggetto del contendere è - da sempre - la riduzione dei tempi della prescrizione, che vede la contrarietà di pezzi di Ncd e verdiniani. Il provvedimento contiene una serie di voti segreti a rischio trabocchetti e impallinamenti. Per questo il Guardasigilli, Andrea Orlando, che su questo testo si gioca parte della sua credibilità politica, insiste dall’inizio per mettere la fiducia: a settembre era stata persino "autorizzata" dal Cdm, ma non venne mai posta. Anzi: si chiese ai capigruppo di non portare il provvedimento al voto. A pretesto, si prese persino l’incontro a palazzo Chigi tra il presidente dell’Anm Piercamillo Davigo e Matteo Renzi, nel quale l’ex premier assicurò apertura e dialogo su molti punti della riforma contestati dal sindacato delle toghe. E ora? La situazione non sembra molto cambiata: l’accordo politico con Ncd teoricamente c’è, ma nessuno mette una mano sul fuoco sul fatto che reggerà. La trattativa è ancora in mano ad Orlando, che resta convinto che serva la fiducia. Renzi a questa soluzione in passato si è opposto. Il nuovo premier, Paolo Gentiloni, manterrà la stessa linea di comportamento o no? Molti pensano di sì, visti i rischi collegati. Le valutazioni, comunque, sono in corso: il premier ha visto negli scorsi giorni il presidente dei senatori dem, Luigi Zanda proprio per cercare di capire come gestire il lavoro parlamentare. In settimana, dunque, è prevista una capigruppo per decidere se alla fine la riforma della giustizia verrà calendarizzata o no. Non farlo, significherebbe l’ennesimo rinvio, probabilmente quello definitivo. Ci sono altri provvedimenti "sensibili" soggetti a una valutazione. Primo tra tutti il disegno di legge sulla Concorrenza che risale al lontano febbraio 2015, bloccato - pare - dalla lobby delle assicurazioni. E poi c’è l’attesa legge delega sulla povertà: anche questi due provvedimenti dovrebbero arrivare in Aula e anche su questi si testeranno sia la tenuta della maggioranza che le intenzioni politiche del governo Gentiloni. Intanto un dato appare certo: qualsiasi cosa decida la capigruppo, nessun provvedimento a rischio arriverà in Aula in settimana. Palazzo Madama si limiterà ad esaminare questioni meno importanti. Era tutto fermo prima del 4 dicembre e pare che lo sia anche nella situazione fluida di adesso con i "soliti" numeri risicati, un premier che comanda fino a un certo punto e un segretario Pd il cui unico obiettivo è andare a votare il prima possibile. Legnini (Csm): "trasparenza e merito per cambiare la giustizia" di Ilaria Proietti Il Centro, 16 gennaio 2017 Intervista al vice presidente del Csm. Con il bilancio di due anni di lavoro "È in corso un eccezionale ricambio. Che ridisegnerà il sistema giudiziario". "È in corso un eccezionale ricambio alla guida degli uffici, che ridisegnerà il volto del sistema giudiziario italiano. Con magistrati scelti per incarichi di vertice in base al merito. Proprio com’è accaduto con le recenti nomine che riguardano l’Abruzzo. Abbiamo potuto scegliere con criteri trasparenti in virtù del nuovo Testo unico sulla dirigenza". Parola di Giovanni Legnini vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura. Che in questa intervista al Centro traccia un bilancio sul primo biennio passato a Palazzo dei Marescialli. Due anni decisamente impegnativi in cui non sono mancate polemiche e scontri, anche di una certa durezza. "Ma anche grandi cambiamenti positivi e incisive riforme che all’inizio non erano scontate". Sono riaffiorate spesso polemiche anche sul tormentato rapporto tra magistratura e politica. Come giudica la situazione? "Il conflitto tra politica e magistratura ha radici ormai antiche e io penso che si stia producendo un cambiamento lento ma netto e percepibile. Dobbiamo lavorare tutti quotidianamente per ricondurre tale difficile rapporto entro i limiti indicati dalla nostra Costituzione, che impone il reciproco riconoscimento dell’autonomia di ciascuno dei poteri. Chi mette in discussione tale antico ma attualissimo principio, si colloca fuori dallo spirito costituzionale". Continuano le sortite di vari esponenti politici pure sul fatto che molte inchieste si concludono spesso con il nulla di fatto. Critiche eccessive? "Le archiviazioni e le assoluzioni, come le sentenze di condanna, costituiscono esiti naturali dei procedimenti. Le polemiche non si concentrano sui provvedimenti conclusivi assunti dal Giudice terzo ma riguardano gli effetti e il clamore mediatico spesso connessi all’esercizio dell’azione penale e all’adozione delle misure cautelari. È questa la fase che spesso ha determinato l’indebolimento della credibilità della magistratura ed è su di essa che responsabilità e riservatezza delle iniziative devono maggiormente dispiegarsi". Anche sui processi troppo lunghi si è tornati a discutere. Lo stesso ex presidente del Consiglio Renzi ha spesso polemizzato pretendendo sentenze celeri dalla magistratura. Sta cambiando qualcosa su questo fronte? "Il fattore tempo è sempre più essenziale per connotare l’efficacia della risposta giudiziaria. L’incertezza dei tempi e l’imprevedibilità delle decisioni costituiscono fattori che minano la credibilità del sistema giudiziario. Negli ultimi anni, grazie alle riforme e all’impegno anche organizzativo della magistratura, registriamo un progressivo miglioramento. Ma siamo appena agli inizi. Occorre insistere tenacemente per conseguire l’obiettivo della piena attuazione del principio costituzionale della ragionevole durata del processo, un obiettivo che non può essere assicurato solo dalla magistratura. Ad esempio, non c’è dubbio che occorrano più risorse ed investimenti proseguendo nella positiva azione avviata dal ministro Orlando". In tanti chiedono un freno agli incarichi esterni conferiti ai magistrati. Che ne pensa? "Abbiamo adottato misure restrittive efficaci conseguendo i primi risultati. Ma il nostro potere su questa materia è confinato entro limiti ristretti. Se si vuole incidere di più occorre l’intervento del legislatore". Molte nomine fatte dal Csm hanno prodotto malumori di cui si è fatto interprete il sindacato dei magistrati o almeno parte di esso. "In poco più di due anni abbiamo fatto 530 nomine per incarichi direttivi e semidirettivi. Rivendico la positività straordinaria di questo lavoro, di cui voglio dare atto all’intero Consiglio superiore della magistratura. Le procedure sono state molto più numerose e nel contempo meno lunghe del passato. Abbiamo fortemente incrementato la componente femminile, che è più che raddoppiata e i nuovi dirigenti, in media, hanno nove anni in meno di quelli uscenti. Riponiamo molta fiducia in questo rinnovamento su cui registro un diffuso consenso negli uffici giudiziari. Tutto ciò è stato possibile grazie alle nuove regole che ci siamo dati con la riforma del Testo Unico, che ha introdotto criteri improntati al merito, alla trasparenza e alla leggibilità delle scelte". Ma non mancano le polemiche. L’ultima ha riguardato proprio la nomina di un magistrato abruzzese e cioè Francesco Testa scelto come nuovo procuratore di Chieti. "Le polemiche sono fisiologiche tanto più a fronte di un numero enorme di procedure e di domande rimaste insoddisfatte. Registro che le nomine sono state deliberate dal Plenum, in gran parte all’unanimità o a larghissima maggioranza, come avvenuto per quelle del distretto abruzzese. Ma, il dato più rilevante che voglio sottolineare, è la drastica riduzione del contenzioso e delle decisioni sfavorevoli al Csm". L’Associazione nazionale magistrati contesta gli effetti del nuovo Testo unico della dirigenza approvato un anno fa. Si dice che siano saltati criteri obiettivi per le nomine e questo spalanca le porte alla discrezionalità. "La realtà è esattamente contraria a quella che lei mi rappresenta. La circolare ha fissato criteri selettivi ed indicatori più precisi ed obiettivi, il cui rispetto può essere da ciascuno verificato attraverso le motivazioni che sono alla base delle delibere del plenum. Il criterio dell’anzianità è stato da anni abolito dal legislatore. La discrezionalità nelle scelte è insita nei poteri che la Costituzione affida al Csm ed essa si esercita attraverso la difficile coniugazione tra valutazione delle candidature e voto di ciascuno dei componenti del Plenum. Altrimenti invece di affidare le nomine ad un collegio elettivo, quale è il Consiglio, sarebbe bastato individuare un’autorità amministrativa. Naturalmente, la discrezionalità non può e non deve mai sconfinare nell’arbitrio ed è esattamente ciò che abbiamo inteso assicurare con le nuove regole per la selezione dei dirigenti". Vale a dire che la riforma è riuscita a debellare le correnti della magistratura che ora si fanno sentire con le proteste? "Non so a quali proteste si riferisca e verso chi si indirizzino, visto che le correnti della magistratura sono rappresentate nel Plenum del Consiglio. Semmai la critica più ricorrente, e non da oggi, è quella opposta, e cioè dell’eccessivo peso delle correnti. Penso che avendo il Consiglio meglio disciplinato ed auto-vincolato l’esercizio del suo potere discrezionale, questo peso sia stato fortemente arginato". Ma lei Testa lo ha votato? "Salvo casi eccezionali non partecipo al voto per garantire l’imparzialità e il corretto svolgimento del processo decisionale. Se invece vuole un giudizio di merito, posso dirle che sono molto soddisfatto di tutte le nomine degli uffici giudiziari abruzzesi. Anzi, posso affermare che per tutte le scelte che abbiamo fatto è prevalso il criterio del merito e non dell’appartenenza. E ciò riguarda anche il procuratore Testa che è un eccellente magistrato". Che tipo di profili sarebbero adatti per gli uffici che sono ancora vacanti in questa regione? "Dovranno prevalere quelli che meglio corrispondono ai criteri di cui ho già parlato e cioè le esperienze nella giurisdizione unite alle comprovate capacità organizzative. Per essere nominati dirigenti non basta essere ottimi giudici, e meno male che ce ne sono tantissimi: i magistrati devono avere anche la capacità di garantire un efficiente funzionamento dell’ufficio che si candidano a dirigere. Non è un caso che con il nuovo testo unico abbiamo introdotto l’obbligo per i candidati di presentare un progetto organizzativo per definire gli obiettivi di gestione efficiente dell’Ufficio". Al di là degli incarichi di vertice, resta il tema delle scoperture di organico. L’Anm ha chiesto di riportare l’età di pensione per tutti i magistrati a 72 anni: per protesta diserterà l’inaugurazione dell’anno giudiziario, ma alla fine non ci sarà lo sciopero come era stato minacciato. Che ne pensa? "Personalmente ho sempre lavorato, nei limiti consentiti dal mio ruolo, per favorire il dialogo e quindi non posso che esprimere soddisfazione per il fatto che l’Anm non ha proclamato lo sciopero. Mi auguro comunque che il confronto riprenda al più presto cogliendo la disponibilità del ministro. Spero anche che si possa evitare il rischio di delegittimazione della Suprema Corte di Cassazione in un momento solenne quale è l’inaugurazione dell’anno giudiziario, in occasione della quale l’istituzione giudiziaria più importante parla al paese e alle sue istituzioni". Qual è il dato sulle scoperture degli uffici giudiziari abruzzesi? "La scopertura attualmente è pari al 10,61 %, al di sotto della media nazionale che si attesta al 12,8. Spero che con i concorsi in via di espletamento e con un reclutamento straordinario si possano colmare al più presto queste scoperture". Fra due anni verranno soppressi i tribunali di Avezzano e Sulmona, nonché quelli di Lanciano e Vasto così come previsto da una legge del 2011. È davvero inevitabile? "Penso che il contributo alla riduzione delle circoscrizioni richiesto all’Abruzzo sia eccessivo: chiusura del 50% degli Uffici a fronte di una media nazionale che non supera il 30%, con un amplissimo territorio interno e costiero sfornito di qualunque presidio giudiziario. Ci deve essere lo spazio per una rimeditazione in sede legislativa prima con una proroga e poi con un progetto di riordino delle circoscrizioni al quale dovranno dare un contributo innanzitutto i territori interessati. Le istituzioni, la magistratura e l’avvocatura provino a formulare una proposta ragionevole, come si è iniziato a fare, e su questa sarà possibile far valere meglio gli interessi dei cittadini abruzzesi e dei territori coinvolti". Gli avvocati e non solo in Abruzzo sono scontenti della nuova geografia giudiziaria imposta per ragioni di spending review. Lei da avvocato ritiene legittime queste doglianze? "Sì. L’obiettivo però deve essere quello di coltivare non i campanili ma gli interessi dei cittadini". Da Why not a Guidi e Marino: il 2016 delle accuse cadute di Mattia Feltri La Stampa, 16 gennaio 2017 L’inchiesta avviata da De Magistris fece dimettere Mastella e il governo Prodi. I casi Lupi, Errani, e la scienziata Capua. È ricominciata com’era finita: una richiesta d’archiviazione ora, una condanna cancellata in Cassazione a dicembre, e cioè scandali uno dopo l’altro dispersi nelle nebbie delle campagne di moralizzazione. A dicembre era toccato a Ottaviano Del Turco, condannato in primo grado a 9 anni e mezzo, in appello a 4 anni e 2 mesi, l’accusa di associazione per delinquere restituita alla procura perché così non regge. Tre giorni fa ci sono piovuti addosso gli aggiornamenti su Gianluca Gemelli, nome sconosciuto al mondo se non associato all’ex ministro Federica Guidi, che s’è dimessa a marzo per un’inchiesta di Potenza così riassunta in prima pagina da un quotidiano d’opposizione: "Il regalo del governo al fidanzato del ministro". L’inchiesta si chiama(va) Tempa Rossa e, a proposito di sintesi, grillini e leghisti levarono le picche in aula all’urlo "governo dei petrolieri", mentre Forza Italia scopriva il concetto di "conflitto d’interessi". E poi le amiche intercettazioni, con Guidi che al telefono dice al fidanzato Gemelli di non essere la sua "sguattera del Guatemala", gli interrogatori ai ministri Graziano Delrio e Maria Elena Boschi (indimenticabile il titolo "trivellata dal pm"), e alla fine? Niente: la procura di Roma ha chiesto l’archiviazione, il processo non è da fare. Il 2017 è cominciato così, ma è il 2016 a essere interessante. A gennaio decede Why Not, l’inchiesta che ha portato celebrità a Luigi De Magistris, oggi sindaco di Napoli. Assolti tutti i politici come saranno prosciolti tutti i politici di Mafia capitale, musa di fiction e film dove politici e malavitosi si mischiano e si sparano sotto cieli piovosi alla Blade Runner; prosciolto Gianni Alemanno, che sarà il sindaco che è stato, ma non era mafioso e, nonostante l’uscita di scena della casta, il processo continua a chiamarsi come all’inizio: Mafia Capitale. Ma dobbiamo tornare un attimo a gennaio: la Cassazione cancella il rinvio a giudizio per Clemente Mastella. Vicenda inspiegabile, specialmente in poche righe: risale al 2008, con l’arresto della moglie di Mastella e che determina la caduta del governo Prodi, di cui Mastella era ministro. Siamo a metà pezzo e abbiamo già un governo caduto e un ministro obliterato. E manca Maurizio Lupi, che si dimette nel 2015 ma è l’anno dopo, a marzo, che Ercole Incalza, il grande dirigente del ministero, la mente dell’Alta velocità italiana, viene prosciolto da nove capi di imputazione: anche qui, non c’è bisogno che le carte vadano a processo, basta il cestino. Ma intanto proseguono le ole parlamentari, l’aula ridonda di colli dalle vene gonfie, vergogna, dimissioni (ottenute, come si vede), ladri, eccetera, e intanto passano i mesi, e le inchieste sbiadiscono, e le assoluzioni se le porta via il vento. Non è finita. Vincenzo De Luca - l’impresentabile, secondo la commissione antimafia di Rosi Bindi - è assolto in febbraio da una fiacca accusa di abuso d’ufficio perché "i fatti non sono mai sussistiti e non sussistono" e il pm d’appello gratifica così i colleghi: le intercettazioni "o non si facevano, o si facevano secondo legge". Passa una settimana e bacio in fronte a Salvatore Margiotta, senatore Pd per cui la solita procura di Potenza nel 2008 aveva chiesto l’arresto per la solita indagine sull’estrazione del petrolio; ci vogliono 8 anni, un’assoluzione in primo grado, una condanna (a 18 mesi) in appello, e una definitiva assoluzione in terzo grado. È un 2016 fantastico. Assolto in appello il generale Mario Mori dall’accusa di favoreggiamento per la mancata cattura di Bernardo Provenzano, base del leggendario processo Trattativa. Assolto in appello Vasco Errani dall’accusa di falso ideologico per cui nel 2014 si era dimesso da governatore dell’Emilia Romagna. Prosciolta Ilaria Capua, accusata di traffico illecito di virus, dopo di che ha lasciato il Parlamento italiano alle sue pochezze per dirigere un dipartimento dell’Emerging Pathogens Institute dell’Università della Florida. Assolto Ignazio Marino dalle accuse di truffa e peculato, al secolo reato di scontrino che però non sussiste. Assolto Sandro Frisullo, vicepresidente pugliese ai tempi di Nichi Vendola, dopo essere finito in galera per turbativa d’asta. Assolto in primo grado Ludovico Gay, funzionario dell’Agricoltura, quattro mesi in carcere per la spartizione dei fondi pubblici: ora non ha un lavoro. Archiviata l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa per Stefano Graziano, che si era dimesso da presidente del Pd Campania. Assolto Luigi Cesaro, assolto Antonio D’Alì, assolto Maurizio Gasparri... Buon 2017. Cosa succede quando un pm sovrappone penale e morale. Il caso Roberti di Claudio Cerasa il Foglio, 16 gennaio 2017 Può definirsi sano un sistema in cui i pm confondono le proprie tesi processuali con le proprie visioni del paese? Tempa Rossa e il procuratore antimafia: una storia esemplare. Cosa succede quando la magistratura cade nella trappola dell’esondazione e in modo birichino, e dunque pericoloso, confonde l’agenda politica con l’agenda giudiziaria? Franco Roberti è un importante magistrato italiano: è l’attuale procuratore nazionale antimafia, dal 17 aprile 2015 riveste anche l’incarico di procuratore nazionale antiterrorismo, e come il suo predecessore Pietro Grasso, schiena dritta entrambi, scomodissimi entrambi, impeccabili entrambi, infaticabili lavoratori entrambi, indefessi scrittori entrambi, ha una certa dimestichezza con gli strumenti dell’informazione e in particolare con le telecamere televisive. Nonostante la sua instancabile attività nella lotta al terrorismo, alle mafie, alle camorre, alle ‘ndrine e nonostante il molto tempo dedicato alla presentazione dei suoi manufatti (Roberti viaggia a un ritmo di cinque libri al biennio), al procuratore nazionale anti mafia capita spesso di trovare il modo di sponsorizzare e sostenere mediaticamente alcune inchieste particolari. E lo scorso anno in molti hanno notato la sua presenza nell’ambito della presentazione di un’indagine che da subito appariva contraddittoria e sulla quale invece il procuratore nazionale antimafia ha scelto di mettere il suo bollino in modo netto, chiaro, inequivocabile: l’inchiesta su Tempa Rossa. È il 31 marzo 2016, il pool dei pm di Potenza convoca una conferenza stampa lampo per presentare nel dettaglio le accuse che hanno portato all’indagine anche del compagno dell’allora ministro dello Sviluppo Federica Guidi (il dottor Gemelli). E senza pensarci due volte il procuratore sceglie di fare un blitz per presenziare alla conferenza stampa decidendo di andare giù duro. Niente garantismo, le inchieste sono chiare, le accuse sono forti, non c’è nulla da dubitare. "Siamo di fronte a una organizzazione criminale di stampo mafioso, organizzata su base imprenditoriale". Siamo di fronte a un caso in cui "per risparmiare denaro ci si riduce ad avvelenare un territorio con meccanismi truffaldini". Un anno dopo gran parte di quelle accuse sono cadute, i principali indagati sono stati scagionati, ma il dato su cui riflettere non è legato solo al fatto che alla conferenza stampa di accuse non ne sia seguita una di scuse da parte di Roberti. È legato a qualcosa di più. È legato a una sovrapposizione, certamente casuale ma non per questo meno azzardata, tra i due piani che abbiamo descritto all’inizio di questo articolo: agenda politica e agenda giudiziaria. Sarà stato certamente un caso ma il Franco Roberti (agenda giudiziaria) che è saltato sulla carovana dell’inchiesta della procura di Potenza che ha portato alle dimissioni dell’ex ministro dello Sviluppo Federica Guidi è lo stesso Roberti che qualche giorno prima dell’inchiesta (agenda politica) aveva scelto di far sapere al paese le sue opinioni su una materia delicata che in teoria dovrebbe riguardare esclusivamente la sfera della politica e non la sfera giudiziaria. È il 9 marzo 2016, un mese prima della conferenza stampa di Roberti. E quel giorno il procuratore nazionale antimafia, sottraendo tempo prezioso alla sua attività di lotta contro la criminalità organizzata italiana e internazionale, lancia il suo campanello d’allarme contro una riforma che portava il nome dello stesso ministro caduto a causa della successiva inchiesta: il ddl Concorrenza. Secondo Roberti, quella riforma, per come era formulata, in particolare agli articoli 44 e 45, "azzera le maglie dei sistemi di controllo", "apre un varco formidabile per l’ingresso delle organizzazioni mafiose negli appalti" e avrebbe creato un "sistema di controlli indebolito". Contro quell’attacco, si espose il ministro Guidi, che rispose indirettamente a Roberti entrando nel merito di quegli articoli: "Per quanto riguarda i notai si prevede di ridurre gli atti per i quali è obbligatorio ricorrere ai loro servizi professionali, sulla scorta delle raccomandazioni della Commissione europea e dei principali organismi internazionali". Un mese dopo - ma naturalmente la tempistica è casuale - cade il ministro dello Sviluppo per un’inchiesta basata sul nulla che coinvolge il suo ex compagno (Gemelli) e che consente al mondo di sapere tutto sugli equilibri del rapporto tra l’ex ministro e l’ex compagno del ministro (mi tratti come una sguattera del Guatemala). Cade il ministro e due mesi dopo (21 giugno) la commissione Industria del Senato sceglie di sopprimere i due articoli difesi dall’ex ministro e attaccati dal procuratore nazionale antimafia (44 e 45). Sei mesi dopo (gennaio 2017) le accuse che portarono alla crocifissione mediatica del dottor Gemelli e della sua ex compagna Guidi cadono (anche se i giornali fanno finta di niente) ma le modifiche al ddl Concorrenza restano. Nessuno naturalmente vuol dire che ci sia un collegamento tra l’inchiesta che ha indirettamente colpito la Guidi e le posizioni del procuratore nazionale antimafia che si è espresso a favore dell’inchiesta che ha colpito indirettamente la Guidi dopo essersi esposto contro la riforma che portava avanti l’ex ministro Guidi. Ciò che ci interessa sottolineare è la doppia particolarità del circuito giudiziario italiano. Proviamo a sintetizzare il problema con qualche domanda semplice. Può definirsi sano un sistema come il nostro che legittima l’interventismo dei magistrati su un qualsiasi tema che riguarda l’agenda politica del paese? Può definirsi sano un sistema come il nostro in cui può capitare che un magistrato importante scenda in campo politicamente contro un ministro della Repubblica? Può definirsi sano un sistema come il nostro in cui può capitare che un magistrato importante dopo essere sceso in campo politicamente contro un ministro della Repubblica scenda in campo a sostegno di un’inchiesta che colpisce indirettamente quel ministro della Repubblica? Può definirsi sano un sistema come il nostro in cui può capitare che un pool di magistrati importanti, come lo sono quelli di Potenza, dopo essere stati legittimati dal più importante magistrato d’Italia (il capo della procura antimafia), scelga di interrogare un ministro della Repubblica (ricordate il caso Boschi?) per mettere in discussione la sua legittimità a presentare un emendamento in una legge di Stabilità e processando dunque la discrezionalità di un ministro della Repubblica di fare una scelta politica al posto di un’altra? E ancora: può definirsi sano un sistema come il nostro in cui i magistrati mettono in campo non solo le proprie tesi processuali ma anche la propria visione del paese? E infine: può definirsi sano un sistema giudiziario come il nostro in cui i magistrati non fanno nulla per non confondere il codice penale con il codice morale? Noi una risposta ce l’avremmo. E voi? Giuseppe Uva, la sorella non cede: "lottiamo ancora per avere giustizia" di Andrea Gianni Il Giorno, 16 gennaio 2017 Operaio morto nel 2008, fissata la data del processo d’appello. Ancora otto mesi di attesa, per il processo d’appello con al centro la morte di Giuseppe Uva. La prima udienza è stata fissata per il prossimo 20 settembre, davanti ai giudici della Corte d’Assise d’Appello di Milano chiamati a formulare un nuovo verdetto. L’uomo, operaio di 43 anni, morì all’ospedale di Circolo di Varese la mattina del 14 giugno del 2008, dopo aver trascorso parte della notte nella caserma dei carabinieri di Varese, che lo avevano fermato ubriaco per strada con l’amico Alberto Biggiogero, anche lui portato in via Saffi. Da allora i familiari di Uva hanno portato avanti una battaglia per "conoscere la verità" sulla morte, convinti che l’uomo avesse subito violenze in caserma prima del ricovero. Lo scorso 15 aprile due carabinieri e sei poliziotti che quella notte intervennero sono stati assolti a Varese dall’accusa di omicidio preterintenzionale, abuso di autorità su arrestato e abbandono di incapace con la formula "perché il fatto non sussiste". I giudici hanno accolto la richiesta della Procura, che non ha riscontrato comportamenti illeciti. La vicenda giudiziaria, che ha visto anche interventi della politica e sit-in nelle piazze, però non si è conclusa. La Procura generale di Milano ha impugnato la sentenza; assieme ai legali dei familiari di Uva, parti civili, sottolineando che l’uomo morì per "stress derivante dalla costrizione e privazione della libertà personale", causato dal comportamento di carabinieri e poliziotti. Il 20 settembre, quindi, si aprirà un nuovo round. "Questi otto mesi trascorreranno lentamente, quasi il tempo di un parto", spiega Lucia Uva, sorella di Giuseppe, che è assistita dall’avvocato Fabio Ambrosetti. "Forse stanno aspettando che invecchiamo e che vengano meno le nostre forze - sottolinea - ma noi siamo disposti ad andare avanti fino alla fine, anche se alcuni reati sono ormai prescritti. Arrivare al processo d’appello è già un risultato - prosegue - non ci fermeremo fino a quando non avremo giustizia". Lucia Uva dovrà affrontare un altro processo d’appello, questa volta sul banco degli imputati. I difensori di carabinieri e poliziotti, che hanno sempre respinto le accuse, hanno presentato ricorso contro l’assoluzione della donna dall’accusa di aver diffamato militari e agenti con frasi scritte sulla sua pagina Facebook e dichiarazioni nel corso di un’intervista mandata in onda dal programma televisivo Le Iene. L’udienza, davanti alla Corte d’Appello di Milano, deve ancora essere fissata. Pende inoltre un’altra denuncia per diffamazione presentata da uno dei difensori, l’avvocato Pietro Porciani, per un video postato su Facebook al termine di una delle udienze del processo a Varese. La vicenda, quindi, continua a far discutere. E a distanza di anni dalla morte di Giuseppe Uva non è ancora stata scritta la parola fine. Tribunali dei minorenni. Riparte la riforma di Valentina Maglione e Bianca Lucia Mazzei Il Sole 24 Ore, 16 gennaio 2017 Riparte la riforma della giustizia minorile. È infatti tornato all’ordine del giorno del Senato il disegno di legge sul processo civile, che nel testo approvato alla Camera delega il Governo a cancellare i tribunali dei minorenni per sostituirli con sezioni specializzate "per la persona, la famiglia e i minori" presso i tribunali ordinari. Un progetto che ha acceso discussioni e polemiche: i magistrati si sono scagliati contro l’abolizione dei tribunali dei minorenni, mentre gli avvocati hanno sostenuto l’idea di portare la giustizia minorile in quella ordinaria. Ora che la discussione è ripresa "il testo approvato dalla Camera può essere rivisto", assicura Rosanna Filippin (Pd), relatrice in commissione Giustizia del Senato del Ddl, che delega anche il Governo a estendere le competenze del tribunale delle imprese, a sveltire il processo civile e, sul fronte del processo del lavoro, abroga il rito Fornero. Spazio alle modifiche, quindi, ma con l’obiettivo di accelerare il percorso parlamentare, iniziato a marzo di due anni fa: "Faremo di tutto per approvare il Ddl entro la fine della legislatura - afferma Filippin - e per questo abbiamo fissato al 30 gennaio il termine per gli emendamenti". I procedimenti - L’anno scorso nei tribunali dei minorenni sono stati avviati 90mila procedimenti, 50mila civili e 40mila penali (secondo le stime sui dati del ministero della Giustizia). Numeri che "sono il risultato del lavoro della procura - spiega Ciro Cascone, procuratore capo al Tribunale dei minori di Milano -: noi facciamo da filtro e cerchiamo di risolvere le situazioni meno gravi con i servizi sociali. Al tribunale ne mandiamo circa la metà". Negli ultimi 13 anni, il numero dei nuovi procedimenti penali è rimasto sostanzialmente stabile mentre sono calati i giudizi civili. Una riduzione dovuta soprattutto alla riforma della filiazione (legge 219/2012), che ha fatto transitare dal tribunale dei minorenni a quello ordinario alcuni procedimenti, cosicché i giudizi civili iniziati nel 2013 sono stati quasi il 24% in meno di quelli avviati nel 2012. Le competenze - I magistrati minorili sono 198, distribuiti in 29 sedi (che coincidono con i distretti di corte d’appello) e affiancati da 807 esperti (soprattutto in psicologia e pedagogia) che operano come giudici onorari. Ma non si occupano di tutto il contenzioso che coinvolge i minori: ad esempio, sull’affidamento dei figli durante le separazioni decidono i giudici ordinari. Questa divisione è la principale criticità sottolineata dagli avvocati: "Spesso i procedimenti sulla responsabilità genitoriale si sovrappongono alle separazioni - rileva Giulia Sapi, vicepresidente dell’Aiaf (associazione degli avvocati per la famiglia e i minori) - e i bambini finiscono per essere coinvolti in più giudizi". Un nodo che "si può superare - sostiene Cascone -: a Milano evitiamo i conflitti accordandoci con i colleghi". Né piace agli avvocati il ruolo degli esperti, inquadrati come giudici onorari: "Dovrebbero uscire dal collegio giudicante", sostiene Sapi. Ma i magistrati fanno quadrato: "Sono fondamentali per il nostro lavoro - dice Cristina Maggia, procuratore capo a Genova e vicepresidente dell’Aimmf (associazione dei magistrati per i minorenni e la famiglia) - perché riescono a entrare in relazione con i ragazzi". A mettere d’accordo magistrati e avvocati è la necessità di disciplinare la procedura: "Non esistono norme di rito per i procedimenti sulla responsabilità genitoriale - spiega Maggia - e ogni tribunale ha prassi diverse. Serve uniformità". Le prospettive della riforma - Nel testo del Ddl approvato alla Camera, quello che più preoccupa i magistrati è il rischio di perdita della specializzazione: "È giusto che ci sia un unico giudice per famiglia e minori", dice Maria Francesca Pricoco, vicepresidente dell’Aimmf e presidente del Tribunale dei minorenni di Catania. "Ma la riforma non considera il valore fondamentale dell’autonomia gestionale: l’ufficio giudiziario che si occupa di minori e famiglia è una struttura complessa che ha a che fare con situazioni difficili e già patologiche, oltre che con le devianze penali". Altro punto dolente è la procura minorile: "Inglobarla in quella ordinaria come gruppo specializzato ma senza funzioni esclusive - aggiunge Pricoco - farebbe venir meno il lavoro nel civile, che oggi spesso evita l’azione giudiziaria". Piuttosto che abolirli, "bisognerebbe assegnargli - dice Giuseppe Spadaro, presidente a Bologna - anche le questioni di famiglia di competenza della giustizia ordinaria". A tentare di superare il testo del Ddl approvato alla Camera sono gli avvocati di Cammino (Camera nazionale avvocati per la famiglia e i minorenni) e dell’Osservatorio nazionale sul diritto di famiglia: "Abbiamo presentato alla commissione Giustizia del Senato un documento - spiega la presidente di Cammino, Maria Giovanna Ruo - che disegna un ufficio giudiziario unico che si occupi di persone, relazioni familiari e minorenni, articolato a livello distrettuale per il penale e alcune materie più delicate, come l’adottabilità, e a livello circondariale per le questioni meno gravi". Se si troverà un punto di incontro lo si inizierà a capire nei prossimi giorni con l’audizione dei magistrati e la presentazione degli emendamenti. Tribunali dei minorenni. Furti e droga i reati più diffusi di Valentina Maglione e Bianca Lucia Mazzei Il Sole 24 Ore, 16 gennaio 2017 Reati contro il patrimonio, uso e spaccio di stupefacenti sono le violazioni che i giovani sotto i 18 anni commettono di più e costituiscono quindi il maggior numero di procedimenti penali trattati dai Tribunali dei minorenni. Nel campo civile, invece, è la verifica della responsabilità genitoriale che, insieme con le adozioni, rappresenta il grosso dell’attività. "Nel distretto di Brescia, negli ultimi quattro anni, i reati contro il patrimonio sono aumentati di quasi il 70% e quelli per detenzione e spaccio di stupefacenti di oltre il 45%", dice la presidente del Tribunale dei minorenni di Brescia, Maria Carla Gatto. Anche nel distretto di Venezia i reati più comuni sono quelli contro il patrimonio e lo spaccio di stupefacenti. "Ma subito dopo - aggiunge la presidente del Tribunale dei minorenni, Maria Teresa Rossi - vengono le violenze e gli abusi sessuali. E sono numerosi anche i reati legati a comportamenti di gruppo". "Nel civile - continua Rossi - c’è stato invece un aumento dei casi di sottrazione internazionale, perché ci sono sempre più famiglie miste. Il tribunale segue inoltre molte procedure amministrative di sostegno educativo a ragazzi in difficoltà, richieste o dagli assistenti sociali o, a volte, anche dagli stessi genitori". "Il lavoro del tribunale dei minori è molto delicato - conclude Rossi - e spesso abbiamo a che fare con la malattia e mentale e la sofferenza psichica dei ragazzi". A livello generale, negli ultimi 13 anni (dal 2003 al 30 giugno 2016) i procedimenti penali relativi ai minori sono rimasti sostanzialmente stabili. Le iscrizioni sono infatti oscillate tra 40mila e 46mila all’anno, fatta eccezione per il 2006 e il 2007, quando sono scese a circa 39mila. Il numero più elevato (46.613) è del 2004. "Dai numeri - rileva il procuratore capo del Tribunale dei minorenni di Milano, Ciro Cascone - non emerge un allarme sull’aumento della criminalità minorile. Da noi anche la quota di reati commessi da stranieri è costante". Diverso è invece il discorso sull’arretrato. Cresciuto nel 2012 e nel 2013 (con 43.126 procedimenti in giacenza a fine anno) è poi continuamente diminuito fino ad arrivare ai 40.316 procedimenti in corso al 30 giugno 2016 (l’11,8% in più rispetto al 2003). A pesare su quest’andamento è stato soprattutto l’incremento delle pendenze registrato a Brescia, Caltanissetta, Bologna, Roma e Venezia, causato, secondo i presidenti dei tribunali, soprattutto dall’insufficienza degli organici. "Brescia, Bologna e Venezia hanno il peggior rapporto fra numero di minori residenti nel distretto e magistrati in servizio" spiega la presidente del Tribunale di Brescia: "Abbiamo prima puntato - continua - sull’eliminazione delle pendenze civili, raggiungendo il risultato di azzerare i fascicoli ultratriennali. Dopodiché ci siamo concentrati sul penale, riuscendo a ridurre le giacenze che, dal picco di 1.402 fascicoli del 2012, sono scese alle 1.102 del 30 giugno dello scorso anno. Purtroppo da febbraio 2016 abbiamo un magistrato in meno, un’assenza che si ripercuoterà in modo negativo soprattutto sui numeri del prossimo anno". Problemi di organico anche a Venezia. "Da settembre 2012 fino all’inizio del 2015 abbiamo vissuto un lungo periodo di scoperture con momenti in cui i giudici in servizio erano solo tre - dichiara la presidente del Tribunale dei minorenni. Senza parlare del personale amministrativo, pari al 39% di quanto previsto; e l’organico è già sottodimensionato rispetto alla popolazione di riferimento". Denuncia "l’assoluta inadeguatezza dell’organico" anche Giuseppe Spadaro, presidente del Tribunale dei minorenni di Bologna: "Sono previsti solo sei magistrati più il presidente, mentre dovremmo essere 15 per far fronte a un territorio che comprende tutta l’Emilia-Romagna. Il livello di produttività è altissimo, superiore alla media nazionale, ma non può compensare la mancanza di risorse". Angela Rivellese, presidente del Tribunale dei minorenni di Roma, che ha come bacino di riferimento tutto il Lazio, sottolinea soprattutto la "carenza dei dipendenti amministrativi, rispetto ai quali la scopertura è del 30%" Tribunali dei minorenni. Linea dura per togliere i figli alla ‘ndrangheta di Roberto Galullo Il Sole 24 Ore, 16 gennaio 2017 Chi lavora con il Tribunale dei minori di Reggio Calabria lo sa: ogni decreto è una tutela nei confronti dei figli e, al tempo stesso, una speranza per la famiglia. Non a caso, pochi giorni fa, un uomo recluso al 41-bis ha fatto giungere una lettera nella quale ringrazia il Tribunale per aver dato ai figli quelle opportunità che lui non aveva avuto. Ineccepibili, inappuntabili, e forse per questo i circa 40 provvedimenti del Tribunale presieduto dal 15 settembre 2011 da Roberto Di Bella, hanno scatenato in quelle famiglie di ‘ndrangheta, che invece non tollerano che il diritto alla formazione possa essere delegato allo Stato, uno spirito di vendetta che ha portato a un’escalation di attentati e minacce contro i giudici (appena quattro togati) oltre che contro la stessa sede giudiziaria. Il Tribunale di Reggio Calabria a settembre 2012 adottò per primo in Italia la linea dura per strappare a un destino comunque mortale i minori delle famiglie di mafia. I giudici Di Bella e Francesca Di Landro, su richiesta del pm minorile Francesca Stilla, emisero "un provvedimento limitativo della potestà genitoriale" e nominarono per un 16enne un curatore speciale, visto "il conflitto di interessi tra lui e la madre incapace di indirizzarlo al rispetto delle regole civili e tutelarlo". Di lì a poco, il 21 marzo 2013, seguì un protocollo d’intesa tra tutti gli uffici giudiziari del distretto della Corte d’appello di Reggio Calabria (Reggio, Palmi e Locri), che ha fatto scuola. È l’unico in Italia e crea in modo sistematico un circuito informativo con la Procura distrettuale antimafia. Basta leggere uno degli ultimi decreti - notificato a luglio 2016 a due istituti di pena del Nord, ai servizi sociali e agli uffici che con essi collaborano - per capire di che pasta è fatto questo Tribunale. I due figli di un boss reggino di ‘ndrangheta al carcere duro sono stati sottratti al padre, fatto decadere dalla responsabilità genitoriale, affidati alla madre e co-affidati al servizio sociale del territorio dove il nucleo familiare è stato trasferito. La stessa madre dei minori, in una drammatica e sofferta deposizione, ha esternato al tribunale la preoccupazione per il futuro dei figli e l’esigenza impellente di sottrarli alle influenze del contesto familiare paterno nel quale la ‘ndrangheta è, da sempre, di casa. "In Italia e a Reggio Calabria non c’è nessun familiare di cui possa fidarmi - ha fatto mettere a verbale - e il Tribunale per i minorenni è l’ultima spiaggia per me e i miei figli. Sono disponibile a rispettare tutte le prescrizioni che il Tribunale mi impartirà e chiedo, sin da ora, di essere messa a contatto con l’associazione". La donna è stata accontentata e il Tribunale ha anche vietato qualunque contatto dei minori con il padre e i suoi parenti e ha, di conseguenza, stabilito di tenere riservata struttura familiare e località di destinazione, fino a una diversa ed eventuale decisione. Di Bella al Sole-24 Ore del Lunedi ricorda come sempre più "vedove bianche", ossia mogli con mariti all’ergastolo o al carcere duro, gli chiedano una mano per lasciare la Calabria. "È un fenomeno crescente e da molti non siamo più visti come un’istituzione nemica - dichiara Di Bella -, ma l’ultima spiaggia nel mare di illegalità, carcerazione e sofferenza. È uno scenario nuovo, psicologico e sociale inedito ma, oltre che di volontari, abbiamo bisogno di un circuito normativo e ministeriale che ci sostenga". Invece incombe la riforma e c’è da chiedersi in terra di mafia chi si rivolgerebbe a sezioni specializzate delle Procure ordinarie anziché a Tribunali che, già nel nome, indicano che il bene da tutelare è il minore. Torna in carcere chi usa Facebook ai domiciliari di Lucia Izzo studiocataldi.it, 16 gennaio 2017 La Cassazione rammenta il divieto di comunicare con altre persone e di stabilire contatti sia vocali che a mezzo di congegni elettronici. Domiciliari revocati al detenuto che pubblica messaggi su Facebook, ancor più se questo è ritenuto intimidatorio nei confronti della vittima dell’illecito. La Corte di Cassazione, seconda sezione penale, con la sentenza n. 46874/2016 ha così rigettato l’impugnazione del detenuto contro l’ordinanza del Tribunale del Riesame che aveva confermato l’aggravamento della misura custodiale, da domiciliare a inframuraria, in seguito a violazioni delle misura domiciliare ritenute gravi. Nonostante le rimostranze dell’uomo, che propone una diversa lettura del materiale probatorio esaminato dai giudici di merito (non ammissibile in Cassazione), per gli Ermellini la motivazione del Tribunale è assolutamente logica e condivisibile: i giudici di merito hanno valutato, infatti, un messaggio inviato su Facebook dall’uomo alla vittima della condotta illecita, dai connotati intimidatori. Infatti, la prescrizione di non comunicare con persone estranee deve essere inteso nel senso di un divieto non solo di parlare con persone non conviventi, ma anche di stabilire contatti con altri soggetti, sia vocali che a mezzo congegni elettronici. Nel caso di specie, peraltro, il messaggio diffuso sul social network è oggettivamente criptico per i più e indirizzato a chi può comprendere perché sottintende qualcosa di riservato e conosciuto da una ristretta cerchia di persone ed è chiaramente intimidatorio a dispetto del tono volutamente suggestivo, rafforzato dalle coloratissime emoticon, ancora più esplicitamente intimidatorie. Riguardo poi alla lamentata sproporzione tra la condotta contestata e la misura del carcere, i giudici precisano che "I limiti di applicabilità della misura della custodia cautelare in carcere previsti dall’art. 275, comma secondo bis, secondo periodo, cod. proc. pen. (testo introdotto dal D.L. 26 giugno 2014, n. 92, convertito con modificazioni dalla legge 11 agosto 2014, n. 117) possono essere superati dal giudice qualora ritenga, secondo quanto previsto dal successivo comma terzo, prima parte, della norma citata, comunque inadeguata a soddisfare le esigenze cautelari ogni altra misura meno afflittiva". Nel caso di specie, applicando questa interpretazione della correlazione tra i due commi dell’articolo in questione il Tribunale del riesame ha ritenuto necessario applicare la detenzione intramuraria, poiché la violazione delle prescrizioni commessa dal ricorrente ha rivelato, incisivamente, l’inadeguatezza della detenzione domiciliare in ragione della inaffidabilità dell’indagato. Parola alla Consulta sulla legge Pinto di Giovanbattista Tona Il Sole 24 Ore, 16 gennaio 2017 Tar Liguria, ordinanza del 17 ottobre 2016. Sospetti di incostituzionalità si addensano sui numerosi adempimenti posti dalla legge di Stabilità 2016 a carico dei cittadini che devono riscuotere l’indennizzo per l’irragionevole durata del processo. È il Tar Liguria che, con un’ordinanza del 17 ottobre 2016 (presidente estensore Pupilella) ha sollevato questione di legittimità costituzionale sull’articolo 5-sexies della legge 49 del 2001 (la "Pinto"), introdotto dalla legge 208 del 2015. Gli adempimenti della Pinto - Secondo queste disposizioni, il cittadino che ha ottenuto dalla Corte d’appello la condanna del ministero della Giustizia al pagamento di una somma a ristoro del danno subito per l’eccessiva durata di un giudizio non può conquistare l’importo liquidato se prima non rilascia all’amministrazione debitrice una dichiarazione sostituiva di certificazione su una serie di circostanze. Deve attestare di non avere già riscosso somme per lo stesso titolo, deve dichiarare se ha esercitato azioni per lo stesso credito, deve indicare l’ammontare degli importi che l’amministrazione ancora gli deve e le modalità di riscossione che ha scelto tra quelle consentite dalla legge. Deve poi trasmettere tutta la documentazione prescritta compilando i moduli predisposti dall’ente. In caso di mancata, incompleta o irregolare trasmissione della dichiarazione o della documentazione, l’ordine di pagamento non può essere emesso. Il pagamento - Quando tutti gli obblighi sono integralmente adempiuti inizia a decorrere il termine di sei mesi a disposizione dell’amministrazione per il pagamento. Il termine non decorre se la dichiarazione o la documentazione sono trasmesse in modo incompleto o irregolare. I creditori dell’indennizzo Pinto non possono procedere a esecuzione forzata, a notifica del precetto o al ricorso per l’ottemperanza del provvedimento, finché non sia trascorso il termine di sei mesi. Infine, è vietato il pagamento di somme o l’assegnazione dei crediti in favore dei creditori di indennizzi Pinto, anche nelle procedure di esecuzione forzata già in corso, se non si ha prova dell’integrale e corretto adempimento degli obblighi di dichiarazione e di documentazione. Il ricorso - Al Tar ligure si è rivolto un cittadino chiedendo l’ottemperanza di un decreto di liquidazione di indennizzo, ma il ministero ha eccepito l’inammissibilità del ricorso perché non era ancora trascorso il termine semestrale. Il Tar evidenzia che il procedimento regolato dall’articolo 5-sexies della legge Pinto è "un inutile e gravatorio duplicato normativo" che per i soli creditori di questo indennizzo prevede un termine più lungo in favore dell’amministrazione (l’articolo 14 del decreto legge 669/96 prevede per tutti gli altri crediti dello Stato un termine pari a quattro mesi) e rende impossibile l’azione diretta e immediata. Si prospetta quindi il contrasto con la Costituzione negli articoli 3 (uguaglianza), 24 (diritto di difesa) e 111 (giusto processo e parità delle parti). Sarà la Consulta a stabilire se il legislatore può fissare adempimenti e differimenti più gravosi in relazione a particolari crediti dell’amministrazione. Il minore che assiste alla violenza è da considerare "persona offesa" di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 16 gennaio 2017 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 27 ottobre 2016 n. 45403. Nel caso in cui sia configurabile l’aggravante di cui all’articolo 61, numero 11-quinquies, del Cp, nell’ipotesi della cosiddetta "violenza assistita", il minore che abbia "assistito" a uno dei reati indicati nella disposizione è da considerare anch’egli "persona offesa" del reato, in quanto la configurabilità di detta circostanza aggravante determina una estensione dell’ambito della tutela penale anche al minore che abbia "assistito" alla violenza, come tale legittimato a costituirsi parte civile, essendo anch’egli danneggiato dal reato, così come aggravato, e parimenti legittimato a proporre ricorso avverso la decisione di proscioglimento dell’imputato. Lo hanno chiarito i giudici penali della Cassazione con la sentenza n. 45403 del 2016. Una nuova aggravante comune - Come è noto, il legislatore (legge 15 ottobre 2013 n. 119, di conversione, con modificazioni, del decreto legge 14 agosto 2013 n. 93) con l’introduzione della aggravante di cui all’articolo 61, numero 11-quinquies, del codice penale, ha creato una nuova aggravante "comune", anche se in realtà speciale, perché limitata a talune ipotesi di reato, configurabile "nei delitti non colposi contro la vita e l’incolumità individuale, contro la libertà personale nonché nel delitto di cui all’articolo 572 del codice penale" allorché il fatto è commesso "in presenza o in danno" di un "minore di anni diciotto" ovvero "in danno di persona in stato di gravidanza". Il minore che assiste a fatti di violenza - In tal modo, con specifico riguardo alla posizione del minore che "assiste" a fatti di violenza, si è inteso attribuire specifica valenza giuridica alla cosiddetta "violenza assistita", intesa come il complesso di ricadute di tipo comportamentale, psicologico, fisico, sociale e cognitivo, nel breve e lungo termine, sui minori costretti ad assistere a episodi di violenza e, soprattutto, a quelli di cui è vittima la madre, così attuando una specifica indicazione contenuta in tal senso nell’articolo 46, lettera d), della Convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica. La configurabilità dell’aggravante della "violenza assistita" - Ovviamente, per la configurabilità dell’aggravante della "violenza assistita" occorre la dimostrazione certa non solo della minore età, ma anche della consapevolezza di tale condizione soggettiva in capo all’autore del fatto. L’accertamento in ordine alla conoscenza della età non presenterà, di norma, aspetti di particolare complessità allorquando si verta nell’ipotesi di reati commessi in ambito familiare (in primo luogo, quello di maltrattamenti), ossia in un contesto in cui può ben affermarsi la reciproca conoscenza piena e completa dei protagonisti. Quando si verta nell’ipotesi dei reati sessuali (che rientrano nella categoria dei reati contro la libertà individuale di cui al capo III del libro II del codice penale), ai fini dell’apprezzamento soggettivo dei presupposti dell’aggravante, potrà inoltre, comunque, applicarsi il disposto dell’articolo 609-sexies del codice penale(che fonda l’irrilevanza dell’ignoranza dell’età della persona offesa). L’ipotesi della "violenza assistita" presenta, inoltre, una notevole differenza rispetto a quella dei fatti di violenza direttamente posti in essere nei confronti del minore. Infatti, in questo secondo caso, l’operatività dell’aggravante è obiettivamente evidente, ponendosi solo il problema di cui si è detto della conoscenza dell’età in capo all’autore; nel caso della "violenza assistita", oltre a porsi quest’ultimo problema di rilievo sotto il versante psicologico, è necessario porsi il problema ulteriore della "consapevole percezione" del fatto incriminato da parte del minore. In altri termini, l’aggravante non potrà obiettivamente ravvisarsi nei confronti di un minore in così tenera età da non essere stato in grado di apprezzare il fatto incriminato. A ciò aggiungasi che la norma richiede letteralmente che la condotta incriminata sia posta in essere "in presenza" del minore: ergo, occorre, secondo una interpretazione ineludibile, che il minore assista direttamente all’azione aggressiva. Ciò che dovrebbe escludere (e questo rappresenta un limite dell’aggravante) i fatti solo indirettamente percepiti come avvenuti e pur tuttavia egualmente pregiudizievoli: si pensi al sentire continuamente i litigi tra i genitori, all’avvertire le condotte violente dell’uno nei confronti dell’altro, ecc. La demolizione dell’abuso non è soggetta alla prescrizione prevista dal codice di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 16 gennaio 2017 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 4 ottobre 2016 n. 41498. La demolizione del manufatto abusivo, anche se disposta dal giudice penale ai sensi dell’articolo 31, comma 9, del Dpr 6 giugno 2001 n. 380, qualora non sia stata altrimenti eseguita, ha natura di sanzione amministrativa che assolve a un’autonoma funzione ripristinatoria del bene giuridico leso, configura un obbligo di fare, imposto per ragioni di tutela del territorio, non ha una finalità punitiva e ha carattere reale, producendo effetti sul soggetto che è in rapporto con il bene, indipendentemente dall’essere stato o meno quest’ultimo l’autore dell’abuso. Lo ha stabilito la Cassazione con la sentenza n. 41498 del 2016, secondo la quale per tali sue caratteristiche la demolizione non può ritenersi una "pena" nel senso individuato dalla giurisprudenza della Cedu e non è soggetta alla prescrizione stabilita dall’articolo 173 del Cp. L’ordine di demolizione - Va ricordato che, secondo assunto pacifico, in tema di reati edilizi, l’ordine di demolizione di cui all’articolo 31, comma 9, del Dpr 6 giugno 2001 n. 380 è una sanzione amministrativa di tipo ablatorio accessoria rispetto alla condanna principale, che costituisce esplicitazione di un potere sanzionatorio, non residuale o sostitutivo ma svincolato rispetto a quelli dell’autorità amministrativa, attribuito dalla legge al giudice penale. Il relativo provvedimento, pertanto, al pari delle altri statuizioni della sentenza, una volta che questa sia passata in giudicato, è assoggettato all’esecuzione nelle forme previste dagli articoli 655 e seguenti del Cpp, onde l’organo promotore dell’esecuzione va identificato nel pubblico ministero (sezione III, 28 aprile 2010, Del Sorbo). Parimenti, è altresì pacifico che l’ordine di demolizione, così come ricostruito come sanzione amministrativa accessoria, deve essere dal giudice disposto anche nella sentenza applicativa di pena concordata dalle parti; a nulla rilevando, in proposito, che l’ordine di demolizione non abbia formato oggetto dell’accordo intercorso tra le parti, in quanto esso costituisce "atto dovuto" per il giudice, non suscettibile di valutazioni discrezionali e sottratto alla disponibilità delle parti stesse, di cui l’imputato deve tenere comunque conto nell’operare la scelta del patteggiamento (tra le tante, sezione II, 7 gennaio 2011, Proc. gen. App. Napoli in proc. Cristofaro). L’imprescrittibilità - È peraltro da ricordare che l’"imprescrittibilità", su cui si è soffermata la sentenza qui pubblicata (in termini, sezione III, 10 novembre 2015, Proc. Rep. Trib. Asti in proc. Delorier; sezione III, 20 gennaio 2016, Di Scala), consegue all’ordine di demolizione adottato con la sentenza di condanna, giacché, invece, in caso di estinzione per prescrizione del reato di costruzione abusiva, il giudice penale non può impartire l’ordine di demolizione delle opere illecite, fermo restando l’autonomo potere-dovere dell’autorità amministrativa: ciò in quanto l’ordine di demolizione previsto dall’articolo 31, comma 9, del Dpr 6 giugno 2001 n. 380 costituisce una sanzione amministrativa di tipo ablatorio la cui catalogazione fra i provvedimenti giurisdizionali trova la propria ragione giuridica nella accessività alla "sentenza di condanna" (sezione III, 28 settembre 2011, Mancinelli e altro). Diritto all’oblio, sì alla tutela per oltre il 60% dei ricorsi di Antonio Ciccia Messina Italia Oggi, 16 gennaio 2017 Essere dimenticati dalla rete: sempre meno desiderio arduo da realizzare e sempre più diritto tutelato dagli opportuni strumenti giuridici (sempre che ne ricorrano i presupposti). La casistica dei ricorsi presentati al Garante della privacy nel 2016 ha fatto registrare un risultato favorevole per l’interessato nel 62% dei casi. Percentuale ottenuta sommando i casi in cui l’Autorità è giunta a una decisione di accoglimento, sia quelli in cui non ce n’è stato bisogno per l’adesione spontanea alle richieste di chi vuole de-indicizzare i propri dati diffusi in rete dai motori di ricerca. D’altra parte l’oblio è un vero e proprio diritto riconosciuto dalla Corte di Giustizia Ue, ma ancor prima applicato dalle pronunce del Garante della privacy e dalla Corte di cassazione. Il diritto è stato anche codificato nel Regolamento Ue sulla privacy (2016/679), che lo ha integralmente disciplinato. Il diritto all’oblio. Il diritto all’oblio è il diritto a "scomparire", a non essere raggiunti dagli sguardi altrui. Più prosaicamente è il diritto a togliere dagli indici (de-indicizzare) i risultati delle interrogazioni dei motori di ricerca online e, più in generale, di cancellare dati da fonti disponibili potenzialmente a tutti. Non è un diritto assoluto, ma ha l’obiettivo di tenere distinte due sfere della vita di ciascun individuo: quella pubblica e quella privata. L’estensione delle due parti è differente per ogni interessato: non a caso si parla di "personaggi pubblici" che hanno meno privacy degli altri. Il diritto all’oblio è indispensabile nella società sempre connessa in rete e in cui le informazioni sulle persone viaggiano e si trasformano all’insaputa delle stesse e anche contro la loro volontà. All’individuo deve essere data la possibilità di rintracciare i propri dati nel loro vagare in rete e anche di passare un colpo di spugna sui sommari del web per farsi dimenticare. Questo nei limiti in cui i rapporti sociali e giuridici non obblighino la persona a tollerare che i propri dati siano conosciuti e utilizzati da altri. Il diritto all’oblio va, perciò, valutato caso per caso. La tutela del diritto si serve del ricorso al Garante della privacy e delle azioni per il risarcimento dei danni. Le violazioni sono punite con sanzioni amministrative e, nei casi più gravi, con sanzioni penali. Giurisprudenza e normativa. Prima che nei testi normativi, il diritto di oblio si è affacciato nella giurisprudenza del Garante italiano, per lo meno a partire dal 2004 (provvedimenti 15 aprile 2004 e soprattutto 10 novembre 2004). Della Corte di cassazione si censisce quale precedente specifico la sentenza della sezione terza n. 5525 del 5 aprile 2012, che ha disposto l’obbligo per un editore, quando vengono diffuse sul web notizie di cronaca giudiziaria, concernenti provvedimenti limitativi della libertà personale, di tenere gli utenti aggiornati sullo sviluppo della vicenda. Dal canto suo, la Corte di Giustizia Ue ha pronunciato la sentenza del 13 maggio 2014 nella causa C-131/12, (sentenza "Google Spain"), che ha stabilito il diritto di ottenere la cancellazione dei risultati delle ricerche sui motori generali di ricerca a prescindere dalla cancellazione della pagina di riferimento. Il gruppo dei garanti europei (Gruppo di lavoro articolo 29, siglato WP29) ha dedicato all’illustrazione della sentenza Google Spain un apposito vademecum (Linee Guida del 26 novembre 2014, documento WP 225). Il WP29 ha accompagnato gli operatori fino al Regolamento Ue 2016/679 sulla privacy, che ha codificato il diritto all’oblio (articolo 17) e che diventerà pienamente operativo dal 25 maggio 2018. La giurisprudenza del Garante. Il trascorrere del tempo è il fattore che costruisce, giorno dopo giorno, il diritto all’oblio su notizie rinvenibili attraverso l’interrogazione dei motori di ricerca. Ma su certi eventi la scure della prescrizione non cala, come ad esempio su informazioni riferite a reati gravi. Il diritto all’oblio riguarda innanzi tutto i risultati delle interrogazioni dei motori di ricerca generale computati inserendo il nome di una persona fi sica. Attiene al diritto all’oblio, ma su un piano diverso il diritto alla cancellazione delle pagine linkate dal risultato della ricerca. Altro profilo costante delle decisioni del Garante è l’estraneità alla sua competenza delle domande di tutela contro diffamazioni, di competenza dell’autorità giudiziaria. Esaminiamo dunque la casistica. Infondatezza. Al Garante è stata chiesta la rimozione di una serie di Url che rimandano ad una vicenda giudiziaria risalente a 10 anni prima conclusa con una sentenza patteggiata e applicazione dell’indulto. I fatti riguardavano crimini di particolare gravità contro la p.a., quali la corruzione e la truffa, perpetrati a danno della sanità, mediante l’illecita sottrazione di ingenti risorse finanziarie pubbliche. Il Garante ha rigettato la richiesta per sussistenza di un interesse pubblico, a causa della particolare gravità dei reati contestati e il breve lasso di tempo (circa 4 anni) trascorso dalla loro definizione processuale dai fatti (provv. 6 ottobre 2016 n. 400 del 6 ottobre 2016). È stata chiesta la "deindicizzazione" di link relativi "ad un procedimento penale concluso con l’assoluzione con formula ampia. Il Garante ha considerato troppo breve il lasso di tempo trascorso e ha rilevato la pendenza della pendenza giudiziaria e ancora sussistente l’interesse pubblico alla conoscibilità della notizia (provv. 1 giugno 2016 n. 250). È stata ritenuta infondata una richiesta di deindicizzazione di link relativi a documenti a causa della gravità dei reati contestati, del breve lasso di tempo (circa due anni) trascorso dai fatti e della pendenza del procedimento penale non ancora concluso (provv. 29 settembre 2016 n. 385). Infondata è stata ritenuta a richiesta di oblio su una vicenda penale di sette anni prima, che ha coinvolto un imprenditore, oggetto di successivi sviluppi processuali (provv. 21 aprile 2016 n. 187). Infondata pure la richiesta di cancellazione del collegamento ad articolo contenenti opinioni negative sulle vicende di una professoressa universitaria, a proposito del quale l’interessata, lamentava di essere stata diffamata: il Garante ha rilevato la sua incompetenza rispetto a domande basate sul carattere offensivo dei contenuti e dunque a tutela di posizioni giuridiche diverse da quelle sottese al diritto all’oblio (provv. 31 marzo 2016 n. 156; stesso principio [distinzione fra opinioni personali e fatti oggettivi] applicato dal provv. 11 febbraio 2016 n. 54 ). È stata giudicata infondata la richiesta di de-indicizzazione di link collegati ad articoli pubblicati su vicenda giudiziaria molto recente, neanche conclusa, non essendo ancora decorso il termine per proporre impugnazione (provv. 16 giugno 2016 n. 267). Infondata pure la richiesta di cancellazione di Url riguardanti crimini di particolare gravità (reati di stampo terroristico ed eversivo dell’ordine democratico) per i quali l’interessato è stato condannato: il Garante ha considerato che le informazioni riguardavano una delle pagine più buie della storia italiana, della quale l’interessato è stato un vero e proprio protagonista di spicco e hanno ormai assunto una valenza storica avendo segnato la memoria collettiva (provv. 31 marzo 2016 n. 152). Sono state, infine, ritenute infondate l’istanza relativa a una vicenda iniziata nel 2007 ma ancora pendente nel 2015 (provv. 25 febbraio 2016 n. 86) e quella concernente link relativi a incriminazioni per il reato di circonvenzione di incapace, un crimine di particolare gravità, sul quale è intervenuta una decisione di proscioglimento per prescrizione (provvedimento del 24 marzo 2016 n. 144). Accoglimento. È stata accolta la richiesta di cancellazione di un link a un articolo di molti anni prima ad oggetto una vicenda di sfruttamento del lavoro minorile da parte di un’azienda che ha coinvolto persone legate all’interessato da un rapporto di parentela (provv. 6 luglio 2016 n. 302); è stata accolta l’istanza relativa a una vicenda giudiziaria conclusa con un provvedimento di archiviazione dell’autorità competente (provv. n. 358 del 15 settembre 2016); è stata accolta la richiesta di rimuovere al link a notizie false (provv. 25 febbraio 2016 n. 84). Adesione spontanea. Si è avuta la definizione con adesione spontanea e cancellazione del link immediata, senza attendere la pronuncia del Garante, nel caso di collegamento relativo a procedimento penale conclusosi nel 2014 con un’ordinanza di archiviazione (provv. 21 luglio 2016 n. 323 del 21 luglio 2016); in caso di Url riconducibile alla pagina web, in cui risultavano pubblicate due foto segnaletiche dell’interessato unitamente ad una serie di dati personali, tra i quali nome, cognome, data di nascita, genere (provvedimento del 28 luglio 2016 n.342); di alcuni Url connessi alla diffusione di video attinenti alla vita intima (provv. 1° giugno 2016 n. 251); di Url che rimandano ad articoli di giornale, ovvero a blog ovvero ancora ad altre pagine di commento-informazione riferite ad una vicenda giudiziaria, conseguente al verificarsi di gravi fatti di cronaca risalenti al 2001 (provv. 13 luglio 2016 n. 313); di Url collegato a una pagina web riportante il testo di un articolo apparso 11 anni prima su un presunto coinvolgimento di un professore universitario in vicende di tipo familistico all’interno dell’Università (provvedimento del 1° giugno 2016 n. 249); di Url collegato a un documento pieno di insulti (provv. 29 settembre 2016 n. 386); di informazioni ormai risalenti a oltre 26 anni prima (provvedimento del 13 luglio 2016 n. 312) e 10 anni prima (provvedimento del 28 luglio 2016 n. 343). "Chi chiede asilo dovrà lavorare". Ecco le nuove regole per i profughi di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 16 gennaio 2017 Le novità del pacchetto immigrazione del Viminale. Proposta di modifica per il reato di clandestinità. I venti nuovi Cie saranno strutture da massimo cento posti ognuno. Chi arriva in Italia e chiede asilo dovrà svolgere lavori socialmente utili in attesa di ottenere risposta all’istanza. È una delle novità più importanti del pacchetto di nuove misure in materia di immigrazione che sarà illustrato mercoledì al Parlamento dal ministro dell’Interno Marco Minniti, al ritorno dalla sua missione in Germania proprio per discutere di una linea comune in sede europea. Si tratta di un insieme di regole che hanno l’obiettivo di marcare il "doppio binario" tra profughi e irregolari e si affiancheranno a due proposte legislative sulle quali spetterà alle Camere pronunciarsi. In attesa di chiudere nuovi accordi bilaterali con gli Stati africani che in cambio di aiuti sono disposti ad accettare i rimpatri, ritenuti una delle priorità dal governo. L’appuntamento è fissato davanti alla commissione Affari costituzionali nell’ambito di un progetto che coinvolge anche le Regioni e i Comuni. Un percorso condiviso che - come ha sottolineato il titolare del Viminale - "servirà a garantire accoglienza a chi ha titolo, essendo inflessibili con chi non ha i requisiti per rimanere nel nostro Paese". Anche tenendo conto dei numeri: nei primi dodici giorni del 2017 sono sbarcate 729 persone, il triplo rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, con una media di 60 al giorno. A ciò si aggiunge l’emergenza per i minori non accompagnati. Secondo Telefono azzurro lo scorso anno sono scomparsi in Italia oltre 5.000 ragazzi e bambini. I nuovi Cie saranno strutture da massimo cento posti, stabili demaniali lontani dai centri delle città, preferibilmente vicini agli aeroporti. All’interno lavoreranno i poliziotti per effettuare la procedura di identificazione ed espulsione in modo da poter poi pianificare i rimpatri. La vigilanza esterna potrebbe essere affidata ai soldati che finora hanno svolto compiti di sorveglianza per il dispositivo antiterrorismo. All’interno sarà sempre presente un "garante" che possa verificare il rispetto dei diritti degli stranieri. A Roma, Torino, Crotone e Caltanissetta si è deciso di utilizzare i centri già operativi, altrove si stanno individuando gli edifici adeguati. Dovrebbero rimanere escluse la Valle d’Aosta e il Molise, anche tenendo conto delle difficoltà per effettuare i trasferimenti. Due mesi dopo la presentazione della richiesta di asilo, ai migranti viene rilasciato un documento in cui vengono indicati come "sedicenti" rispetto alle generalità che hanno fornito al momento dell’arrivo. Basterà quel foglio per inserirli nel circuito dei lavori socialmente utili che diventerà uno dei requisiti di privilegio per ottenere lo status di rifugiato. Proprio come già accade per il corso di italiano obbligatorio per chi vuole ottenere la cittadinanza. Si faranno convenzioni anche con le aziende per stage che potranno essere frequentati da chi ha diplomi o specializzazioni, proprio come avviene in Germania, nell’ottica di inserire gli stranieri nel sistema di accoglienza avendo la loro disponibilità a volersi davvero integrare. Sono due le norme per le quali si chiederà al Parlamento di valutare modifiche sostanziali. La prima riguarda la possibilità di presentare appello contro il provvedimento che nega l’asilo, sia pur prevedendo alcune eccezioni. Si tratta di una misura che mira a snellire le procedure, evitando inutili lungaggini che impediscono di far tornare nel proprio Paese chi non ha titolo per rimanere. Una linea che riguarda anche il reato di immigrazione clandestina, di cui da tempo i magistrati chiedono l’abolizione proprio perché impedisce di rendere effettive la maggior parte delle espulsioni. Chi viene denunciato e poi processato per questo illecito può infatti chiedere e ottenere di rimanere in Italia fino alla sentenza definitiva. Con il risultato di non poter effettuare il rimpatrio, anche se lo Stato di nascita concede il nulla osta. Quelli che… i Cie erano "campi di concentramento" di Silvia D’Onghia Il Fatto Quotidiano, 16 gennaio 2017 Il ministro dell’Interno, Minniti, ha annunciato nuovi Centri di identificazione ed espulsione. Fu lui stesso, da responsabile Sicurezza del Pd nel 2009, a chiederne la chiusura. E non era il solo. I centri di identificazione degli immigrati assomigliano "a dei campi di concentramento, tanto è vero che il Parlamento ha negato che la permanenza possa essere aumentata a sei mesi". Peccato che il governo, ponendo la fiducia, abbia prolungato la permanenza nei Cie fino a sei mesi". Parola di Marco Minniti, quando ancora non era ministro dell’Interno. Era il Marco Minniti responsabile sicurezza del Pd, il 19 maggio 2009: al governo c’era Silvio Berlusconi. Forse è la stessa persona? Chissà. Certo di acqua ne è passata sotto i ponti in quasi otto anni: si è andati a votare nell’ormai lontano 2013, i governi sono cambiati, l’immigrazione è tornata a essere un’emergenza dopo la fine dell’operazione Mare Nostrum e, soprattutto, dopo le stragi terroristiche che hanno colpito l’Europa. E allora si vede che il remoto ricordo dei Cie come "campi di concentramento", in cui i migranti si cucivano le bocche o davano fuoco alle strutture per protesta, è svanito nel nulla (il nostro è un Paese dalla memoria corta) o è stato ammorbidito dalle rassicuranti parole del nuovo Minniti: "Non avranno nulla a che fare con quelli del passato. Punto. Non c’entrano nulla perché hanno un’altra finalità, non c’entrano con l’accoglienza ma con coloro che devono essere espulsi", ha detto il neo ministro dell’Interno lo scorso 5 gennaio, poco dopo aver tirato fuori il coniglio dal cilindro. Memoria corta, dicevamo. Del resto non tutti ricordano che i Centri di identificazione ed espulsione furono istituiti dalla legge 40 del 6 marzo 1998, passata alla storia come Turco-Napolitano. L’allora ministra per la Solidarietà sociale e l’allora collega agli Interni previdero per la prima volta di trattenere i destinatari di provvedimenti di espulsione in appositi Centri definiti "di permanenza temporanea e assistenza", poi trasformati nel 2011 in Centri di identificazione ed espulsione. l Testo Unico sull’immigrazione ha subìto negli anni alcune modifiche: prima con la Bossi-Fini (2002) e poi con il cosiddetto "pacchetto sicurezza" del governo Berlusconi, che nel 2008 ha introdotto il reato di immigrazione clandestina. Nel 2014 il Parlamento ha delegato al governo la riforma del sistema sanzionatorio dei reati (l’irregolarità del soggiorno non dovrebbe avere più rilievo penale), ma ad oggi, nonostante vi siano almeno sei proposte di legge ferme, nonostante la Corte Europea abbia stabilito che gli ingressi irregolari di migranti non possano essere sanzionati con il carcere e nonostante il richiamo - lo scorso anno - del presidente della Corte di Cassazione, Giovanni Canzio ("un reato inutile e dannoso"), nessuno ha fatto nulla. L’articolo 14 del Testo Unico del 1998 prevede che "quando non sia possibile eseguire con immediatezza l’espulsione mediante accompagnamento alla frontiera" (e su questo giornale abbiamo visto le difficoltà della polizia a farlo), il questore "disponga che lo straniero sia trattenuto per il tempo strettamente necessario" presso un Cie. Il "tempo necessario", inizialmente di 30 giorni (Turco-Napolitano), è diventato di 60 con la Bossi-Fini, di 180 con il "pacchetto sicurezza" del 2008 e addirittura di 18 mesi nel 2011; è tornato di 90 giorni nel 2014, ma un decreto legislativo del 2015, in attuazione di una direttiva europea, ha previsto in alcune circostanze il trattenimento fino a un anno per il richiedente asilo che "costituisce un pericolo per l’ordine e la sicurezza" e per il quale sussiste "rischio di fuga". Attualmente sono sei i Cie funzionanti (Bari, Brindisi, Caltanissetta, Crotone, Roma e Torino), anche se il sito del Viminale, fermo a luglio 2015, ne elenca soltanto cinque. Diventeranno molti di più, piccoli e in ogni Regione, se il nuovo Minniti andrà avanti per la sua strada. Giovedì prossimo il ministro incontrerà i governatori per illustrare le proprie intenzioni: "Proporrò strutture piccole, che non c’entrano nulla con quelle del passato, con governante trasparente e un potere esterno rispetto alle condizioni di vita all’interno". E dire che, all’epoca, Minniti non era il solo del suo schieramento a pensare che i Centri dovessero essere chiusi. Nel giugno 2011, mentre Roberto Maroni faceva approvare - tre giorni dopo Pontida - il decreto legge che innalzava a 18 mesi la permanenza nei Cie, l’attuale sottosegretario piddino Sandro Gozi solennemente commentava: "Il ministro Maroni ha voluto solo mostrare il pugno duro, ma è propaganda con le gambe corte, buona solo per Pontida e conferma che il governo affronta il fenomeno dell’immigrazione solo con politiche repressive". Si vede che adesso che è al governo anche lui, le politiche repressive hanno le gambe più lunghe. Nel 2012, il Forum Immigrazione del Partito Democratico affrontava le "linee programmatiche a breve e media scadenza: dalla abrogazione del reato di clandestinità al superamento dei Cie. Occorre superare il diritto speciale dello straniero e tornare a un sistema di espulsione che sia coerente con la nostra Costituzione". E solo tre anni e pochi giorni fa, il 18 dicembre 2013, il vice ministro dell’Interno, Filippo Bubbico (incarico del premier Letta, poi confermato da Renzi e Gentiloni), a proposito del Centro di Lampedusa tuonava: "Bisogna riformare il prima possibile quelle norme, bisogna chiudere il Cie". La notte dei governi, evidentemente, porta consiglio. Migranti. Nel limbo dei Balcani, l’esodo congelato di Marco Ventura Il Gazzettino, 16 gennaio 2017 Decine di migliaia intrappolati in condizioni disumane lungo la rotta di terra Turchia-Ue. Velati di nebbia, i salici vaporano; sempre più basse, le nubi vorticano. L’abisso, che il fiume attraversa, è fosco e impenetrabile. La terra è cupa, invisibile, sommersa di pioggia. Questi sono i Balcani, nel 700 come oggi, raccontati nell’epopea serba di Milo Crnjanski non a caso intitolata Migrazioni. L’eroe vi appare a piedi nudi sul terreno freddo e umido, avvolto nel mantello che si era buttato addosso. Come un migrante. Il romanzo cult di Crnjanski racconta di viaggi verso una terra promessa che si chiama Russia. Oggi quelle migrazioni non riguardano i serbi ma siriani, afgani, pakistani, che attraverso la Turchia o la Bulgaria in quella grande distesa battuta da venti gelidi e afflitta dalla pioggia ghiacciata quando la temperatura, come in questi giorni, raggiunge i 17 gradi sotto zero nelle valli e foreste in cui si sparpagliano i migranti respinti dall’Europa ai confini blindati tra Serbia e Ungheria. Migranti che muoiono di freddo. Come la quasi neonata morta congelata mentre la famiglia cercava di passare il confine tra Macedonia e Serbia. Anche al centro di Belgrado si battono i denti e si (soprav)vive in condizioni estreme. Incerte le stime. Non c’è un vero censimento delle persone fuori dai campi riconosciuti, sottolinea Andrea Contenta, esperto di Affari umanitari per Medici Senza Frontiere, a Belgrado da agosto. Le ultime cifre dell’Alto commissariato per i rifugiati parlano di 7.400 persone in Serbia, circa 6mila nelle strutture governative e quindi 1400 abbandonate a sé stesse. All’inizio di gennaio, nei capannoni vicino alla stazione di Belgrado erano circa 2mila. Circa 100-200 invece a nord, nelle zone di transito proprio di fronte alle barriere ungheresi. Il buco nero è la regione di Subotica, in particolare Horgo e Kelebia. I Balcani sono un intrico di rotte e la Serbia è il limbo al quale tutte le strade portano. Se passi dalla Bulgaria, dalla Macedonia o dalla Grecia, o anche dal Kossovo e dal Monenegro spiega Contenta non vai in Bosnia che è montuosa, ancora piena di mine e con una situazione politica instabile. Preferisci andare in Serbia, e qui trovi pure i canali della criminalità dei cosiddetti smugglers, i trafficanti di esseri umani che ti portano dove vuoi. Ma spesso a costo della vita. Come negli incidenti di novembre e dicembre, il primo a un pullmino con targa del Regno Unito subito dopo il confine tra Serbia e Croazia, con intossicazioni dovute a un pneumatico andato a fuoco, l’altro vicino a Ni, tre morti in una station wagon dalla Bulgaria. Qui, in Bulgaria, i migranti intrappolati sono 13-15mila, in Grecia tra isole (Lesbo, Samo e Chio) e terraferma oltre 60mila e poi in Macedonia, Albania, Montenegro, Bosnia, dove i migranti sono reclusi in vere e proprie carceri. A Belgrado, dietro la stazione centrale di treni e autobus nel complesso denominato Belgrade Waterfront, un’altra Calais, dice Contenta, le patologie affrontate dai due team medici di MSF (un medico, uno psicologo e i mediatori culturali) sono perlopiù malattie della pelle dovute all’assenza di elementari condizioni igieniche e, poi quelle respiratorie per l’inalazione dei fumi di materiali, spesso plastica, bruciati per riscaldarsi dentro i magazzini abbandonati. La Grecia porta dei Balcani fa registrare una situazione drammatica nell’isola di Lesbo: i migranti del campo di Moria sono stati trasferiti negli alberghi, è stata anche mandata una nave da guerra in grado di accogliere almeno 300 persone ma pochi accettano di farsi ospitare per paura di essere riportati in Turchia. Roland Schoenbauer, portavoce dell’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati in Grecia, dice che anche più critica è la situazione di Samo, dove la neve degli ultimi giorni ha lasciato lo spazio al fango che, unito alle piogge, ha lasciato in pessime condizioni il campo di Vathi, nella parte orientale dell’isola. Ma la situazione dei piccoli è quella che preoccupa di più. Regeni, una borsa di studio per un giovane egiziano di Ferdinando Giugliano La Repubblica, 16 gennaio 2017 Due ex studenti del Collegio del Mondo Unito dove il ricercatore aveva studiato lanciano la sottoscrizione. Un anno fa, il corpo martoriato di Giulio Regeni viene trovato in un fosso a pochi chilometri dal Cairo. I colpevoli del barbaro omicidio sono ancora impuniti, protetti da una rete di connivenze che si fa beffe della morte di un giovane ricercatore di appena 28 anni. Ma la giustizia non vive di sola condanna. Il 3 febbraio, a dodici mesi esatti dal ritrovamento del cadavere di Regeni, alla Camera dei Deputati sarà lanciata una sottoscrizione per creare una borsa di studio a lui intitolata. Il destinatario sarà un adolescente egiziano, che potrà venire in Italia per due anni e frequentare lo stesso tipo di scuola secondaria in cui Regeni aveva studiato prima di proseguire i suoi studi a Londra e a Cambridge. I promotori dell’iniziativa sono Federico Torracchi e Lorenzo Bartolucci, che con Regeni hanno frequentato il Collegio del Mondo Unito dell’American West, nel New Mexico. Questa scuola, come altre 15 in 4 continenti, si propone di promuovere i valori della comprensione tra popoli e della tolleranza, facendo convivere per due anni ragazzi meritevoli provenienti da tutto il mondo. "Vogliamo ricordare chi era Giulio, cosa ha fatto prima della sua morte", dice Bartolucci, laurea a Harvard e oggi analista per una azienda di software della Silicon Valley. "L’idea c’è venuta durante il funerale, ma abbiamo aspettato di avere il consenso della famiglia", gli fa eco Torracchi, oggi consulente per la Banca Mondiale. "È un gesto che manda un messaggio in controtendenza rispetto all’odio. Giulio voleva migliorare la vita delle persone, e la borsa potrà cambiare la vita di un adolescente che deve fare i conti con la realtà egiziana". La borsa di studio sarà destinata al Collegio del Mondo Unito dell’Adriatico di Duino, in provincia di Trieste, Siccome il costo di due anni di studio è di circa 43.000 euro, i due giovani puntano a mettere su un fondo di circa 1,4 milioni, che permetta di finanziarla per sempre, grazie ai soli interessi. La prima borsa partirà comunque nel settembre di quest’anno, grazie all’intervento della regione Friuli Venezia Giulia, già sponsor del Collegio di Duino, e che coprirà le spese del primo anno. L’iniziativa, che ricalca la decisione dell’Inps di intitolare una borsa di studio per ricercatori a Valeria Solesin, uccisa nell’attentato al Bataclan di Parigi, vuole contare sia su piccoli contributi raccolti attraverso crowd-funding, sia sul sostegno di aziende e delle istituzioni. A questo proposito si sta muovendo Lia Quartapelle, parlamentare del Partito Democratico ed ex studentessa dei Collegi del Mondo Unito. L’iniziativa conta sul sostegno della Commissione Nazionale Egiziana, che si occuperà di selezionare il sedicenne a cui sarà destinata la borsa di studio. Il Collegio di Duino ha fornito le garanzie, richieste dalla famiglia Regeni, che quest’organo si muova con la necessaria indipendenza. "La speranza che venga fatta luce sull’omicidio non va mai abbandonata", dice Bartolucci. "La borsa è anche un modo per tenere viva l’attenzione sul governo, perché faccia tutto il possibile per trovare i colpevoli di questo scempio". Stati Uniti. Dopo l’11 settembre le violenze sessuali sono diventate metodi di tortura di Anne-Laure Pineau e Sophie Tardy-Joubert Internazionale, 16 gennaio 2017 Questo autunno a Washington fa un caldo insolito. Zucche e scheletri di Halloween penzolano tra gli alberi rosseggianti dei giardini di Georgetown, quartiere benestante della capitale federale. John Rizzo, avvocato, ex direttore del dipartimento affari legali della Cia (l’agenzia), trascorre qui una tranquilla pensione. Ogni mattina abbina con gran cura i calzini alla camicia scelta per quel giorno, poi se ne va a spasso per le belle stradine tra i villini in mattoni colorati. Questo dandy dai capelli candidi fa parte del gruppetto di persone che, nel segreto della sede della Cia, hanno reso legale un nuovo metodo di interrogatorio. Tecniche "rafforzate" (enhanced interrogation technique) usate per "spezzare la resistenza" dei prigionieri della guerra al terrore. Da Guantanamo ad Abu Ghraib, queste tecniche hanno mutato il volto degli Stati Uniti inaugurando la possibilità di fare ricorso a diverse forme di tortura. Se la simulazione della morte per annegamento (waterboarding) è stata raccontata dai mezzi d’informazione come il simbolo della tortura americana, le aggressioni e le umiliazioni sessuali sono sempre rimaste in secondo piano. Eppure il ricorso alle sevizie sessuali come tecnica di interrogatorio "rafforzata" è stato sistematico per sfiancare i detenuti. Incontriamo l’ex direttore il 20 ottobre del 2016. Si presenta come un uomo affabile e rilassato: "Una parola mia e tutto sarebbe finito ancora prima di cominciare", dichiara con un mezzo sorriso sulle labbra. Non l’ha fatto, e lo accetta consapevolmente: "La priorità assoluta era far sì che noi (la Cia) non potessimo essere ritenuti responsabili di un secondo 11 settembre". Per capire la nascita delle "tecniche di interrogatorio rafforzate", secondo la pudica definizione scelta dall’agenzia, bisogna risalire al trauma vissuto dagli Stati Uniti all’alba del nuovo millennio: gli attentati dell’11 settembre 2001. I servizi segreti non sono stati in grado di impedirli, hanno fallito. "Ci vergognavamo terribilmente di non essere riusciti a capire quello che si preparava", commenta John Rizzo. L’avvocato è cosciente di aver superato una linea rossa. Perciò si preoccupa di coinvolgere la Casa Bianca nella sua decisione Il 17 settembre, sei giorni dopo gli attentati, il gabinetto presidenziale conferisce alla Cia pieni poteri di arrestare i potenziali terroristi e di creare un nuovo sistema di interrogatorio. John Rizzo se ne ricorda come se fosse ieri: "Non l’avevamo mai fatto. Quella volta si trattava di un programma che non era stato fissato nel tempo… e mettere a parte di questo segreto un numero molto ristretto di persone è stato un errore". Sul campo, la caccia ai terroristi non è facile. Gli agenti fanno fatica a risalire alle menti dell’11 settembre. Infine, dopo molti mesi, un primo detenuto ritenuto "prezioso" cade nelle mani della Cia in Pakistan. È il marzo del 2002. Abu Zubaydah, un saudita sulla trentina, è sospettato di essere uno dei responsabili della logistica degli attacchi, se non addirittura un parente di Osama bin Laden. "Se c’era qualcuno al corrente di un nuovo attentato, quella persona doveva per forza essere Zubaydah, ma a dire il vero non era il pesce grosso che speravamo", racconta Rizzo. Nel giorno dell’interrogatorio, Abu Zubaydah risponde con il silenzio. "[I nostri investigatori] erano convinti che nascondesse qualcosa", ricorda. "Perciò dovevano costringerlo a parlare". L’agenzia decide allora di rivolgersi a due consulenti, gli psicologi James Mitchell e Bruce Jessen. Oggi sono coinvolti in un processo in seguito a una denuncia dell’Unione americana per le libertà civili (Aclu). Fino ad allora i due non avevano mai assistito a un interrogatorio dal vivo. Hanno improvvisato, pretendendo di ispirarsi alla psicologia comportamentale. Di fatto non hanno fatto che adattare quasi alla lettera il programma di addestramento militare Sere (Survival, evasion, resistance and escape, sopravvivenza, evasione, resistenza e salvezza), creato dopo la guerra di Corea per preparare agli interrogatori i soldati e i civili in caso di cattura da parte dei servizi segreti del paese comunista. Questo programma, ispirato ai metodi di tortura nordcoreani, ha lo scopo di "mettere a disagio il detenuto per farlo crollare", spiega John Rizzo. Mitchell e Jessen proposero una lista di tecniche all’avvocato, tra cui la "svestizione", il "ricorso a fobie individuali", il "ricorso a posizioni di stress" o a "interrogatori di venti ore". Piccoli sporchi vincoli internazionali Il flemmatico avvocato a quel punto fu colto dal panico: "Mi sono detto: non si può fare una roba simile". John Rizzo sapeva bene che le tecniche oltrepassavano i limiti del diritto. Di fatto gli Stati Uniti sono firmatari della convenzione di Ginevra sul trattamento dei prigionieri di guerra e della convenzione contro la tortura. "Piccoli sporchi vincoli internazionali", come ha scritto all’epoca in un’email inviata a un collega della Cia. Decide di liberarsene e aderisce al parere dei presunti esperti psicologi. "Sempre meglio che correre il rischio di subire un nuovo attentato e di vedere di nuovo centinaia o migliaia di americani innocenti uccisi", afferma oggi. Zubaydah diventa così il "topo da laboratorio" (è questo il soprannome che gli viene dato dai mezzi d’informazione e dagli specialisti di questo settore) dell’agenzia. Sarà rinchiuso in una scatola delle dimensioni di un feretro, "nutrito" per via anale, osservato nudo per lunghi periodi e sottoposto per ottantatré volte a waterboarding. Paragonata al waterboarding e alla chiusura in un feretro, la nudità potrebbe sembrare un abuso minore. Non lo è, e la Cia lo sa bene. "Gli esperti erano giunti alla conclusione che Abu Zubaydah era una specie di perverso. Secondo loro, denudandolo lo avrebbero sminuito, mettendolo a tal punto in imbarazzo da spezzare la sua resistenza", spiega con calma John Rizzo. L’avvocato è cosciente del fatto di aver superato una linea rossa: "Sapevo che il giorno in cui tutto questo fosse venuto fuori, saremmo stati fottuti", afferma. Perciò si preoccupa di coinvolgere la Casa Bianca nella sua decisione. Le tecniche, secondo i racconti di John Rizzo, furono al centro di riunioni quotidiane nell’ufficio del direttore della Cia, in presenza di alcuni membri del governo scelti con la massima cura (erano presenti, insieme a lui, Dick Cheney, Donald Rumsfeld, Condoleezza Rice e Colin Powell). Da notare l’esclusione del presidente George W. Bush. Le tecniche furono discusse una a una. Sempre secondo John Rizzo, la consigliera alla sicurezza nazionale Condoleezza Rice era particolarmente disturbata dalla nudità imposta ai detenuti in alcune fasi degli interrogatori. Aveva capito le gravi derive alle quali un simile provvedimento avrebbe sicuramente condotto? Forse, ma nonostante ciò non si è opposta in modo deciso. "Nonostante le obiezioni, Rice rispetto alla nudità forzata e Powell riguardo la privazione del sonno si sono limitati a dire questa cosa mi mette a disagio, ma non ci hanno mai detto di non farlo", sottolinea Rizzo. Il piccolo comitato convalida la tecnica proposta dagli psicologi. Nel giugno del 2002, Condoleezza Rice, a nome del governo, autorizza la Cia. La "nudità forzata" viene applicata agli individui sospettati dall’Agenzia di intrattenere legami, vicini o lontani, con la nebulosa di al Qaeda. La tecnica fu inserita nei memorandum in circolazione al ministero della difesa. Assieme alla tecnica che "sfrutta le fobie individuali", condusse a quella che potremmo definire "tortura sessuale". Tranne John Rizzo, nessuna delle persone che abbiamo citato ha accettato di rispondere alle nostre domande. Il 7 ottobre 2016 la Cia ci ha fatto sapere attraverso il suo portavoce Ryan Trapani che l’agenzia non aveva nulla da "rendere noto" sull’argomento, e ha concluso augurandoci "buona fortuna". Il ministero della difesa, interrogato su questi gravi avvenimenti, preferisce dal canto suo salvarsi in calcio d’angolo. La sua portavoce, la tenente colonnella Valerie D. Henderson, ci ha garantito in una email del 30 dicembre 2016 che "il ministero si impegna a trattare con umanità tutti i detenuti, secondo quanto stabilito dalla legge federale e dagli obblighi internazionali, che includono l’articolo 3 della convenzione di Ginevra. Il divieto della tortura imposto dalla legge americana è assoluto e, come stabilito nel Detainee Treatment Act del 2005 (la legge sul trattamento dei detenuti che pone ufficialmente fine all’applicazione delle tecniche di interrogatorio rafforzate), nessun individuo detenuto dagli Stati Uniti o posto sotto il loro controllo fisico (…) dovrà essere sottoposto a una punizione o a un trattamento crudele, disumano o degradante". Aggiunge poi che "il ministero indaga su tutte le accuse credibili di abusi e intraprende le azioni più idonee, tra le quali possono esserci anche azioni penali". L’umiliazione può d’ora in avanti spingersi ben oltre la nudità forzata All’epoca, nei corridoi della Casa Bianca la maggior parte degli alti funzionari è completamente all’oscuro del fatto che la Cia stia lavorando, a poca distanza da lì, per fare in modo che una democrazia legalizzi la tortura. Lawrence Wilkerson credeva di essere a conoscenza dei segreti politici del suo paese, e aveva le sue buone ragioni per crederlo: veterano del Vietnam, era il capo di gabinetto di Colin Powell. Wilkerson ha accettato di rispondere alle nostre domande il 20 ottobre 2016. Lo incontriamo seduto a un tavolino di Starbucks, in un centro commerciale alla periferia di Washington. È un uomo cortese che porta degli occhialetti tondi, un abito elegante in tweed ornato con una spilletta che rappresenta l’aquila americana. "In parole povere, abbiamo saputo dalla televisione di esserci persi la discussione [sulla possibilità di andare oltre la convenzione di Ginevra]", esclama, ancora oggi scandalizzato. L’alto funzionario aveva capito di essere stato messo alle strette. Tutto ciò, spiega oggi, rappresentava un "colpo di stato" su iniziativa del vicepresidente Dick Cheney. "Dal 2001 al 2005 il vicepresidente era solito prendere le decisioni e andare nello studio ovale per convincere il presidente a sostenerle. Poi presentava la sua decisione al resto del governo". Quando capì che la Cia aveva usato il programma Sere per creare le sue tecniche, Wilkerson non rimase in silenzio. "Sono corso da Powell per dirgli: tu che sei un militare come me, riesci a capire come degli stupidi del livello del segretario della difesa abbiano potuto credere a queste sciocchezze? È assurdo che ci siano cascati". Lawrence Wilkerson temeva soprattutto che le tecniche della Cia potessero diffondersi nell’esercito. Militare figlio di militare, conosce bene i soldati e sa cosa sono capaci di fare se ottengono carta bianca. Lo scenario temuto non tardò a concretizzarsi. A partire dall’autunno del 2002, l’esercito fece proprie le tecniche d’eccezione create dalla Cia. Comandante della sezione Joint task force Guantánamo, il generale Michael Dunlavey (che sarà sostituito dal generale Miller il 9 novembre 2002) vuole spezzare le difese di un detenuto particolarmente scaltro, il detenuto 63. Il giovane saudita di 22 anni, di nome Mohammed al Qahtani, era stato catturato a novembre del 2001 in Afghanistan e da mesi aspetta nel carcere di Guantánamo. Il generale chiede e ottiene con la forza della persuasione dal ministro della difesa Donald Rumsfeld l’autorizzazione ad applicare anche a lui le "tecniche di interrogatorio rafforzate". Per 49 giorni, venti ore al giorno, il detenuto 63 è sottoposto a interrogatorio e a sistematici abusi sessuali. Il personale dell’esercito che conduce gli interrogatori incolla sul suo corpo nudo delle immagini pornografiche, minaccia di stuprare sua madre, lo fa sfilare in reggiseno, come si legge diffusamente nel rapporto in seguito desecretato. Nell’aprile del 2003 il segretario della difesa Donald Rumsfeld si spinge ancora oltre e dà formalmente carta bianca ai soldati. In un documento, in cui si spiega il modo in cui queste tecniche devono essere applicate, si specifica infatti che "è importante che il personale che conduce gli interrogatori abbia una ragionevole libertà per poter variare le tecniche tenendo conto della cultura del detenuto, dei suoi punti di forza e di debolezza (…) e dell’urgenza di ottenere informazioni che il detenuto di sicuro possiede". L’umiliazione può d’ora in avanti spingersi ben oltre la nudità forzata. I soldati non mancheranno di fare ricorso a questo "via libera". Stuprati a turno Il cielo incombe sull’agglomerato lionese dove l’autunno arriva un poco alla volta. Dall’autostrada si vedono susseguirsi gli edifici dalle mille finestre del comune di Vénissieux. È qui che ci ha dato appuntamento Nizar Sassi, in un bar della catena Brioche Dorée all’interno di un centro commerciale. "Non sono cose di cui si riesce a parlare facilmente al telefono", ci aveva anticipato quando l’avevamo chiamato. All’età di 37 anni, questo padre di tre figli ripara ascensori nell’area di Lione. Il suo fisico da attore e la sua esistenza tranquilla non lasciano intravedere nulla del suo passato movimentato. Forse solo il suo sguardo profondo: è uno dei sei "francesi di Guantánamo". Nizar Sassi è disposto a raccontare gli abusi sessuali, "il peggio" che ha subìto nella prigione cubana. È la prima volta che affronta l’argomento nel dettaglio, per rompere il tabù. Influenzato da un ragazzo del suo quartiere, a 22 anni Nizar arriva in un campo di addestramento di Bin Laden nell’estate del 2001 con un amico, Mourad Benchellali. Catturato in Pakistan mentre cercava di rientrare in Francia, lo portano nel campo di Kandahar in Afghanistan. "Eravamo tra i primi a essere stati catturati. Siamo stati picchiati, maltrattati, ma la cosa peggiore per me sono stati gli stupri", ci racconta in un incontro a Vénissieux il 20 settembre 2016. Dopo essere stato gonfiato di botte, fu condotto assieme a una trentina di altri prigionieri in una tenda. "Eravamo in fila indiana. Ci hanno abbassato i pantaloni e ci hanno stuprati a turno. Non so cosa ci hanno infilato nel sedere, ma è stato estremamente violento. Mi ha dilaniato. Poi ci hanno lavati con l’idropulitrice e ci hanno scaraventati su una montagna di uomini nudi. Nel frattempo, ci scattavano di continuo delle fotografie". Sebbene abituato a parlare in pubblico, il suo compagno di sventura Mourad Benchellali, che abbiamo incontrato a Parigi l’11 settembre 2016, non è riuscito a dire nulla su questa vicenda. "Vi ricordate le foto di Abu Ghraib con le piramidi di detenuti. Era la stessa cosa. Oltre l’umiliazione". Secondo i quattro ex prigionieri con cui abbiamo parlato, queste ispezioni abusive venivano praticate sotto lo sguardo attento dei medici. "Loro non ci toccavano. Ma erano dietro la pedana, con i graduati, mentre i soldati ci stupravano. E guardavano", ricorda l’ex detenuto. Nelle carceri clandestine della Cia i medici vanno ben oltre l’osservazione. Partecipano all’applicazione di presunte procedure mediche per consentire la modifica dei comportamenti dei "pesci grossi" che ritenevano di aver catturato. Protetti dalla classificazione dei diversi rapporti dell’esercito, i nomi di questi medici sono a tutt’oggi segreti. Sospettato di aver finanziato gli attacchi dell’11 settembre, Mustafa al Hawsawi è stato sballottato per tredici anni nelle prigioni segrete della Cia e a Guantánamo, dove è detenuto ancora oggi. È stato appena operato al retto a spese degli Stati Uniti. Fino a prima dell’intervento soffriva di emorroidi croniche, di lesioni dell’ano e di prolassi. "In pratica aveva una parte dell’intestino che usciva e che doveva rimettere dentro con le mani dopo essere andato di corpo", spiega il suo avvocato Walter Ruiz, che abbiamo incontrato il 18 ottobre 2016 a Washington. Senza precedenti particolari, il detenuto ha sviluppato queste disabilità dopo l’arresto. Secondo il suo avvocato, è possibile affermare che si tratti delle conseguenze di una procedura di "reidratazione rettale", una sorta di lavaggio, e di un’altra procedura nota come "nutrizione per via rettale". "Il rapporto del senato sulla tortura sottolinea come vengano utilizzati i tubi più grossi tra quelli a disposizione", sottolinea l’avvocato. "Si trattava di sodomia, e i medici che hanno inserito con la forza i tubi negli ani dei detenuti continuano a esercitare la loro professione". "Questi metodi non esistono nelle procedure, a meno che qualcuno non abbia più l’intestino crasso o non sia in uno stato vegetativo", sottolinea Sarah Dougherty, specialista di tortura americana per l’associazione di medici e scienziati Physicians for human rights, che offre le sue competenze mediche alle organizzazioni che documentano i crimini contro l’umanità. La dottoressa è indignata: "È uno degli scandali più gravi della storia della medicina, e da parte degli organi professionali sono stati fatti ben pochi tentativi per chiamare in causa i colpevoli". Nei corridoi di Guantánamo i racconti di aggressioni sessuali corrono da una cella all’altra. Quelli dei sauditi, degli yemeniti e degli algerini sono i peggiori. Gli vengono spillate addosso delle fotografie tratte da riviste pornografiche e le donne che li interrogano non si mostrano affatto tenere, o forse lo sono anche troppo. Si strusciano addosso ai detenuti, si spogliano, utilizzano biancheria intima e assorbenti per spingerli a parlare. "Facevano spesso ricorso a tecniche di umiliazione sessuale sui detenuti mediorientali", spiega Nizar Sassi. "Questi uomini non avevano mai avuto a che fare con una donna occidentale, né tantomeno con una donna nuda che faceva finta di concedersi. Erano traumatizzati, temevano più questo che le percosse". Donne che si spogliano nelle stanze degli interrogatori di Guantánamo? Mourad Benchellali si ricorda di una di loro appoggiata alla parete, completamente nuda e muta per tutta la durata di uno dei suoi interrogatori. Dai rapporti interni dell’esercito riguardanti le prigioni di Guantánamo e di Abu Ghraib (nel rapporto Schmidt, che riguarda Guantánamo, si fa per esempio riferimento a soldate che fanno la lap dance o che utilizzano l’inchiostro rosso per simulare il sangue mestruale e il profumo femminile con l’obiettivo di destabilizzare i detenuti. I rapporti Fay, Chruch e Taguba riferiscono di fatti simili accaduti ad Abu Ghraib), si sa che queste donne erano militari. Nel rapporto Schmidt, un ufficiale dei servizi di intelligence confessa di aver chiesto a una delle sue sottoposte di comprare un profumo da donna a buon mercato e di cospargersi le mani per poi strofinarle addosso a un detenuto che pregava, per fiaccare la sua resistenza (rapporto Schmidt. Testimonianza di un graduato presentato nel rapporto come capo dell’Intelligence control element, Ice). In altri casi, sotto pressione per ottenere dei risultati, sono le stesse militari a scegliere di fare dei loro corpi femminili un’arma per umiliare. Nel libro Inside the wire, l’ex traduttore dell’esercito Erik Saar racconta i retroscena di un interrogatorio condotto assieme a una soldata, Brooke. Secondo quest’ultima, il detenuto trae la sua capacità di resistenza dalla preghiera. "Lo renderò impuro e gli impedirò di pregare", spiega (Erik Saar, Inside the wire, pagina 223). "Non ti piacciono questi grossi seni americani, Fareek?", lo apostrofa. "Vedo che comincia a venirti duro". Dietro consiglio di una guardia, la giovane donna si spinge fino a far credere al detenuto, già sconvolto, che lo imbratterà con sangue mestruale. Erik Saar ricorda la sua collega, sconvolta dal suo stesso comportamento: "Mi ha guardato e si è messa a piangere. Pensava di aver fatto del suo meglio per avere le informazioni che i capi le chiedevano di ottenere" (opera citata, pagina 228). I soldati non erano obbligati a rispettare le leggi A Guantánamo Mark Fallon era incaricato di indagare sui detenuti affinché fosse possibile giudicarli. Era il vicecomandante di una sezione penale interna al dipartimento della difesa (Citf) creata ad hoc. Il 19 ottobre del 2016, a Washington, l’ex ufficiale ormai in pensione ricorda quel periodo che ancora lo tormenta. Un periodo in cui aveva cercato di lanciare l’allarme insieme a un pugno di altri militari di alto rango (abbiamo incontrato anche Alberto Mora, ex avvocato generale della marina che ha cercato di lanciare l’allarme, e Steven Kleinman, ex esperto di intelligence militare presso il ministero della difesa, inserito in una lista nera dopo aver espresso la sua opinione riguardo a nuovi metodi di raccolta di informazioni nel 2003), per denunciare atti "vergognosi e deplorevoli". Noto per la sua grande esperienza negli interrogatori, maturata in veste di agente speciale, Fallon, un uomo dall’aspetto austero, per anni si è introdotto in reti criminali, travestendosi all’occorrenza da spacciatore, cacciatore di frodo di elefanti o trafficante di armi. Indagava su al Qaeda dagli anni novanta. Com’è logico dunque le autorità americane si rivolsero a lui quando decisero di istituire una sezione preposta alla raccolta di informazioni sui prigionieri detenuti a Guantánamo. Il comandante Fallon guidava una squadra di 230 persone che doveva lavorare fianco a fianco con i soldati del generale Geoffrey D. Miller, comandante della Joint task force Guantánamo con sede nella prigione cubana (il generale Miller ha preso il posto di George Dunlavey nel dicembre del 2002). Questi due militari erano agli antipodi, e diventarono avversari. Mark Fallon non aveva alcuna stima per questo generale di artiglieria senza alcuna esperienza di intelligence militare. Dal canto suo, Miller era infastidito dalla "mansuetudine" di Fallon. "Si vedeva: volevano sottoporre i detenuti a waterboarding. Le sue truppe spogliavano i detenuti, li bagnavano, era una cosa offensiva e da dilettanti", ricorda Fallon. "Ero preoccupato, perché il generale Miller era uno specialista di artiglieria, non sapeva niente di intelligence o di come si interroga un detenuto. Gli era stato chiesto di fare il lavoro sporco ed era stato promosso". Fino a oggi i burocrati di Washington se la sono cavata bene. Le possibilità che le cose cambino sono poche Nel giro di poco tempo gli uomini di Mark Fallon cominciarono a riferire al loro capo di pratiche inquietanti che si verificavano sotto gli ordini del generale Miller. Profondamente sconvolto, il 28 ottobre 2002 il militare spedisce al consiglio della marina, l’istituzione responsabile della base navale di Guantánamo, un’email che siamo riusciti a procurarci. "Dobbiamo assicurarci che i servizi dell’avvocato generale della marina (Alberto Mora) siano al corrente delle tecniche adottate dalla sezione 170 (diretta dal generale Miller). Alcuni commenti della tenente Diane Beaver, come quello secondo cui "se il detenuto muore non ci avete saputo fare" o "il personale medico deve essere presente per occuparsi di eventuali incidenti", sembrerebbero dimostrare come esse fossero al di fuori della legalità (…). Qualcuno deve pensare al modo in cui la storia giudicherà tutto questo", si legge. A settembre del 2003 il generale Miller viene comunque mandato in Iraq con la missione di "Guantanamizzare" la prigione di Abu Ghraib, ossia di importarvi i metodi di interrogatorio utilizzati a Cuba. "Quando l’ho visto partire alla volta dell’Iraq, ho mandato uno dei miei uomini per neutralizzarlo. Temevo che se Miller fosse andato laggiù, sarebbe stato come un cancro maligno che si sarebbe diffuso. Si sarebbero verificati gravi abusi". Appena un anno dopo, nell’aprile del 2004, Mark Fallon capisce che il suo incubo è diventato realtà. Le foto della prigione irachena di Abu Ghraib fanno il giro del mondo. Prigionieri nudi ammassati in piramidi, gli uni con la testa legata ai piedi degli altri, o costretti a masturbarsi davanti a soldati che ridono. Altri vengono tenuti nudi al guinzaglio da donne in uniforme. L’America intera è sotto shock. Il ministro della difesa Donald Rumsfeld attribuisce subito la responsabilità di questa deriva a pochi soldati isolati. Qualche "mela marcia" (l’espressione è stata usata per la prima volta in una conferenza stampa nell’estate del 2004). Dopo lo scandalo di Abu Ghraib, la maggior parte dei soldati riconoscibili sulle foto riceve una punizione, e insieme a loro la comandante della prigione, Janis Karpinski. Solo loro sono stati chiamati in causa. "Janis Karpinski sostiene di non essere colpevole, e io sono d’accordo con lei. È stata un capro espiatorio", afferma Lawrence Wilkerson, ex braccio destro di Colin Powell. "Alcuni personaggi invece dovrebbero essere perseguiti per crimini di guerra, a partire da Dick Cheney. Il minimo che si sarebbe dovuto fare sarebbe stato rimuoverli dai loro incarichi". Fino a oggi, però, i burocrati di Washington se la sono cavata bene. Le possibilità che le cose cambino sono poche. Durante la campagna per le presidenziali del 2016, il candidato repubblicano Donald Trump ha promesso di "riempire Guantánamo di brutti ceffi" e di ripristinare l’uso del waterboarding (in occasione del dibattito del 3 marzo 2016 a Detroit l’allora candidato ha ritrattato il suo consenso all’uso del metodo del waterboarding, aggiungendo che "con questi animali del Medio Oriente", cioè il gruppo Stato islamico, "dovremmo andarci giù ancora più pesante"). È noto che una volta eletto ha cambiato idea (Trump è tornato su quelle affermazioni il 22 novembre, dichiarando al New York Times di essere stato convinto dalle argomentazioni del generale della marina James Mattis. Il militare aveva dichiarato: "Datemi un pacchetto di sigarette e due birre e me la caverò meglio [che con la tortura]", un’affermazione che aveva "colpito" il presidente), ma c’è comunque da scommettere che sceglierà di guardare al futuro senza riconoscere i crimini dell’America. Un paese che, per un certo periodo di tempo, ha fatto dell’arma sessuale uno strumento di lotta al terrorismo. Nizar Sassi, il corpo segnato dal suo passaggio da Guantánamo, finisce il suo caffè lungo alla Brioche Dorée. Come gli altri cinque ex detenuti di Guantánamo, ha cercato di ottenere il riconoscimento della tortura e degli stupri subiti nell’ambito di una denuncia collettiva che ha pochissime possibilità di concludersi positivamente. Il generale Miller, all’epoca soprannominato "il re di Guantanamo", è stato convocato dagli inquirenti francesi nel marzo del 2016. Non si è presentato: non era obbligato a farlo. Come molti altri, Nizar Sassi ha perso la speranza nell’umanità. "Mi affido al giudizio estremo", precisa. "Al giudizio di Allah". Brasile: finita rivolta carcere Alcacuz, 26 morti confermati, almeno 3 decapitati Ansa, 16 gennaio 2017 È il bilancio della rivolta avvenuta nel carcere brasiliano di Alcaçuz, la più grande prigione dello Stato di Rio Grande do Norte, nel Nord-Est del Paese. La violenza della sommossa è stata tale che le forze armate hanno dovuto attendere l’alba di domenica per poter intervenire. Un primo bilancio, fornito dalla polizia brasiliana, aveva dato conto di oltre 30 morti, senza specificare se si trattasse solo di detenuti o anche di personale del carcere. Le vittime sono invece tutti prigionieri implicati nella feroce guerra per il controllo del narcotraffico che soltanto nelle prime due settimane dell’anno ha già causato la morte di oltre 100 persone. Nella prigione di Alcaçuz, progettata per ospitare 620 persone, ne sono incarcerate quasi il doppio.