I diritti umani ed il 41 bis: un percorso tortuoso di Marco Testai salvisjuribus.it, 14 gennaio 2017 Risale al 12 maggio 2016 la pronuncia della Cassazione che, confermando quanto già rilevato dal Tribunale di Sorveglianza, rigetta l’istanza di revoca delle misura ex art. 41 bis della legge 354/75 comunemente definita "carcere duro", nei riguardi del capomafia Totò Riina. Secondo i Giudici di Legittimità, la natura socialmente pericolosa del soggetto, confermata da riscontri oggettivi desumibili dall’ordinanza impugnata, ove si evince l’attuale capacità del reo a mantenere i contatti con la cosca mafiosa, non soltanto costituisce circostanza ostativa alla concessione di misure meno afflittive ma rende il trattamento in atto applicato potenzialmente inidoneo allo scopo perseguito. La sentenza della Corte giunge in un momento particolarmente cruciale per la sopravvivenza della misura sanzionatoria de quo, alla luce dei recenti interventi dei Giudici di Strasburgo chiamati ad occuparsi della compatibilità del 41 bis ord. pen. rispetto agli standard di tutela dei diritti umani con particolare riferimento agli artt. 3, 8 e 11 della Cedu. Con la pronuncia del 24 settembre 2015, nel caso "Paolello contro Italia" (Ricorso n. 37648/02), la Corte Edu ha avuto modo di chiarire, secondo una ormai costante giurisprudenza, il proprio orientamento, ritenendo ammissibile lo speciale regime detentivo nostrano, la cui applicazione ed operatività non costituisce, di per sé, una violazione dei diritti umani del detenuto. Nel caso di specie, il ricorrente lamentava la violazione dell’art. 3 della Convenzione Edu in quanto sottoposto, a suo dire, a "pene inumane e degradanti e superiori a quelle previste dalla legge all’epoca in cui i fatti attribuitigli sono stati commessi". Inoltre, egli sarebbe stato obbligato a sottoporsi, prima e dopo gli incontri con i suoi familiari e il suo avvocato, a ispezioni nel corso delle quali non veniva preservata la sua intimità e sarebbe stato costantemente filmato nella sua cella. Ed ancora, il ricorrente lamentava una presunta violazione dell’art. 8 a causa del prolungato mantenimento delle restrizioni ostative agli incontri coi familiari nonché la lesione al diritto alla corrispondenza, costantemente controllata dal personale carcerario. Orbene, la Corte, rigettando in toto le violazioni eccepite, ha rilevato, in ordine al primo motivo di doglianza, come le restrizioni, affinché possano essere ritenute disumane e degradanti, devono superare un livello minimo di gravità necessario per rientrare nel campo di applicazione dell’art. 3. Seppure ammette, dunque, la rigidità delle misure adottate (incapaci, tuttavia, di superare quella soglia di gravità impossibile da definire aprioristicamente), esse risultano giustificate dall’esigenza di impedire contatti con l’organizzazione criminale d’appartenenza. Per quanto attiene al prolungato mantenimento delle misure restrittive, ancora una volta, i Giudici sovranazionali hanno posto in rilievo l’imprescindibile variabilità della durata che non può essere circoscritta all’interno di parametri oggettivi, essendo piuttosto necessario avere riguardo alle circostanze concrete del caso di specie. Spetta piuttosto al ricorrente l’onere di fornire elementi probatori atti a dimostrare che la persistente applicazione del regime di detenzione speciale gli ha provocato degli effetti fisici o psicologici che rientrano nell’ambito di applicazione dell’articolo 3. Ed ancora, il controllo sul detenuto tramite sistemi di videosorveglianza, le perquisizioni personali (anche consistenti in ispezioni del reo privo di ogni indumento), le limitazioni delle visite dei familiari nonché il preventivo controllo della corrispondenza costituiscono, a giudizio della Corte, misure speciali giustificate dall’esigenza di salvaguardare la sicurezza e l’ordine pubblico, assolvendo, dunque, ad una funzione special-preventiva prima ancora che punitiva. Dunque, appare pacifico l’arresto giurisprudenziale della Corte in ordine alla compatibilità dell’art. 41 bis ord. pen. rispetto ai diritti inviolabili del detenuto: solamente laddove, nel caso concreto, le misure restrittive, in regime di 41 bis ord. pen., oltrepassino la soglia minima di gravità di cui all’art. 3 Cedu sarà possibile individuare, nei casi più gravi un’ipotesi di tortura, ovvero, negli altri casi, di trattamento inumano e degradante. Ricade, in ogni caso, sul detenuto l’onere di allegare e provare la sussistenza "oltre ogni ragionevole dubbio" di tali maltrattamenti; in caso contrario la Corte, nel difficile bilanciamento tra esigenze di sicurezza pubblica e diritti umani del singolo, propenderà per una dichiarazione di irricevibilità del ricorso stesso. L’unanime posizione dei Giudici di Roma e di Strasburgo deve fare i conti con una realtà che, per certi versi, mette in dubbio la ratio dell’istituto e il rispetto dei diritti umani. In base al rapporto sul regime detentivo speciale, esito dell’indagine conoscitiva effettuata dalla Commissione Straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani del Senato datato aprile 2016, talune strutture carcerarie presentano condizioni assai instabili che minano fortemente il fine per il quale venne introdotta la misura detentiva richiamata. Di seguito si riporta la testimonianza della Commissione Parlamentare presso il carcere di Nuoro: "Il primo impatto con il "carcere duro" è stato a Nuoro, nel corso di una visita nel giugno 2013 all’area riservata in cui si trovavano i due detenuti in regime di 41 bis. Da alcuni mesi, tuttavia, quel carcere non è più destinato a ospitare detenuti in regime speciale. Le condizioni riscontrate, allora, erano davvero critiche. Si trattava di celle destinate originariamente all’isolamento e poi trasformate per ospitare questa tipologia di detenuti, stanze molto piccole, strette, buie, in cui c’era solo un letto singolo, con accanto un bagno alla turca chiuso da una bottiglia di plastica e un lavandino, un mobiletto, un televisore e un fornelletto a gas per il caffè. Lì trascorrevano 22 ore al giorno Antonio Iovine, uno degli esponenti di vertice della camorra, e la sua "dama di compagnia". Le restanti due ore le passavano insieme: un’ora nei corridoi strettissimi del passeggio, murati e coperti da una grata arrugginita, bui, due metri circa di larghezza, sei o sette di lunghezza; l’altra nella stanzetta della socialità, arredata da un vogatore. "Provate voi a vivere ventidue ore al giorno dentro un bagno. Non credo sia una condizione dignitosa", sottolineava uno dei due uomini." La precarietà delle condizioni strutturali del carcere di Nuoro risulta essere, tuttavia, un mero caso del tutto eccezionale che non trova un analogo riscontro. Talora le criticità evidenziate ed emerse dalle parole delle persone ristrette riguardano la rigidità di alcune prescrizioni che paiono, agli occhi dei detenuti, incomprensibili, vessatorie e fortemente punitive come il divieto di affiggere sulle pareti fotografie o altre immagini dei familiari. Di seguito ulteriori testimonianze di alcuni detenuti nel corso dell’indagine svolta dalla Commissione Parlamentare che inducono ad un’attenta riflessione dello strumento detentivo applicato: "Un detenuto fa notare che gli restano da scontare pochi mesi, sarà presto libero, ma nonostante questo, è ancora in regime speciale: passerà dal carcere duro alla libertà da un giorno all’altro. "Che senso ha?" chiede. Dei 9 anni di pena, ne ha passati quasi 4 in 41 bis in un’area riservata come "dama di compagnia". Dice che è uscito da lì con la pelle verde perché era sottoterra, completamente al buio. Chiede di indagare sulle già citate "aree riservate". Un detenuto racconta di essersi laureato in giurisprudenza in carcere con una tesi sul 41 bis mentre ora è iscritto a scienze politiche. Ha discusso la tesi nella sala colloqui dietro al vetro divisorio, con i sette professori della commissione dall’altra parte. Chiede perché in cella col fornelletto sia permesso fare il caffè, ma non si può cuocere un uovo e perché il tempo che viene concesso per scrivere al pc venga sottratto da quello dell’ora d’aria. Contesta il fatto di trovarsi ancora in 41-bis perché ha ammesso la sua colpevolezza e quindi la sua pericolosità dovrebbe essere cessata, ma poiché il 41 bis è dato dalla natura del reato e non dalla persona accusata, è costretto a rimanere sotto quel regime. Un altro detenuto racconta di passare tutto il tempo facendo su e giù nella cella. Ha contato: 780 volte in un’ora." Altre segnalazioni sono giunte alla Commissione attraverso alcune lettere inviate dai diversi istituti, riguardano aspetti materiali della vita quotidiana apparentemente di poca importanza, ma che risultano essere vitali in una condizione di reclusione così rigida come nel regime di carcere duro. E soprattutto vengono percepite dai detenuti come privazioni e afflizioni del tutto gratuite ed esercitate al solo scopo di intimidazione. In esito all’indagine svolta, la Commissione ha presentato una lista di raccomandazioni, alla luce di quanto appreso e avuto riguardo alla pregressa analisi svolta dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura, al fine di rendere maggiormente compatibile con i principi costituzionali e con la Cedu lo speciale regime detentivo osservato. In particolare, le limitazioni alle attività e alla socialità interna all’istituto (non più di un’ora d’aria e di "socialità", in gruppi non superiori a quattro), se prolungate nel tempo, possono avere effetti dannosi sulla salute fisica e psichica dei detenuti, come rilevato dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura nella sua relazione del 2013. Il Cpt, sia nel 2009 che nel 2013, ha ribadito che l’uso del regime di cui all’art. 41 bis ord. pen. come mezzo di pressione psicologica sui detenuti al fine di cooperare con il sistema giudiziario per "dissociarsi" dall’organizzazione di appartenenza o "cooperare con le autorità" sarebbe molto discutibile. Un uso di questo genere solleverebbe problemi sotto il profilo del rispetto sia dell’art. 27 della nostra Costituzione che degli strumenti di diritto internazionale dei diritti umani. Altro elemento sintomatico è rappresentato dalla prassi della proroga: per un considerevole numero di detenuti, se non per la loro totalità, come rilevato dal Cpt nel 2008, l’applicazione del regime di cui all’articolo 41 bis è stato rinnovata in maniera pressoché automatica. Con la conseguenza che i detenuti interessati sono stati per anni soggetti a un regime detentivo caratterizzato da un insieme di restrizioni le quali potrebbero rappresentare una negazione del trattamento penitenziario descritto dai principi direttivi dell’ordinamento, della sua universalità e della sua individualizzazione, fattore essenziale nella finalità della pena prescritta costituzionalmente. Effetto di ripetute proroghe dell’applicazione del regime di cui all’art. 41 bis, è il caso di detenuti ormai anziani che perdono progressivamente le proprie capacità di discernimento. Pertanto, la Commissione ritiene di dover segnalare in via generale l’opportunità di valutare una revisione della legislazione consolidata, onde evitare che nella sua applicazione si manifestino rischi quali quelli paventati dal Cpt. Un ulteriore profilo di criticità evidenziato dalla Commissione attiene alla necessità di adeguare alcune strutture detentive a standard minimi di abitabilità sia attraverso la rimozione di inutili filtri esterni al passaggio di aria e luce naturale che nella predisposizione di chiusure interne azionabili dal detenuto o su sua richiesta. Ed ancora, si segnala: - la limitazione all’uso del sistema di videosorveglianza alle celle, applicato solo in casi particolari e per un tempo limitato; - la revisione delle ingiustificate regole che disciplinano il possesso di oggetti nelle camere detentive, riservandole esclusivamente a ciò che ha una incidenza effettiva sulle possibilità di comunicazione con l’esterno, precluse dalla ratio della norma di legge; - il ricorso motivato e non routinario alle perquisizioni delle camere detentive; - la rimozione di tutte quelle proibizioni che riguardano la possibilità di avere a propria disposizione, in cella, tutti gli strumenti necessari alla lettura, allo studio e allo svolgimento di attività artistiche che possano essere svolte individualmente; - la cessazione dell’applicazione del regime di 41 bis per un tempo congruo in prossimità del fine pena, in ossequio al principio di progressività del trattamento penitenziario; - infine, la Commissione raccomanda che ai detenuti in regime di 41 bis sia garantita la possibilità di prendere parte alle udienze dei processi cui partecipano nelle vesti di imputati, quantomeno nei casi in cui debbono essere escussi, ricorrendo a misure di sicurezza adeguate all’effettuazione di trasferimenti sicuri. Come è facile capire, il bilanciamento tra gli interessi della collettività intesi come salvaguardia della sicurezza e dell’ordine pubblico in funzione preventiva e il rispetto dei diritti umani dei detenuti in regime di 41 bis passa attraverso un percorso legislativo complesso e ancora in fieri. Tanto si è fatto sinora ed importanti le tappe raggiunte, tuttavia, solo tramite una visione miope sarebbe possibile ritenere, allo stato dei fatti, concluso il ciclo legislativo. Preme sottolineare l’importanza del regime detentivo introdotto nonché gli indubbi vantaggi conseguiti fino ad oggi tramite l’isolamento di soggetti particolarmente pericolosi, la cui presenza presso ordinari ambienti carcerari metterebbe a serio repentaglio la sicurezza nazionale. I profili di criticità segnalati dalla Commissione inducono, tuttavia, ad un miglioramento del sistema correttivo vigente, più umano e vicino alle problematiche riscontate presso gli ambienti carcerari visitati. Non resta che augurarsi un serio e celere intervento legislativo che, avulso da condizionamenti ideologici, metta fine a inascoltate situazioni deprecabili affinché, parafrasando le parole dello scrittore statunitense Edward Bunker, "la prigione non si trasformi in una fabbrica di animali in cui le probabilità che uno esca peggiore di quando è entrato siano altissime". Tossicodipendente un detenuto su quattro lettera43.it, 14 gennaio 2017 Le attività connesse agli stupefacenti rappresentano quasi il 70% di quelle illegali. Nel 2015 sequestrate nel nostro Paese 84 tonnellate di sostanze vietate, per un valore di 14 miliardi di euro. I dati dell'ultima Relazione sullo stato delle tossicodipendenze in Italia. Il 26% delle persone detenute in Italia nel 2015 è risultato essere tossicodipendente. In carcere, tra consumatori e spacciatori, si è registrata una continua crescita di cittadini stranieri. Ancora nel 2015 le operazioni antidroga sono state 19.091, a fronte delle quali sono stati sequestrati 84 mila kg (-45,6%) di sostanze stupefacenti, in leggero aumento rispetto al 2014 per quanto riguarda cocaina, Lsd, droghe sintetiche e piante di marijuana, in calo invece i sequestri di eroina, marijuana e hashish. Un mercato che vale lo 0,9% del Pil. È quanto si legge nell'ultima Relazione sullo stato delle tossicodipendenze in Italia, che prende in esame anche il gioco d'azzardo patologico, inserito recentemente nei nuovi Livelli essenziali di assistenza (Lea). Il testo, comunicato a dicembre alla presidenza del Senato, ricorda che secondo stime risalenti al 2013 le attività connesse alle droghe rappresentano quasi il 70% di quelle illegali e pesano per circa lo 0,9% del Pil. In Lombardia il maggior numero di operazioni. Una cifra pari a 14 miliardi di euro (contro i 12,7 miliardi del 2011), di cui 6,5 miliardi per cocaina, 4 per cannabis, 1,9 per eroina e 1,7 per droghe d'altro tipo. Il maggior numero di operazioni antidroga si sono svolte in Lombardia (3.132), Lazio (2.940) e Campania (1.782). Rispetto al 2014 gli interventi di polizia sono aumentati in Piemonte (+37,5%), Valle d'Aosta (+33,35) e Lazio (+17,2%); in forte calo invece in Veneto (-26%), Sardegna (-22,7%) e Molise (-22%). Il ruolo del crimine organizzato. La relazione ricorda poi i gruppi criminali coinvolti nei traffici: per la cocaina la 'ndrangheta, la camorra e le organizzazioni balcaniche e sudamericane; per l'eroina la criminalità campana e pugliese in stretto contatto con le organizzazioni albanesi e balcaniche; per i derivati della cannabis la criminalità laziale, pugliese e siciliana, insieme a gruppi maghrebini, spagnoli e albanesi. La cannabis è la droga più usata dai giovanissimi. La sostanza illegale più usata dagli studenti italiani (15-19 anni) è la cannabis, seguita da cocaina, stimolanti e allucinogeni; l'eroina è invece quella meno diffusa. In Europa ogni anno solo per overdose si registrano tra i 6.500 e 8.500 decessi; nel nostro Paese nel 2015 i morti sono stati 305 (86,2% di sesso maschile), con un calo del 2,55% rispetto al 2014. La quota di stranieri è stata del 4,9% contro il 6,7 di un anno prima. La proposta dei Radicali. Sul fronte complesso delle tossicodipendenze i Radicali Italiani e l'Associazione Luca Coscioni, insieme ad alcune tra le più importanti organizzazioni antiproibizioniste in Italia, l'11 novembre 2016 hanno depositato alla Camera una legge di iniziativa popolare che parte dallo schema del testo presentato dall'Intergruppo parlamentare Cannabis legale. Oltre alla legalizzazione della cannabis, il testo dei radicali prevede anche la decriminalizzazione dell'uso di tutte le droghe che in altri Paesi, come il Portogallo, ha dato ottimi risultati in termini di riduzione dell'incidenza di Hiv e diminuzione dei consumatori soprattutto tra i giovani. Gioco d'azzardo poco percepito. Sul fronte del gioco d'azzardo, infine, la relazione ricorda come questo sia ormai da tempo inserito tra le dipendenze gravi, che può nascere per difficoltà economiche (35%) e disagio sociale (32%). Secondo alcuni intervistati sono stati definiti gioco d'azzardo il poker (citato dall'81% delle persone) e il video-poker (79%); non sono stati giudicati tali il gratta e vinci (56%), il lotto (54%) e Win for life (51%). In cella uno su cinque prega Allah di Chiara Giannini Il Giornale, 14 gennaio 2017 I detenuti musulmani sono 11mila, dei quali tremila a rischio radicalizzazione. Sono 204 gli istituti penitenziari attivi sul territorio nazionale che ospitano circa 55mila detenuti, dei quali 11mila provengono da Paesi islamici, secondo i dati forniti dal Sappe, il sindacato di Polizia penitenziaria. Dei musulmani che stanno scontando una pena in una delle carceri italiane, circa 7.500 sono islamici praticanti, ai quali si aggiungono 150 imam. La differenza, ovvero 3.300 persone, è rappresentata dai non osservanti, ma sono quelli che ogni giorno che gli integralisti tentano di convertire e radicalizzare. Secondo quanto spiegato dal segretario generale del Sappe, Donato Capece "oggi, per il controllo sulla radicalizzazione in carcere, si monitorizzano 170 soggetti che sono attenzionati 24 ore al giorno. A questi se ne aggiungono altri 200, seguiti in maniera continuativa, per un totale di circa 370 soggetti che, in parte sono già praticanti, in parte interessati alla radicalizzaizione. Il personale di polizia penitenziaria riferisce di questi fenomeni di radicalizzazione attraverso il suo nucleo centrale investigativo al Casa (il Comitato di analisi strategica antiterrorismo), ovvero il tavolo permanente presieduto dal ministero dell'Interno, che coinvolge tutte le forze di polizia". Nelle carceri ci sono oggi, per permettere la frequentazione del culto agli islamici 70 moschee, o meglio stanze adibite a moschea. Per questo motivo ci sono circa 20 imam che entrano ed escono per predicare. Oltre a questi, hanno accesso agli istituti carcerari, nel circuito di questa religione, circa 70 mediatori culturali, che interloquiscono tra la polizia penitenziaria e questi soggetti. In ogni penitenziario c'è, invece, una cappella in cui i detenuti di fede cristiana possono recarsi a pregare. Il numero delle moschee, però, è in netta crescita e aumenta col numero degli ospiti islamici. Ciò che preoccupa maggiormente il sindacato della Polizia penitenziaria è che la maggior parte degli agenti non parla la lingua dei carcerati di fede islamica, che si esprimono, per lo più, in francese, oltre che in arabo. Ecco perché sarebbero necessari corsi di formazione, utili a far sì che queste persone possano apprendere le lingue al fine di controllare puntualmente questi soggetti, possibili terroristi che, in futuro, potrebbero mettere in atto attentati nelle città italiane. Il direttivo Anm senza linea unitaria, sciopero lontano di Errico Novi Il Dubbio, 14 gennaio 2017 Oggi la riunione del parlamentino delle toghe, gruppi divisi. In ordine sparso, e con una certa fatica nel trovare la via maestra: così le correnti dell’Anm si presenteranno questa mattina nella consueta sala al sesto piano della Cassazione per la riunione del Comitato direttivo centrale. All’ordine del giorno innanzitutto le "iniziative da adottare in conseguenza del mancato rispetto degli accordi da parte del governo" riguardo i "correttivi al dl 168", ossia il cosiddetto "decreto Cassazione", assai poco gradito ai magistrati. Le questioni da sistemare sono innanzitutto due: da una parte il trattenimento in servizio limitato ai soli vertici delle alte magistrature ( Suprema corte in primis) e che il sindacato delle toghe chiede di estendere, magari con un generalizzato reinnalzamento a 72 anni dell’età pensionabile; e i tempi più lunghi ( 4 anni anziché 3) per "legittimarsi" a fare domanda di trasferimento. Ma proprio la soluzione in vista per la seconda delle due "vertenze" rischia di rendere ancora più complicati gli equilibri. È di ieri infatti la notizia, riportata da Dubbio, di un emendamento al ddl di conversione del Mille Proroghe con cui il ministro della Giustizia Andrea Orlando riporterà a 3 anni il tempo minimo di permanenza nella sede assegnata per i magistrati di prima nomina già in servizio. Più precisamente, il testo della norma transitoria preparata da via Arenula ripristina il "vecchio" termine di 3 anni per tutte le giovani toghe che al momento dell’entrata in vigore della legge avranno già avuta assegnata la sede. Si apre un pur piccolissimo spiraglio dunque persino per i vincitori dell’ultimo concorso, la cui graduatoria è stata approvata a inizio dicembre e che il guardasigilli ha chiesto alla collega Marianna Madia di immettere in servizio il prima possibile. L’intervento sana in ogni caso le posizioni che il "decreto Cassazione" aveva modificato in modo più discutibile, considerato che i giudici interessati avevano scelto la loro destinazione certi di doverci restare "solo" 3 anni. Il passo avanti però potrebbe agire non necessariamente in chiave "distensiva", nel parlamentino Anm di oggi. Intanto perché a questo punto le altre correnti avranno gioco ancora più facile nell’isolare la posizione di Autonomia & Indipendenza, il gruppo del presidente Piercamillo Davigo, unico a proporre lo sciopero. Ma anche perché sarà più complicato per l’intero direttivo stabilire forme pur meno traumatiche di protesta, come la diserzione della cerimonia inaugurale dell’anno giudiziario. Il match si ridurrà probabilmente a un ballottaggio tra due linee: quella di Area, che spinge proprio per l’iniziativa da prevedere per le inaugurazioni; e quella più moderata di Magistratura Indipendente, la "destra" giudiziaria classica, che ha già annunciato di voler mettere ai voti una richiesta di incontro urgente con Orlando, da celebrarsi prima di ogni mossa successiva. Pare in vantaggio la seconda opzione, considerato che Unicost sembra più vicina alla posizione di "MI". Non a caso Area ha diffuso ieri una nota in cui si dichiara che "chiedere un nuovo incontro ad un esecutivo che ha già disatteso gli impegni assunti sarebbe per la Anm un grave segno di debolezza". Le toghe "di sinistra" propongono perciò la "mancata partecipazione dell’Anm alle imminenti cerimonie" come forma di protesta che "consentirebbe, ancor più di uno sciopero, di evidenziare la lunga serie di promesse mancate". Area chiede anche il sostegno del Comin, il Comitato spontaneo dei magistrati di prima nomina. Che però a questo punto dovrebbe invitare i gruppi tradizionali a vigilare, piuttosto che alla rottura con il guardasigilli. Un caso a caso di Bruno Mellano (Garante regionale dei diritti dei detenuti" cr.piemonte.it, 14 gennaio 2017 Il sistema penitenziario italiano soffre storicamente di una sorta di "presbiopia": sembra infatti non riuscire a "mettere a fuoco" i problemi principali e le relative soluzioni, occupandosi più di ciò che è sullo sfondo rispetto a quello che è in primo piano. Al di là della metafora "oculistica" può apparire significativo ed emblematico raccontare la situazione di Alessandria, città dei due carceri (una Casa di reclusione e una Casa circondariale) che la pongono in una posizione peculiare a livello nazionale, e in cui è presente un garante comunale, Davide Petrini, docente universitario di Diritto penale e diritto penale del lavoro, particolarmente attento e presente. Come premessa voglio ricordare che nella conferenza stampa tenutasi lo scorso 23 dicembre in Consiglio regionale, il Coordinamento delle Garanti e dei Garanti dei detenuti piemontesi ha presentato il testo di un dossier, inviato al Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, in cui si rappresentavano alcune problematiche (una per ciascun carcere piemontese) a nostro avviso prioritarie e si suggerivano le potenziali soluzioni applicabili già nel 2017. Per quanto riguarda Alessandria abbiamo evidenziato come la Casa circondariale "Cantiello e Gaeta" presenti gravi criticità strutturali non sanabili (vetustà dell’edificio originario ottocentesco e problemi strutturali quali ad esempio la mancanza di luce) che determinano l’utilizzo di meno di metà dello spazio detentivo a causa dell’inadeguatezza e della mancata messa a norma della parte rimanente (tetto ed impianti), con il paradosso che mancano gli spazi agibili per le attività e per la detenzione (manca tra l’altro una sezione per semiliberi). Per questo abbiamo proposto all’Amministrazione penitenziaria di valutare la chiusura definitiva del "Cantiello e Gaeta", accorpando Casa Circondariale e Casa di Reclusione, con l’unificazione delle direzioni e delle aree (amministrative, educative e del personale di sorveglianza). Proprio di questi giorni - invece - è la notizia apparsa sugli organi di stampa che il Provveditore regionale doterà il "San Michele" di un contingente aggiuntivo di polizia penitenziaria (si parla di 15/20 agenti) che arriverà in parte (10 unità) dall’organico del carcere di Alba (attualmente chiuso), in parte dall’altro istituto alessandrino, il "Cantiello e Gaeta" (3 unità), mentre l’installazione di videocamere di sorveglianza dovrebbe consentire di destinare ad altre mansioni altri 5 o 6 agenti. I sindacati di polizia, nel dichiarare il proprio favore all’iniziativa, hanno tuttavia rimarcato che i provvedimenti ipotizzati sono - a loro modo di vedere - ancora insufficienti. Per capire, al di là del gioco delle parti, che cosa serve veramente ad Alessandria può essere utile citare la segnalazione collettiva inviata, da una trentina di detenuti presso la sezione I B della Casa di reclusione, alla Magistratura di sorveglianza di Alessandria in cui si elencano una serie di criticità, innanzitutto strutturali: dalla mancanza di spazio ed igiene delle celle, alla presenza di materassi vecchi e sporchi, all’inadeguatezza degli impianti elettrici dei bagni e delle docce con infiltrazioni e presenza di muffe, alla mancanza di acqua calda e alla fatiscenza di arredi, rivestimenti e porte. Vengono poi elencate quelle che, a giudizio dei detenuti, sono altri problemi da risolvere. L’introduzione di tessere telefoniche, presentata come una miglioria, secondo loro è causa di una aumentata burocrazia foriera di code e attese. Si lamentano inoltre per il vitto e - soprattutto - per la mancanza di personale educativo con il conseguente rinvio delle camere di consiglio e quindi della concessione di permessi e benefici per la ritardata redazione delle sintesi. Occorre quindi una riflessione profonda e realistica su quali siano le vere e inderogabili priorità del carcere, nel suo complesso. Vogliamo privilegiare sempre e comunque l’aspetto sicuritario aumentando la vigilanza (anche in contrasto con la nuova impostazione della "vigilanza dinamica") o intendiamo restituire finalmente all’istituzione carceraria la sua funzione rieducativa dotandola di organici adeguati di educatori, assistenti sociali, mediatori culturali, formatori, ecc.? È dalla risoluzione di questo interrogativo che deriverà il carcere del futuro. Tornando al caso di Alessandria, appare paradossale come la grande "montagna" mediatica che ha preso avvio dal malessere diffuso nel "San Michele" abbia partorito il "topolino" dello spostamento di tre agenti da uno all’altro dei due carceri cittadini. È urgente che - nell’attesa di decisioni più radicali (chiusura del Cantiello e Gaeta e costruzione di un nuovo padiglione al San Michele) si pervenga, come da noi suggerito, almeno all’accorpamento degli organici e quindi (come già previsto per il direttore) all’individuazione di un unico comandante di polizia penitenziaria e di un unico responsabile educativo, razionalizzando e ottimizzando l’esistente ed evitando di disperdere le già scarse risorse umane esistenti. Taranto: detenuto 59enne s'impicca in cella, nel 2017 è già il quarto caso in Italia di Vittorio Ricapito La Repubblica, 14 gennaio 2017 Arrestato per tentato omicidio, l'uomo ha lasciato un biglietto in cui si definisce vittima di un complotto. Il sindacato della polizia penitenziaria: "Pochi agenti e sovraffollamento". Un detenuto di 59 anni, Giuseppe Lama, in cella per tentato omicidio della sua ex, si è tolto la vita nel carcere "Carmelo Magli" di Taranto impiccandosi con le lenzuola alle sbarre della finestra. L'uomo ha lasciato un biglietto in cui spiega i motivi del gesto e si definisce vittima di un complotto femminile. È il quarto suicidio nelle carceri italiane nel 2017. Altri casi si sono verificati nei primi giorni dell'anno a Teramo e a Velletri dove si è tolto la vita un diciannovenne. "Nel 2016 ci sono stati circa 50 suicidi nelle carceri italiane" spiega Donato Capece, segretario generale del sindacato autonomo di polizia. "C'è una certe recrudescenza soprattutto da quando, nel 2015, è stato adottato il sistema di vigilanza dinamica. Mentre prima c'era l'agente che sorvegliava 24 ore su 24, ora in alcune sezioni di case circondariali, si dà la possibilità a detenuti meno pericolosi di girare liberamente per la sezione, con le stanze aperte. I controlli ci sono ma sono saltuari e così si chi sta meditando l'insano gesto elude il controllo dei compagni di cella e la sorveglianza del personale e riesce a metterlo in pratica. In alcuni casi, come a Trieste, siamo riusciti a intervenire in tempo". "Le condizioni di vita nel carcere di Taranto non sono buone né per i detenuti né per chi ci lavora" racconta Federico Pilagatti, responsabile del Sappe Puglia. "Proprio l'altro giorno abbiamo denunciato il sequestro da parte del Nas dei carabinieri di 70 chili di alimenti avariati destinati alla mensa agenti. Le strutture sono fatiscenti e poi a fronte di un sistematico problema di sovraffollamento della popolazione carceraria c'è carenza di personale di polizia penitenziaria". Il carcere ha 300 posti ma in media ospita circa 500 detenuti. "Ma il personale - denuncia il sindacato - ha una carenza fissa di almeno 70 agenti, siamo 290 ma secondo il dipartimento di amministrazione penitenziaria dovremmo essere 356 ed è comunque una cifra secondo noi insufficiente specie perché nelle carceri pugliesi transitano anche detenuti sui quali vanno fatti controlli contro il fondamentalismo. Così succede che un solo agente sia costretto a lavorare con 100-150 detenuti e con gravi carenze in materia di sicurezza e anche di trattamento". Alessandria: allenatore accusato di pedofilia si uccide in carcere Corriere della Sera, 14 gennaio 2017 Antonio Marci, 63 anni, era stato riconosciuto dopo 29 anni da una delle sue vittime. Nella sua casa trovate videocassette con i filmati delle violenze sui calciatori minorenni. Si ucciso in carcere Antonio Marci, 63 anni, l’allenatore di squadre giovanili di calcio arrestato nei giorni scorsi ad Alessandria per pedo-pornografia e atti sessuali su minori. L’uomo si sarebbe ucciso con una busta in testa. "Avevo chiesto i domiciliari perché ritenevo il carcere non adeguato a tutelare la sua incolumità - conferma l’avvocato Massimo Taggiasco, che lo difendeva - mai però mi sarei aspettato una cosa del genere". L’archivio degli abusi - I carabinieri lo avevano sorpreso nella sua abitazione, in compagnia di un giovane. e nel suo appartamento, alla periferia di Alessandria, avevano trovato una sorta di archivio delle violenze commesse in un periodo di quasi 30 anni: videocassette con i filmati dei rapporti sessuali che aveva con i calciatori minorenni e diari e schede sui ragazzini. Marci era stato arrestato dopo che una delle sue vittime lo aveva riconosciuto per caso a 29 anni dalle violenze. Benevento: detenuto morto; nessun indagato, domani l'autopsia ottopagine.it, 14 gennaio 2017 Il pm Pizzillo ha affidato l'incarico alla dottoressa Fonzo. Un consulente per i familiari. Sarà curata domani pomeriggio dal medico legale, la dottoressa Monica Fonzo, l'autopsia di Donato Gagliarde, di Pago Veiano, 65 anni, morto ieri mattina al Rummo, dove era stato trasportato, mercoledì sera, dal carcere, di cui era ospite dall'ottobre dello scorso anno. Oggi pomeriggio l'affidamento dell'incarico da parte del sostituto procuratore Marcella Pizzillo, in un'udienza nel corso della quale gli avvocati Claudio e Francesco Fusco, che assistono alcuni familiari della vittima, hanno nominato come loro consulente il dottore Emilio D'Oro, che, dunque, sarà presente all'esame. Nell'inchiesta non compaiono, allo stato, indagati. Si procede contro ignoti, in attesa di stabilire se esistano presunte responsabilità per il decesso dell'uomo. Come anticipato da Ottopagine, affetto da problemi cardiaci per i quali era stato sottoposto ad alcuni interventi e seguiva una determinata terapia che gli era stata prescritta da uno specialista - il Tribunale di Sorveglianza aveva chiesto al sanitario del carcere una relazione sulle sue condizioni che sarà, purtroppo, inutile, Gagliarde non era stato bene già nei giorni scorsi. Nella serata di mercoledì aveva accusato un nuovo malore e, come avvenuto in precedenza, era stato trasferito in ospedale, dove la sua esistenza era terminata. Stava scontando una pena di 2 anni e 8 mesi, entrata in esecuzione, che gli era stata inflitta per una vicenda risalente al 2010, quando era stato arrestato - poi era tornato in libertà - con l'accusa di aver cercato di strangolare la cognata, stringendole un tubo di gomma al collo. Lui si era difeso sostenendo di averle solo dato qualche schiaffo, e di non aver mai avuto l'intenzione di ucciderla. Bologna: barbe lunghe, preghiera, niente Coca Cola, detenuti a rischio radicalizzazione di Andreina Baccaro Corriere della Sera, 14 gennaio 2017 Barbe lunghe, rifiuto di spazi comuni, di cibi e bevande come la Coca Cola e poi, naturalmente, l’esultanza dopo le stragi dell’ultimo anno: sono i primi segnali che un detenuto in cella è a rischio radicalizzazione. Sono alcuni degli "indici" che gli agenti della penitenziaria hanno colto anche tra le celle del carcere della Dozza, dove ad oggi una decina di detenuti vengono monitorati per via di atteggiamenti che fanno presupporre la loro vicinanza alle ideologie della jihad. La stretta del Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria era arrivata già dopo gli attentati di Parigi, quando in alcune carceri d’Italia, compresa Bologna, furono notati alcuni detenuti esultare per le stragi. Si è intensificata dopo la scoperta che Anis Amri, l’attentatore di Berlino, ha fatto il salto di qualità verso la radicalizzazione proprio mentre era in prigione in Italia. Il Dap ha stilato un elenco per gli agenti dei comportamenti da considerare "campanelli d’allarme". "Indici che devono concorrere tra loro e non essere isolati" spiega un agente. Non basta, cioè, essere di religione islamica. "Il personale di sezione cerca di individuare i cambiamenti". Per esempio il detenuto che prega sempre e all’improvviso smette di pregare viene osservato più attentamente per verificare se concorrono altri segnali premonitori di una eventuale radicalizzazione. Proprio l’allontanamento dagli insegnamenti degli imam più moderati può essere considerato un segnale d’allarme. C’è poi una scala di rischio, in base alla quale i detenuti sono classificati in monitorati, attenzionati o segnalati. "La differenza sostanziale è la maggiore pericolosità dei monitorati rispetto agli altri". Gli agenti che fanno parte del Nucleo investigativo centrale della polizia penitenziaria, un nucleo speciale addetto alle indagini dietro le sbarre, fanno una relazione mensile per ogni detenuto monitorato, inviata agli uffici centrali. Alla Dozza, oltre ai monitorati, c’è un solo caso di "attenzionato", che è il livello medio di rischio, e 4 o 5 sotto osservazione. Altrettanti detenuti hanno mostrato comportamenti preoccupanti e gli uffici centrali, su segnalazione degli agenti, stanno valutando di inserirli nel programma. Tra questi ci sono anche un paio di persone segnalate per le loro reazioni dopo la strage di Berlino. Gli strumenti più approfonditi di indagine, invece, come intercettazioni, controlli sulle visite e sulla corrispondenza, devono essere autorizzati dalla Procura. I Nic sono i nuclei che un tempo osservavano le Br in carcere, cercando di decifrare i messaggi in codice che i seguaci della stella a cinque punte si scambiavano durante visite e udienze. Oggi gli agenti avrebbero bisogno di più mezzi e di aggiornamento. Risorse che, nonostante gli allarmi dei vari Ministeri, mancano. A Bologna 10 agenti, fuori dall’orario di lavoro, nel 2015 hanno potuto seguire un corso di arabo grazie a una mediatrice culturale che aveva dato la propria disponibilità gratuitamente. Ma eccetto questo caso, su base volontaria, l’amministrazione penitenziaria non ha risorse per organizzare corsi di lingua. "Non c’è nessuno che ci spieghi i cambiamenti in corso, che ci insegni l’arabo e la cultura islamica - spiega una agente. Sarebbero necessarie almeno due unità addette esclusivamente ai detenuti a rischio terrorismo, in modo che abbiano il tempo di scambiarsi informazioni ed istruire il personale delle sezioni quotidianamente". E invece nel carcere della Dozza, con più di 700 detenuti e 100 posti scoperti tra gli agenti, al Nucleo investigativo resta solo il tempo di osservare e fare le relazioni, mensili o bimestrali, per gli uffici centrali. Venezia: in pensione Gabriella Straffi, una vita per chi è in carcere di Giorgio Malavasi Gente Veneta, 14 gennaio 2017 "Non ero entusiasta di lavorare qui alla Giudecca, perché la detenzione femminile mi aveva colpito molto più di quella maschile". Gabriella Straffi, dopo quasi 33 anni alla guida di una o anche di tutte e tre le carceri veneziane, va in pensione. Marchigiana, a 27 anni il concorso. Dal 1° gennaio 2017 non è più a capo della casa in cui, attualmente, una settantina di donne scontano la propria pena. Così ripercorre questa lunga stagione veneziana, lei che è veneziana acquisita: "Sono di Grottammare, in provincia di Ascoli Piceno. Sono arrivata a Venezia il 1° febbraio 1984, primo incarico. Laureata in giurisprudenza a Macerata, avevo fatto un pò di pratica legale. Poi ho visto che la strada, nella professione legale, era troppo lunga. Avevo 27 anni, non avevo ancora legami familiari e vedevo che le prospettive erano di anni per poter dire: posso vivere da sola. E forse volevo anche andarmene". Così la scelta di fare concorsi. Il primo, quello per la direzione di un carcere, la incuriosisce: "Da ragazza avevo sempre fatto attività di carattere sociale, volontariato. Da studentessa, poi, per la verità, preferivo il diritto civile al penale. Ma quando ho capito che il concorso era andato bene e quando mi dissero che ero stata destinata a Venezia, che non avevo mai visto ma che mi affascinava, ne fui molto contenta". Trucco e capelli: quando le donne invecchiavano in cella. Molto meno contenta, invece, del primo impatto con il carcere: "Le donne detenute mi colpirono molto, fin da principio. Gli istituti erano chiusi: c'era solo qualche volontario che entrava, il cappellano, le suore e noi. Di educatori ce n'era uno, ma il mondo esterno non entrava. Quando feci il giro delle sezioni ebbi una sensazione: era come vedere i vecchi film in bianco e nero. Il trucco, il taglio dei capelli, il vestito ti dava subito l'immagine degli anni passati in carcere dalle donne che vedevo. Una donna si capisce a che punto è rimasta dal modo di vestire, o da come si lega i capelli o da come si fa la linea sugli occhi. Il peso degli anni trascorsi in carcere si vedevano tutti, perché lì il mondo non entrava". Del resto, "l'unico specchio che le detenute avevano, portato dalle suore - in tutto l'istituto non c'erano specchi perché considerati pericolosi - una specchiera di una vecchia camera da letto, era nella sala giochi, dove loro si acconciavano i capelli. L'unico specchio in tutto l'istituto: in teoria non ci poteva stare, ma nessuno osava toccarlo". Le ragazze di oggi, invece... Quindi, quando una donna aveva fatto vent'anni di cella, il mondo fuori era veramente rimasto fuori: "Lo è anche adesso - prosegue Gabriella Straffi - ma in modo diverso. Una ragazza di oggi che ha fatto dieci anni qui, è sempre perfetta nell'abbigliamento, progredisce, non si ferma. Quindi il primo impatto non fu gradevole; e quando il direttore mi disse (io ero vicedirettrice) che sarei andata nell'altra struttura, la casa di lavoro dove c'erano gli uomini, ricordo di aver fatto il ponte lungo quasi correndo: ero proprio felice di andare a lavorare da un'altra parte". Non dire mai "qui comando io". Felice ma anche spaventata: "Non è facile, a 27-28 anni, entrare in un carcere e mettersi in gioco sempre, far vedere che sei in grado di comandare. Devi ingoiare tanto e non dire mai "qui comando io"; ma devi comandare. Adesso posso anche dirlo "qui comando io", allora no. Adesso, se lo dico, è per dire: "non voglio parlare più di tanto"; prima no, l'autorità me la dovevo guadagnare sul campo, soprattutto in un ambiente molto maschile, a parte le suore - che fino al '90 ebbero la gestione del carcere femminile, il comandante di reparto era la madre superiora - e le vigilatrici". Triplo incarico? Non parli più con i detenuti. Da lì inizia una lunga storia, che vede la Straffi tornare al femminile come vicedirettrice per poi arrivare alla direzione contemporanea delle tre carceri veneziane (femminile, maschile di Santa Maria Maggiore e casa di lavoro) nel 1995. Un impegno pesante, tenuto fino al 2008: "Quando hai doppio o triplo incarico - ricorda - vedi le cose solo dall'alto: non hai approccio e colloquio con i detenuti, hai problemi prevalentemente organizzativi". "Oggi sento il bisogno di staccare". Quindi, dal 2008 fino al pensionamento di questi giorni, "solo" la direzione del femminile alla Giudecca. E adesso, cosa mancherà a Gabriella Straffi del carcere? "Non lo so - dice qualche giorno prima di lasciare la direzione - faccio fatica a rispondere: è stato un impegno tanto forte e tanto difficile, ma so che voglio fare un taglio. È stata un'esperienza umana in certi momenti troppo intensa e oggi sento bisogno di una cesura. Io vengo a lavorare ancora oggi contenta al mattino; sfiancata alla sera, ma contenta al mattino. E so anche di avere tanta umanità attorno. Ma adesso voglio staccare la spina, anche se so che poi qualcosa mi mancherà". Viterbo: Bernini (M5S) "sovraffollamento delle carceri, il ministro batta un colpo" tusciaweb.eu, 14 gennaio 2017 I dati parlano chiaro in Regione Lazio ci sono 871 detenuti in eccesso, considerato che 6.108 risultano essere i detenuti reclusi nei 14 istituti del Lazio, rispetto ad una capienza regolamentare di detenuti prevista di 5.237 (al 31 dicembre 2016). Va anche rimarcato che la Cassazione ha accolto il ricorso di un italiano recluso nel carcere di Spoleto affermando il principio per cui "per spazio minimo individuale in cella collettiva va intesa la superficie della camera detentiva fruibile dal singolo detenuto ed idonea al movimento, il che comporta la necessità di detrarre dalla complessiva superficie non solo lo spazio destinato ai servizi igienici e quello occupato dagli arredi fissi ma anche quello occupato dal letto", per cui i dati in nostro possesso andrebbero anche rivisiti. Di sovraffollamento soffre in modo particolare il carcere di Viterbo sul quale, secondo le autorità competenti, sono scaricate tutte le criticità regionali. Secondo le testimonianze di alcuni esponenti sindacali reperibili online si sarebbero verificati gravi atti di autolesionismo, alcuni anche per protesta all’invivibilità e al degrado, e diversi sarebbero i detenuti con problematiche di natura psichiatrica che richiederebbero particolari attenzioni. Con l’interrogazione chiediamo al ministro di fare luce su questi episodi ma più in generale quali iniziative si stanno prendendo per risolvere nel più veloce tempo possibile la situazione di sovraffollamento denunciata, anche alla luce della sentenza sovra richiamata ed implementando ove necessario la presenza nella carcere viterbese di personale qualificato, nonché se non ritenga opportuno assumere iniziative anche di carattere normativo atte a garantire una sicura e più serena vita lavorativa al personale di pubblica sicurezza operante nelle strutture. Massimiliano Bernini Deputato Movimento Cinque Stelle Vasto (Ch): carcere di Torre Sinello al gelo, la denuncia della Polizia penitenziaria Il Centro, 14 gennaio 2017 Costretti a lavorare al gelo. Accade alla polizia penitenziaria di Torre Sinello, il carcere di Vasto. E l’assenza di riscaldamento per un guasto all’impianto costituisce in questi giorni una pena aggiuntiva per i detenuti. Le organizzazione sindacali hanno proclamato lo stato di agitazione del personale dell’istituto e contestualmente ritirato le delegazioni sindacali, denunciando condizioni di lavoro precarie e insostenibili del personale. "Il personale di polizia penitenziaria dell'istituto di Vasto ha dovuto operare anche nel corso dell'ondata di maltempo, che da giorni sta investendo la zona del Vastese, al freddo e al gelo", si legge in una nota dei sindacati di categoria. "La situazione si acuisce ulteriormente durante i turni notturni. Quanto lamentato è generato dal mancato funzionamento del riscaldamento per buona parte dei settori del piano terra dell'istituto", scrivono ancora. "Altra condizione di disagio estremo che deve affrontare il personale, nonostante l'allerta meteo e a causa delle copiose nevicate e le ondate di vento freddo che si sono susseguite per giorni, è che non sono stati posti in essere i dovuti interventi al fine limitare le difficoltà di chi deve raggiungere l'istituto. Il tratto di strada, che deve essere obbligatoriamente percorso per raggiungere l'istituto - già di per sé in condizioni pietose a causa del manto stradale corredato da un susseguirsi di buche - viene reso ancora più insidioso dalla presenza del manto nevoso e ghiaccio". I rappresentanti di Sappe, Osapp Fns, Cisl Cnpp proclamano lo stato di agitazione del personale e auspicano un intervento urgente del provveditore regionale Cinzia Calandrino, "che sia repentino e incisivo verso l'attuale dirigenza affinché si prendano i provvedimenti del caso". La giustizia giusta di Papa Francesco recensione di Eleonora Martini Il Manifesto, 14 gennaio 2017 "Giustizia e carceri secondo papa Francesco" a cura di Patrizio Gonnella e Marco Ruotolo (Jaca Book).. Le "deplorevoli" condizioni di vita dei carcerati e l’urgenza primaria e scottante di politiche in favore del loro reinserimento nella società sono nodi sui quali Papa Francesco è tornato già più volte, in questi primi giorni del 2017. Fa il suo lavoro, il Santo Padre, ma è indubbio che Bergoglio rivolga alla questione giustizia un’attenzione particolare, inedita tra i suoi pari, come ha dimostrato nel 2013, appena quattro mesi dopo il suo insediamento, riformando con un motu proprio il codice penale del Vaticano e introducendo, per la prima volta nella storia, il reato di tortura tra quelli contemplati Oltretevere. E infatti nel 2014, non appena concesse udienza ad una delegazione dell’Associazione internazionale dei penalisti, Francesco colse l’occasione per parlare a tutti i professionisti del sistema penale, di tutto il mondo, e forse più in generale a tutti gli uomini di cultura. Con un discorso che non si sofferma sulla retorica della rieducazione né calca la mano sulla parola "speranza", come avrebbe fatto qualsiasi altro dei suoi predecessori, ma arriva invece a denunciare la deriva "selettiva", classista, addirittura razzista del sistema penale, praticamente in ogni parte della terra. Si spinge oltre, il Papa, e arriva a chiedere un cambio di paradigma - non solo il carcere, ma addirittura la pena come extrema ratio - rivolgendosi ovviamente soprattutto agli Stati occidentali dove il primato del principio pro homine può e deve essere ancora tutelato. Ad analizzare punto per punto questo discorso "potente e radicale", il presidente di Antigone e della Cild, Patrizio Gonnella, e il costituzionalista docente all’Università Roma Tre, Marco Ruotolo, hanno chiamato 23 esperti, di estrazione ed esperienze diverse, dalla vicepresidente della Corte costituzionale Marta Cartabia al giurista Luigi Ferrajoli, dall’ex Guardasigilli Giovanni Maria Flick all’ergastolano Carmelo Musumeci, dall’ex sindaco di Milano Giuliano Pisapia al Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma. Ne è nato il libro pubblicato da Jaca Book "Giustizia e carceri secondo papa Francesco". Un discorso che parte con il dito puntato contro "l’incitazione alla vendetta e il populismo penale", contro la "tendenza a costruire" la "figura stereotipata" del nemico, per poi confermare la messa al bando incondizionata della pena di morte, definire l’ergastolo "una pena di morte nascosta" e la carcerazione preventiva "un’altra forma contemporanea di pena illecita occulta, al di là della patina di legalità". Non solo sovraffollamento, nelle "deplorevoli" condizioni detentive: Papa Francesco usa le parole del defunto leader radicale Marco Pannella, di cui apprezzò le lotte nonviolente in favore di una giustizia giusta, per definire anche la reclusione nei carceri di massima sicurezza come "una forma di tortura". La conclusione è proprio una condanna netta e senza appello a quel "plus di dolore" che è la tortura, pratica immonda usata "non solo nei centri clandestini di detenzione o in moderni campi di concentramento ma anche in carceri, istituti per minori, ospedali psichiatrici, commissariati e altri centri e istituzioni di detenzione e di pena". "Giustizia e carceri secondo papa Francesco", a cura di Patrizio Gonnella e Marco Ruotolo. Ed. Jaca Book, pp. 188, euro 14. La sponda dei crimini dell’odio di Sarantis Thanopulos Il Manifesto, 14 gennaio 2017 Secondo dati della Polizia di Londra e dell’Fbi, i crimini dell’odio (legati al pregiudizio nei confronti della diversità) hanno avuto una forte impennata dopo il referendum sulla Brexit e l’elezione di Trump. Sembra che, almeno in Gran Bretagna, questi crimini siano poi tornati ai livelli precedenti. Resta il fatto di una loro correlazione innegabile con due vittorie elettorali della xenofobia. Indubbiamente sentirsi dalla parte dei più agisce come una legittimazione dell’aggressività nei confronti dei diversi (sul piano del colore della pelle, della religione, dei costumi, delle preferenze sessuali) e dei marginali. Pure come autorizzazione della sua estrinsecazione. Freud ha spiegato la trasmissione dei sintomi isterici (i fenomeni di "isteria" di gruppo) mediante un meccanismo di identificazione: tra più individui si stabilisce un legame per analogia su un punto (un’affinità psichica) e quando in uno di loro l’elemento comune estrinseca il suo potenziale patologico, la stessa cosa accade anche negli altri. La patologia si propaga come il fuoco tra oggetti infiammabili contigui. Nel caso delle manifestazioni emotive morbose di massa della nostra epoca, la contiguità si stabilisce attraverso il processo di omogeneizzazione, indifferenziazione delle reazioni psicologiche che è tipico di un assetto psichico collettivo difensivo (come quello che sfocia nel rigetto della diversità). L’esplosione di un comportamento distruttivo in questo o in quell’altro individuo si trasmette facilmente ad altri individui parimenti vulnerabili, a condizione che questo comportamento, che agisce come detonatore di ulteriori e più violente esplosioni, abbia la risonanza necessaria. I mezzi di comunicazione agiscono da amplificatori in misura che va ben oltre il diritto all’informazione. La violenza xenofoba (in modo analogo al terrorismo) è particolarmente redditizia nel mercato delle notizie. Cattura l’attenzione di tutti in modi complessi e contraddittori. Attiva sentimenti di compassione nei confronti delle vittime e agisce come argine delle proprie riserve nei confronti dell’alterità. Crea un sollievo per il fatto di sentirsi né carnefici né vittime. Su un piano più insano stimola un’identificazione inconscia con l’aggressore: meglio carnefici che vittime. L’odio legato al pregiudizio si diffonde rapidamente, con il contributo indiretto dei mass media, a causa del suo carattere identitario. Produce un senso di appartenenza perverso che non riconosce le differenze e lo scambio ed è finalizzato a mantenere il soggetto che vi aderisce nel campo di una maggioranza indistinta, compatta, anonima. La preoccupazione sottostante è di finire - a causa delle proprie sensibilità, sofferenze e difficoltà personali- minoritari, messi ai margini. Si odia nel diverso la possibilità di essere "altro", la tentazione di abbandonare abitudini e sicurezze collaudate per dare voce alle proprie inclinazioni più private e particolari, sperimentare altri modi di essere. Si odia il proprio desiderio che si identifica con il desiderio del discriminato, la compassione più sconveniente e insopportabile per chi sente il proprio privilegio, vero o presunto che sia stato, in stato di avanzata precarietà. La fiammata di violenza nei confronti delle minoranze etniche e culturali, seguente all’ebbrezza di sentirsi confermati nella propria esigenza di essere dalla parte dei più, illumina il carattere esaltante, drogante della compulsione che guida il soggetto del pregiudizio. L’esigenza di ingannare, far tacere la sua doppia mancanza: il privarsi della parte più vera di sé nell’atto di privarsi dell’altro. Migranti. L'Ungheria pensa al carcere per i richiedenti asilo lettera43.it, 14 gennaio 2017 I migranti che presenteranno richiesta di asilo andranno incontro a una limitazione della libertà durante la procedura. Orban: i migranti sono una minaccia per la nostra cultura. I richiedenti asilo che sceglieranno di presentare la loro domanda in Ungheria potranno perdere la loro libertà. Il premier Viktor Orban ha annunciato alla radio pubblica MR che chi richiederà asilo non potrà muoversi liberamente durante la procedura. Misura sospesa nel 2013. La pratica era stata sospesa dall'Ungheria nel 2013 in seguito alle enormi pressioni dell'Ue e dell'Onu. "La misura va contro le norme internazionali, precedentemente accettate anche dall'Ungheria. Lo sappiamo ma lo faremo lo stesso" ha detto non curante il capo del governo. All'Ungheria non piacciono le soluzioni Ue. Il 12 gennaio, in occasione del giuramento dei nuovi cadetti della guardia di frontiera, lo stesso Orban aveva affermato che l'emergenza immigrazione non sarebbe diminuita nel breve periodo e che l'Ungheria non può affidarsi a una soluzione qualunque da parte dell'Ue. Orban: "migranti minaccia per la nostra cultura". Secondo il premier i migranti sono una minaccia per la cultura e la sicurezza degli ungheresi e fanno aumentate il rischio di terrorismo e per questo motivo l'Ungheria deve sorvegliare anche più di prima i suoi confini. "In Europa, viviamo un tempo dell'ingenuità e dell'incapacità: gli immigrati sono vittime dei trafficanti, ma anche dei politici europei, che incoraggiano la migrazione con la politica di accoglienza" ha spiegato nel suo discorso, "Da noi, non ci saranno camion che investono chi festeggia" ha detto riferendosi alle stragi di Nizza e Berlino. Droghe. Il consumo cresce e la legge torna alla Consulta di Eleonora Martini Il Manifesto, 14 gennaio 2017 Relazione annuale al Parlamento 2016. È stimato in 14 miliardi di euro, il consumo di sostanze stupefacenti in Italia. Quattordici miliardi di euro: tanto è stimato il consumo di sostanze stupefacenti sul territorio italiano nel solo 2013, pari allo 0,9% del Pil. Ed è in crescita: nel 2011 per esempio il consumo di droghe ammontava a circa 12,7 miliardi complessivi, mentre due anni dopo gli italiani spendevano per la cocaina 6,5 mld, per la cannabis 4 mld, per l’eroina 1,9 mld e 1,7 mld per gli altri tipi di stupefacenti. Da una stima approssimativa (e probabilmente al ribasso) sarebbero 6,1 milioni gli utilizzatori di cannabis sul territorio nazionale, 1,1 milioni invece gli assuntori cocaina, 218 mila di eroina, e 591 mila coloro che utilizzano altre sostanze chimiche (ecstasy, Lsd, amfetamine). È quanto emerge dalla Relazione annuale al parlamento sui dati relativi allo stato delle tossicodipendenze in Italia-2016 depositata in Senato il 6 dicembre scorso, un pò alla chetichella. Tanto che è apparsa solo ieri sull’homepage del sito del Dipartimento per le politiche antidroga, dopo le proteste sollevate da Radicali italiani ("un documento clandestino", lo hanno definito) e dall’Associazione Luca Coscioni. Entrambe le organizzazioni radicali accusano il governo di voler mettere in sordina le 550 pagine che descrivono "il quadro di una situazione pressoché immutata rispetto al passato", come dice Marco Perduca, al fine di "tenere lontano dalla conoscenza dei cittadini i dati che non fanno altro che confermare i danni e l’inefficacia di leggi e metodi proibizionisti", come sostengono Riccardo Magi e Antonello Soldo. Per Federserd, la relazione "giunge con molto ritardo ed è incompleta" perché "non ci sono dati relativi allo stato delle tossicodipendenze in Italia, sulle strategie e sugli obiettivi raggiunti, né sugli indirizzi che saranno seguiti". D’altronde, che il mercato delle droghe rappresenti quasi il 70% delle attività illegali è una delle evidenze che ha spinto due anni fa la Direzione nazionale antimafia a registrare "il totale fallimento dell’azione repressiva" fin qui e per decenni agita, e auspicare "una depenalizzazione della materia". E invece, ancora, nel 2015 si registra un aumento dei sequestri di piante di marijuana, mentre diminuiscono rispetto agli anni precedenti i quantitativi sequestrati di eroina, marijuana e hashish. E intanto la vigente legge sulle droghe, la 309/90, finirà di nuovo davanti alla Corte Costituzionale per richiesta della Cassazione che ha sollevato una questione di legittimità riguardo la pena minima prevista per lo spaccio di droghe "pesanti", tornata più severa di quanto prevedesse la legge Fini-Giovanardi, annullata nel 2014 dalla stessa Consulta. Un aggravio di pena che potrebbe contrastare con l’articolo 25 della Costituzione e che in ogni caso chiama in causa l’intervento del legislatore. Stati Uniti. Assange si rivolge a Obama "mi costituisco in cambio della grazia a Manning" di Greta Marchesi Il Dubbio, 14 gennaio 2017 Il padre di Wikileaks chiede di liberare il suo informatore. Do ut des. Julian Assange, il fondatore di Wikileaks, ha comunicato che accetterà di essere estradato negli Stati Uniti se l’amministrazione Usa concederà la grazia a Bradley Manning, l’analista militare statunitense condannato a 35 anni di carcere per essere stato riconosciuto come il whistleblower che aveva passato informazioni segrete a Wiki-Leaks. La notizia è stata resa nota dalla stessa organizzazione via Twitter e subito rilanciata dalla stampa: "se Obama garantisce la clemenza a Manning, Assange accetterà l’estradizione negli Usa, malgrado la evidente incostituzionalità del caso" aperto dal Dipartimento di Giustizia. Attualmente Assange si vive all’interno dell’ambasciata dell’Ecuador a Londra, che da quattro anni gli offre asilo per evitare la richiesta di estradizione avanzata dalla Svezia, dove l’attivista è accusato di aver commesso reati di natura sessuale. Lo stesso Assange, nel professarsi innocente, ha sempre sostenuto che la richiesta svedese sarebbe finalizzata ad una sua successiva e immediata ’ estradizione negli Usa. Il soldato e analista ventinovenne Bradley Manning, oggi ribattezzata Chelsea dopo aver cambiato genere, è stata invece condannata per il reato di diffusione di notizie coperte da segreto di Stato, per spionaggio e tradimento. Attualmente sta scontando la sua pena nel carcere militare di Fort Leavenworth, dove ci sono solo i prigionieri maschi, e - secondo i media americani - avrebbe tentato più volte il suicidio in carcere. La sua situazione è considerata talmente a rischio che, pochi giorni fa, fonti giudiziarie hanno fatto sapere che Obama starebbe prendendo in considerazione di intervenire personalmente, riducendo la pena a Manning. In favore dell’ex militare è intervenuto anche la talpa del "Datagate" e altrettanto noto whistleblower, Edward Snowden. Dalla Russia, dove attualmente risiede per evitare il processo negli Stati Uniti, ha lanciato un appello per la grazia via Twitter: "Signor Presidente, se può concedere un atto di clemenza prima di lasciare la Casa Bianca, per favore liberi Chelsea Manning. Solo lei può salvare la sua vita". Golpe in Libia, cadono 5 ministeri. Minacce contro la presenza italiana di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 14 gennaio 2017 Da Tobruk accuse all’ambasciata di Roma a Tripoli: "È un’occupazione militare". Con il passare delle ore si complica la situazione a Tripoli, dopo che giovedì sera le milizie fedeli all’ex premier Khalifa Ghwell, leader dei partiti islamici legato ai Fratelli Musulmani, hanno iniziato una sorta di colpo di Stato strisciante ai danni del governo di unità nazionale di Fayez Serraj. In tutto questo, la scelta del governo di Roma di sostenere Serraj pone i rappresentanti italiani in una posizione centrale nella dinamica della crisi libica e per certi aspetti persino contribuisce ad acuirla. A ieri sera almeno cinque ministeri erano controllati dai fedeli di Ghwell (Lavoro, Economia, Martiri della rivoluzione del 2011, Giustizia e Difesa). E nella giornata è emerso da più fonti che lo stesso direttore dell’intelligence italiana che si occupa di esteri (Aise), Alberto Manenti, assieme a Paolo Serra, il generale italiano membro della missione Onu con l’incarico di consigliere militare per Serraj, hanno dovuto essere evacuati di fretta dagli uffici del dicastero della Difesa a causa del sopraggiungere degli uomini armati al servizio di Ghwell. La notizia è riportata tra l’altro dal sito libico Al Marsad, segnalata da Il Foglio e confermata al Corriere da giornalisti di Bengasi e Tripoli. Durante una conferenza stampa nel centro della capitale il vice-premier Ahmed Meitig ha condannato duramente il blitz contro il governo, confermando peraltro la situazione di grave crisi, senza tuttavia offrire soluzioni concrete per superarla. Da parte sua Ghwell ribadisce di avere ottenuto una sentenza della Corte Costituzionale che delegittima l’autorità di Serraj e in particolare le sue nomine a posizioni dirigenziali pubbliche. Pare che uno dei fattori responsabili del precipitare della situazione sia stata la scelta di porre lo stesso Meitig alla guida della Compagnia Elettrica Nazionale. Meitig ha però ribadito che tutto ciò non può che incancrenire la profonda crisi economica, la mancanza di liquidità delle banche, i continui black out di elettricità e acqua, oltre al caos anarchico in cui versa l’intero Paese. Per il momento, unico elemento di conforto resta la mancanza di violenza per le strade della capitale. I negozi sono aperti, il traffico è normale, ai posti di blocco le milizie non pare abbiano fatto controlli più accurati del solito. Aiutano i continui appelli alla calma che giungono dalle maggiori autorità sul campo. Gli imam li hanno ripetuti durante le preghiere del venerdì alle moschee. Ieri lo stesso Gran Mufti della capitale, Sadiq al Ghariani (la massima autorità religiosa e nota per le sue simpatie per i Fratelli Musulmani), ha pregato affinché non si facesse ricorso alle armi. Eppure, non ha esitato a criticare le milizie che sostengono Serraj, in particolare Kara, Tajuri e Ghnewa. Ma soprattutto il Mufti continua a minacciare un attacco contro le truppe speciali italiane per il ruolo avuto a sostegno del premier Serraj. Lo stesso Ghwell ha fatto appello con insistenza a che i corpi speciali italiani lascino il Paese. A loro si aggiunge lo Ayan Shura Zintan, ovvero il Consiglio degli anziani delle tribù a sud di Tripoli, che minaccia di tagliare il gas e il petrolio al terminale Eni di Mellitah "se le navi militari italiane non cesseranno di invadere le acque territoriali libiche". Intanto il "ministero degli Esteri" di Tobruk ha bollato la riapertura dell’ambasciata italiana nella capitale libica come una "nuova occupazione" e "un ritorno militare" dell’Italia a Tripoli. Tutto ciò non può che facilitare il ruolo del generale Khalifa Haftar, l’uomo forte della Cirenaica che non nasconde l’aspirazione a governare il Paese intero, puntellato negli ultimi tempi dalla Russia di Putin. Zintan è infatti ormai da mesi alleata di Haftar, specie nella sua determinazione ad eliminare le milizie legate al fronte islamico. Tra Tobruk e Tripoli si sgonfia la strategia italiana per la Libia di Chiara Cruciati Il Manifesto, 14 gennaio 2017 Il governo-ribelle accusa Roma di "nuova occupazione". Il premier di unità al-Serraj smentisce l'accordo-migranti annunciato da Minniti. E il generale Haftar sarebbe vicino all’intesa con la Russia: base a Bengasi in cambio di armi. Golpe falliti, golpe smentiti: il fallimento dello Stato libico è palese, un’instabilità che svela le falle della strategia italiana nel paese nordafricano. Dopo l’ennesimo putsch-bluff a Tripoli, la situazione è tornata sotto controllo ma Roma appare sempre più sola nel sostegno al governo di unità plasmato dall’Onu a dicembre 2015. Due dichiarazioni hanno ieri fatto traballare i tentativi del governo italiano di imporre il nuovo corso, sotto l’egida del premier di unità al-Serraj, e simbolicamente rappresentanti dalla riapertura dell’ambasciata a Tripoli. La prima è quella rilasciata dal governo di Tobruk, passato da esecutivo legittimo per la comunità internazionale a entità ribelle: il Ministero degli Esteri del premier-ombra al-Thani ha definito il ritorno della rappresentanza diplomatica italiana "una nuova occupazione", pari ad un intervento militare. "Una nave militare italiana carica di soldati e munizioni è entrata nelle acque territoriali libiche - dice la nota del Ministero pubblicata sul Libya Observer. È una chiara violazione della carta delle Nazioni Unite e una forma di ripetuta aggressione". L’Onu, insomma, viene ripescato quando serve. Nel frattempo, per Tobruk, continua a muoversi il generale Haftar, capo dell’esercito che controlla la Cirenaica e che tre giorni fa ha fatto visita all’incrociatore russo Kuznetsov, ultimo di una serie di incontri con le autorità di Mosca. Secondo il quotidiano panarabo al Quds al Arabi, Haftar avrebbe raggiunto un’intesa con il Ministero degli Esteri russo per la creazione di una base militare di Mosca in Libia a fini di manovre militari sul Mediterraneo. Già a inizio dicembre fonti libiche parlavano di uno scambio di simil fattura: armi russe ad Haftar in cambio di una base vicino Bengasi. Una prospettiva che stravolgerebbe l’attuale (dis)equilibrio dei poteri, con l’Italia alla caccia di unità, la Francia interessata alle commesse petrolifere in Cirenaica, gli Stati Uniti sempre più defilati e l’Egitto che, garantito appoggio ad Haftar e riavvicinatosi alla Russia, farebbe da puntello all’eventuale intervento moscovita. La distopica realtà istituzionale libica sta sullo sfondo, con due governi e due parlamenti (situazione che sembrava essere stata superata dopo l’accordo marocchino), un ex premier che con cadenza regolare prova a riprendersi il potere (Khalifa Ghwell, capo del disciolto governo islamista di Tripoli) e milizie sparse sul territorio al soldo di poteri più o meno ufficiali. Una frammentazione tanto radicata da investire anche gli stessi fronti: ieri Tobruk ha condannato l’apertura di una sua "filiale" a Tripoli, tentata da alcuni dei suoi membri nella capitale. È con questo paese che l’Italia avrebbe stretto un accordo sui migranti, esaltato pochi giorni fa dal ministro degli Interni di Roma Minniti. Aveva anche ricevuto il plauso europeo, tanto da far dire a Bruxelles e Malta di voler fare lo stesso: il premier maltese Muscat e il commissario Ue all’Immigrazione Avramopoulos parlavano giovedì della necessità di replicare entro primavera l’intesa, sul modello di quella raggiunta con la Turchia. Ma ieri l’accordo di Minniti è stato smentito proprio dalla Valletta. Questa la seconda dichiarazione che fa tremare l’impalcatura italiana: il ministro degli Esteri maltese Vella, dopo averne discusso al telefono con il governo al-Serraj, fa sapere che Tripoli non ha mai dato il via libera all’intesa-migranti con l’Italia e che "è lontana" dall’accettare. I libici stanno considerando l’idea, ha aggiunto, ma ad ora "le posizioni sono totalmente diverse". Avvocato italiano espulso dalla Turchia di Marta Ottaviani La Stampa, 14 gennaio 2017 Era partita per Istanbul diretta ad Ankara dove avrebbe dovuto partecipare a un convegno. È stata fermata dalla polizia che le ha notificato il divieto di entrare in Turchia. L’avvocato italiano Barbara Spinelli è stato espulso dalla Turchia. La legale, da sempre impegnata nel monitoraggio dello stato dei diritti nel Paese e soprattutto sulla condizione della minoranza curda, era partita per Istanbul oggi, diretta ad Ankara, dove domani avrebbe dovuto partecipare a un convegno sulle conseguenze dello Stato di emergenza sul sistema giuridico nel Paese. Arrivata in aeroporto a Istanbul è stata fermata dalla polizia che le ha notificato il divieto di entrare in Turchia. Spinelli tornerà in Italia molto probabilmente domani mattina, trascorrendo tutta la notte in aeroporto. I suoi legali turchi hanno riferito ai media locali che sono entrati in contatto solo telefonico e che non hanno potuto incontrarla. Il cellulare italiano risulta tutt’ora irraggiungibile. Grande conoscitrice del Paese, l’avvocato Spinelli andava in Turchia regolarmente, dove aveva anche partecipato come osservatrice alla ultime elezioni politiche del 2015. Sudan. "L'Africa è pronta per una sua autonoma Corte di giustizia" di Giampaolo Cadalanu La Repubblica, 14 gennaio 2017 Intervista con il ministro degli Esteri sudanese, Ibrahim Ghandour, il cui presidente Omar al Bashir è inseguito da un mandato di arresto dei giudici dell’Aja con accuse di genocidio, crimini di guerra e contro l’umanità. L’Africa non si fida più delle istituzioni internazionali, meno che mai del Tribunale penale dell’Aja, ed è pronta a creare una sua Corte di giustizia. Lo proclama con soddisfazione Ibrahim Ghandour, ministro degli Esteri del Sudan, il cui presidente Omar al Bashir è inseguito da un controverso mandato di arresto dei giudici dell’Aja con accuse di genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Ministro Ghandour, la Corte penale internazionale è al centro di polemiche dure. È un successo per le critiche del Sudan? "All’inizio il Tribunale era stato costituito per combattere l’impunità, l’idea sembrava buona anche a noi. Ma abbiamo visto subito che l’agenda era politica, e ora altri ci stanno seguendo". Che cosa intende? "Il Sudan è stato il primo Paese a dire a voce alta che la Corte penale internazionale non era equilibrata nelle sue azioni. Ora se ne sono accorti in tanti: Burundi, Gambia, Sud Africa hanno annunciato di voler lasciare il Tpi, altri seguiranno". Non c’è speranza per una giustizia internazionale? "Per l’Africa sicuramente no. I tentativi di ridiscutere il Tpi con il Consiglio di sicurezza dell’Onu non hanno avuto risultati. Ma stiamo preparandoci, contiamo di creare noi una Corte africana di giustizia". Come valuta le accuse contro il presidente Bashir? "Prima di tutto va sottolineato che nazioni non aderenti al Trattato di Roma vogliono indicare la necessità di perseguire il presidente del Sudan, nonostante il nostro Paese sia fuori dal Tpi. In altre parole, si vogliono applicare a noi le regole che non sono accettate per se stessi". Nello specifico, che cosa pensa delle accuse di genocidio, crimini di guerra e conto l’umanità per le vicende del Darfur? "Guardi, vorrei proprio farle vedere com’è il Darfur oggi. È un posto di grande tranquillità. A suo tempo il clamore sugli scontri interni era stato sollevato perché serviva un tema importante da utilizzare nelle elezioni americane…". Tornando al Tpi, la critica generalizzata è che al centro dei procedimenti ci sono sempre e soltanto personalità africane. Secondo lei, sarà mai possibile vedere procedimenti aperti contro leader occidentali? C’è stato chi ha chiesto di arrestare Tony Blair o George Bush… "In questo momento la giustizia internazionale è gestita dai membri permanenti del Consiglio di sicurezza. E non è una gestione basata su principi di equilibrio. L’Africa è fuori dal Consiglio di sicurezza, mentre l’Europa conta due membri permanenti, più la Russia, poi ci sono gli Usa, l’Asia è rappresentata solo dalla Cina… E Washington ha già fatto sapere che se un suo cittadino fosse detenuto all’Aja, andrebbe a riprenderselo con i marines". Repubblica Centrafricana: Amnesty International "livelli sbalorditivi d'impunità nel paese" Nova, 14 gennaio 2017 Nella Repubblica Centrafricana vige "un'impunità su scala sbalorditiva": persone sospettate di aver commesso omicidi o stupri durante la guerra civile sono riusciti ad evadere la giustizia e in alcuni casi convivono con le loro stesse vittime. È quanto denunciato in un rapporto dall'organizzazione non governativa Amnesty International, secondo cui occorre mettere in piedi un sistema giuridico credibile, compito che sin qui né il governo di Bangui né le truppe di pace delle Nazioni Unite sono riusciti a portare avanti. Centrale per la stabilità del paese, secondo il rapporto, l'istituzione di un tribunale penale speciale, in uno sforzo che continua a richiedere l'impegno anche della comunità internazionale. Il peso della guerra civile divampata alla fine del 2012, ma latente da diversi anni, continua a schiacciare il paese. "Migliaia di vittime di abusi contro i diritti umani nella Repubblica Centrafricana attendono che si faccia giustizia, mentre persone che hanno commesso reati orribili come assassini e stupri sono ancora in libertà", spiega Ilaria Allegrozzi, ricercatrice di Amnesty International per l'Africa centrale. Il "livello di impunità è sbalorditivo e sta minando gli sforzi per la ricostruzione del paese e la creazione di una pace sostenibile" dopo il cessate il fuoco siglato nel luglio del 2014 ma ripetutamente messo in crisi da attacchi tra le due principali fazioni in lotta: il gruppo ribelle ex Seleka, a maggioranza musulmana e i militanti cristiani anti-Balaka. L'unica soluzione per porre fine a questa "impunità" nel lungo periodo, suggerisce il rapporto, è una "riforma integrale del sistema nazionale di giustizia". Occorre ricostruire - anche fisicamente - i tribunali e le carceri, ma anche reclutare e addestrare le forze di sicurezza. L'Ong ricorda infatti che la macchina della giustizia, "già fragile prima dell'inizio del conflitto", è ulteriormente peggiorata negli ultimi anni. Con ampie zone del paese in fiamme, i presidi di giustizia - i tribunali come le prigioni - sono stati abbandonati dal personale in fuga all'estero, e grandi masse di documenti sono andate distrutte. Fuori dalla capitale Bangui sono poche le aule di giustizia in funzione e solo otto delle 35 carceri del paese sono operative. Costretti in condizioni logistiche estremamente precarie e a rischio sanitario molti carcerati sono evasi, anche approfittando degli scarsi sistemi di vigilanza. Come risultato, vittime e carnefici si trovano a condividere spazi di vita civile. "Usano gli stessi taxi, fanno acquisti negli stessi negozi e vivono negli stessi quartieri", dice un testimone citato nel rapporto di Amnesty. "Nessuno è stato arrestato né processato e questo clima di insicurezza contribuisce a trasmettere sicurezza". Tra settembre del 2014 e ottobre del 2016 le forze di pace dell'Onu hanno aiutato le autorità locali ad arrestare 384 persone incriminate di reati collegati al conflitto. Ma solo poche di queste, sottolinea Amnesty, erano perseguite per i reati più efferati, quelli che hanno lasciato le maggiori ferite al tessuto sociale del paese. Senza contare che 130 di loro, a settembre del 2015, sono riusciti ad evadere. L'organizzazione ricorda inoltre che a novembre del 2014 aveva segnalato 21 casi di persone fortemente indiziate di aver commesso crimini di diritto internazionale. Solo due di questi sono stati arrestati e per gli altri 19 non è stata neanche aperta una indagine considerata efficace. Senza i freni necessari, la violenza torna nel paese sta tornando protagonista. Dal settembre scorso gli scontri sono aumentati in frequenza e densità, portando a decine di morti civili - solo 37 nell'attacco di ottobre nel territorio di Kaga-Bandoro - e spingendo circa 20 mila persone ad abbandonare le loro case. Oltre a dover ricostruire l'attività quotidiana della giustizia - la prevenzione con forze di sicurezza adeguate al compito, l'effettività della pena con misure restrittive efficaci, occorre per Amnesty dare un forte impulso alla creazione del Tribunale penale speciale. Si tratta di un organo previsto da una legge del 2015 sul quale Bangui concentra buona parte delle richieste di aiuto alla comunità internazionale. Una corte "ibrida" composta da giudici e personalità nazionali e internazionali incaricata di giudicare persone sospettate di aver compiuto reati qualificabili di diritto internazionale. La struttura ha acceso i motori, ma per farla davvero partire è necessario fare al più presto il pieno. Il tribunale "è fondamentale per fare in modo che le vittime di alcuni dei reati più gravi commessi durante il conflitto abbiano la possibilità di vedere che la Repubblica centrafricana è in grado di fare giustizia", ha sottolineato Allegrozzi. A novembre del 2016 il governo del presidente Faustine Touadera ha portato a Bruxelles un piano di riconciliazione nazionale e consolidamento della pace per ottenere dalla conferenza dei donatori le risorse utili a fare ripartire il paese. Nonostante siano stati impegnati già cinque dei sette milioni di dollari utili a garantire i primi 14 mesi di vita del Tribunale, occorre intensificare gli sforzi. Non servono solo i fondi per l'attività regolare dei prossimi cinque anni, segnala Amnesty: i donatori - tra cui anche l'Unione europea e l'Italia - devono contribuire designando personale qualificato tanto per i processi in corso quanto per quelli che si devono istruire. Ed è anche necessario "sviluppare un programma solido di protezione dei testimoni per garantire che la loro partecipazione ai processi" si svolge in condizione di sicurezza, ha spiegato Allegrozzi. Al tempo stesso si chiedono le garanzie di un equo processo e di una giusta difesa anche per gli imputati: "È ora di mettere fine al clima di paura che regna nella Repubblica centrafricana". Un clima di insicurezza che contribuisce a scrivere una cronaca sempre dolorosa. La scorsa settimana due attacchi contro la missione integrata multinazionale per la stabilizzazione della Repubblica Centrafricana delle Nazioni Unite (Minusca), nel nord-ovest e nella parte orientale del paese, sono costati la vita a due caschi blu di nazionalità marocchina.