Dentro la radicalizzazione jihadista nelle carceri italiane di Leonardo Bianchi news.vice.com, 15 gennaio 2017 Dopo aver saputo degli attentati di Parigi dello scorso novembre, quattro detenuti nel carcere di Rossano Calabro avrebbero esultato al grido di "Viva la Francia libera" dagli infedeli. Qualche settimana dopo, un detenuto egiziano nel carcere di Bologna è stato espulso dall’Italia "per avere inneggiato all’Isis e agli attentati di Parigi auspicando un’altra strage." E ancora, all’inizio del 2016, nel carcere di Bolzano è stata chiusa la sala Internet perché alcuni detenuti si sono collegati a "siti inneggianti allo Stato Islamico e alle stragi compiute in nome dell’Isis." Quelli appena elencati sono solo alcuni recenti casi di cronaca che hanno riportato l’attenzione sul proselitismo jihadista e sulla radicalizzazione violenta nelle prigioni - due temi su cui c’è sempre più attenzione a livello mediatico, e che le autorità politiche hanno indubbiamente messo in cima alle priorità da combattere. Il ministro della giustizia Andrea Orlando, ad esempio, nel febbraio del 2015 fa aveva spiegato che le carceri "sono dei luoghi in cui si può strutturare una visione estremista dell’Islam, con capacità di proselitismo," ma al contempo "bisogna assicurare il diritto di culto negli istituti per evitare l’effetto boomerang come Guantánamo." Lo stesso Orlando, il 26 gennaio del 2016, ha fatto sapere che l’Italia sta seguendo "con preoccupazione" il fenomeno della radicalizzazione, la quale "ha come focolaio gli istituti penitenziari." Proprio in questi giorni, inoltre, il deputato di Scelta Civica Stefano Dambruoso - che considera l’Italia "in grave ritardo" sul contrasto alla radicalizzazione - ha depositato insieme a Andrea Manciulli del Partito Democratico una proposta di legge con diverse misure "per la prevenzione della radicalizzazione e dell’estremismo jihadista". Tra queste sono contemplate una formazione specialistica per le forze di polizia, la creazione di un "sistema informativo sui fenomeni di radicalismo jihadista" e un "piano nazionale per garantire un trattamento penitenziario teso alla rieducazione e deradicalizzazione". Poco tempo fa, invece, è stata avanzata una proposta decisamente più tranchant - quella di riaprire la prigione dell’Asinara e di trasformarla in un "supercarcere" in cui rinchiudere "i sospetti jihadisti e i condannati per reati legati al terrorismo islamico." Formulata originariamente dal Sappe - un sindacato di polizia penitenziaria - la prospettiva di un "supercarcere per jihadisti" è stata salutata con un certo entusiasmo dalla Lega Nord. "Portiamo i terroristi all’Asinara, facciamolo per la nostra sicurezza nazionale, ma anche come deterrente per i potenziali jihadisti, in modo che sappiano cosa li aspetta in caso di cattura," ha scritto il senatore Roberto Calderoli sulla sua pagina Facebook. Il quadro generale che emerge dalle dichiarazioni ufficiali, insomma, è a dir poco inquietante: le carceri italiane sembrerebbero davvero una specie di enorme incubatore di persone che entrano come "ladri di macchine" ed escono jihadisti provetti. Questo rischio, del resto, è stato sottolineato a più riprese in rapporti stilati dall’intelligence e studi pubblicati dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap). In particolare, già nella "Relazione sulla politica dell’informazione per la sicurezza" del 2008 si era evidenziato il fatto che nelle carceri "è stata rilevata un’insidiosa opera di indottrinamento e reclutamento svolta da veterani, condannati per appartenenza a reti terroristiche, nei confronti di connazionali detenuti per spaccio di droga o reati minori". A questo proposito, e stando a fonti investigative raccolte di recente dal settimanale L’Espresso, sarebbero "almeno cinque i musulmani che durante la detenzione hanno abbracciato la causa islamista, e una volta usciti sono partiti per campi d’addestramento in Siria o in Iraq." Al di là di questi casi estremi, tuttavia, i dati consegnano un contesto nettamente più composito, e che in un certo senso ridimensiona l’allarmismo fomentato da media e politici. In base a un rapporto del Dap del 2013, intitolato Le moschee negli istituti di pena, i detenuti di fede musulmana sono 13mila e 500, di cui 8.732 osservanti e 4.768 non osservanti. Dati aggiornati al 15 gennaio 2015 dell’Associazione Antigone, tuttavia, fissano a 5.786 i detenuti di fede musulmana. Di questi, come ha dichiarato il capo del Dap Santi Consolo, gli "osservati speciali" sono "oltre duecento". I detenuti reclusi con l’accusa di terrorismo internazionale, invece, sono 21; e tutti si trovano nel circuito separato AS2 ("Alta sicurezza, livello 2") del carcere di Rossano Calabro, descritto da alcuni articoli come la "Guantánamo italiana". Fino al 2012 i detenuti che rientravano nel circuito erano 80, divisi tra l’istituto di pena calabrese e quelli di Asti, Benevento e Macomer (Nuoro). Da quest’ultimo, nel 2009, era partita la protesta di alcuni detenuti musulmani che lamentavano presunti trattamenti discriminatori e degradanti. Di fronte a cifre simili, pertanto, concentrarsi esclusivamente su radicalizzazione e proselitismo non fa altro che fornire un’immagine monolitica di una realtà estremamente complessa e variegata com’è quella dei musulmani in carcere. Sebbene se ne discuta incessantemente, in Italia poche persone si sono occupate seriamente del fenomeno. Uno di questi è il sociologo Khalid Rhazzali, docente dell’Università di Padova e dell’Università di Lugano, nonché autore del saggio L’Islam in carcere (Franco Angeli) - una delle tre ricerche sul campo prodotte in ambito europeo, insieme a quelle di James A. Beckford e di Farhad Khosrokhavar. Dossier dell’intelligence sui predicatori musulmani detenuti nelle carceri italiane di Gian Micalessin Il Giornale, 15 gennaio 2017 I nomi e le storie dei 26 predicatori più pericolosi. E alcuni saranno liberi tra un anno. Sono spacciatori, apprendisti terroristi, stupratori e rapinatori. Sono i cosiddetti imam a cui s’affidano per preghiere e pratica religiosa i 7.646 detenuti di fede musulmana nelle carceri italiane. L’inquietante spaccato emerge da un documento segreto del nostro governo di cui Il Giornale è in possesso. Un dossier in cui sono elencati non solo le generalità e l’origine dei 148 sedicenti imam, in gran parte marocchini, tunisini e algerini che controllano la preghiera nelle carceri italiane, ma anche le note con cui vengono segnalati e descritti dagli operatori dell’autorità carceraria. Il documento, datato 11 ottobre 2016, è uno degli undici allegati "segreti" di quella relazione sul "contrasto della radicalizzazione violenta in carcere di matrice confessionale" preparata dal Dipartimento amministrazione penitenziaria e presentata dal premier Paolo Gentiloni nella conferenza stampa del 6 gennaio scorso sulla diffusione dell’integralismo negli istituti di pena. Nel pubblicare il documento Il Giornale ha deciso di non divulgare le generalità di tutti i 148 imam perché molti di questi, nonostante le condanne penali, non vengono ritenuti pericolosi ai fini della radicalizzazione e svolgono talvolta funzioni di collegamento tra l’amministrazione carceraria e i detenuti. Lo stesso non si può dire di almeno 26 "cattivi maestri" finiti nel mirino del Nic (Nucleo investigativo centrale), la centrale investigativa dell’Amministrazione penitenziaria che lavora con magistrati, forze di polizia e servizi segreti per identificare i detenuti radicalizzati che svolgono proselitismo all’interno delle prigioni propagandando tesi violente ed estremiste. Nell’analizzare le loro posizioni il Nic individua tre livelli di rischio. Al primo, definito "alto", appartengono i soggetti "monitorati", i detenuti i per reati connessi al terrorismo internazionale e quelli di particolare interesse per atteggiamenti rivolti al proselitismo alla radicalizzazione e al reclutamento. Al livello "medio" sono inseriti i detenuti "attenzionati", vicini alle ideologie jihadista e attivi a livello di proselitismo e reclutamento. Il terzo livello - "basso" restano i cosiddetti "segnalati", tutti quelli su cui va svolto un ulteriore approfondimento per capire se inserirli al primo o secondo livello o esentarli da altre verifiche. Tra i 26 dei 148 imam controllati dal Nic 14 sono i "monitorati" al livello di massimo rischio, otto gli "attenzionati" e quattro i "segnalati". Un dato estremamente preoccupante perché ci racconta che all’interno di un sistema carcerario, dove il rischio radicalizzazione è assai alto, continuano a operare più di venti maestri di preghiera vicini all’islam terrorista. Un ventina di personaggi a cui, nonostante le segnalazioni, è ancora concesso di far attività di proselitismo e predicazione. Per capire meglio di cosa parliamo basta citare Hmidi Saber, il tunisino 32 enne, monitorato dal Nic, a cui una settimana fa è stato recapitato un ulteriore mandato d’arresto in carcere perché sospettato di legami con Anis Amri, il terrorista autore della strage dei mercatini di Natale di Berlino ucciso dalla polizia a Milano. Nel documento di cui siamo in possesso il detenuto arrestato per aver tentato di sparare a un agente viene indicato come imam del carcere di Salerno proveniente dal Carcere di Sconsigliano. "Il detenuto scrivono di lui gli operatori penitenziari - ha posto in essere comportamenti problematici, sintomatici di uno scarso adattamento al contesto penitenziario sin dalla data d’ingresso in questa sede". Ma tra i sedicenti imam si conta anche un presunto volontario della jihad come il 25enne marocchino Hamil Mehdi accusato di addestramento e attività con finalità di terrorismo. Detenuto nel carcere di Rossano Calabro - la Guantánamo italiana dove venivano convogliati fino a qualche tempo fa i sospetti terroristi islamisti - Hamil Mehdi Mehdi viene arrestato a Cosenza nel gennaio del 2016 dopo un viaggio in Turchia durante il quale tenta di raggiungere le zone siriane controllate dallo stato Islamico. Un altro maestro di preghiera dal curriculum perlomeno problematico, monitorato dal Gic, è il tunisino Lamjed Ben Kraiem. Arrestato a Trapani nel luglio del 2013 accusato di traffico di armi e droga viene segnalato dalla polizia penitenziaria di Trapani per la sua capacità di porsi "in modo evidente come guida spirituale conducendo la preghiera insieme ad altri detenuti e compagni di camera". Altrettanto stupefacente la metamorfosi del 44enne tunisino Ouerghi Nabil segnalato per la sua attività di imam nel carcere di Piacenza. "Al suo ingresso in istituto - si legge elle carte - ha assunto un ruolo di leader e di promotore di richieste a nome dei detenuti islamici della sezione di appartenenza chiedendo di creare una sala preghiera collettiva da poter utilizzare due volte al giorno". Peccato che a portarlo in galera siano state le accuse lo spaccio e soprattutto di stupro ai danni di una ragazzina di 16 anni. Il grido "Forza Isis" e l’esorcismo praticato dietro le sbarre di Gian Micalessin Il Giornale, 15 gennaio 2017 Nel mondo delle carceri italiane dove 148 imam stranieri controllano e guidano 7.646 praticanti musulmani c’è spazio anche per gli esorcismi. "Si segnala che in data 01.07.2016 il detenuto Mustafa Azour ha praticato un esorcismo nei confronti del detenuto Hbabi Abdelkarim nato in Marocco l’1.01.1977 che per il suo malessere aveva chiesto di pregare con il gruppo di musulmani del lato A del reparto penale. Il detenuto, come più volte segnalato dal personale di polizia penitenziaria, è seguito dall’area sanitaria per le frequenti crisi epilettiche". Avete letto bene. Nel variegato mondo delle carceri italiane dove 148 imam stranieri controllano e guidano 7646 praticanti musulmani c’è spazio anche per gli esorcismi. Il tutto sotto gli occhi vigili, ma spesso impotenti della polizia penitenziaria. Il caso citato nell’allegato segreto in possesso del Giornale è avvenuto nel carcere di Perugia Capanne. Lì il ruolo di sedicente imam "è svolto principalmente" spiegano le note da Mustapha Azour un marocchino condannato per ripetute violenze con fine pena nell’aprile 2021. "Il gruppo di detenuti maghrebini dediti alla preghiera è aumentato notevolmente sotto la guida dell’oggettivato (). Il gruppo che si riunisce in preghiera negli spazi all’uopo destinati nota ancora il documento - conta un numero costante di dodici tredici persone quasi tutti i giorni". Ma se l’imam esorcista Mustapha Alì v’inquieta che dire del "predicatore" Mlaouhi Alì nato in Tunisia nel 1983 e ospite del carcere genovese Marassi? Descritto come "soggetto dal comportamento freddo e distaccato scarsamente incline al dialogo". "Poco portato alla riflessione e all’autocritica", Mlaouhi non nasconde le sue posizioni estremiste. "Durante i primi giorni di detenzione è stato sorpreso urlare più volte forza Isis dalla finestra della sua stanza detentiva". Ma tra chi insegna la parola di Maometto c’è anche il 52enne egiziano con "fine pena mai" Makram Ahmed Salehaly condannato da un Antonio Di Pietro alle prime armi per l’omicidio, nel lontano 1990, di una prostituta nigeriana. "Il suo carisma religioso scrivono i sorveglianti di San Gimignano - è stato subito avvertito dai compagni e una serie di coincidenze ha fatto sì che potesse scalare la gerarchia religiosa Si è potuto accertare che il Makram, nonostante sia da poco in questa sede, ha subito preso in mano le redini della conduzione della preghiera venendo unanimemente riconosciuto". Nel carcere romano di Rebibbia a dettar legge in campo religioso ci pensava, fino al rilascio avvenuto lo scorso ottobre - il 49enne tunisino Hosni Monsen. "Il detenuto - condannato per furto aggravato come spiegano le note - mostra superiorità e un atteggiamento ostile nei confronti del personale di polizia penitenziaria. Indossa abiti tradizionali, cura l’aspetto fisico secondo i canoni del credo religioso musulmano. Cerca d’influenzare gli altri detenuti e mantiene a distanza quelli meno religiosi". Il 37enne somalo Hamouna Bessid, arrestato per rapina è invece la guida spirituale di un reparto del carcere di Bologna. "Il soggetto - riporta l’allegato segreto sugli imam ha sempre manifestato un comportamento di superiorità nei confronti degli altri detenuti, attualmente guida la preghiera nel suo reparto di appartenenza, durante la funzione religiosa indossa abiti tradizionali, nella sua stanza detentiva ha un Corano. Nei giorni precedenti è stato sorpreso gridare dalla finestra della sua camera detentiva più volte la frase Allah Akbar verso altra sezione dove sono ubicati detenuti di nazionalità marocchina". Nuova procedura penale al palo, maggioranza divisa al Senato di Cristiana Mangani Il Messaggero, 15 gennaio 2017 Sono ormai sei mesi che la riforma del processo penale, dopo essere stata sdoganata dalla Commissione giustizia del Senato, è ferma al palo. Nel discorso di insediamento il premier Paolo Gentiloni ha parlato della necessità di una rapida soluzione per la questione giustizia, ed è probabile che il guardasigilli Andrea Orlando, già nei prossimi giorni, tornerà a chiedere di fissare una nuova data. I RINVII - La questione resta comunque delicata, perché la riforma con l’allungamento dei tempi di prescrizione, la regolamentazione delle intercettazioni, continua a rappresentare uno scoglio politico. L’equilibrio trovato con il testo approvato in Commissione non basta. E le ultime occasioni di discussione, nei mesi precedenti al voto referendario, hanno dovuto fare i conti con continui rinvii per la mancanza del numero legale, nonostante il testo fosse calendarizzato. Al centro dei disaccordi alcuni emendamenti dei democratici Felice Casson e Beppe Lumia. Era stata chiesta la fiducia e il ministro Alfano aveva dichiarato: "La nostra preoccupazione è che a voto segreto si possa non realizzare un’intesa tra giustizialisti del M5S e giustizialisti all’interno del Pd. Pensiamo che la fiducia non faccia correre questo rischio. Facendo bene le valutazioni tra i gruppi il rischio che il governo cada con la fiducia non c’è". L’accordo dunque sembrava fatto, ma così non è stato, e il voto non è stato più calendarizzato. Tanto che lo stesso ministro della Giustizia, Andrea Orlando, aveva spiegato: "Abbiamo numeri risicati su una materia incandescente ed escludo che ci sarà la convergenza di altri gruppi parlamentari, a partire da Ala. Per questo è indispensabile verificare se esistano le condizioni per il percorso ordinario". La situazione ora potrebbe non essere migliorata e dunque c’è da credere che l’approvazione della riforma verrà ancora rinviata. Nei mesi scorsi, alle polemiche interne al Parlamento si erano aggiunte quelle dell’Anm. E l’ex premier Renzi, nel chiedere il rinvio di una decisione, aveva spiegato che, nonostante le regole fatte fossero buone, non si poteva approvare qualcosa che per l’Associazione nazionale magistrati fosse considerata dannosa e inutile. LA RIPRESA - Nel frattempo Renzi e Davigo sembravano aver trovato un accordo. Il rischio di uno sciopero dei magistrati era stato disinnescato, ma poi c’è stato il referendum, il risultato non è stato quello sperato dal Governo e il voto sulla riforma si è bloccato. Nel frattempo il Guardasigilli ha più volte invocato una ripresa del dialogo, ponendo la questione politica: "Tenere ferma una riforma così importante - ha affermato - rischia di indebolire il profilo riformista del governo, che si è cimentato su molti campi, compresa la Giustizia". Dopo di lui, sulle colonne dell’Unità era comparso (altro segnale politico) un articolo a doppia firma, Ferranti-Verini. Donatella Ferranti è presidente della Commissione Giustizia della Camera, Walter Verini è il capogruppo Pd in commissione Giustizia: "Riteniamo che si possa e si debba lavorare tutti per portare all’approvazione il provvedimento, evitando così il rischio di rallentare o di interrompere un disegno riformatore di così ampia portata". Chissà che, ora, l’appello non venga accolto da Gentiloni. "Il governo non rispetta gli impegni", l’Anm diserta la cerimonia dell’anno giudiziario di Paolo Decrestina Corriere della Sera, 15 gennaio 2017 Il sindacato delle toghe approva all’unanimità la forma di protesta per il "mancato rispetto degli accordi" su pensionamenti e trasferimenti. Orlando: disponibili al dialogo. Una forma di protesta inedita. Per la prima volta infatti l’Associazione Nazionale Magistrati diserterà la cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario in Cassazione, appuntamento previsto per il 26 gennaio. La decisione è stata approvata all’unanimità dal direttivo del sindacato delle toghe e nasce dal "mancato rispetto degli accordi" da parte del Governo sui correttivi, chiesti dai magistrati, al decreto sulla proroga dei pensionamenti solo per alcuni (tra cui il presidente e il pg della Suprema Corte, Gianni Canzio e Pasquale Ciccolo) e sulla legittimazione ai trasferimenti. Lo stesso 26 gennaio, inoltre, l’Anm terrà una conferenza stampa in cui illustrerà un documento che sarà letto dai rappresentanti delle sezioni distrettuali del sindacato durante le cerimonie nelle Corti d’appello. Sabato 28 gennaio, la Giunta centrale del sindacato delle toghe parteciperà a una delle inaugurazioni in Corte d’appello, presumibilmente la stessa a cui prenderà parte il ministro della Giustizia Andrea Orlando. Il direttivo dell’Associazione nazionale magistrati, inoltre, tornerà a riunirsi il 18 febbraio e sarà l’occasione per discutere ancora di eventuali iniziative di protesta, anche alla luce degli sviluppi dell’iter di conversione in legge del decreto Milleproroghe, a cui il Governo dovrebbe presentare un emendamento per modificare le norme proprio in materia di legittimazione ai trasferimenti per le toghe. La prima volta - É dunque la prima volta che viene attuata una protesta delle toghe durante la cerimonia in Cassazione, dove i vertici dell’Anm non svolgono di regola un intervento ma sono presenti tra gli ospiti nell’Aula magna di "Palazzaccio". Negli anni passati, invece, iniziative di protesta si erano svolte durante le inaugurazioni nelle Corti d’appello. Davigo: "Il governo non ha rispettato gli impegni" - "Le trattative della giunta dell’Anm con ministro della Giustizia e presidente del Consiglio si erano tradotte in un impegno messo per iscritto di ricondurre l’età pensionabile, seppure in via transitoria, per tutti i magistrati a 72 anni e a riportare il vincolo di permanenza dei magistrati di prima nomina da quattro a tre anni", aveva detto il presidente dell’Anm, Piercamillo Davigo, introducendo la riunione del direttivo dell’associazione. Davigo aveva anche lanciato un "appello" all’unità dell’Anm contro le spinte a spaccarsi. "Attenzione e non sacrificare in nome di un singolo gruppo l’interesse della magistratura", ha avvertito Davigo facendo "un accorato appello all’unità, che vedo i crisi. Voglio rivendicare i sacrifici che abbiamo fatto, io e il mio gruppo, in nome dell’unità", ha detto. E il direttivo gli ha dato ascolto dal momento che le iniziative che saranno messe in campo per le inaugurazioni dell’anno giudiziario sono state deliberate "all’unanimità" per riaffermare "l’unità di intenti dell’azione associativa, in relazione al mancato adempimento degli impegni politici assunti da parte del Governo". La risposta di Orlando - A Davigo ha risposto il ministro della Giustizia, Andrea Orlando: "Non posso che rispettare la discussione dell’Anm e ribadire la disponibilità al dialogo, il fatto che dal Milleproroghe non siano arrivate risposte non vuol dire che non devono arrivare: su alcune stiamo lavorando, su altre c’è una riflessione. Quando l’Anm vuole sono disponibile ad un confronto proprio per evitare che sull’inaugurazione degli anni giudiziari, che sono momenti importanti per tutta la giurisdizione e non per il governo, si scarichino tensioni che se è possibile vogliamo risolvere diversamente". Giustizia, l’Anm torna alla protesta che anticipò "Mani pulite" di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 15 gennaio 2017 L’Associazione nazionale magistrati guidata da Piercamillo Davigo ha deciso di disertare la cerimonia in Cassazione che il 26 gennaio aprirà l’anno giudiziario. Protesta per le inadempienze del governo su pensioni e organici. Non accadeva dal 1991. È un salto indietro di oltre un quarto di secolo, è dal 1991 che l’Associazione nazionale magistrati non diserta l’inaugurazione dell’anno giudiziario in Cassazione. Lo farà (o almeno promette di farlo) il prossimo 26 gennaio. Non riservando a Sergio Mattarella - che della cerimonia è l’ospite d’onore - il "doveroso rispetto", riconosciuto negli anni ai presidenti Napolitano e Ciampi perfino nei momenti più duri dello scontro tra le toghe e i governi di Silvio Berlusconi. Ci sono state inaugurazioni mancate dai magistrati, soprattutto nei primi anni Duemila. Oppure partecipate, esibendo per protesta la Costituzione, toghe nere e libri bianchi. È accaduto però solo nelle cerimonie locali, quelle che si tengono nelle città in Corte d’appello. Mai a Roma in Cassazione. La giunta guidata dal presidente Piercamillo Davigo, e ieri all’unanimità il comitato direttivo - il "parlamentino" dell’Anm - hanno scelto questa strada contro le "inadempienze" del governo. Soprattutto del ministro della giustizia Andrea Orlando, che è rimasto in via Arenula nel passaggio da Renzi a Gentiloni ma è tornato indietro dalla promessa di risolvere le due questioni strettamente sindacali che l’Associazione magistrati pone da tempo. La prima riguarda l’età pensionabile, che il governo Renzi ha prima abbassato a 70 anni per tutti i magistrati e poi alzato, con decreto, a 72 solo per le toghe al vertice della Cassazione, del Consiglio di Stato e della Corte dei conti. Una mossa quasi "ad personam" giudicata incostituzionale dall’Anm. Che oltretutto, come spiega il vice presidente dell’associazione Luca Paniz "non abbiamo mai chiesto di estendere a tutti i magistrati in maniera strutturale". Perché "è anche giusto che un magistrato vada a riposo a 70 anni, ma servirebbe una gradualità. Cinquecento pensionamenti su un totale di meno di 8mila magistrati stanno producendo, come avevamo previsto, effetti disastrosi nelle procure. Sarebbe necessario contingentare le uscite almeno nel 2017 e fino alla copertura degli organici. E poi bisognerebbe risolvere il problema dell’ingresso tardivo in carriera dei magistrati, siamo l’unica categoria che entra in servizio a 33 anni. Così è difficile raggiungere il massimo di contribuzione". La seconda questione riguarda i termini necessari perché un magistrato possa chiedere il trasferimento di sede, allungati dal governo da tre a quattro anni. Troppi, soprattutto per i magistrati di prima nomina, assegnati di ufficio alla prima sede. La correzione doveva arrivare nel decreto mille proroghe e invece non è arrivata. Da qui la protesta dei magistrati, anche se una soluzione si vede all’orizzonte con un emendamento al decreto (in conversione a febbraio). Proprio per controllare da vicino le nuove promesse del governo (stavolta neanche ufficiali), l’Anm ha convocato una nuova riunione del comitato centrale, il prossimo 18 febbraio. Per quanto clamorosa, la decisione di ieri è arrivata come mediazione - proposta dalla corrente di sinistra, Area - rispetto alle intenzioni della destra della magistratura. Magistratura Indipendente e Autonomia e indipendenza, la corrente del presidente Davigo, proponevano lo sciopero bianco che avrebbe bloccato gli uffici giudiziari. È stato lo stesso Davigo a improvvisarsi mediatore, con un "appello all’unità dei magistrati" e un riferimento "ai sacrifici che abbiamo fatto io e il mio gruppo". E mentre il ministro Orlando tende la mano per "proseguire una discussione" e cerca ancora di "evitare che si scarichino tensioni sulle inaugurazioni", resta l’intenzione della toghe di disertare la cerimonia in Cassazione e tenere quel giorno una conferenza stampa per spiegare le ragioni dello scontro. Esattamente quello che fece l’Anm di Raffaele Bertoni 26 anni fa, ma allora al Quirinale c’era Francesco Cossiga che attaccava i magistrati due volte al giorno (arrivando anche a muovere i carabinieri). Era il 9 gennaio 1991, l’ultima volta che i magistrati disertarono il Palazzaccio della Cassazione nel giorno più solenne per la giustizia. L’anno dopo sarebbe cominciata Mani pulite, come Davigo ben ricorda. La scorciatoia giudiziaria contro i Cinque Stelle è sbagliata di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 15 gennaio 2017 La tentazione è vecchia come la cattiva politica: far fuori nelle aule giudiziarie l’avversario che altrove sembra imbattibile. Ma, ammettiamolo, mai come stavolta pare alimentata da plausibili dati di fatto. Tutta l’impalcatura normativa del Movimento Cinque Stelle è sotto scrutinio in questi giorni. Addirittura in queste ore, visto che il Tribunale civile di Roma sta pronunciandosi su un’istanza (di un avvocato pd) che coinvolge persino Virginia Raggi e il suo titolo a essere sindaca della Capitale, poiché in questione viene posto il controverso contratto che la Raggi sottoscrisse prima delle elezioni con la Casaleggio associati, sottomettendosi a una penale di 150 mila euro in caso di rottura coi suoi capi (non i cittadini romani, ma Grillo e lo staff). È un’onda lunga, forse inevitabile. Dal famoso non-Statuto al Codice etico, dal recente Codice di comportamento per gli amministratori indagati alle espulsioni di reprobi e ribelli, tutto è oggetto di esposti e ricorsi e, dunque, soggetto alla revisione del potere togato. Il punto centrale è assai semplice e attiene alla natura stessa della nostra democrazia. Vediamolo. Pur in assenza di una legge sui partiti (colpevolmente mai realizzata dai Parlamenti che si sono fin qui succeduti) i congegni della catena di comando e della formazione delle élite del Movimento sembrano scontrarsi in senso lato con l’intero impianto normativo di una democrazia liberale, con il codice civile e coi principi della nostra Costituzione. C’è chi denuncia una truffa all’elettorato: la finzione web del dibattito orizzontale ("uno vale uno") che nasconde l’imperio del capo assoluto. Siamo in realtà alla variante italica di una malattia diffusa in tutto l’Occidente: la crisi dei sistemi rappresentativi, che spinge i cittadini verso la chimera del rapporto diretto col leader e che si traduce ovviamente in nessun rapporto e, dunque, nella piena acquiescenza ai voleri del leader medesimo. Il cuore del problema è il divieto di mandato imperativo, sancito dall’articolo 67 della nostra Carta. L’eletto, una volta eletto, non può essere preso per un orecchio e ricondotto al capriccio del suo boss. Un principio che ispira la democrazia rappresentativa da più di due secoli. Ma il tempo logora. Così, quando Edmund Burke spiegò nel 1774 ai suoi elettori di Bristol che il Parlamento "non è un congresso di ambasciatori di opposti e ostili interessi" e di conseguenza gli eletti, rappresentando l’intera nazione, non andavano sottoposti a vincolo di mandato, tutti ne colsero l’afflato alto e nobile. Ma quando, 239 anni dopo, Tonino Razzi, eletto tra i dipietristi, spiegò la conversione al berlusconismo con la necessità di pagare il mutuo, molti sospettarono che i sacri principi fossero ormai acqua passata. E mica solo per il povero Razzi. Open Polis certifica che in questa legislatura i cambi di casacca sono stati 388, con una media di 9 al mese (doppia rispetto alla legislatura precedente) difficile da attribuire sempre a laceranti riflessioni favorite dalla libertà di mandato. Legalità e Costituzione in questo caso non vanno a braccetto col sentire comune. E i partiti liberali o riformisti, Pd in primis, farebbero un grave errore nel sottovalutare la nausea che spinge la gente a collocare ancora il M5S al primo posto nei sondaggi nonostante scandali e gaffe, e in barba alla manifesta incapacità mostrata a Roma. Non sarà qualche pronunciamento di tribunale a rimuovere il problema: i grillini sono il dito; il degrado della politica, che in Italia dura da decenni, è la luna. A quella sarà il caso di guardare, tenendoci stretto l’articolo 67 ma tornando a riempirlo della ragione per la quale fu pensato: il bene comune. Quand’anche Grillo e i suoi fossero banditi dalla Carta, gli italiani continueranno a chiederlo: disposti semmai a inseguire un altro pifferaio, magari più pericoloso e violento di un vecchio comico. Così la Sardegna è diventata la Guantánamo d’Italia di Marco Sarti linkiesta.it, 15 gennaio 2017 Nelle carceri di Sassari e Nuoro sono stati trasferiti una ventina di presunti jihadisti arrestati in Italia. Rappresentano il 50 per cento degli islamici accusati di terrorismo internazionale. Ma nelle stesse prigioni, denunciano diversi parlamentari isolani, mancano gli agenti. La Guantánamo d’Italia è in Sardegna. Negli ultimi tempi circa venti presunti jihadisti sono stati trasferiti nelle carceri dell’isola. Rinchiusi nelle case circondariali di Bancali e Badu e Carros, a Sassari e Nuoro. Rappresentano la metà dei 44 islamici detenuti nelle nostre prigioni e accusati di terrorismo internazionale. "Persone alle quali sarebbero già stati contestati legami con cellule terroristiche attive o dormienti - scrive il senatore del Partito democratico Ignazio Angioni in un’interrogazione depositata pochi giorni fa a Palazzo Madama - e con comportamenti sospetti durante la detenzione". Tutti detenuti sotto monitoraggio da parte del nucleo investigativo centrale della polizia penitenziaria. In questi giorni diversi parlamentari sardi hanno sollevato il caso. Preoccupati dalla decisione di trasferire i presunti terroristi, anche per le carenze di personale in cui versano le case circondariali dell’isola. Recentemente il deputato del movimento Unidos Mauro Pili ha svolto una visita ispettiva nel carcere di Sassari, che ospita 18 presunti jihadisti. In un’interrogazione alla presidenza del consiglio dei ministri elenca la lista dei sorvegliati speciali più pericolosi rinchiusi a Bancali. Tra di loro c’è Hamadi Ben Abdul Aziz Ben Ali, 51enne tunisino inserito tra "i 30 super jihadisti della blacklist stilata da Obama". Con lui è recluso Muhammad Hafiz Zulkifal, già imam di Bergamo e Brescia. "Il capo della cellula italiana di Al Qaeda - denuncia il deputato sardo - composta da 18 persone tra cui l’imam di Olbia, Sultan Wali Khan". Venti presunti jihadisti sono stati trasferiti nelle carceri della Sardegna. Rinchiusi nelle case circondariali di Bancali e Badu e Carros, a Sassari e Nuoro. Rappresentano la metà dei 44 islamici detenuti nelle nostre prigioni e accusati di terrorismo internazionale. Sempre a Sassari si trova Abderrahim Moutaharrik, 27enne marocchino campione di kickboxing arrestato la scorsa primavera e accusato di aver stretto legami con l’Isis. "Si temeva che Abderrahim - si legge nel documento depositato a Montecitorio - avesse ricevuto la tazkia, il nulla osta all’arruolamento nelle milizie di Al Baghdadi che ne faceva un possibile "martire", pronto forse a farsi esplodere in Vaticano". La lista dei reclusi più pericolosi prosegue. Tra i detenuti c’è il macedone Karlito Brigande, "ex militante dell’esercito nazionalista Uck e probabile cane sciolto dell’Isis, arrestato a Roma quando era pronto a partire per l’Iraq". E il somalo Abshir Mohamed Abdullahi, arrestato per istigazione al terrorismo. Uno scenario inquietante, reso ancora più delicato dalle carenze strutturali del carcere di Sassari. Una casa circondariale, così si legge nell’interrogazione, con un organico privo di almeno 150 agenti. Non è una novità. Da tempo, in Sardegna, il sindacato di polizia lamenta una carenza di organico rispetto al numero dei detenuti presenti, come denuncia in un’altra interrogazione il deputato Roberto Capelli, esponente del gruppo Democrazia Solidale - Centro democratico. A Sassari la situazione sembra essere particolarmente delicata. "Nel carcere di Bancali - scrive Pili - è in serio pericolo la sicurezza degli agenti, costretti a turni massacranti, con carenze di organico oltre il 40 per cento del personale necessario". Pili denuncia quello che ha visto durante la sua recente visita. "Si registrano agenti costretti a entrare in servizio da soli in reparti delicati come quello dell’alta sicurezza 2, dedicato al terrorismo internazionale". "L’istituto di massima sicurezza di Sassari - si legge nell’interrogazione - dovrebbe avere in servizio 415 poliziotti, ma al 15 dicembre 2016, secondo i dati del provveditorato della Sardegna riportati dall’Uspp, figuravano soltanto 243 unità". Un altro parlamentare, il deputato Cinque Stelle Nicola Bianchi, conferma le preoccupazioni. In un’interrogazione depositata alla Camera il grillino riporta i dati presentati dall’unione sindacale polizia penitenziaria della Sardegna. "L’istituto di massima sicurezza di Sassari - si legge - dovrebbe avere in servizio 415 poliziotti, ma al 15 dicembre 2016, secondo i dati del provveditorato della Sardegna riportati dall’Uspp, figuravano soltanto 243 poliziotti e risultavano assenti per malattia 38 unità". Nel carcere di Oristano sarebbero presenti 142 poliziotti su 210 previsti, a Tempio Pausania 88 su 158. Mentre a Badu e Carros, dove si trovano altri 8 presunti jihadisti, la carenza d’organico interessa il 35 per cento del personale. E non è tutto. L’alta concentrazione di presunti terroristi islamici nelle carceri sarde crea altre preoccupazioni. Come ha scritto il senatore Pd Angioni, negli istituti di pena isolani sono rinchiuse oltre 375 persone provenienti da paesi di religione islamica. Il rischio di radicalizzazione è evidente. Pochi giorni fa lo stesso premier Paolo Gentiloni, dopo aver incontrato a Palazzo Chigi la commissione di studio sul fenomeno dell’estremismo jihadista, ha ricordato come i percorsi di radicalizzazione si sviluppano soprattutto in cella. Come spiega Angioni, per i detenuti più fragili psicologicamente c’è il rischio "di subire l’influenza dell’estremismo religioso da parte dei soggetti già votati ad un cammino terroristico". Sovraffollamento carcerario, allarme in Campania ildenaro.it, 15 gennaio 2017 La situazione degli istituti penitenziari in Campania diffusi è sempre la stessa, da anni. E da anni gli appelli dal Ministero di Giustizia e curati dall’Ufficio stampa del Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, aggiornati al 31 dicembre 2016. Solo numeri, poche parole perché al di là dei motivi per cui una persona viene privata della libertà personale, la situazione delle carceri italiane non è delle migliori. E non è storia recente tanto che, in molti ricordano, baluardo di questa situazione fu Marco Pannella, storico leader dei radicali italiani che, dalla popolazione carceraria, non a caso, è sempre stato definito il "Santo protettore dei detenuti". 6887 detenuti in Campania nei 15 diversi Istituti che possono ospitare al massimo 6114. 773 in più di quanto permesso. Che la situazione debba migliorare è a tutti ovvio, ma la burocrazia, si sa, ha i suoi tempi. Non è basta una vita, quella di Pannella, per vedere soddisfatta la sua richiesta: dignità ai carcerati. "Le condizioni all’interno delle carceri, sono migliorate sia dal punto di vista dell’affollamento, che delle attività intraprese, alcune previste dai garanti altre dal Dap". Così la garante dei detenuti in Campania Adriana Tocco, durante la conferenza stampa svoltasi questa mattina al Centro Direzionale di Napoli, per illustrare l’attività svolta nel 2016 e il report della popolazione penitenziaria campana. Attività trattamentali, sportive, musicali e di lettura e un corso di educazione alla genitorialità "come richiesto dal direttore di Nisida, Gianluca Guida, per - prosegue la Garante - i detenuti molto giovani, ma già genitori di bambini di 5 e 6 anni". E ancora "la mostra del mercato dell’artigianato in carcere, dove - ricorda ancora Tocco - gli oggetti prodotti, sono stati venduti. I corsi di cucito creativo, organizzati dal mio ufficio e a breve corsi di formazione professionale e l’apertura, come già avviene in altri istituti penitenziari campani e non solo, di una pizzeria a Poggioreale che, dopo un primo periodo di rodaggio, potrebbe aprire anche all’esterno". Senza dimenticare le tante attività musicali, svoltesi in quasi tutti gli istituti penitenziari in Campania, dove "il coro giovanile del San Carlo, diretto dal Maestro Carlo Morelli, ha - prosegue la Garante dei detenuti -coinvolto i detenuti, rendendoli partecipi delle numerose esibizioni ". E infine "Stiamo lavorando - annuncia Tocco - all’istituzione degli spazi gialli, ossia i luoghi dove poter accogliere i figli dei detenuti in maniera più consona. Uno si sta aprendo a Poggioreale con l’attrezzatura fornita dalla chiesa e libri dal nostro Ufficio noi. Lo stesso avverrà a Santa Maria, Carinola e Benevento". Una serie di attività per positivizzare, rieducare e reinserire i detenuti. "Un detenuto - sottolinea Tocco - non lo si può lasciare solamente alla punizione altrimenti dal carcere ne esce peggiorato. Se invece riesce ad avere un trattamento umano penserà che lo Stato lo ha punito, ma lo ha anche accolto come un essere umano che ha la sua dignità". Campania: "Tre metri dietro le sbarre", i giovani giuristi vesuviani visitano le carceri di Carmine De Cicco sciscianonotizie.it, 15 gennaio 2017 L’Associazione ha verificato le condizioni dei detenuti e il rispetto della funzione rieducativa della pena. "Si dice che non si conosce veramente una nazione finché non si sia stati nelle sue galere. Una nazione dovrebbe essere giudicata da come tratta non i cittadini più prestigiosi ma i cittadini più umili". È ispirandosi a questa frase che è stato ideato il progetto "Tre metri dietro le sbarre". Promossa dall’Associazione Giovani Giuristi Vesuviani, i cui soci nel corso di questa settimana hanno effettuato visite ispettive in otto case circondariali campane, l’iniziativa ha avuto l’obiettivo di verificare le condizioni di vita dei detenuti e il rispetto della funzione rieducativa della pena, e servirà poi a effettuare resoconti e relazioni in merito e, sulla scorta di questo, ad aprire un dialogo con la Pubblica Amministrazione competente per segnalare gli eventuali disagi e i casi di violazioni di diritti umani fondamentali e di trattamenti inumani per i detenuti. Nel corso dei quattro giorni di visite i soci dell’associazione di Pomigliano d’Arco hanno varcato i cancelli di ingresso delle carceri di Poggioreale, Bellizzi Irpino, Benevento, Salerno, Santa Maria Capua Vetere, Secondigliano, Sant’Angelo dei Lombardi e Carinola. Insomma, un inizio di anno atipico per i Giovani Giuristi Vesuviani, ma che sicuramente dà il senso dell’impegno sociale e della dedizione dei membri di un’associazione che sempre più recita un ruolo da protagonista sul territorio vesuviano e non solo. Campania: "spazi gialli" nelle carceri e più tempo con le famiglie di Biagio Salvati Il Mattino, 15 gennaio 2017 Il Garante: favorire gli incontri tra detenuti e parenti. Il Garante regionale dei detenuti Adriana Tocco annuncia; "Spazi gialli" nei penitenziari di Santa Maria e Carinola, luoghi dove i detenuti possono passare ore più serene insieme con figli e mogli in visita. Lo spaccio di droga, inoltre, il reato più commesso dai detenuti della Campania secondo dati Garante. Le iniziative di lavoro nel penitenziario. Anche i penitenziari di Santa Maria Capita Vetere e Carinola, saranno dotati, al più presto, dei cosiddetti "spazi gialli", luoghi che vanno ad integrare i momenti di affettività dove i detenuti possono passare ore più serene insieme con figlie mogli durante le visite e i colloqui Un modo, insomma, per umanizzare il rapporto con la famiglia e accogliere i bambini in modo più soft. È quanto annunciato dal Garante regionale dei detenuti, Adriana Tocco, in occasione della presentazione del report annuale sullo status dei 15 istituti di pena presenti in Campania. Uno dei cosiddetti spazi gialli si sta aprendo a Poggioreale con l’attrezzatura fornita dalla chiesa e libri donati dall’ufficio del Garante malo stesso - ha annunciato Tocco - avverrà nelle carceri di Santa Maria Capua Vetere e Carinola. Perle attività ordinarie e di gestione degli uffici il Garante dell’Infanzia (che fa capo al Consiglio regionale della Campania) dispone di una dotazione di 30mila euro l’anno. "Le condizioni all’interno delle carceri - ha aggiunto Tocco -sono migliorate sia dal punto di vista dell’affollamento, che delle attività intraprese, alcune previste dai garanti altre dal Dap". Proprio a Santa Maria, per esempio, la capienza ufficiale di 833 detenuti, oscilla spesso tra i mille e millecento ospiti reclusi a seconda dei periodi, ma rientra sempre nella sfera della tollerabilità. Nel penitenziario vengono eseguite attività tratta-mentali, sportive, musicali e di lettura oltre alla presenza di detenuti lavoranti, inoltre la Garante ha anche annunciato negli anni a venire un polo universitario all’interno delle carceri campane "per dare la possibilità ai detenuti di conseguire una laurea triennale, per esempio in infermieristica". È stato presentato proprio a Natale, nel carcere di Santa Maria Capua Vetere diretto da Carlotta Giaquinto, il progetto battezzato Lady B, che vede produttrici di borse e borselli 15 detenute (10 ospiti a Santa Maria e 5 a Pozzuoli) attraverso il riciclo delle divise inutilizzate della Polizia penitenziaria. Il progetto realizzato con il supporto dell’assessore regionale Chiara Marciani consentirà alle detenute di conseguire il titolo di sarta artigiana con il ricavato che andrà a sostenere i detenuti nullatenenti. Nel carcere sammaritano è presente anche un reparto femminile (80 detenute) mentre sono 417 i reclusi tra media e alta sicurezza. Ma c’è anche la nota dolente: nel report del Garante Adriana Tocco, emerge che è lo spaccio di droga il reato più commesso dai detenuti della Campania. "Sono soprattutto i giovani tossicodipendenti che affollano le nostre carceri - ha sottolineato - e che a causa della loro dipendenza commettono anche altri reati. In questo senso, sono favorevole alla liberalizzazione delle droghe leggere. La legalizzazione aiuterebbe tanto perché credo che poter acquistare droghe leggere in farmacia sarebbe un vantaggio e non incrementerebbe il fenomeno". Nell’analisi sulle condizioni degli istituti penitenziari della Regione, Adriana Tocco evidenzia poi come la dimensione delle celle sia eccessivamente ristretta. Dopo la sentenza Torreggiani, infatti, "è intervenuta la Cassazione sentenziando che il minimo di spazio vitale per ogni detenuto in cella è pari a tre metri quadrati, letto escluso. Rispetto a questo - ha puntualizzato - dobbiamo ancora adeguarci". Alessandria: "In cella sono bersaglio di sputi", l’allenatore pedofilo si è ucciso in cella di Miriam Massone Il Secolo XIX, 15 gennaio 2017 In carcere al Don Soria ha resistito tre notti: prima di affrontare la quarta, con i suoi incubi e la paura del linciaggio da parte degli altri detenuti ("mi hanno sputato" aveva raccontato al suo avvocato), Antonio Marci si è ucciso. Come ci sia riuscito sarà un’inchiesta della procura a chiarirlo. Erano le 21 circa, di una giornata durante la quale fuori (e forse anche dentro) dal carcere si parlava solo di lui, di "Tonino", il trainer delle giovanili accusato di aver abusato dei baby calciatori per 30 anni. Al comando provinciale, in piazza Vittorio Veneto, altre due vittime, ormai adulte, si erano fatte avanti per affidare i loro ricordi al luogotenente del Nucleo investigativo, Alfio Musumeci, che già aveva raccolto mesi prima la testimonianza agghiacciante di un uomo, violentato da Marci 29 anni fa. Sui campi dell’Aurora Calcio e del Castellazzo, le ultime due società dove aveva allenato, genitori e dirigenti rileggevano la cronaca "col senno del poi". Nel frattempo "Tonino", incensurato, consumava le ore da solo, nella cella numero 9, al quarto pianto, sezione B. Sperava nei domiciliari, ma c’era anche la possibilità di un trasferimento in una sezione specifica del carcere di Vercelli. Prospettive che si devono essere spente a poco a poco. Dopo la cena, che in carcere si serve molto presto, Marci ha organizzato il suo addio. Soffocamento. Ha infilato la testa in una busta di plastica e in qualche modo l’ha chiusa. Quanto sia durata l’agonia forse potrà chiarirlo meglio l’autopsia in programma per giovedì. Ma non dev’essere rimasto a lungo con il sacchetto perché quando gli agenti della polizia penitenziaria l’hanno raggiunto, sembra che il corpo, sulla branda, fosse ancora caldo. Subito la chiamata al 118. E poi quella alle onoranze funebri Isola: sono state loro a occuparsi del trasporto della salma all’obitorio del cimitero. Era mezzanotte. Ieri nessun parente si è fatto vivo e alle 17 il custode ha chiuso: ad Alessandria sono arrivate solo due sorelle dalla Sardegna, ma sono andate dritte dall’avvocato. Marci era nato a Villasimius il 23 marzo del 1953 e qui tornava ogni estate accompagnato da uno o più bambini. Vacanze che negli anni hanno insospettito chi gli era accanto, qualche genitore, alcuni dirigenti delle società calcistiche, ma non abbastanza da denunciare. Nel Tortonese, dove è rimasto per anni con i piccoli del Derthona, c’è chi ci ha provato ma si è dovuto arrendere per mancanza di prove. Le "voci" erano sufficientemente pesanti per allontanarlo, ma non per portarlo in carcere. C’è voluto l’incontro casuale, in un bar, tra vittima e mister, qualche mese fa, per riuscire ad aprire un’indagine. Gli uomini del nucleo investigativo hanno sequestrato centinaia di foto e filmati dei rapporti sessuali completi che Marci aveva con i bambini. Quando i carabinieri, già nel suo bilocale (dove è stato sorpreso con un minore di 13 anni) gli hanno mostrato le immagini lui si sarebbe riconosciuto: "Sì, sono io". Una prima presa di coscienza che forse il silenzio e la solitudine nei quattro giorni di isolamento al Don Soria hanno alimentato, fino alla decisione del suicidio. Alessandria: "accorpare le due carceri", la proposta del Garante regionale dei detenuti alessandrianews.it, 15 gennaio 2017 Il Garante regionale dei detenuti, Bruno Mellano, interviene sul dibattito relativo alla crisi di personale registrata nella Casa di Reclusione di San Michele e sul progetto di revisione organizzativa della struttura. Sulla vicenda della Casa di Reclusione di San Michele accogliamo una riflessione del Garante Regionale dei detenuti, Bruno Mellano. Il sistema penitenziario italiano soffre storicamente di una sorta di "presbiopia": sembra infatti non riuscire a "mettere a fuoco" i problemi principali e le relative soluzioni, occupandosi più di ciò che è sullo sfondo rispetto a quello che è in primo piano. Al di là della metafora "oculistica" può apparire significativo ed emblematico raccontare la situazione di Alessandria, città dei due carceri (una Casa di reclusione e una Casa circondariale) che la pongono in una posizione peculiare a livello nazionale, e in cui è presente un garante comunale, Davide Petrini, docente universitario di Diritto penale e diritto penale del lavoro, particolarmente attento e presente. Come premessa voglio ricordare che nella conferenza stampa tenutasi lo scorso 23 dicembre in Consiglio regionale, il Coordinamento delle Garanti e dei Garanti dei detenuti piemontesi ha presentato il testo di un dossier, inviato al Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, in cui si rappresentavano alcune problematiche (una per ciascun carcere piemontese) a nostro avviso prioritarie e si suggerivano le potenziali soluzioni applicabili già nel 2017. Per quanto riguarda Alessandria abbiamo evidenziato come la Casa circondariale "Cantiello e Gaeta" presenti gravi criticità strutturali non sanabili (vetustà dell’edificio originario ottocentesco e problemi strutturali quali ad esempio la mancanza di luce) che determinano l’utilizzo di meno di metà dello spazio detentivo a causa dell’inadeguatezza e della mancata messa a norma della parte rimanente (tetto ed impianti), con il paradosso che mancano gli spazi agibili per le attività e per la detenzione (manca tra l’altro una sezione per semiliberi). Per questo abbiamo proposto all’Amministrazione penitenziaria di valutare la chiusura definitiva del "Cantiello e Gaeta", accorpando Casa Circondariale e Casa di Reclusione, con l’unificazione delle direzioni e delle aree (amministrative, educative e del personale di sorveglianza). Proprio di questi giorni - invece - è la notizia apparsa sugli organi di stampa che il Provveditore regionale doterà il "San Michele" di un contingente aggiuntivo di polizia penitenziaria (si parla di 15/20 agenti) che arriverà in parte (10 unità) dall’organico del carcere di Alba (attualmente chiuso), in parte dall’altro istituto alessandrino, il "Cantiello e Gaeta" (3 unità), mentre l’installazione di videocamere di sorveglianza dovrebbe consentire di destinare ad altre mansioni altri 5 o 6 agenti. I sindacati di polizia, nel dichiarare il proprio favore all’iniziativa, hanno tuttavia rimarcato che i provvedimenti ipotizzati sono - a loro modo di vedere - ancora insufficienti. Per capire, al di là del gioco delle parti, che cosa serve veramente ad Alessandria può essere utile citare la segnalazione collettiva inviata, da una trentina di detenuti presso la sezione I B della Casa di reclusione, alla Magistratura di sorveglianza di Alessandria in cui si elencano una serie di criticità, innanzitutto strutturali: dalla mancanza di spazio ed igiene delle celle, alla presenza di materassi vecchi e sporchi, all’inadeguatezza degli impianti elettrici dei bagni e delle docce con infiltrazioni e presenza di muffe, alla mancanza di acqua calda e alla fatiscenza di arredi, rivestimenti e porte. Vengono poi elencate quelle che, a giudizio dei detenuti, sono altri problemi da risolvere. L’introduzione di tessere telefoniche, presentata come una miglioria, secondo loro è causa di una aumentata burocrazia foriera di code e attese. Si lamentano inoltre per il vitto e - soprattutto - per la mancanza di personale educativo con il conseguente rinvio delle camere di consiglio e quindi della concessione di permessi e benefici per la ritardata redazione delle sintesi. Occorre quindi una riflessione profonda e realistica su quali siano le vere e inderogabili priorità del carcere, nel suo complesso. Vogliamo privilegiare sempre e comunque l’aspetto securitario aumentando la vigilanza (anche in contrasto con la nuova impostazione della "vigilanza dinamica") o intendiamo restituire finalmente all’istituzione carceraria la sua funzione rieducativa dotandola di organici adeguati di educatori, assistenti sociali, mediatori culturali, formatori, ecc.? È dalla risoluzione di questo interrogativo che deriverà il carcere del futuro. Tornando al caso di Alessandria, appare paradossale come la grande "montagna" mediatica che ha preso avvio dal malessere diffuso nel "San Michele" abbia partorito il "topolino" dello spostamento di tre agenti da uno all’altro dei due carceri cittadini. È urgente che - nell’attesa di decisioni più radicali (chiusura del Cantiello e Gaeta e costruzione di un nuovo padiglione al San Michele) si pervenga, come da noi suggerito, almeno all’accorpamento degli organici e quindi (come già previsto per il direttore) all’individuazione di un unico comandante di polizia penitenziaria e di un unico responsabile educativo, razionalizzando e ottimizzando l’esistente ed evitando di disperdere le già scarse risorse umane esistenti. Salerno: il Capo del Dap Santi Consolo "carcere, si lavora tra mille difficoltà" di Pina Ferro Cronache del Salernitano, 15 gennaio 2017 Visita a sorpresa del Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria a Fuorni: verificate tutte le criticità. Carenze strutturali e gravi criticità. Questo in breve quanto emerso dallo visita a "sorpresa" effettuata presso il carcere di Salerno dal capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Santi Consolo. Consolo, ha dato il via alla sua ispezione visitando ì locali della caserma agenti dove ha verificato di persona le evidenti carenze strutturali nonché la fatiscenza dei locali mai adeguati alle vigenti norme residenziali con conseguente disagio per gli agenti che usufruisce di detta struttura. L’ispezione si è protratta all’interno di diversi reparti detentivi e l’attenzione del capo del dipartimento è ricaduta sui posti dì servizio del personale dove non esiste alcun tipo di meccanizzazione. Consolo ha chiesto di poter incontrare il personale del Corpo della Polizia Penitenziaria per ascoltare in maniera diretta l’esistenza o meno dì criticità gestionali. Il personale interpellato in un confronto "franco e schietto "ha denunciato sia disfunzioni gestionali, sia criticità strutturali durante l’espletamento dei propri compiti istituzionali; altra questione che è stata subito sollevata all’attenzione del capo del dipartimento è stata quella dell’assenza di un reparto che garantisca l’isolamento sia esso disciplinare che di altra natura. A tal proposito è stato portato ad esempio come il detenuto Hmidi Saber, oggi, alla ribalta delle cronache giudiziarie nazionali ed internazionali poiché promotore dell’indottrinamento, proselitismo, e radicalizzazione dell’Isis, come ha messo a ferro e fuoco la struttura penitenziaria della Casa Circondariale di Salerno anche minacciando dì morte il Personale di servizio senza avere un adeguata risposta disciplinare proporzionata ai sistematici comportamenti messi in atto svilendo la risposta dello Stato proprio per la mancanza di un adeguato isolamento o altri provvedimenti, più restrittivi e limitativi, previsti dall’Ordinamento Penitenziario. Il capo del Dipartimento ha potuto così verificare la veridicità delle numerose denunce dettagliate prodotte dalle organizzazioni sindacali negli ultimi anni ai vertici amministrativi e politici, che hanno anche generato un’interrogazione parlamentare specifica su tali problematiche presentata dal senatore Franco Cardiello nella passata estate. Il capo del Dipartimento ha inoltre palesato la puntuale conoscenza delle problematiche della Casa Circondariale di Salerno così come sempre denunciate dal Sappe quale ad esempio la necessità dell’apertura della cosiddetta 6 Sezione, dove possa essere garantito l’isolamento, separazione e osservazione dei detenuti, elementi fondamentali per un trattamento penitenziario come previsto dall’ordinamento. A tal proposto il Segretario locale del Sappe - Verdino Giuliano si è fatto portavoce del malessere, del disagio che vive il Personale della Polizia Penitenziaria nell’Istituto salernitano. Il capo del Dap Santi Consolo ha condiviso le difficoltà del personale come gli sono state prospettate ha garantito il suo personale interessamento per l’assegnazione di nuove forze al fine di garantire la celere apertura della 6 Sezione e poter assicurare un Reparto dì isolamento indispensabile ad un giusto regime penitenziario. Inoltre, il presidente Consolo ha preso atto dell’assenza totale dei sistemi di video-sorveglianza e dell’assenza della meccanizzazione dei vari posti di servizio, elementi questi che rendono più sicuro ed agevole il lavoro degli appartenenti al Corpo della Polizia Penitenziaria, ha sollecitato inoltre una giusta esecuzione ed applicazione dell’ organizzazione del Lavoro così come concordata e sottoscritta con i sindacati del comparto. Il Sappe nel condividere tale ed inaspettata ispezione del Capo del Dap e del momento di confronto avuto con il personale della Polizia Penitenziaria augura che a breve dalle parole si passa ai fatti con provvedimenti concreti dell’Organizzazione del Lavoro, nel potenziamento degli organici e nelle migliorie strutturali così come annunciato da Consolo, anche per consentire di interrompere lo stato dì agitazione proclamato a seguito delle visite del segretario generale Donato Capece, per la mancanza di adeguate risposte da parte della Direzione. Salerno: "chiudete il carcere, è da terzo mondo", appello dell’avvocato Fiorinda Mirabile di Brigida Vicinanza Cronache del Salernitano, 15 gennaio 2017 Il padiglione maschile del carcere di Fuorni andrebbe chiuso. "Condizioni vergognose, da terzo mondo". Si sintetizza così il pensiero di Fiorinda Mirabile, in visita ispettiva all’interno della casa circondariale di Fuorni. Un tour nelle carceri campane organizzato dai "Giovani Giuristi Vesuviani" e da Emilio Quintieri, Radicale che si occupa attivamente di carcere. E proprio la Mirabile è stata "scelta" per compiere il giro all’interno delle carceri campane con l’iniziativa "Tre metri dietro le sbarre", ma quello che ha potuto rinvenire a Salerno ha qualcosa di scandaloso, soprattutto per quanto riguarda la prima sezione della casa circondariale. "Sono stata inserita in questa delegazione perché’ da alcuni anni, già come segretaria del Circolo territoriale "Franco Fiore " di Nessuno Tocchi Caino, mi occupo di carcere e sanità, anche attraverso lo studio-sportello Sos Corte di Giustizia Europea ancora attivo presso il Palazzo di Città - ha sottolineato Fiorinda Mirabile - inoltre, Antonio Stango, il neo Presidente della "Lidu", mi ha proposto di rappresentare un Comitato Lidu a Salerno, sono entrata all’interno dei carceri autorizzata direttamente dal ministero ma qui a Salerno nessuno ci ha fatto una bella figura". La visita ispettiva è stata effettuata giovedì e ora l’avvocato ha denunciato le condizioni in cui sono costretti a vivere i detenuti del penitenziario di Fuorni. "Sono stata insieme alla dottoressa Sergio, vicedirettore, che mi ha rassicurato che sarà fatto tutto ciò che chiederemo. Ma abbiamo guardato, ispezionato e fatto le nostre valutazioni". Vetri rotti che cadono, che minacciano comunque la sicurezza all’interno della casa circondariale, problemi strutturali e tanto altro. Ma a destare preoccupazione sono soprattutto le condizioni in cui vivono i detenuti. Sebbene costretti a pagare le proprie pene e soprattutto costretti alla reclusione, come giusto che sia, i detenuti rimangono esseri umani, come spiega la stessa Mirabile: "Voglio rappresentare alle istituzioni e agli organi competenti tutto quello che ho trovato all’interno del carcere di Fuorni, nonostante sia quasi indescrivibile. Ci sono delle condizioni che non sono risolvibili facilmente. A partire dal numero di detenuti che vi è all’interno del carcere. Quasi 500 per una struttura che potrebbe ospitarne 370. Parlando con loro infatti lamentano anche questo. Costretti a stare ammassati, stanno stretti ovunque. In più hanno 1 ora di acqua calda soltanto la sera e sono in 400 nella prima sezione a dover fare la doccia, per non parlare di queste ultime, molte sono rotte. I riscaldamenti la mattina non vengono accesi, le fogne non funzionano e ci sono tantissimi problemi strutturali. Sono condizioni che umanamente non possono essere sostenute, nonostante il lavoro costante di chi lavora all’interno del penitenziario anche con turni straordinari. Le uniche parti che si salvano sono la sezione femminile e quello di alta sicurezza. Per il resto da terzo mondo". Della stessa idea lo stesso Emilio Quintieri, che ha accompagnato Fiorinda Mirabile all’interno del carcere di Fuorni. Quintieri infatti denuncia con un post su Facebook le tragiche condizioni in cui versa la casa circondariale, appellandosi direttamente alle istituzioni: "Qui la situazione è veramente terrificante. Le condizioni di detenzione sono inumane ed illegali. Struttura completamente fatiscente, senza riscaldamenti, senza acqua calda, con finestre rotte. Meglio un po’ il padiglione Alta Sicurezza e quello femminile. Cosa fanno i Garanti dei detenuti? Cosa fanno i magistrati di sorveglianza? Cosa fanno le Associazioni del territorio? Cosa fa la Camera Penale di Salerno? Cosa fa il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Salerno? Mah, roba da non credere. Tutto il Padiglione Media Sicurezza maschile va immediatamente chiuso - e ancora continua Quintieri sostenendo la tesi dell’avvocato Mirabile - sembra di stare in Africa, una schifezza inenarrabile. Bisogna intervenire con urgenza. Bisogna chiudere il Padiglione ed effettuare i lavori di ristrutturazione. Il carcere di Salerno è da terzo mondo". Una denuncia forte che si spera possa arrivare dritta a chi di competenza. Ora l’avvocato Mirabile, già attiva come segretaria del circolo Franco Fiore di Nessuno tocchi Caino e che esercita come sindacato ispettivo nelle carceri coordinando avvocati e medici come avvocato appunto garante dei diritti umani, vuole che il grido dei detenuti salernitani arrivi direttamente chiaro e forte affinché si possa trovare una soluzione. Una conferenza stampa urgente e un incontro, al quale parteciperà anche l’onorevole Michele Ragosta sempre in prima linea sull’argomento, affinché l’appello possa giungere in fretta e portare i risultati sperati. L’avvocato Mirabile è anche a lavoro per completare la relazione sull’ispezione e sicuramente si adopererà per fare i dovuti ricorsi alla corte europea come ha lei stessa anticipato. Busto Arsizio: Radicali e Camera Penale in visita al carcere legnanonews.com, 15 gennaio 2017 Gianni Rubagotti e Diego Mazzola, militanti radicali visiteranno, insieme al Presidente della Camera penale di Busto Arsizio Roberto Aventi, il carcere della città varesina, la mattina di sabato 21 gennaio. Con loro Lorenzo Parachini, Consigliere della Camera penale di Busto Arsizio, Luigi Cirigliano, il Garante per i diritti dei detenuti di Busto Arsizio, Gian Piero Colombo (Pd), Assessore alle Politiche Sociali di Legnano e Giovanni Giuranna, Consigliere Comunale della lista civica Insieme per cambiare di Paderno Dugnano. Questa iniziativa prosegue le visite tenute in tutta Italia nelle scorse vacanze natalizie, nelle quali i radicali hanno colto anche l’occasione di ringraziare i quasi 20.000 detenuti che hanno digiunato in appoggio alla Marcia per l’Amnistia del 6 novembre scorso, dedicata a Marco Pannella e Papa Francesco. "Sono grato della presenza della Camera Penale di Busto - dichiara Rubagotti. Tra l’altro Aventi e Parachini, fanno entrambi parte dell’Osservatorio carceri di questa associazione e quindi potranno aiutarci con la loro competenza. Grazie a Colombo e Giuranna continuiamo a far visitare le carceri agli amministratori locali del nord Milano. Lo hanno già fatto nelle carceri di Bollate e Monza il Sindaco di Desio Corti, il Vice Presidente del Consiglio Comunale di Paderno Dugnano Maestri, i consiglieri Alberti di Desio, Olgiati di Legnano, Pallotti di Cusano Milanino". "Come ci spiegano i Direttori delle Carceri - conclude Rubagotti - i detenuti dopo aver scontato la pena tornano nel loro comune di appartenenza quindi è fondamentale che ci sia collaborazione fra carceri e amministrazioni locali del loro territorio, anche per diminuire il tasso di recidiva e quindi contribuire alla sicurezza in modo concreto e non solo con gli slogan elettorali". Cuneo: addetti in sciopero, lunedì niente mensa nelle carceri della provincia di Matteo Borgetto La Stampa, 15 gennaio 2017 Sciopero degli addetti al servizio dopo i ritardi nel pagamento degli stipendi. Reiterati ritardi nel pagamento degli stipendi e tredicesima non ancora corrisposta, senza avvisare i dipendenti. Sono i motivi che hanno indotto il sindacato Uil-Tucs a proclamare, per lunedì 16 gennaio, una giornata di sciopero per i dieci lavoratori del servizio di ristorazione nelle carceri di Cuneo, Fossano e Saluzzo. Risultato: un centinaio di agenti della polizia penitenziaria non potranno pranzare, né cenare nelle mense delle case circondariali, gestite dalla J. D. Service di Bergamo. Nessun problema, invece, per i detenuti, che utilizzano una cucina in autonomia. La questione era stata affrontata il 10 ottobre, in Prefettura, all’incontro tra sindacati e rappresentanti della ditta, con al centro del dibattito i ritardi nei pagamenti delle mensilità di luglio, agosto e settembre. La responsabile cuneese della società, Daniela Colombo, aveva parlato di "difficoltà finanziarie e di riorganizzazioni interne della direzione", assicurando però che "entro il 20 di ogni mese" sarebbero stati corrisposti i pagamenti con regolarità, e fornite le necessarie informazioni al personale. "Non hanno rispettato gli impegni - dice il segretario di Uil-Tucs, Salvatore Bove -. La retribuzione di novembre è stata liquidata il 27 dicembre e la tredicesima non è ancora stata pagata. Molto grave, inoltre, che la società non abbia inviato alcuna comunicazione ai lavoratori su ritardi e problematiche sui pagamenti dovuti". All’incontro in Prefettura, il viceprefetto Maria Antonietta Bambagiotti aveva richiamato l’importanza del servizio mensa nelle case circondariali, "la cui sospensione potrebbe configurare anche un’interruzione di pubblico servizio". La dottoressa Daniela Colombo, più volte contattata al cellulare, non risulta reperibile. "Lunedì distribuiremo buoni pasto agli agenti - dice il direttore del carcere di Cuneo, Claudio Mazzeo -. Spero che la situazione si risolva e lo sciopero non duri oltre una giornata. La società ha vinto un appalto e deve garantire i pasti al personale, altrimenti andrà incontro a delle penali". Mantova: nuovi modelli di "residenza protetta" all’ex Opg di Castiglione ilgazzettinonuovo.it, 15 gennaio 2017 "La audizione da me richiesta del direttore generale di Infrastrutture Lombarde oggi in sede di Commissione Speciale Carceri in merito alla realizzazione delle nuove residenze per l’esecuzione della misura di sicurezza sanitaria a Castiglione delle Stiviere non fa altro che confermare la mia preoccupazione rispetto alla situazione in corso: mi adopererò per portare il tema all’esame del Consiglio regionale". Così dichiara Mario Mantovani, consigliere regionale lombardo di Forza Italia. "Ci troviamo di fronte a un ritardo nella previsione delle nuove strutture, oltre il 2020, con il rischio di vedere vanificati i finanziamenti previsti dal ministero fra il 2012 e il 2013 pari a 32.000.000 per Regione Lombardia da distribuire nell’arco di più di un decennio, con l’evidente rischio di un crescente e quasi naturale aumento dei costi a carico della collettività. Inoltre - prosegue Mantovani - fa riflettere la decisione di non intervenire sugli attuali edifici esistenti, valutando una loro riconversione, ma lavorando invece alla progettazione di una nuova ed ennesima struttura che andrà ad occupare peraltro spazio verde. Tutti aspetti che sembrano essere privi di logica e di buon senso". "La necessità di dare piena attuazione per il superamento dell’ex Opg a favore di nuovi modelli di residenza protetta deve trovare, almeno in Regione Lombardia, un nuovo e deciso slancio. Per questo -conclude Mantovani- mi adopererò per sollecitare al più presto il Consiglio Regionale". Benevento: Gmc Onlus, la missione dell’associazione evangelica nelle carceri ottopagine.it, 15 gennaio 2017 Quasi tutte le carceri campane, Lazio, puglia, Basilicata, e Piemonte sono visitate dai membri della Gmc Onlus (Gruppo Missionario Carcerario). "Spesso - spiega il pastore Cesare Turco - gli avvocati, le assistenti sociali, gli educatori ci contattano al fine di incontrare i carcerati che sono vicini al fine pena o che possono usufruire di permessi premio o di arresti domiciliari. Lo scopo è quello di attivare la rete interna della Gmc onlus (Gruppo Missionario Carcerario) per ricercare una risposta alla loro richiesta di accoglienza. Spesso si tratta di persone che non hanno nessuno ad aspettarli al di fuori del carcere. A volte sono gli stessi detenuti a contattarci scrivendoci direttamente e manifestando bisogni diversi: alcuni di loro avanzano richieste di vario tipo (vestiario, pratiche burocratiche, contatti con le famiglie ecc.), altri dimostrano il desiderio di una informazione umana o di un sostegno psicologico. Oltre ai colloqui individuali, in carcere vengono portate avanti diverse attività: studi biblici, gruppo di lettura cristiana, uscite di gruppo, corso di musica e canto evangelico. Numerosi anche gli accompagnamento dei detenuti in permesso e le accoglienze nelle case famiglia evangeliche. Nelle carceri minorili - Per quanto riguarda le carceri minorili, la GMC Onlus (Gruppo Missionario Carcerario), è attiva attraverso diverse modalità: Direttamente con attività negli Istituti. Qui alcuni membri di Comunità, insieme a volontari e giovani, si recano più volte durante il mese per condividere momenti di amicizia, scambio di vita e relazione con i ragazzi ristretti. Con l’accoglienza di giovani a fine pena o che hanno la possibilità di usufruire di pene sostitutive alla detenzione, nelle case famiglia, famiglie accoglienti o pronte accoglienza. In alcuni casi con l’inserimento lavorativo in cooperative della Associazione GMC Onlus. Sull’ergastolo: "Tutti i cristiani e gli uomini di buona volontà sono dunque chiamati oggi o a lottare non solo per l’abolizione della pena di morte, legale o illegale che sia, e in tutte le sue forme, ma anche al fine di migliorare le condizioni carcerarie, nel rispetto della dignità umana delle persone private della libertà. E questo, io lo collego con l’ergastolo." "La GMC onlus (Gruppo Missionario Carcerario) è molto impegnata anche sul fronte dell’ergastolo. Partendo dalla nostra esperienza e dalla nostra certezza che il cambiamento dell’uomo è sempre possibile e che il detenuto si recupera e rieduca molto meglio con misure alternative al carcere, non possiamo non essere contro questa grande ingiustizia dell’attuale sistema penale: il carcere a vita, l’ergastolo, soprattutto nella sua variante ostativa ad ogni beneficio penitenziario, che esclude ogni possibilità di reinserimento sociale, divenendo a tutti gli effetti un fine pena mai, fino alla morte fisica del condannato. Dal 2014 incontriamo decine e decine di detenuti condannati all’ergastolo, in molte carceri d’Italia, seguendoli, dove è possibile, anche quando vengono trasferiti e rimanendo vicini alle loro famiglie. Dalla condivisione con gli ergastolani si è reso necessario provare a rimuovere le cause che creano una cultura che accetta la detenzione a vita e coinvolgere un numero sempre maggiore di persone che, anche con il loro autorevole contributo, ci aiutino a divulgare un nuovo pensiero e sensibilità sociale su questi uomini che, pur avendo commesso dei reati gravissimi, dopo decenni e decenni di detenzione ininterrotta sono persone completamente diversi dall’epoca del reato. Contrariamente a quanto si pensa, sono più di 100 le persone in carcere da oltre 30 anni e dei 1576 ergastolani dietro le sbarre al 22 settembre 2014, ben 1.162 sono ostativi (dati ufficiali forniti dal Dap) quindi destinati a morire in carcere". Avellino: Fp-Cgil; emergenza carceri, ad Ariano situazione sempre più incandescente orticalab.it, 15 gennaio 2017 "Nella giornata di mercoledì si è consumata un’aggressione, da parte di un detenuto italiano, ai danni di tre Assistenti Capo della Polizia Penitenziaria in servizio presso la Casa Circondariale di Ariano Irpino. Il detenuto dopo aver offeso gravemente con frasi ingiuriose e oltraggiose è poi passato alle vie di fatto aggredendo con calci e pugni un operatore penitenziario e successivamente altri due poliziotti giunti in aiuto al collega. Entrambi i poliziotti sono ricorsi alle cure dei medici presso il pronto soccorso cittadino riportando delle contusioni, con prognosi di sette giorni salvo complicazioni". Lo dichiara il coordinatore degli iscritti della Cgil Fp, Luciano Mastrangelo. "Non si può più nascondere che all’interno della casa circondariale di Ariano Irpino si stanno vivendo momenti di grave disagio da parte degli operatori della polizia penitenziaria che si ritrovano a lavorare tutti i giorni costretti a garantire il proprio mandato istituzionale con scarsissime risorse umane ed economiche, con tagli ai capitolati di spesa ma soprattutto a garantire, anche con sacrificio, l’ordine la sicurezza e la disciplina nonché il trattamento all’interno dell’ istituto di pena. Infine questa O.S. non può che lodare il comportamento, la professionalità e la competenza che contraddistingue gli uomini e le donne della polizia penitenziaria arianese che ogni giorno in prima linea affrontano mille difficoltà operative". Monza: per Claudio Bisio film e dibattito con i detenuti di Elisabetta Pioltelli ilcittadinomb.it, 15 gennaio 2017 L’attore Claudio Bisio ha fatto visita ai detenuti del carcere di Monza. Gli ospiti della casa circondariale hanno visto il suo film "Si può fare" intavolando poi un dibattito con lui. "Si può fare" è il titolo di un film, ma dovrebbe essere lo slogan di vita. Ed è la fiducia nel futuro migliore e la forza che ci invita a credere in una prospettiva di opportunità quello che Nello, il protagonista del film uscito nelle sale nel 2008, ha voluto ricordare ad una categoria di persone che oggi vive in una condizione di isolamento. Il personaggio di Nello è stato interpretato dall’attore Claudio Bisio che venerdì 13 gennaio ha fatto visita ai ragazzi del carcere di Monza per un incontro speciale i cui contenuti morali e sociali hanno di fatto arricchito l’appuntamento. Ai detenuti è stato mostrato il film "Si può fare" e ne è seguito un dibattito con l’attore che sulla sua pagina Facebook ha voluto postare alcuni scatti dell’incontro. "Un ringraziamento a coloro che hanno organizzato l’evento, ma soprattutto ai ragazzi che hanno partecipato..." scrive Bisio che nel film veste i panni di un sindacalista ambizioso che, dopo un insuccesso lavorativo, viene mandato in una delle tante cooperative sorte in seguito alle Legge Basaglia. Quest’ultima si era occupata di dove mandare i malati di mente dopo la chiusura dei manicomi, come gestirli, a chi affidarli. È la Milano nel 1983. Due prospettive si confrontano e si scontrano a riguardo. La più vincente ed innovativa è sicuramente quella del sindacalista Nello il quale desidererebbe avviare una cooperativa vera e propria che garantisse un reale stipendio ai "soci", cioè ai pazienti in cura. La seconda prospettiva è quella del dottor Del Vecchio che non riesce ad intravedere nulla di promettente in questi soggetti. La formula del successo trovata da Nello consiste nel regalare fiducia a questa categoria della società da sempre emarginata. Ciò che il film insegna è sicuramente che ovviare il problema non significa risolverlo, anzi e mostra infatti come i ragazzi dell’ex manicomio si svelano dei veri artisti e i loro prodotti artistici vengono apprezzati anche dalla gente più scettica nei loro confronti. Dunque la cooperativa si propone come reale alternativa al deprimente manicomio. Una lezione di vita che partendo da quel "Si può fare" insegna che ciascuno di noi possiede almeno una dote che è capace di dare frutti inaspettati, una volta stimolata. La costrizione non può essere il metodo per il recupero del paziente. Per guarire il primo passo è la consapevolezza di avere bisogno di aiuto e, in secondo luogo, la necessaria intesa tra beneficiato e benefattore. E questo, Bisio, lo ha ricordato anche ai ragazzi del carcere di Monza. Milano: progetto dell’Aidaa "I barba gatti - mici oltre le sbarre" aidaa.blogspot.it, 15 gennaio 2017 Portare i gatti dentro le carceri italiane, istituire vere e proprie colonie feline dentro le carceri o nelle strutture protette dove si trovano le mamme recluse con i bimbi e allo stesso tempo avviare se possibile percorsi di collaborazione con i rifugi felini esistenti utilizzando i carcerati che lo vorranno (e potranno farlo) come volontari, o operatori specializzati retribuiti per la gestione dei gatti dei medesimi. Questo a grandi linee il progetto promosso dall’Associazione Italiana Difesa Animali ed Ambiente - Aidaa per l’introduzione dei mici nelle case di reclusione e nelle strutture protette che sarà presentato per la prima volta agli operatori del carcere milanese di San Vittore in un incontro che si terrà il prossimo 25 gennaio presso il carcere milanese e che vedrà l’associazione animalista rappresentata dal suo presidente Lorenzo Croce, ma affiancata anche da esperti del settore, nonché dalla consigliera comunale di Milano Silvia Sardone che da subito ha sposato con entusiasmo questa iniziativa di Aidaa e dalla giornalista Elena Gaiardoni che da anni si occupa di questioni carcerarie e di Antonio Simone di Italia Victrix. Piuttosto intrigante anche il nome del progetto denominato "I barba gatti - mici oltre le sbarre" che si richiama a un vecchio vezzeggiativo milanese e all’esperienza carceraria. "Noi - ci dice Antonella Brunetti pro-presidente Aidaa e responsabile settore gatti dell’associazione- crediamo che la presenza dei gatti anche nelle carceri, soprattutto in quelle strutture dove ci sono le mamme che in compagnia dei bimbi stanno scontando la loro pena sia molto importante, certo ora cominciamo con Milano ma l’idea - conclude Brunetti - è quella di esportare poi questo progetto nel maggior numero di case di reclusione possibile, anche se ci rendiamo conto delle difficoltà burocratiche che incontreremo". Sulla stessa lunghezza d’onda l’autore del progetto, il presidente Aidaa Lorenzo Croce: "Si tratta di un progetto polivalente ed ambizioso che possiamo realizzare anche per step, la cosa che francamente mi ha fatto più piacere è l’entusiasmo delle persone a cui ho proposto di darci una mano in questa nuova avventura, ora il 25 incontreremo gli educatori di San Vittore e da qui comincerà la nostra nuova e sicuramente emozionante avventura con i mici come primi ed unici protagonisti". Orvieto (Pg): terzo murale nel carcere di via Roma, Salvatore Ravo accende l’autunno di Davide Pompei orvietonews.it, 15 gennaio 2017 Fuori, l’inverno più gelido che spezza i rami e non dà tregua ai pensieri. Dentro, l’autunno più mite e accogliente. Senza quell’aurea di struggente malinconia che una certa arrendevole retorica gli ha conferito. Ma con la luce morbida di un paesaggio quieto. Monti, a suggerire la linea dell’orizzonte. Mulinelli di foglie libere di volteggiare, leggere come poesie. E, ancora una volta, la rassicurante presenza di acqua. In un eterno fluire, in un ciclico tornare. Scorre anche il tempo, secondo la cronologia sovvertita delle moderne stagioni. L’Inverno, murale, arriverà solo nella Primavera del calendario. In via di completamento, intanto, anche il terzo tassello di un percorso in quattro tappe, avviato ormai a febbraio 2015 dal pittore Salvatore Ravo insieme ai detenuti della Casa di Reclusione di Orvieto, trasformata con decreto in Istituto a Custodia Attenuata. Nuovo gruppo rispetto a quello che ha fermato su parete la luce dell’Estate e il profumo della Primavera. Quindici, in tutto, gli allievi che arrivano - non senza timore - a tracciare un segno di fronte alla nuda vastità di 300 metri quadri. Tanti, ne conta l’ambiente a volta situato nel Reparto dove hanno luogo anche le loro celle. Età media, 40 anni. Provenienza, non solo italiana. Durata complessiva di lavorazione, circa venti giorni. Il nuovo murale che porta il colore dietro le sbarre di Via Roma e l’Autunno addosso e tutto intorno a chi osserva arriva, però, come momento finale di un percorso non finito di rieducazione che muove dai rudimenti teorici dell’arte visiva e passa per qualcosa di non visibile come l’interiorità. Un percorso formativo di educazione al colore e all’ascolto. "Non solo un laboratorio di pittura - suggerisce il maestro - finalizzato alla realizzazione di una grande opera pittorica, ma un’immersione totale nell’arte. Quella vera. Che è, prima di tutto, sentire, vedere. Essere, vivere. Il colore incide sulle persone così come la musica apre certi canali sensoriali". È per questo che, anche stavolta, ad incoraggiare in alcuni momenti le pennellate sono state le note del sax di Francesco Pecorari coinvolto nel progetto promosso dall’associazione culturale Aìtia - nata nel 1999 ed impegnata su più fronti, non ultimo quello del volontariato sociale - accolto con sensibilità e spirito di collaborazione dall’Amministrazione Penitenziaria. "Dirigenza, Direzione e Personale a cui va il mio personale ringraziamento. L’obiettivo è portare il sole dentro. Dentro il carcere. E dentro, dentro. Aprire una finestra di speranza sul mondo, anche in un luogo così, anche verso un mondo così. Nella convinzione che è possibile intraprendere nuovi percorsi. E che con l’arte si può catturare un attimo, cristallizzarlo. Fermare quello stato di elevazione sensoriale, di profonda e totale immersione-evasione benefica, che produce l’atto stesso di fare, prima ancora che fruire, l’arte". Solo se suoni e voci diverse si armonizzano e si lasciano guidare dal direttore d’orchestra, la polifonia si fa concerto. E le quattro stagioni, musica. Come in Vivaldi. Napoli, dietro gli spari al mercato i ragazzi condannati a uccidere di Roberto Saviano La Repubblica, 15 gennaio 2017 Il carcere o la morte. Non c’è via di scampo per i giovani di camorra, protagonisti dello scontro tra il clan Mazzarella e la paranza dei bambini. La storia di due fratelli. Dietro una sparatoria, una strage sfiorata come quella al Mercato della Duchesca del 4 gennaio scorso, ci sono storie di famiglie che vivono una quotidianità di guerra. Si può scegliere di ignorare queste vicende o, invece, avere il coraggio di fissare l’abisso. Valerio Lambiase, 28 anni, è uno dei ragazzi arrestati per la sparatoria in cui è rimasta ferita una bambina di 10 anni oltre ad alcuni ambulanti senegalesi. Gennaro Cozzolino, 39 anni, il suo socio, sarebbe colui che ha effettivamente sparato mentre Valerio durante l’aggressione era armato di una mazza da baseball. Valerio è fratello maggiore di Gianmarco, la storia di questi due fratelli è una storia tipica di queste terre. Sono di Forcella e qui il modo più veloce di affermarsi è mettersi a disposizione dei clan. Gianmarco inizia a sorvegliare le piazze per conto della famiglia Del Prete, che è il braccio operativo dei Mazzarella nel quartiere. I Mazzarella sono uno dei clan più antichi della città: nascono in periferia, a San Giovanni a Teduccio, e arrivano a comandare fino al centro. Entrano a Forcella per la via del sangue nel 1996: Michele Mazzarella (figlio di Vincenzo detto "o pazz") sposa Marianna Giuliano (figlia di "Lovigino" Giuliano, uno dei massimi dirigenti della camorra, divenuto noto ai media per la foto con Maradona in una vasca a forma di conchiglia. La famiglia Giuliano collassa nei pentimenti: i Mazzarella diventano sempre più i legittimi sovrani di Forcella. I fratelli Lambiase crescono in questo contesto di decadenza. Le grandi piazze di spaccio sono spostate a Secondigliano, la ricchezza criminale di Forcella si depaupera, ma proprio quando stanno per diventare maggiorenni, intuiscono che tutta l’attenzione mediatica concentrata su Scampia sta permettendo a Forcella di tornare un’importante piazza di spaccio. A Forcella si formano le paranze. L’idea di Emanuele Sibillo, capo del gruppo più feroce, la "paranza dei bambini", è di togliere il potere nel quartiere ai Mazzarella, considerati forestieri, e di darlo ai forcellani. Gianmarco viene avvicinato dalla paranza dei bambini: l’obiettivo è farlo passare dalla loro parte contro i clan "stranieri" di San Giovanni a Teduccio, ma Gianmarco non vuole, ha una specie di istinto di fedeltà verso il suo clan d’origine. Inizia una vera e propria guerra tra i Mazzarella-Del Prete e la paranza dei bambini di Sibillo. La famiglia di Gianmarco capisce che la situazione sta diventando gravissima. Lo spinge ad allontanarsi dal centro di Napoli, finché la situazione non si sarà calmata. Nelle telefonate intercettate nell’inchiesta della Dda di Napoli, il padre dice a Gianmarco: "Qua non devi venire proprio! Non la devi fare proprio la pazzaria! (...) non sai chi ti vuole male". L’altro figlio, Valerio, è al sicuro, perché è finito in galera. Ed è proprio per questa ragione che la compagna del padre ha un’idea per salvare anche Gianmarco: "Dobbiamo chiamare un carabiniere (...) gli dobbiamo far pigliare un paio di anni di carcere... questi qua vanno tutti quanti in galera, quando lui esce non c’è più nessuno (...) almeno il padre lo va a trovare ogni settimana al carcere e non va sopra al cimitero". È proprio come appare da queste parole: l’idea è di far arrestare Gianmarco per far sì che non venga ucciso. Ma lui continua a frequentare la zona, ad andare e venire da Forcella. Sente che è il momento in cui poter avere un ruolo più importante e quindi più soldi, perché molti del clan sono in carcere e altri stanno tradendo passando con i rivali. Ma nel 2013 arriva l’imprevisto: nasce sua figlia e la sua compagna Anita, che ha 21 anni, non vuole far vivere la sua bambina in una famiglia di camorra. Litigano e lei riesce a convincere la propria madre ad attivarsi per trovargli un lavoro: e lo trova. A un bar calabrese serve un barista, ma Gianmarco non ne vuole sapere. Qui è riportata l’intercettazione tra Anita e Gianmarco, in cui quest’ultimo le confessa che non ce la fa a vivere come un barista, un normale lavoratore, seguendo la classica logica del giovane di paranza, secondo cui a lavorare sono solo i fessi, gli uomini che non contano: Gianmarco: "Embè me ne vado là [a Forcella, ndr ] Anita...". Anita: "E che fai Gianmarco là...". Gianmarco: "Io... e poi si vede quello che faccio, Anita...". Anita: "Eh... Gianmarco e che fai perdi questo lavoro qua per andartene là...". Gianmarco: "Ed io poi vado sempre a lavorare...?" Anita: "Embè che vuoi fare...?". Gianmarco: "Sempre quello che ho in testa Anita... tu lo sai bene (...)". Anita: "Eh Gianmarco e perché tu vuoi fare sempre... perché tu vuoi fare sempre questa vita qua...? Fammi capire (...) ho parlato con tua mamma, ho parlato con tuo padre, ho parlato con..., ho parlato con tutti quanti, tutti quanti... perché devi fare per forza quella vita, allora è come dico io...". Gianmarco: "Ma per forza, ma è una cosa obbligatoria...". Anita, per convincere Gianmarco ha parlato con la sua famiglia e i suoi migliori amici, ha cercato di mostrare a tutti che Gianmarco è diverso dagli altri ragazzi di paranza. Anita vuole far capire a lui e a chi gli vuole bene che non è scritto che il suo destino sia per forza quello di camorrista. Ma per Gianmarco, invece, è obbligatorio, di fronte alla possibilità di guadagnare di più, lavorare nel narcotraffico e per i Mazzarella. E così risponde alla richiesta di Anita di emigrare e cercare un’altra vita: Anita: "Andiamo per altre parti, e non ti preoccupare". Gianmarco: "Eh, non ti preoccupare, con 100-150 euro alla settimana voglio vedere come facciamo... Anita ma per piacere, ma stai un poco zitta, sì...". Gianmarco rimane a Napoli, quindi. L’unica precauzione che prende è quella di andare a vivere a casa dei suoceri a Ponticelli, territorio controllato dai Mazzarella. Ma la paranza ci mette poco a scoprire dove si trova. Il 1° marzo 2015 Gianmarco non ce la fa più a stare chiuso in casa. Ha 21 anni e nemmeno la paura lo fa rinunciare a vedere la partita della sua squadra. Quella sera si gioca Torino-Napoli. Gianmarco va a vederla in un circolo ricreativo di Ponticelli. Intorno alle 21.30 due killer arrivano e gli sparano addosso. Muore poche ore dopo in ospedale. Questa storia ha un sapore amaro, perché vede una famiglia sperare che i propri figli vadano in carcere come unica salvezza da morte certa. E il lavoro per pochi spiccioli, senza diritti e soprattutto senza possibilità di crescita viene visto come una condanna assai peggiore di quella di morire o essere arrestati. Il padre dei Lambiase in un’intercettazione, parlando dei figli, dice: "Gianmarco è un uomo perso (...) Valerio però rimane là uno lo va a trovare, lo vede, hai capito... Ma quello vuole fare proprio quello, fare quello che lo vuole fare hai capito? Non capisce che io domani sono più forte di te, domani mi sveglio io quello è più forte di te non capisce mò sta proprio rischiando la vita di quello che sta in mezzo alla via sta monnezza...". Era consapevole che il destino di Gianmarco fosse segnato e che il carcere fosse la protezione di Valerio. Una volta uscito dal carcere quest’ultimo, infatti, è tornato per strada. Questa è una storia svelata dalle indagini dei pm Woodcock e De Falco e dalla squadra mobile di Napoli comandata da Fausto Lamparelli (che avevano già indagato l’ascesa e la caduta della paranza dei bambini). Ora queste indagini che raccontano di Valerio con una mazza da baseball, a riprendersi il territorio dalle mani degli assassini di suo fratello, pronto a spaccare teste e gambe e a costringere i disperati venditori ambulanti africani a tornare a pagare il pizzo al suo clan. Muoiono di freddo, Orbán ordina di arrestare i migranti di Angelo Mastrandrea Il Manifesto, 15 gennaio 2017 Il premier ultranazionalista ungherese sfida l’Ue e le convenzioni internazionali: rischio terrorismo, fermeremo chi chiede asilo. Appena due giorni fa, il Global Risk Report aveva avvertito: le più importanti minacce globali del momento sono gli eventi climatici estremi e l’immigrazione incontrollata. Motivo? Possono aumentare l’instabilità sociale e alimentare le sirene populiste, specialmente in Europa. Nemmeno 48 ore dopo, è arrivata a dargli ragione l’Ungheria di Viktor Orbán, che si presenta come il paese istituzionalmente più razzista del continente. Accade infatti che tutto l’est sia flagellato da temperature polari e sommerso dalla neve e allo stesso tempo meta di passaggio per migliaia di profughi, soprattutto siriani, nonostante il flusso sia calato di molto dopo gli accordi tra Ue e Turchia e la chiusura delle frontiere intermedie, da quella tra Grecia e Macedonia a quelle tra Serbia e Bulgaria, fino al muro costruito dall’Ungheria alla frontiera con quest’ultima. Per tutta risposta il governo di Budapest, che si definisce liberale ma è in realtà ultranazionalista e di estrema destra (pungolato più a destra solo dai neonazisti di Jobbik), ha annunciato ieri che arresterà tutti i migranti, compresi i richiedenti asilo. Si tratta del secondo schiaffo all’Unione europea: dopo che Orbán aveva già rifiutato qualsiasi piano di redistribuzione dei profughi, ora addirittura si prevede la detenzione di quest’ultimi, nonostante sia "contro le norme costituzionali accettate anche dall’Ungheria", come il governo ha riconosciuto, invece dell’assistenza umanitaria alla quale questi avrebbero diritto viste le rigidità del clima. In realtà non si tratta di una cosa nuova: il provvedimento, che prevede il fermo dei migranti finché non sarà esaminata la loro pratica, era stato già approvato alcuni anni fa e poi sospeso nel 20013, sotto la pressione di Bruxelles, della Corte europea dei diritti umani e delle Nazioni Unite. Ora tornerà in vigore, con il pretesto del terrorismo islamico, nel momento peggiore per i disperati che cercano di attraversare il Paese per raggiungere il Nord Europa. Da allora, ha detto Orbán, in Europa ci sono stati sanguinosi attentati e dunque sulle regole internazionali e dell’Europa, liberamente accettate da Budapest, deve prevalere "l’interesse della nostra auto-difesa" e gli immigrati saranno tutti indistintamente trattati come clandestini. Il premier ungherese ha sfruttato l’occasione del giuramento dei nuovi cadetti della guardia di frontiera per affermare che l’Ungheria non può affidarsi a "una soluzione qualunque" da parte dell’Ue, poiché i migranti rappresentano un rischio per la cultura e la sicurezza degli ungheresi e una minaccia sul fronte del terrorismo. "In Europa, viviamo un tempo dell’ingenuità e dell’incapacità: gli immigrati sono vittime dei trafficanti, ma anche dei politici europei, che incoraggiano la migrazione con la politica di accoglienza", ha detto. "Da noi, non ci saranno camion che investono chi festeggia", ha concluso, alludendo alle stragi di Nizza e di Berlino. Probabilmente non sono estranee, queste parole, al nuovo corso americano di Donald Trump, che alla vigilia del suo insediamento, nella prima conferenza stampa, pochi giorni fa è tornato a chiedere il muro anti-immigrati con il Messico, pagato da quest’ultimo. Orbán, al momento in minoranza in Europa, si propone come interlocutore degli Usa trumpisti sfasciando proprio l’Unione, sperando nell’ascesa di Marina Le Pen alle prossime elezioni francese (ma non gli è andata bene in Austria con l’ultranazionalista Norbert Hofer, sconfitto dal verde Alexander Van der Bellen). Insomma, la partita sembra andare oltre la questione dei profughi, anche se lo stesso Orbán (capofila di uno schieramento di destra nazionalista e xenofoba che comprende pure polacchi e slovacchi) si trova a dover fare i conti con l’opinione pubblica interna dopo il fallimento, lo scorso autunno, del referendum anti-immigrati. Sempre ieri, l’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati ha espresso "profonda preoccupazione per la situazione di profughi e migranti in Europa", sulla quale sono calati l’ondata di gelo e maltempo e il gelo di Orbán. Nel mirino dell’Unhcr c’è però l’intera rotta balcanica, dove il flusso di migranti ha rallentato rispetto a un anno fa ma non si è arrestato del tutto: "Abbiamo rafforzato la nostra assistenza in Grecia e Serbia, tuttavia siamo estremamente preoccupati per notizie di continui respingimenti in tutti i Paesi lungo la rotta balcanica occidentale", ha affermato una portavoce, che ha sollecitato tutti gli Stati a fare di più per salvare vite. La gran parte del peso dell’assistenza è stato scaricato sulla Grecia di Alexis Tsipras, che si trova a dover fare i conti con le imposizioni della troika e con le migliaia di siriani che nessuno vuole e che il governo ungherese ora vuole addirittura arrestare. L’Unione europea per il momento rimane alla finestra. Migranti. "Così in tre anni il partito di Alfano ha messo le mani su tutti i Cie" di Franco Grilli Il Giornale, 15 gennaio 2017 Nel 2016 arrivi record per Italia: sbarcati 181mila immigrati. La Lega accusa il partito di Alfano: "Controlla i centri d’accoglienza per intascare fondi pubblici". "Il business dell’immigrazione è interamente nelle mani del Nuovo Centrodestra". L’accusa è pesantissima e arriva dalla Lega Nord. "In soli tre anni il partito di Angelino Alfano, come una piovra - tuona il capogruppo della Lega alla Camera, Massimiliano Fedriga - ha messo i suoi tentacoli su tutti i principali centri d’accoglienza del Paese intascando fondi pubblici e assumendo dipendenti che in tempo di elezioni dovevano trasformasi in voti". Per questo motivo i parlamentari del Carroccio hanno deciso di presentare una mozione di sfiducia nei confronti dell’ex titolare del Viminale che con l’avvicendamento di Paolo Gentiloni a Palazzo Chgi ha traslocato alla Farnesina. Nei giorni scorsi Frontex ha reso noto un dato preoccupante. Nello scorso anno, in Italia, sono arrivati ben 181mila immigrati, un record assoluto, quasi la metà dei nuovi nati, che a loro volta sono per un quarto stranieri. In generale, invece, la cifra complessiva dei migranti che hanno raggiunto l’Europa nel 2016 è stata pari a 364 mila, circa due terzi in meno rispetto all’anno precedente, in seguito alla "chiusura" della rotta balcanica e degli arrivi sulle isole greche in seguito all’accordo tra l’Unione europea e la Turchia sulla gestione dei flussi, in vigore da marzo. L’aumento degli arrivi in Italia, secondo l’agenzia europea di gestione delle frontiere esterne, "riflette l’aumento della pressione migratoria dal continente africano, soprattutto l’Africa Occidentale. Gli sbarchi in Grecia sono al contrario crollati del 79% a 182.500". Secondo il partito guidato da Matteo Salvini, la colpa di Alfano non è solo di non aver contrastato gli sbarchi, ma addirittura di aver messo le mani su questo business. L’accusa è diretta al Nuovo centro destra senza far nomi e cognomi. Ma, secondo Fedriga, il partito dell’ex ministro dell’Interno gestirebbe "tutti i principali centri d’accoglienza del Paese". In questo modo, è sempre l’accusa mossa dal Carroccio, i neo centristi possono intascarsi i fondi pubblici e assumere "dipendenti che in tempo di elezioni" si trasformano in voti. Fedriga chiede a tutte le forze politiche che siedono in parlamento di "firmare la mozione per mandare a casa il capo di Ncd". "È inaccettabile che Alfano ci rappresenti in tutto il mondo come ministro degli Esteri quando il suo partito pensa solo a intascare soldi sulla pelle degli immigrati - conclude il leghista - se il nostro appello cadrà nel vuoto sarà la dimostrazione che non solo Ncd, ma anche le altre forze politiche, sono conniventi con un sistema finalizzato a favorire i compagni di merenda e non affrontare il problema dell’immigrazione". Slovenia, le norme di emergenza contro il diritto d’asilo di Riccardo Noury Corriere della Sera, 15 gennaio 2017 La rotta balcanica è chiusa da mesi e di nuovi migranti e richiedenti asilo lungo quel percorso terrestre che dalla Grecia arrivava fino in Slovenia, non se ne vedono più. Rimangono, in un limbo umano e giuridico oltre che al freddo polare, le ultime migliaia che riuscirono a entrare prima della chiusura. La Slovenia però si è cautelata nel caso improbabile che la rotta balcanica venisse riaperta. Il parlamento di Lubiana è pronto ad approvare un pacchetto di emendamenti alla Legge sugli stranieri sulla base dei quali, se il governo dichiarasse i flussi migratori una minaccia per l’ordine pubblico e la sicurezza dello stato, con una maggioranza di due terzi il parlamento darebbe vita a un vero e proprio regime di emergenza rinnovabile ogni sei mesi. In base alla nuova normativa, verrebbe automaticamente negato l’ingresso in Slovenia ai migranti e ai richiedenti asilo che si presentassero alla frontiera e sarebbero espulsi quelli che riuscissero a entrare irregolarmente. Il tutto, senza esaminare le richieste di asilo né valutare il rischio di subire violazioni dei diritti umani a seguito del respingimento. Sigillare le frontiere non è una novità: la Slovenia seguirebbe l’esempio di altri paesi dell’Unione europea come Ungheria e Austria, rendendosi responsabile di una clamorosa violazione del diritto internazionale dei rifugiati: respingere un migrante o un richiedente asilo in assenza di un procedimento giudiziario e della valutazione caso per caso dell’eventuale necessità di protezione internazionale è vietato. La posizione geografica della Slovenia, punto di arrivo dell’ex rotta balcanica, potrebbe dare vita a respingimenti a catena: un migrante o un richiedente asilo respinto in Croazia potrebbe essere rinviato verso la Serbia, la Bulgaria o l’Ungheria, paesi dove l’accoglienza è inadeguata se non inesistente. Oppure, a partire da marzo, potrebbe finire al punto di partenza, ossia in Grecia. E da qui, ai sensi dell’accordo del 2016 col governo di Ankara, essere rimandato in Turchia. Da dove potrebbe essere rimpatriato verso il luogo d’origine: Siria, Iraq, Afghanistan. Dal centro dell’Europa al centro della guerra in poche semplici mosse. Viaggio nelle carceri turche: così è schiacciata la libertà d’espressione di Alessandra Coppola Corriere della Sera, 15 gennaio 2017 Dal celebre editorialista, al cronista di provincia, sono almeno 146 i reporter, commentatori, vignettisti in cella, centinaia in attesa di giudizio, decine all’estero. La più conosciuta, in Europa, è la scrittrice Asli Erdogan, arrestata il 16 agosto 2016, scarcerata il 29 dicembre, in attesa di processo. Ma non è l’unica. In Turchia la stretta sui media (e sugli intellettuali che collaborano coi media) negli ultimi mesi è stata così violenta e trasversale da aver seriamente compromesso la libertà di espressione nel Paese. Le denunce e i numeri - Da Parigi, l’associazione internazionale Reporters sans frontières registra 176 testate - giornali, programmi radiofonici, emittenti televisive, pubblicazioni di vario tipo - rapidamente chiuse con "decreto", grazie allo stato d’emergenza instaurato dal presidente Recep Tayyip Erdogan (nessuna parentela con la scrittrice) dopo il tentato golpe dello scorso 15 luglio. L’organizzazione segue da vicino anche il processo in corso al proprio stesso rappresentante, Erol Önderoglu, arrestato, rilasciato, ancora incriminato per aver promosso una campagna di solidarietà al quotidiano filo-curdo Özgür Gündem. Da Istanbul, la "Piattaforma per il giornalismo indipendente" P24 conta a oggi 148 tra cronisti, commentatori, fotografi e vignettisti in carcere, la gran parte con accuse abnormi di "associazione terroristica" (coi curdi del Pkk). È incluso nella lista, il fondatore di P24, Hasan Cemal, figura nota e stimata, che aspetta in cella l’udienza rimandata al 14 febbraio e si è finora difeso in aula con una frase diventata slogan condiviso: "Il giornalismo non è reato". Il partito Hdp (nato dall’alleanza tra sinistra e curdi, senza dubbio lo schieramento più colpito) ha chiesto con un’interrogazione al ministero della Giustizia l’elenco esatto dei reporter detenuti. Risposta evasiva: non è possibile, sostiene il governo, anche perché molti si dichiarano giornalisti ma non lo sono. Gli intellettuali - Alcuni sono, in effetti, scrittori, o economisti, o ancora sociologi attivi però anche su stampa o in tv. Pinar Selek, tra questi, militante femminista molto nota in patria e all’estero, con una lunga vicenda di processi in Turchia (in attesa di una sentenza della Corte suprema che decida l’assoluzione o l’ergastolo), è riparata in Francia. Ha aperto a Milano due giorni fa il ciclo di eventi di "Tempo di Libri", tornerà in città il 15 marzo quando l’associazione Gariwo le dedicherà un albero nel Giardino dei Giusti. "La repressione della libertà di espressione e delle opposizioni non è una novità in Turchia - spiega al Corriere Selek. Mio padre, che era avvocato, è stato in carcere per cinque anni dopo il golpe dell’80; io sono cresciuta leggendo scrittori o poeti detenuti, c’è stato un tempo in cui anche solo avere un libro di Aragon o di Eluard era reato... Dal genocidio degli armeni in poi il sistema repressivo appartiene alla costruzione stessa di questo Stato". Qualcosa, però, negli ultimi tempi è cambiato: "Perché siamo entrati in un contesto di guerra, interna e internazionale", sul fronte siriano. Cronisti locali e celebri commentatori - È la linea dell’opposizione al presidente Erdogan, certo. Ma la cronaca dalla Turchia riporta (quando riesce a filtrare) un preoccupante stillicidio di reporter. Dalla redattrice del piccolo giornale locale, Ceren Taskin, arrestata tre giorni fa nella remota provincia di Hatay. Fino a Can Dündar, uno dei più famosi giornalisti turchi ora protetto dalla Germania, scampato a un attentato, poi in prigione per 92 giorni assieme a un nutrito gruppo di colleghi dello storico quotidiano Cumhuriyet, reo di aver diffuso materiale su un passaggio di armi dai servizi d’intelligence di Ankara ai miliziani islamici in Siria, appena condannato a dieci anni di reclusione. Tecnicamente era uno scoop, per il governo rappresenta una minaccia. Brasile. Altra rivolta in carcere, 10 morti di cui tre decapitati Ansa, 15 gennaio 2017 La polizia ha circondato il penitenziario e chiuso le uscite. Prosegue l’ondata di violenza nelle carceri brasiliane che, dall’inizio di gennaio, conta già un centinaio di morti. Nella notte, nel penitenziario di Alcacuz, nello stato settentrionale del Rio Grande, in una sommossa tra bande rivali sono stati uccisi 10 detenuti. Zemilton Silva, coordinatore del carcere, ha spiegato che "abbiamo visto le teste di tre detenuti strappate via". La polizia ha circondato la prigione e bloccato le uscite. Gli agenti non sono però ancora potuti entrare nel penitenziario per sedare la rivolta perché i detenuti sono armati.