Imputati in "messa alla prova": l’obbligo Inail preoccupa il volontariato di Alessia Ciccotti Redattore Sociale, 13 gennaio 2017 L’assicurazione anti infortuni sarà rimborsata grazie a un fondo presso il Ministero del Lavoro e spetterà anche alle associazioni che accolgono persone per lavori di pubblica utilità sostitutivi alla pena. I CSV: "Molte non più disponibili, si rischia di bloccare un sistema virtuoso. E per tanti l’alternativa sarà il processo e forse il carcere". Anche le persone ammesse alla sospensione del processo penale con "messa alla prova" - prevista dalla legge 67/2014 per reati di minor allarme sociale puniti con pena non superiore a 4 anni o con la sola pena edittale pecuniaria - devono avere la copertura assicurativa dell’Inail. E tale obbligo viene esteso anche ai condannati per guida in stato di ebbrezza o sotto effetto di sostanze stupefacenti, nonché ai tossicodipendenti condannati per un reato di "lieve entità" in materia di stupefacenti. In compenso, gli enti (pubblici ma soprattutto del non profit) che accoglieranno queste persone per lo svolgimento di lavori di pubblica utilità (Lpu) non retribuiti e sostitutivi della pena potranno recuperare la spesa per l’assicurazione grazie all’incremento di un fondo istituito presso il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali. Un fondo che fino ad oggi era previsto solo per i beneficiari di forme di sostegno al reddito, per i detenuti e gli internati, e per i migranti richiedenti asilo impegnati in progetti di utilità sociale. Lo ha comunicato oggi lo stesso Inail, evidenziando come la novità sia prevista nella legge di Bilancio 2017, che ha appunto portato da 5 a 8 milioni il fondo in questione. Il provvedimento interviene su una vicenda che negli ultimi mesi ha agitato molto, in particolare, le associazioni di volontariato. Sono infatti queste che, in accordo con gli Uepe territoriali (uffici per l’esecuzione penale esterna), gestiscono progetti con migliaia di persone in messa alla prova, e che finora si sono dotate solo delle normali forme di assicurazione privata previste per le attività di volontariato, quasi mai stipulando la copertura assicurativa con l’Inail. Nel novembre 2016 era però scoppiato il caso Genova, dove un’associazione di volontariato è stata multata per la mancata assicurazione Inail di un soggetto in messa alla prova, venendo così equiparata di fatto a un datore di lavoro vero e proprio. Il verbale aveva destato grande preoccupazione in tutta Italia, dopo che il Celivo (Centro servizi per il volontariato di Genova) aveva scelto di renderlo pubblico: l’interpretazione dell’Inail, afferma il Celivo, era infatti contraria a quella espressa pochi mesi prima da un tavolo di lavoro composto dal tribunale di Genova, dall’Ordine degli avvocati e dall’Uepe, che "equiparava l’attività del soggetto in messa alla prova all’attività volontaria e quindi giudicava sufficiente la normale assicurazione privata posta in essere nelle associazioni". Cosa cambia dunque con la novità prevista nella legge di Bilancio? "L’incremento del fondo - risponde Simona Tartarini, direttrice del Celivo - è da apprezzare, ma risolve solo l’aspetto economico della copertura assicurativa, che non è quello fondamentale. Il vero problema è che le associazioni, in maggioranza piccole, senza dipendenti e senza un apparato amministrativo adeguato, stipulando per legge l’assicurazione Inail diventano soggette alle mille responsabilità previste dalle norme sulla sicurezza sul lavoro e non sono in grado di gestire un processo del genere". L’obbligo di copertura Inail, secondo Tartarini e altri colleghi di Csv di altre regioni dove starebbero per essere emesse altre multe, "renderà d’ora in avanti molto difficile il coinvolgimento delle associazioni. Quasi tutte quelle genovesi, infatti, hanno già deciso di sospendere ogni disponibilità ad accogliere persone in messa alla prova. E per queste ultime l’alternativa sarà il processo e forse il carcere". Tartarini segnala infine "il paradosso della legge di Bilancio, che ha esteso l’obbligo Inail anche ai reati legati al codice della strada, investendo un settore che fino ad oggi non si era mai posto il problema. Si rischia di bloccare un intero sistema virtuoso attraverso il quale migliaia di persone riescono ad evitare il carcere per piccoli reati e svolgere attività di volontariato che in molti casi diventano determinanti per la loro crescita umana". "Il problema - conclude Tartarini - è nell’adattamento della normativa, per questo sarebbe necessario che si avviasse fin da subito un tavolo con i ministeri della Giustizia e del Lavoro, a cui dovrebbe ovviamente partecipare l’Inail, a cui va comunque riconosciuto l’impegno sulle tematiche del welfare, e i Centri di servizio, che in tutta Italia stanno assistendo le organizzazioni di volontariato su questi percorsi di giustizia riparativa". Rita Bernardini: "A Orlando consegneremo il libro della nonviolenza" di Valentina Stella Il Dubbio, 13 gennaio 2017 Il Ministro della Giustizia incontrerà i dirigenti Radicali per fare il punto su carcere e diritti. Il 18 gennaio il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, svolgerà alla Camera la relazione annuale sulla situazione dell’amministrazione giudiziaria nel Paese. Ma tra i suoi appuntamenti prossimi ci sarà anche l’incontro con una delegazione del Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito, guidata da Rita Bernardini. Come nasce questo incontro? Da una tanto cortese quanto genuina e sentita telefonata di auguri che il ministro mi ha fatto nel pomeriggio inoltrato dell’ultimo giorno dell’anno. Sono stata io a proporgli di vederci, anche perché vogliamo consegnargli, così come a Papa Francesco e al Presidente Mattarella, l’enorme "libro della nonviolenza" che contiene le lettere con i nomi dei ventimila detenuti che il 5 e 6 novembre hanno digiunato per sostenere gli obiettivi della Marcia dedicata dal Partito radicale a Marco Pannella e a Papa Francesco per richiedere "amnistia, indulto e riforma della giustizia", e partecipata da tante associazioni che operano nel carcere, da diversi sindaci e altre istituzioni con i loro gonfaloni, oltre che da testate giornalistiche e dall’Unione delle Camere Penali. Da pochi giorni è finito il giro in molti istituti di pena in Italia. Qual è la situazione che racconterà al ministro Orlando? Abbiamo scritto, ancora una volta, una significativa pagina di conoscenza di quella che è la realtà penitenziaria italiana. Dovremo dirgli, dati alla mano, che purtroppo si tratta ancora oggi di situazioni che poco hanno a che fare con il rispetto della legge e dei principi costituzionali. Ma questo Orlando lo sa, e noi vogliamo incontrarlo proprio perché abbiamo l’intenzione di essere propositivi e intendiamo aiutarlo a fare ciò di cui è già convinto: occorre far divenire quei luoghi che sono criminogeni (come lui stesso ha affermato ormai da tempo) luoghi dove chi ha sbagliato abbia concretamente la possibilità di riscattarsi. Oggi non è così, seppure abbiamo riscontrato in alcuni rari casi modalità di esecuzione della pena virtuose, che vanno immediatamente valorizzate ed esportate in altri istituti dove invece si preferisce far girare le chiavi che recludono nella solitudine, nell’angustia e nell’inattività di una cella, esseri umani continuamente colpiti da vessazioni che nulla hanno a che fare né con la tanto sbandierata "sicurezza" né, tantomeno, con la funzione riabilitativa della pena. Le cose da rivedere sono moltissime. C’è molto da fare? Da una parte c’è il carcere, che dovrebbe essere riservato ad una minoranza di soggetti veramente pericolosi, dall’altra ci sono le pene alternative che sono ancora poco usate ma che sono molto meno recidivanti del carcere: questa "diversa" impostazione però non si può mettere in atto se quasi tutte le risorse (3 miliardi all’anno!) sono destinate al settore di custodia e sicurezza e quasi niente per le figure professionali della riabilitazione: educatori, psicologi, assistenti sociali, insegnanti, mediatori culturali, formatori nel campo lavorativo, personale medico specializzato. Poi c’è il macigno dell’amministrazione della Giustizia castrata da milioni di pendenze per l’irragionevole durata dei processi penali e delle cause civili. Può anticiparci quali altre questioni sottoporrete al ministro della Giustizia? Vogliamo continuare a ragionare con Orlando sul provvedimento di amnistia e di indulto che noi del Partito Radicale riteniamo obbligatorio se si vuole riformare la giustizia non solo sotto il profilo dell’efficienza nel rendere un servizio ai cittadini, ma anche sotto quello del rispetto dello Stato di diritto e dei diritti umani fondamentali. Poi gli chiederemo lo stralcio dal disegno di legge penale della riforma dell’Ordinamento penitenziario più che mai necessaria se non si intende buttare a mare tutto il prezioso lavoro che proprio Orlando ha promosso con gli Stati Generali dell’esecuzione penale. Ormai questa non è più solo la nostra posizione. Oggi si esprime nella direzione dello stralcio anche il vicepresidente della commissione Giustizia del Senato, il magistrato Felice Casson, mentre il presidente Nico D’Ascola conferma a Radio Radicale che sulla parte riguardante la delega al governo relativa alla modifica dell’Ordinamento penitenziario non si sono manifestate divisioni fra i gruppi politici. Tra i governi degli ultimi anni qual è quello che ha mostrato maggior attenzione alla questioni carceri? Sicuramente l’ex Prefetto Annamaria Cancellieri è stata la più attenta sulla proposta di amnistia e devo dire che Marco Pannella era riuscito ad avere un buon dialogo anche con Francesco Nitto Palma del centro- destra. Certamente il ministro Orlando dimostra una spiccata sensibilità al problema. Ora però occorre agire, realizzare le riforme, e noi con la nonviolenza, i detenuti, il Papa e il mondo penitenziario, lo aiuteremo. Infatti proprio il Papa non molla sulle carceri. Eh, appunto! Papa Francesco non molla, testardo come Marco! Mi piacerebbe davvero molto incontrarlo per consegnargli, con i miei compagni del Partito Radicale, il librone del digiuno dei ventimila detenuti. I suoi riferimenti alla nonviolenza nell’agire anche politico per risolvere con il dialogo i conflitti drammatici del nostro tempo, mi hanno molto colpito. Vorrei fargli leggere il preambolo allo statuto del Partito Radicale laddove proclama "il dovere alla disobbedienza, alla non-collaborazione, alla obiezione di coscienza, alle supreme forme di lotta nonviolenta per la difesa, con la vita, della vita, del diritto, della legge". Toghe contro Renzi, la disputa continua Il Giornale d'Italia, 13 gennaio 2017 Fiume di ricorsi al Tar contro il decreto che ha prorogato il mantenimento in servizio fino a 72 anni per qualche alto magistrato. Anm e presidenti di tribunali in rivolta, previste iniziative clamorose durante l’inaugurazione dell’anno giudiziari. Un fiume di ricorsi inoltrati al Tar del Lazio contro il decreto legge che ha prorogato il mantenimento in servizio fino a 72 anni (l’età pensionabile è 70) per alti magistrati di Cassazione, Consiglio di Stato, Corte dei Conti e Avvocatura dello Stato. La base delle toghe in rivolta contro quel provvedimento targato Renzi che proprio non è andato giù all’Associazione nazionale magistrati che, dopo aver provato a chiederne inutilmente la modifica, si appresta a intraprendere nuove, clamorose manifestazioni di protesta. Da tenersi con ogni probabilità all’inaugurazione dell’anno giudiziario. C’è chi "minaccia" la linea dura ed è pronto a incrociare le braccia. Uno spauracchio, questo, che rischia di incancrenire ulteriormente la macchina inefficiente della giustizia italiana. Un apparato che non funziona, tra processi infiniti e procedimenti pendenti per quasi 9 milioni. E c’è chi appunto ha deciso di rivolgersi al Tar. L’ultimo, di molteplici ricorsi, secondo quanto rivela l’Ansa, sarebbe stato presentato dal presidente uscente del tribunale di Perugia Aldo Criscuolo. A cui proprio non sembra essere piaciuta nemmeno quella delibera con cui Palazzo dei marescialli a settembre ha cancellato i soli concorsi già indetti per colpire i vertici della Cassazione lasciando in vigore tutti gli altri. Ma tutti i ricorrenti hanno posto l’accento sul fatto che gli atti debbano essere inviati alla Consulta affinché si pronunci sulla legittimità costituzionale del decreto. Per via di quelle "differenziazioni nel trattamento" per molti intollerabili. Continuano a far discutere i provvedimenti dell’ex governo Renzi. Specialmente quel decreto legge che non ha riguardato tutte le toghe, ma solo alcune (circa una quarantina). E se le cose non dovessero cambiare, presto saranno costretti a lasciare i propri incarichi 150 magistrati ai vertici: dal capo della procura di Napoli Colangelo, fino al presidente della Corte d’appello Mazzeo. Con i giudici che puntano ad ottenere una modifica di quel testo dal Parlamento. Ad ogni costo. In caso contrario sembrerebbero pronti a fermare i processi. Cyberspionaggio sconfitto da indagini tradizionali di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 13 gennaio 2017 Cyberspionaggio sconfitto da indagini tradizionali: ebbene sì, può sembrare paradossale - anzi, lo è decisamente - eppure nell'inchiesta della Procura di Roma contro la centrale di spionaggio informatico ai danni di politici, istituzioni, imprenditori, smantellata dalla Polizia postale, è andata proprio così. Nessun virus intrusivo è stato usato dagli investigatori, ma soltanto i tradizionali strumenti di indagine, come intercettazioni telefoniche e telematiche. E un'efficace cooperazione internazionale di polizia. È stata, beninteso, una precisa strategia investigativa di fronte a un’attività "degna di un servizio segreto straniero", che sarebbe stata sicuramente in grado di riconoscere agenti intrusori esterni in dotazione alle Forze dell’ordine. Resta il fatto, però, che quegli agenti intrusori (come i Trojan) non si sarebbero potuti neppure utilizzare se il Parlamento avesse già approvato in via definitiva la riforma del processo penale, che ne limita il ricorso da parte dei magistrati soltanto per i reati più gravi di mafia e di terrorismo. Al paradosso, quindi, si aggiunge un altro paradosso. Nel limbo che si è creato tra la sentenza delle sezioni unite della Cassazione dello scorso aprile (che ha esteso a tutti i reati, purché strutturati in forma associativa, il ricorso ai virus informatici) e la regolamentazione legislativa più restrittiva (che dovrebbe essere approvata a breve, dopo essere stata congelata per mesi), gli investigatori sono di fatto più competitivi con la criminalità - mafiosa, terroristica, informatica - perché oggi possono quanto meno scegliere tra un ventaglio ampio di strumenti di indagine, che domani, invece, potrebbe essere più circoscritto. Nasce, probabilmente, anche da questa constatazione l’affermazione dei magistrati secondo cui nella lotta al cybercrimine "le armi non sono spuntate": dal timore, cioè, che l’intervento del legislatore possa restringere lo spazio d’azione oggi consentito, invece di ampliarlo. In ballo c’è lo stesso interesse leso dai reati contestati nell’inchiesta romana, quello alla privacy (oltre che alla sicurezza nazionale), e quindi il timore che l’eccessiva invasività di alcuni strumenti di indagine (come i captatori informatici) si trasformi in una sorta di "Grande fratello", con la conseguente pubblicità incontrollata e incontrollabile di materiale investigativo non pertinente al procedimento penale. Un rischio, peraltro, che anche l’inchiesta della Procura di Roma porta con sé, nel momento in cui si metteranno le mani sui contenuti del materiale intercettato abusivamente ai danni di politici, imprenditori, professionisti, istituzioni, pubbliche amministrazioni e persino del Vaticano, e alcuni di quei contenuti dovranno essere utilizzati dai magistrati per dimostrare la capacità criminale degli indagati/imputati. Ovviamente, non potrà essere la Procura a divulgare il materiale che gli Occhionero minacciavano di divulgare con la loro attività; ma per quante cautele la Procura possa adottare (per esempio omissando alcuni contenuti, o destinatari o mittenti), sarà la dinamica del processo a stabilire la sorte (in termini di pubblicità) di quel materiale. Insomma, è questo un campo nel quale la tutela della privacy e della sicurezza implica il sacrificio di almeno una quota della privacy e della sicurezza. Ed è un altro paradosso, anch’esso forse inevitabile. La verità è che, al di là di necessari aggiornamenti di norme anacronistiche - da quelle incriminatrici risalenti agli anni ’30 a quelle su una prescrizione mai riformata, l’indagine romana sul cyberspionaggio rivela ancora una volta che la carta vincente rimane il "fattore umano", cioè la qualità, culturale e professionale, di investigatori e magistrati e la loro capacità di gestire con efficacia e responsabilità strumenti investigativi vecchi e nuovi, nonché i relativi risultati. Il mercato dell’antimafia? Ne fanno parte anche i magistrati di Tiziana Maiolo Il Dubbio, 13 gennaio 2017 Che esista, e non da oggi, un "florido mercato dell’antimafia", come scrive il dottor Alberto Cisterna, è indubbio. Ma di questo mercato fanno parte a pieno titolo anche (alcuni) magistrati. E l’associazione Libera, che anche il dottor Cisterna pare apprezzare, voleva aprire una pizzeria "antimafia". Che esista, e non da oggi, un "florido mercato dell’antimafia", come scrive il dottor Alberto Cisterna, è indubbio. E l’aveva previsto trenta anni fa, senza mai sbagliare un colpo, la genialità di Leonardo Sciascia. Ma di questo mercato fanno parte a pieno titolo anche (alcuni) magistrati. Basterebbe il fatto che si pensano, si esibiscono (e ci costruiscono carriere) come "antimafia". Non è solo un fatto linguistico. Nessun Pubblico ministero né alcun giudice può mai definirsi "anti" qualcosa o qualcuno, soprattutto ergersi a combattente nei confronti di un fenomeno, neppure il più criminoso e sanguinario quale è per l’appunto la mafia. Essendo la lotta alla criminalità organizzata compito dello Stato e delle forze dell’ordine, solo in un caso i Pubblici Ministeri (e mai i giudici) potrebbero gettarsi nella mischia dell’antimafia, se fossero sganciati dall’Ordine giudiziario e sottoposti all’esecutivo. Ma così non è e difficilmente sarà. Questa definizione solo apparentemente lessicale è importante proprio per quel che diceva Leonardo Sciascia, cioè che attraverso questa sorta di "professionismo" e di costruzione di carriere si sarebbe arrivati a una crisi profonda dello Stato di diritto e a un’amministrazione della giustizia strabica e, alla fine, ingiusta. È vero, non solo i magistrati si sono macchiati del "reato" di professionismo. Ci sono state scalate politiche nate sulle lenzuola bianche alle finestre, e florilegi di convegnistica e produzioni per così dire letterarie a fare da contorno all’attività della giustizia con il piglio dell’inevitabile, quasi tutto fosse concesso in nome di una battaglia di religione. Pure si sarebbe potuto fare diversamente. E diversamente si è fatto in tante parti d’Italia, senza protagonismi né luci della ribalta. Un piccolo esempio di un episodio cui ho partecipato personalmente. Quando ero assessore alla sicurezza a Buccinasco (cittadina attaccata a Milano e ingiustamente chiamata la "Platì del nord"), abbiamo aperto un asilo in una villetta confiscata. L’associazione Libera, che anche il dottor Cisterna pare apprezzare, voleva aprire una pizzeria "antimafia". Qui sta la differenza tra il fare e l’apparire. L’asilo non era "anti" niente, ma forse era utile. E ancora non ho capito che sapore abbia la pizza mafiosa rispetto a quella dei ragazzi di Libera. La magistratura ha enormi responsabilità in tutto ciò. Non può chiamarsi fuori. Neanche Falcone. La polemica di Leonardo Sciascia sul maxiprocesso non fu questione di facciata né di personale inimicizia. Fu allarme e avvertimento: non combattete i fenomeni, non innamoratevi di un’ipotesi, non lasciatevi lusingare dalle sirene che agiscono per interesse. Era appena entrato in vigore il nuovo codice di procedura, almeno "tendenzialmente" accusatorio e ne fu fatta carne di porco. Venne incenerito il giudice Carnevale (vogliamo ricordare i sondaggi di Martelli-Falcone sulla sua giurisprudenza, senza risultato?) perché troppo pignolo e si portò a casa il risultato politico. Sì, politico. Con conseguenze tragiche. Ma quel che di politico successe dopo le stragi fu ancora peggio. Leggi speciali (l’ergastolo ostativo esiste ancora oggi) e gestione sciagurata dei "pentiti" (con un vero mercato della calunnia affidato alle mani di delinquenti assassini) servirono a distruggere lo Stato di diritto e a costruire brillanti carriere ad alcuni Pubblici Ministeri. Non c’è bisogno di fare nomi e cognomi, li troviamo ogni giorno sui giornali, qualcuno ai vertici massimi dello Stato. E qualcuno vuole ancora mettere in discussione la genialità di quell’intuizione di Leonardo Sciascia? Legge sulla droga di nuovo alla Consulta di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 13 gennaio 2017 Corte di cassazione, ordinanza 12 gennaio 2017, n. 1418. Nuova remissione alla Corte Costituzionale della travagliata legge sugli stupefacenti. Lo ha deciso ieri la Sesta sezione penale della Cassazione - ordinanza 1418/17 - sulle sorti del processo a uno spacciatore giudicato dal Tribunale di Imperia. La questione, ancora una volta, riguarda il confine tra il comma 5 dell’articolo 73 del Dpr 309/90 (la lieve entità) e il comma 1 (norma base su produzione, trasporto, commercio etc delle droghe pesanti) in particolare sotto l’aspetto della proporzionalità dello scarto di pena tra le due fattispecie. Nello specifico, a un 37enne straniero il Gip ligure aveva riconosciuto il 13 dicembre scorso i benefici della lieve entità, a dispetto delle (potenziali) 150 dosi di eroina sequestratigli in casa dell’accertata continuità dello spaccio, con cadenze di tre o quattro volte alla settimana ai due acquirenti monitorati dalla polizia giudiziaria. Alla riqualificazione si è opposto per via diretta il pm di Imperia, invocando davanti alla Cassazione l’annullamento per erronea applicazione della legge, contestando in sostanza l’eccessiva elasticità del concetto di "lieve entità" come declinato dal giudice dell’indagine preliminare. Da questo dato prettamente fattuale la Sesta - che dichiara di aderire all’interpretazione dell’accusa, giudicando scorretto il riconoscimento dell’ipotesi lieve - trae spunto per rimettere alla Consulta i parametri delle sanzioni del Dpr 309/90, rimaneggiati ripetutamente per le sorti della legge 49/2006 (Fini-Giovanardi) e della successiva dichiarazione di incostituzionalità (sentenza 32/14). Per effetto della pronuncia della Consulta, la pena minima edittale applicabile allo spaccio "non lieve" sale oggi a 8 anni rispetto ai 6 previsti dalla censurata disposizione inserita, come noto, nel decreto sulle Olimpiadi di Torino. Secondo la Cassazione, il trattamento sanzionatorio "di base" in questo modo va a confliggere con la proporzionalità delle pene previste dalla norma stessa (articolo 27 della Costituzione) ma soprattutto, per effetto dell’intervento correttivo della Consulta di tre anni fa, non rispetta il principio di riserva di legge (articolo 25 della Carta). L’ordinanza di remissione. molto lunga e articolata, fa molta attenzione a non entrare sul terreno della discrezionalità del legislatore, limitando l’ipotesi di scrutinio alle norme penali di favore "sincroniche" - cioè contemporaneamente in vigore in relazione alla medesima fattispecie - escludendo invece quelle "diacroniche" (espressione della successione di norme penali nel tempo). Tuttavia la Sesta sottolinea che in questo caso è in gioco soprattutto il principio di riserva di legge, poiché la norma punitiva applicabile qui è il risultato di un ripristino di una disposizione previgente operato attraverso un intervento della Consulta, pertanto fuori dal percorso indicato dalla Costituzione. In ogni caso, argomenta ancora l’estensore, l’attuale pena minima edittale appare comunque incostituzionale "per difetto di ragionevolezza": basta raffrontare il comma 1 contestato alle ipotesi lievi del comma 5 (quella applicata appunto dal Gip imperiese) ma anche con il comma 4, che prevedono importanti sconti di pena. Sconti agganciati tra l’altro, chiosa la Sesta, a una demarcazione naturalistica tra la fattispecie "ordinaria" e quella "lieve" tutt’altro che netta - come dimostra il caso in esame - "mentre il confine sanzionatorio dell’una e dell’altra incriminazione è estremamente e irragionevolmente distante". Messa alla prova: pesano anche le azioni successive al periodo di stop del processo di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 13 gennaio 2017 Tribunale per i minorenni di Caltanissetta - Sentenza 9 gennaio 2017. La valutazione del giudice degli "effetti" della massa alla prova, sulla condotta del minore, non può essere circoscritta al periodo di sospensione del processo in virtù del beneficio, ma va estesa anche ai comportamenti successivi. Va dunque giudicato il minore che, terminato il periodo di prova, previsto dall’articolo 28, comma 1 della norma che regola il processo penale minorile (Dlgs 448/1988), viene arrestato per tentata rapina e, sottoposto ai domiciliari, evade ed è di nuovo arrestato. Per il Tribunale per i minorenni di Caltanissetta (sentenza 9 gennaio 2017 Relatore Antonino Liberto Porracciolo) anche le azioni messe in atto dopo il completamento del periodo di prova, compromettono l’ipotetica buona condotta tenuta dall’imputato nel corso dei sei mesi durante i quali il processo è stato sospeso per la massa alla prova. Una conclusione supportata anche da una lettura fedele della legge che non esclude tale valutazione, come dimostrato da tenore dell’articolo 29 il quale invita a tenere conto "del comportamento del minorenne e della evoluzione della sua personalità". Valutazione che non è dalla norma espressamente circoscritta al tempo della messa alla prova. Per il Tribunale sono elementi che inducono il tribunale a concludere che si debba procedere a un giudizio quanto più ampio e globale dell’operato dell’imputato e della sua personalità. Nella stessa direzione, oltre all’ interpretazione letterale della norma, va anche la logica. Sarebbe paradossale - sottolinea il Tribunale - che in presenza di un reato commesso a brevissima distanza dalla scadenza del periodo fissato per la messa alla prova, e dunque in caso di evidente inidoneità del progetto, a costituire uno strumento di "ravvedimento" dell’imputato, il giudice dovesse comunque affermare l’esito positivo della prova. Il periodo fissato per la prova indica, dunque solo il lasso di tempo, nel quale questa deve svolgersi, ma non "ingabbia" i tempi dell’osservazione del giudice. Nel caso esaminato il Tribunale, verificati i fatti e la sufficiente maturità dell’imputato per comprendere il disvalore delle sue azioni, lo condanna a 6 mesi di reclusione, per minacce e danneggiamento in continuazione tra loro. Diffamazione, il gestore del sito risponde dei commenti di Carlo Melzi d’Eril e Silvia Vimercati Il Sole 24 Ore, 13 gennaio 2017 Il gestore di un sito web risponde per i contributi diffamatori pubblicati da altri, anche non anonimi, purché ne sia a conoscenza. Così sembra aver stabilito la quinta sezione penale della Corte di cassazione, con sentenza n. 54946 depositata il 27 dicembre 2016. In breve, la vicenda, per quanto si riesce a comprendere dalla sintesi che ne fa la Corte: nell’agosto del 2009 un lettore pubblicava su un sito internet un commento offensivo nei confronti di un soggetto che stava per ricoprire una carica importante a livello nazionale e ne allegava il certificato penale. A distanza di pochi giorni, lo stesso lettore inviava per e-mail lo stesso certificato penale al gestore del sito. Quest’ultimo - a quanto pare - si limitava a non cancellare il giudizio offensivo, fino a quando non veniva disposto il sequestro preventivo della pagina. La Corte d’Appello, riformando la sentenza di primo grado, condannava il gestore per concorso nel reato di diffamazione a mezzo internet, riconoscendo altresì un elevato risarcimento. L’imputato proponeva ricorso per cassazione, rilevando tra l’altro di non aver contribuito alla pubblicazione e di aver avuto conoscenza della sua presenza in rete solo con l’applicazione della misura cautelare. Nel rigettare l’impugnazione, la Cassazione individua in capo al gestore una responsabilità a titolo di concorso in diffamazione per il sol fatto che egli avrebbe "mantenuto consapevolmente l’articolo sul sito, consentendo che lo stesso esercitasse l’efficacia diffamatoria" fino a quando non è stato coattivamente rimosso. A tale conclusione, se si è ben compreso, la Corte giunge valorizzando due accadimenti: la ricezione della e-mail dall’autore del commento "incriminato" e la pubblicazione di un altro articolo, questa volta a firma dell’imputato, ove vi era un espresso riferimento al precedente scritto a firma del lettore. In sostanza, il principio che sembra esprimere la Corte è che il titolare di un sito web può essere ritenuto direttamente responsabile di diffamazione se non si attiva per impedire che uno scritto diffamatorio, pubblicato e firmato da un soggetto terzo, permanga online in quanto, così facendo, consente l’aggravamento delle conseguenze del reato. Una simile conclusione non pare del tutto convincente. Innanzitutto, perché rischia di porsi non perfettamente in linea con le regole del concorso di persone nel reato. Chi gestisce un sito, infatti, può concorrere nella diffamazione di altri qualora ponga in essere un contributo morale o materiale alla realizzazione del fatto (cioè l’offesa), precedentemente o in corrispondenza della diffusione dello scritto. Ad esempio, nel caso in cui ispiri o istighi o rafforzi il proposito criminoso dell’autore, oppure svolga un controllo sugli scritti immessi da terzi e ne autorizzi la pubblicazione. La corte, tuttavia, non evidenzia la sussistenza di alcuna di queste condotte. La conferma della condanna sembra derivare dal fatto che il titolare del sito, pur a conoscenza del messaggio, non si sia attivato per cancellarlo. Tuttavia, la mera inerzia, successiva a un’attività illecita già interamente compiuta, non pare sufficiente a integrare in questo caso il concorso nel reato. Inoltre, considerata la natura istantanea del reato, che appunto si consuma al momento della lettura da parte di due persone (ma convenzionalmente dalla diffusione), la protrazione degli effetti diffamatori, derivante dal mantenimento online del contributo, non pare poter integrare una partecipazione penalmente rilevante. Né si rinviene nell’ordinamento alcuna posizione di garanzia in capo al gestore di un sito. Quest’ultimo non risulta quindi avere alcun obbligo, prima della pubblicazione, di impedire l’inserimento di contributi illeciti, o, dopo la pubblicazione, di eliminare quelli di cui un soggetto lamenti il carattere offensivo. Con la conseguenza che, in mancanza di tale posizione, non pare ipotizzabile una diffamazione in forma omissiva per la non cancellazione di contenuti, magari pure penalmente rilevanti. In definiva, in presenza di una forte richiesta di tutela per gli illeciti commessi in rete, la Corte assume ancora una volta il ruolo di supplente di un legislatore sempre più spesso latitante. Tuttavia, la soluzione individuata non persuade anzitutto perché somiglia molto a una responsabilità "per posizione". E poi perché - è facile pronosticarlo - un simile indirizzo indurrebbe il titolare del sito a una severa censura, che rischia di modificare (in peggio) il web per come abbiamo imparato a conoscerlo. Rischio di estensione al web per i reati a mezzo stampa di Carlo Melzi d’Eril e Giulio Enea Vigevani Il Sole 24 Ore, 13 gennaio 2017 La garanzia costituzionale che consente il sequestro di stampati solo nelle ipotesi di pubblicazioni oscene, apologia di fascismo e nei casi più gravi di plagio si applica al giornale online quando quest’ultimo ha i caratteri del periodico cartaceo, ovvero una testata, un direttore responsabile, una redazione e un editore. Di conseguenza, nelle ipotesi di diffamazione, il giornale telematico non può essere oggetto di misure preventive che ne impediscano o anche solo limitino (attraverso per esempio la deindicizzazione dai motori di ricerca) la diffusione, fatte salve le misure a tutela della privacy. Questo è il principio che ha stabilito la Corte di cassazione civile a Sezioni unite, con la sentenza n. 23469, depositata il 18 novembre 2016. Non si tratta di un principio del tutto inedito: la Corte, infatti, nel limitare il ricorso a misure cautelari di natura civilistica, riprende il "nocciolo" di quanto già affermato dalle Sezioni unite in sede penale che, con sentenza n. 31022 del 2015, avevano analogamente esteso la garanzia costituzionale prevista dell’articolo 21 comma 3 alle sole testate online. La recente pronuncia, tuttavia, contiene alcuni passaggi che meritano di essere sottolineati. Anzitutto vi sono prese di posizione decise e in controtendenza rispetto a una certa qual "paura della rete" che genera da più parti l’invocazione di strumenti preventivi per arginare l’incontrollata propagazione di contenuti illeciti. La Corte evidenzia come limitare in via cautelare la diffusione del web equivale a "sterilizzare" la rete e a "svuotarne di contenuto le potenzialità". E rileva altresì che "non si può trattare in via interpretativa in modo deteriore rispetto al passato la libertà di stampa solo perché è diventato tecnicamente più facile avvalersene". Internet viene ricondotto a uno degli strumenti classici di manifestazione del pensiero, circostanza che induce i giudici a estendere ad esso le garanzie previste dall’ordinamento per difendere la libertà. E ciò in quanto nel nostro sistema la libertà viene tutelata garantendo il mezzo con cui essa viene esercitata. Tornando al ragionamento che sorregge il principio menzionato, e cercando di evidenziarne gli snodi tecnici che hanno portato a un simile risultato, va detto che quest’ultima sentenza sembra avere "estremizzato" alcuni approdi delle Sezioni unite penali. Secondo la decisione più recente, internet è riconducibile alla nozione di stampa di cui all’articolo 1 della legge n. 47 del 1948, anche perché alla riproduzione tipografica può essere senza dubbio equiparata la diffusione in rete. Ciò determina la possibilità di una applicazione diretta dell’articolo 21 Costituzione, senza bisogno di interpretazioni analogiche in bonam partem o evolutive. La Corte, al di là di quanto sia condivisile nel merito tale affermazione (e lo è forse poco), per rispondere al ricorso presentato ben avrebbe potuto fermarsi qui, estendendo semplicemente le garanzie previste appunto per gli stampati alla rete. Così, la tutela prevista dall’articolo 21, che riguarda tutti gli stampati - giornali, libri o volantini, a prescindere dal loro contenuto informativo - si sarebbe applicata anche al materiale diffuso in rete con una testata registrata o un blog, un social network o in qualunque altra forma che abbia le caratteristiche dello stampato (ad esempio il nome dell’autore e il momento di inserimento in rete). I Supremi giudici, invece, compiono un passo ulteriore, che tuttavia pare scivolare in una contraddizione. Essi sostengono, in modo che pare francamente poco corretto, che l’articolo 21, in particolare il comma 4, assoggetta la stampa periodica a ulteriori garanzie procedurali. Al contrario, tale norma, nel consentire che solo i periodici possano essere posti sotto sequestro da ufficiali di polizia giudiziaria anche prima del provvedimento del giudice, prevede evidentemente un regime deteriore e meno garantista proprio per questo particolare tipo di stampati. Inoltre, sempre la Corte, sembra introdurre nell’interpretazione dell’articolo 21 comma 3 un "concetto funzionale di stampa, finalizzata alla divulgazione professionale dell’informazione". In tal modo la portata garantista del principio viene evidentemente ristretta, poiché da essa verrebbero esclusi quegli stampati che sono estranei ai media tradizionali. Il particolare tenore del provvedimento e l’autorevolezza della fonte lasciano altre domande aperte. La prima e più importante è questa: se internet è stampa, alla rete sono applicabili tutte le disposizioni incriminatrici e le aggravanti previste dal legislatore alla stampa? In altri termini, il direttore di un periodico telematico è responsabile in modo identico al quello di un periodico cartaceo? Chi diffonde un giornale online senza prima registrarlo commette il reato di stampa clandestina? Nel caso di condanna per diffamazione con attribuzione di un fatto determinato, si applicano alla rete le pene assai severe previste per la stampa, ovvero la reclusione da uno a sei anni e la multa? Ciò determinerebbe un deciso revirement nella giurisprudenza, che sinora ha sempre ritenuto internet diverso dalla stampa e dunque inapplicabili i reati previsti per la seconda anche ai giornali telematici "professionali", in forza del divieto di analogia in malam partem nel diritto penale. Oppure il ragionamento della Corte riguarda soltanto l’istituto peculiare del sequestro e quindi resta la regola, del tutto condivisibile, dell’inapplicabilità al web delle incriminazioni previste per la stampa? Insomma: un principio garantista male argomentato rischia di produrre reazioni a catena che forse nemmeno i Supremi giudici hanno immaginato. Sanzioni Iva, regge (per ora) il doppio binario di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 13 gennaio 2017 Corte di giustizia Ue, conclusioni dell'Avvocato generale presentate il 12 gennaio 2017 nelle cause C-217/15 e C-350/15. Regge (per ora) il doppio binario, penale e amministrativo, per le sanzioni Iva. È quanto si deduce da un complesso comunicato diffuso ieri dalla Corte di giustizia europea relativo a conclusioni dell’Avvocato generale. Comunicato relativo in realtà a 3 cause riunite sollevate da giudici italiani e accomunate da identica fattispecie: l’instaurazione di un procedimento penale nei confronti di chi, impresa o persona fisica, è già stato sanzionato dall’amministrazione finanziaria per un’infrazione in materia di omesso versamento Iva. A fare la differenza il soggetto punito, in due casi una società a responsabilità limitata, nell’ultimo una persona fisica. In discussione c’è quindi un tema che da tempo – per l’Italia la questione si è rafforzata dopo il deposito nel marzo 2014 della sentenza Grande Stevens nella quale la Corte europea dei diritti dell’uomo ha bocciato per violazione del principio del ne bis in idem il doppio binario in materia di market abuse (tema di legittimità costituzionale poi giudicato inammissibile, l’anno scorso, dalla Consulta) – è al centro di sentenze e approfondimenti da parte degli operatori del diritto e dell’accademia: la possibilità di colpire la medesima condotta da parte dello stesso soggetto sia sul versante penale sia su quello amministrativo. Le conclusioni dell’Avvocato generale depositate ieri sottolineano un elemento fondamentale, la necessità perché si possa configurare una violazione del principio del ne bis in idem, che le sanzioni vadano a colpire la stessa persona. Perché, invece, se, come nei due casi esaminati dall’Avvocato generale, questa coincidenza non c’è, allora non si configura alcuna infrazione al principio. Nei casi sottoposti alla Corte Ue, sui quali sono state depositate le conclusioni dell’Avvocato, la sanzione tributaria è stata imposta a due persone giuridiche in forma di società a responsabilità limitata, mentre i procedimenti penali sono stati promossi nei confronti dei rispettivi rappresentanti legali. Nessuna identità soggettiva quindi e nessuna violazione, malgrado l’omesso versamento Iva sia lo stesso. Nella terza causa presa in considerazione dal comunicato l’identità esiste, sanzionata la persona fisica e procedimento penale avviato nei suoi confronti, ma si apre un piccolo "giallo": il testo del comunicato, dando sempre conto delle conclusioni dell’Avvocato generale, si sofferma con dovizia di particolari su alcuni elementi chiave che devono fare ritenere di natura sostanzialmente penale le sanzioni del Fisco in materia di Iva, aprendo quindi la strada alla possibile contestazione di violazione del ne bis in idem. In particolare, nel caso delle violazioni tributarie per omesso versamento Iva, punite con sanzioni amministrative, i destinatari sono tutti i contribuenti e non un gruppo circoscritto di trasgressori. La relativa sanzione ha come obiettivo la repressione e la prevenzione delle condotte illecite, e non solo il ristoro del danno patrimoniale. Infine, come anche ripetutamente dichiarato dalla Corte dei diritti dell’uomo, la modestia delle sanzioni pecuniarie inflitte nei procedimenti amministrativi per omesso versamento di imposte non esclude che dette sanzioni abbiano carattere penale. Peraltro, le ordinanze di rinvio concordano, si fa osservare, sul fatto che la sanzione tributaria in questione (pari al 30% dell’importo dell’Iva non versata), ha, per natura ed entità, carattere penale. Tutti passaggi rilevanti, in realtà però in attesa di conferma, visto che la causa cui si riferiscono è stata poi stralciata per tenere conto di una importante pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo, A e B contro Norvegia del 15 novembre scorso, nella quale si è esclusa una violazione del divieto di bis in idem quando i due procedimenti, penale e amministrativo, sono così collegati da rendere evidente che si tratta di un unico e coerente sistema. Campania: la Garante: "condizioni delle carceri migliorate, meno affollamento e più attività" agora24.it, 13 gennaio 2017 "Le condizioni all’interno delle carceri, sono migliorate sia dal punto di vista dell’affollamento, che delle attività intraprese, alcune previste dai garanti altre dal Dap". Così la garante dei detenuti in Campania Adriana Tocco, durante la conferenza stampa svoltasi questa mattina al Centro Direzionale di Napoli, per illustrare l’attività svolta nel 2016 e il report della popolazione penitenziaria campana. Attività trattamentali, sportive, musicali e di lettura e un corso di educazione alla genitorialità "come richiesto dal direttore di Nisida, Gianluca Guida, per - prosegue la Garante - i detenuti molto giovani, ma già genitori di bambini di 5 e 6 anni". E ancora "la mostra del mercato dell’artigianato in carcere, dove - ricorda ancora Tocco - gli oggetti prodotti, sono stati venduti. I corsi di cucito creativo, organizzati dal mio ufficio e a breve corsi di formazione professionale e l’apertura, come già avviene in altri istituti penitenziari campani e non solo, di una pizzeria a Poggioreale che, dopo un primo periodo di rodaggio, potrebbe aprire anche all’esterno". Senza dimenticare le tante attività musicali, svoltesi in quasi tutti gli istituti penitenziari in Campania, dove "il coro giovanile del San Carlo, diretto dal Maestro Carlo Morelli, ha - prosegue la Garante dei detenuti -coinvolto i detenuti, rendendoli partecipi delle numerose esibizioni". E infine "Stiamo lavorando - annuncia Tocco - all’istituzione degli spazi gialli, ossia i luoghi dove poter accogliere i figli dei detenuti in maniera più consona. Uno si sta aprendo a Poggioreale con l’attrezzatura fornita dalla chiesa e libri dal nostro Ufficio noi. Lo stesso avverrà a Santa Maria, Carinola e Benevento". Una serie di attività per positivizzare, rieducare e reinserire i detenuti. "Un detenuto - sottolinea Tocco - non lo si può lasciare solamente alla punizione altrimenti dal carcere ne esce peggiorato. Se invece riesce ad avere un trattamento umano penserà che lo Stato lo ha punito, ma lo ha anche accolto come un essere umano che ha la sua dignità". Dunque un anno appena trascorso, alquanto positivo. Ma la caparbietà della Tocco, la porta ad annunciare per gli anni avvenire la creazione di un polo universitario all’interno delle carceri "per dare la possibilità ai detenuti di conseguire una laurea triennale, per esempio in infermieristica. È un’idea - ribadisce - che abbiamo lanciato con alcuni amici della facoltà di medicina. Il direttore di Poggioreale, Antonio Fullone, si è detto entusiasta. Inoltre - ricorda ancora Tocco - l’assessore regionale alla formazione, Chiara Marciani, si è impegnata durante il pranzo di Natale con i detenuti, ad avviare la formazione in ogni carcere campano". "Noi come Ufficio e tutti gli organi preposti - conclude - dobbiamo andare sul pratico, aiutando allo studio e indirizzando lavorativamente i detenuti che un giorno poi usciranno dal carcere. Un detenuto che esce formato e con un lavoro è una sicurezza per la società". Lombardia: Fp-Cgil: carceri sovraffollate e mancano oltre 1.300 agenti Il Giorno, 13 gennaio 2017 A denunciare la situazione è la Fp-Cgil lombarda. Si è ancora in attesa dell’inizio dei lavori per la videosorveglianza. Carceri sovraffollate in Lombardia: pur migliorando, grazie alla legge sull`esecuzione domiciliare delle pene, il problema resta serio. A fine 2016, su una capienza regolamentare prevista di 6120 detenuti, se ne sono registrati 7814. Tranne Sondrio, che ha una popolazione detenuta inferiore alla capienza, tutti gli istituti penitenziari lombardi sono interessati dal sovraffollamento, con un dato che sfiora il 28%. Lo denuncia la Fp-Cgil lombarda, che sottolinea anche le carenze d`organico della polizia penitenziaria: 3872 agenti effettivi sui 5219 previsti dal Decreto Ministeriale del 22/03/2013. Sono 1347 unità in meno, che scendono a 1332 tra mancate assegnazioni e poliziotti distaccati fuori regione (25,5%). La Cgil definisce "allarmante" la carenza di sottufficiali che in Lombardia si attesta al 70% e "costringe il personale dei ruoli esecutivi (agenti e assistenti) ad assolvere ad incarichi superiori che comportano gravi responsabilità". I lavori per la videosorveglianza devono ancora iniziare in diversi istituti e ultimarsi in altri. Ciò permetterebbe - secondo il sindacato - condizioni lavorative migliori, più efficaci ed efficienti, e un migliore impiego delle poche risorse umane disponibili. "La grave e cronica carenza di organico, oltre alle carenze strutturali degli edifici, inficia la piena garanzia dell`ordine, della sicurezza e della disciplina all`interno delle carceri lombarde, e aggrava lo stress degli agenti penitenziari, in una fase storica in cui devono peraltro vigilare sull`insorgere di fenomeni di radicalizzazione. Ci uniamo all`allarme lanciato al Dipartimento dell`Amministrazione Penitenziaria anche dal Provveditore Regionale Luigi Pagano - ha dichiarato Calogero Lo Presti, coordinatore regionale Fp Cgil Lombardia. E auspichiamo che il Governo rispetti gli impegni assunti con il decreto Mille Proroghe sull`assunzione di 900 poliziotti penitenziari". Benevento: detenuto 65enne muore all’Ospedale "Rummo", disposta l’autopsia ottopagine.it, 13 gennaio 2017 Era già stato costretto a fare ricorso in un paio di occasioni, nei giorni scorsi, alle cure dei medici. Ieri la scena si è ripetuta: è stato nuovamente accompagnato al Rummo, ma non è più rientrato in carcere, come avvenuto in precedenza, perché questa mattina è morto. Donato Gagliarde, di Pago Veiano, aveva 65 anni e dal 26 ottobre dello scorso anno era ospite della casa circondariale di contrada Capodimonte, dove stava scontando una condanna. Secondo una prima ricostruzione, affetto da problemi cardiaci per i quali era stato sottoposto ad alcuni interventi e seguiva una determinata terapia che gli era stata prescritta da uno specialista - il Tribunale di Sorveglianza ha chiesto al sanitario del carcere una relazione sulle sue condizioni che arriverà, purtroppo, troppo tardi, Gagliarde aveva accusato un malore nella serata di mercoledì. Per questo era stato necessario trasportarlo in ospedale, dove, come detto, il suo cuore ha cessato di battere per sempre. La salma è stata trasferita all’obitorio, dove il medico legale, la dottoressa Monica Fonzo, ha proceduto alla visita esterna su incarico del sostituto procuratore Marcella Pizzillo. Disposta l’autopsia, che sarà eseguita nei prossimi giorni. L’esame servirà a stabilire la causa del decesso e a far luce sulla vicenda, così come chiedono i familiari del 65enne, assistiti dall’avvocato Claudio Fusco. Il nome di Donato Gagliarde era rimbalzato all’onore delle cronache nel 2010, quando era stato arrestato con l’accusa di aver cercato di strangolare la cognata, stringendole un tubo di gomma al collo. Lui si era difeso sostenendo di averle solo dato qualche schiaffo, e di non aver mai avuto l’intenzione di ucciderla. Tornato in libertà, era stato successivamente condannato a 2 anni e 8 mesi, una pena entrata in esecuzione alcuni mesi fa. Salerno: l’incubo del reparto detenuti all’Ospedale "Ruggi" di Brigida Vicinanza Cronache del Salernitano, 13 gennaio 2017 La lettera di Ettore Iovine, ricoverato per l’operazione di una ghiandola tumorale: "Condizioni igienico-sanitarie pietose e solo 1 litro di acqua al giorno". "Spero che questa mia denuncia possa arrivare al medico provinciale. Sto scontando la mia pena in carcere, ma non è giusto essere trattati così". Sangue sui muri, polvere ovunque e nemmeno la possibilità di guardare fuori dalla finestra. È l’incubo vissuto da uno dei detenuti del carcere di Fuorni, ricoverato per un’operazione al Ruggì, nel reparto detenuti. E ora Ettore vuole denunciare il trattamento riservategli affinché chi si troverà nella sua stessa situazione possa essere trattato diversamente e sicuramente meglio. Un appello preciso, scritto di pugno, a mano. Una lettera che sperava potesse essere letta e pubblicata e potesse finalmente arrivare la "pulce nell’orecchio" a chi di dovere. "Sono Ettore lovine e sono detenuto presso la Casa Circondariale di Fuorni Salerno, sono ristretto alla II sezione, da circa 3 anni, scrivo a voi del giornale con la speranza che possiate pubblicare questa mia lettera per portare a conoscenza tutti i salernitani e non, e anche a chi ha l’obbligo morale e istituzionale di garantire i diritti dell’uomo e nel mio caso di detenuto. Inizio col raccontarvi la mia brutta esperienza, forse sarebbe più giusto dire crudele esperienza, visto che già stare chiuso dietro le sbarre non è una bella esperienza, ma è solo sofferenza - scrive Ettore - dopo quasi nove mesi di attesa per ricevere un ricovero per un’operazione di una ghiandola (tumore), oggi ancora benigno fortunatamente, ma che un domani potrebbe peggiorare, sono stato trasferito presso la sezione detentiva dell’ospedale San Giovanni di Dio e Ruggi d’Aragona qui a Salerno, comunque gestito dal penitenziario per il ricovero di pochi giorni tale da prepararmi all’operazione da effettuare subito dopo le feste natalizie. Da parte mia, già conoscendo il luogo dove andavo e in virtù del fatto che si tratta di salute non ho voluto rifiutare, ma premetto che già tutte le persone (i detenuti che ci erano già stati) mi avevano anticipato che era un posto squallido e invivibile, però poi solo quando sono arrivato ed entrato in cella, sedi di cella si può parlare". Poi Ettore continua nella descrizione: "Le mura bianche imbrattate di macchie di sangue delle zanzare spiaccicate da mesi, accumuli di polvere che scendono dal soffitto, il tempo che sono stato rinchiuso, più o meno dieci ore mi ha procurato prurito su tutto il corpo, per questo ho preferito dimettermi, come dire un castello per una fogna. Se ci fosse forse la possibilità di poter pulire e disinfettare ci sarei rimasto, ma in cella non avendo neanche un lavabo con acqua corrente e privo di ogni oggetto sanitario era così evidente una grave carenza igienico sanitaria, che per poter usare il bagno all’esterno della cella devi chiamare l’agente di polizia penitenziaria, aspettare che apra la cella, attende che tu finisci, rimane sull’uscio della porta. Continuo con dirvi che non c’è luce naturale, visto che i vetri delle finestre sono ricoperti da carta per impedire di vedere fuori. Tutto questo è l’opposto di quello che dice la Costituzione. Se poi si possono chiamare finestre quando non si possono aprire non saprei, pochi i centimetri aperti nella parte superiore, per questo non c’è circolazione d’aria naturale, in parole povere è un vero luogo di tortura anticostituzionale. La giornata pare non finisca mai, non avendo accesso a nessun tipo di svago, ne televisore, ne radio, ne cartoline per corrispondenza e per un fumatore come me, neanche la possibilità di sfogare lo stress provocato da tutto ciò fumando una sigaretta, per non parlare poi del vitto giornaliero che non prevede più di un litro d’acqua al giorno. Due bottigliette una a pranzo e l’altra a cena, mentre la necessità di liquidi giornaliera è di più di due litri. Credo, penso, che anche se mi ritrovo detenuto o meglio condannato a pagare la mia pena perdei reati, per tante persone non sarò un cittadino modello, ma ciò non vuoi dire che per un tratta mento sanitario riguardante una patologia alquanto seria e anche delicata, trovo inopportuno che noi detenuti veniamo discriminati dal sistema sanitario e costretti a subire questo genere di umiliazioni da parte di dovrebbe tutelare la nostra salute, non condivido che oggi siamo nel 2016-2017 non ci sia un posto idoneo dove ricoverare chi ha bisogno di determinate cure. Spero non solo per me, ma anche per altri che un domani ne avranno bisogno, le autorità competenti, compreso il Dirigente Sanitario il dottore Giovanni Di Cunzolo, possano intervenire per migliorare questo che oggi si può solo definire con due sole parole: "indecente, impietoso". Infine Ettore ha concluso: "Chiedo scusa se mi sono dilungato troppo con questo mio scritto, ma una causa del genere deve essere divulgata a trecentosessanta gradi. Questo per me/noi è l’unico modo che abbiamo per farlo. Vi prego di attivare la vostra disponibilità e spero che questa nostra richiesta, possa arrivare fino al medico provinciale, il quale come prevede la nostra Costituzione dovrebbe visitare almeno un paio di volte l’anno gli istituti di prevenzione e di pena allo scopo di accertare lo stato igienico sanitario". Napoli: le carceri di Poggioreale e Secondigliano sono sovraffollate di Marco Carboni Roma, 13 gennaio 2017 Sono quelle campane le carceri più affollate in assoluto dopo la Lombardia con 6.887 detenuti, di cui 331 donne. È quanto emerge dai dati presentati dal garante campano per i detenuti, Adriana Tocco. "Fare nuove carceri non serve - dice la Tocco - piuttosto occorre incrementare misure alternative. Parliamo di un aspetto anche culturale ma non si è molto inclini a dare misure alternative. Il sovraffollamento rispetto a prima è diminuito". Le situazioni a maggior rischio. Quattro le situazioni difficili: Poggioreale, Sant’Angelo dei Lombardi, Benevento e Napoli Secondigliano. In Campania, un detenuto su 7 è straniero: sono 907, in totale. Gli stranieri in carcere provengono principalmente dall’Europa dell’Est e dal Maghreb, in particolare da Marocco, Albania, Romania e Tunisia. Poco più della metà dei detenuti campani sono stati condannati a seguito di sentenza definitiva. Alto anche il tasso di recidiva, pari al 60 per cento "ma il dato è quasi pari allo zero - spiega il garante dei detenuti -se si considerano i minori accolti nelle comunità. Il problema del reinserimento esiste ma riguarda da vicino il mercato del lavoro". Le attività nei penitenziari. La stessa Tocco spiega che "Nisida ci ha chiesto un corso dì educazione alla genitorialità perché detenuti molto giovani sono già genitori dì bambini di 5 e 6 anni e allora serve far capire qual è la responsabilità di un genitore, non so se ci si riuscirà, ma questa è stata la richiesta de! direttore del carcere. Abbiamo fatto la mostra del mercato dell’artigianato in carcere e abbiamo potuto vedere che alcune attività hanno prodotto degli oggetti che sono stati venduti. Noi come ufficio del garante dei detenuti abbiamo organizzato i corsi di cucito creativo. Questo tipo di attività va incrementato. Ora devono ripartire i corsi di formazione professionale e sta per aprire una pizzeria a Poggioreale che, dopo un primo periodo di rodaggio, potrebbe aprirsi anche all’esterno". Il problema della droga. La garante per i detenuti sottolinea anche che "la maggior parte dei detenuti campani è in carcere per droga. Sia in articolo 73 ossia per modica quantità sia il 74 che prevede l’aggregazione. Seguono i detenuti per furto. Mi raccontavano che se quando vai a comprare la droga non puoi pagarla ti chiedono di fare uno scambio e di procurargli altre cose, da qui i furti". Alla domanda sulla liberalizzazione delle droghe leggere la Tocco replica: "Sono favorevole alla liberalizzazione della droga leggera che taglierebbe le gambe a un mercato enorme". L’idea del polo universitario. Poi anche una proposta: "Vorrei tentare di creare un vero polo universitario, all’interno delle carceri per dare la possibilità di una laurea triennale per esempio per fare gli infermieri. E un’idea che abbiamo lanciato con alcuni amici che lavorano nella facoltà di medicina. Il direttore di Poggioreale si è detto entusiasta. Inoltre l’assessore regionale alla Formazione Marciani, si è impegnata durante il pranzo di Natale proprio ad avviare la formazione in ogni carcere campano. Fino al 2015 la formazione sì è fatta a salti, adesso ho chiesto di incontrare anche il responsabile e il direttore di Poggioreale perché penso che bisogna indirizzare gli enti per fare formazione mirata. Andiamo sul pratico, sui mestieri che i detenuti potrebbero lare uscendo. Chi vuole continuare gli studi può farlo. La Regione ha i soldi per la formazione professionale e un detenuto che esce formato e con un lavoro e una sicurezza". Il garante ha, inoltre, spiega che annualmente il lavoro che svolge come ufficio ha un costo di 30mila euro. Per i progetti, finanziati nel 2012 e 2013 la somma messa a disposizione dalla Regione è stata di 200mila euro. Dal 2013 in poi non ci sono stati altri finanziamenti". Infine: "Stiamo lavorando per l’istituzione degli spazi gialli, ossia i luoghi per i figli dei detenuti. Si sta aprendo uno spazio giallo a Poggioreale con l’attrezzatura fornita dalla chiesa e libri da noi. Lo stesso avverrà a Santa Maria e Carinola mentre a Benevento". Matera: l’Ugl denuncia "carcere a doppia mandata per neve" di Franco Martina giornalemio.it, 13 gennaio 2017 Per la Casa circondariale di Matera la nevicata dell’Epifania, stante alla denuncia del segretario della Ugl Polizia Penitenziaria di Basilicata, Giovanni Grippo, ha portato in dono una ulteriore barriera di isolamento. Le istituzioni, a vari livelli, sarebbero rimaste insensibili alle difficoltà della realtà penitenziaria in relazione alle diverse esigenze istituzionali di movimentazione dei reclusi e degli agenti. Una situazione, quella del mancato intervento, legata a competenze, anche alla peculiarità e alle pertinenze del luogo. Sta di fatto che Ugl elenca disagi e chiederà alle Istituzioni, Prefetto e Provveditorato di Puglia e Basilicata (Prap) di riservare maggiore attenzione sui problemi segnalati affinché non si ripetano queste situazioni di disagio, dando atto dell’alto senso di responsabilità del personale costretto a operare in condizioni difficili. "Quanto accaduto nella città di Matera, nello specifico in via Cererie dove si trova l’Istituto Penitenziario, ha del paradossale: 170 detenuti e un centinaio di dipendenti tra poliziotti penitenziari e personale civile, lasciati all’abbandono totale. Dal giorno 6 gennaio, ricorrenza dell’Epifania e a seguire, l’Istituto è rimasto totalmente isolato per causa neve". Dura è la denuncia del segretario dell’Ugl Polizia Penitenziaria Basilicata, Giovanni Grippo per il quale, "per assicurare la viabilità per eventuali emergenze come ricovero in ospedale, traduzioni urgenti di detenuti, accettazione di eventuali nuovi giunti arrestati da altre forze dell’ordine, l’Istituto non doveva essere lasciato isolato dal resto della città. Grave, grave - tuona forte e chiaro il segretario Ugl, Grippo, è da tempo che si discute della proprietà del perimetro esterno per interventi legati alle calamità naturali, ogni volta che nevica è un problema serio per chi deve intervenire per la pulizia del manto stradale e lo spargere del sale: gli Enti Istituzionali si defilano ritenendo che non è loro compito intervenire, l’Amministrazione penitenziaria non è dotata di mezzi idonei a far fronte a tali emergenze. Queste problematiche, chi ne subisce è il personale di Polizia Penitenziaria e civile. L’utenza detentiva è isolata dal resto del mondo: all’interno della mensa, tutti hanno dovuto lavorare e consumare pranzi e cene con una temperatura a - 2°. Ad aumentare le difficoltà logistiche e operative è stata la carenza del personale da tempo sottorganico e, dall’Ugl da sempre denunciato. Ci si è trovati con personale assente impedito a raggiungere la sede di lavoro per la causa neve, il personale restante e del luogo ha prolungato i turni oltre le dodici ore e se non fosse stato per l’impegno di poliziotti e detenuti lavoranti che hanno spalato neve e sparso sale, non ci sarebbe stata via d’uscita per nessuno. Non possiamo che rimarcare, l’unica nota di conforto ossia che il direttore dell’Istituto, Dott. Michele Ferrandina ha pernottato in Caserma per ben due notti consecutive dando un senso di sicurezza ed al quale va un sentito ringraziamento da tutti. Di contro si resta amareggiati ed indignati del mancato intervento da parte delle Istituzioni Materane, precisando e ricordando che gli obbiettivi sensibili come il carcere, caserme delle forze dell’ordine, ospedale, scuole e guardie mediche, sono i primi ad essere resi accessibili e funzionali a tutta la popolazione. Rivolgiamo un appello al Prefetto e al Prap Puglia/Basilicata - conclude Grippo - affinché tali disfunzioni non si ripetano più dando atto all’operato della Polizia Penitenziaria che con sacrificio e abnegazione, ha dovuto far fronte a turni continuativi e massacranti rimanendo lontano dalle proprie famiglie ed assicurando la loro presenza in istituto". Taranto: Sappe; chiusa la mensa degli agenti "alimenti scadenti" Gazzetta del Mezzogiorno, 13 gennaio 2017 "Evitata una intossicazione di massa dei poliziotti penitenziari in servizio presso il carcere di Taranto a seguito dell’intervento degli ispettori dell’ufficio igiene e dei Nas su richiesta dei vertici del carcere che, dopo un controllo nei locali dove si preparano i pasti a cura della ditta Marconi Group, hanno constatato la presenza di moltissimi alimenti mal conservati ed in pessimo stato". È quanto denuncia Federico Pilagatti, segretario nazionale del Sappe (Sindacato autonomo di polizia penitenziaria). I locali della mensa "sono stati chiusi - aggiunge - e il servizio è stato immediatamente sospeso. Ci è stato inoltre riferito che i Nas che avrebbero sequestrato decine di chilogrammi di derrate alimentari avariate oppure mal conservate". Il Sappe ritiene "a questo punto incompatibile - conclude Pilagatti - qualsiasi rapporto con la ditta appaltatrice dopo quanto accaduto a Taranto, e chiede espressamente al Provveditore Regionale, così come prevede il contratto, la rescissione immediata poiché è venuta meno la fiducia. Tutti i poliziotti penitenziari di Taranto hanno comunicato che non si recheranno più a consumare un pasto finché verranno preparati dalla ditta in questione". Vasto (Ch): i Sindacati "nel carcere personale al lavoro senza riscaldamento" cityrumors.it, 13 gennaio 2017 Al lavoro al freddo e al gelo con disagi che si acuiscono nelle ore notturne anche per il mancato funzionamento dell’impianto di riscaldamento in particolare nei settori del piano terra. A lamentarsi sono gli agenti della Polizia penitenziaria in servizio nel carcere di Torre Sinello a Vasto che denunciano le difficili condizioni di lavoro in una nota congiunta dei sindacati Sappe, Osapp, Fns Cisl e Cnpp. "Il personale della Casa lavoro di Vasto - evidenziano le sigle di categoria - in questi giorni di freddo intenso sta operando in condizioni estreme e disagiate, che comunque non paiono trovare adeguate soluzioni da parte delle figure di riferimento dell’istituto stesso. Questa situazione, sta comportando una intensificazione delle lamentele e delle oggettive difficoltà di lavoro per il personale che opera presso la struttura". Le organizzazioni sindacali ricordano che dallo scorso 28 dicembre è stato proclamato lo stato di agitazione del personale e contestualmente ritirato le delegazioni sindacali. Maltempo che ha aumentato "le condizioni di disagio estremo che deve affrontare il personale, nonostante l’allerta meteo e a causa delle copiose nevicate e le ondate di vento freddo che si sono susseguite dal 6 u.s., è quello non sono stati posti in essere i dovuti interventi al fine limitare le difficoltà di chi deve raggiungere l’Istituto". Viene auspicato "l’intervento repentino ed incisivo del provveditore regionale dott.ssa Cinzia Calandrino verso l’attuale dirigenza affinché si prestino le giuste iniziative per la risoluzione delle problematiche segnalate, al fine di avere un’azione che renda accettabili le condizioni lavorative, almeno quando ci sono avvisi di allerta meteo". Della situazione è stato edotto anche il prefetto di Chieti Antonio Corona "al fine di far valutare se vi siano stati tutti gli interventi dovuti, circa la situazione emergenziale rappresentata dai lavoratori della Casa lavoro di Vasto, con particolare riferimento alle difficoltà conseguenti all’assenza di interventi circa la percorribilità regolare del tratto stradale che collega l’istituto". Reggio Calabria: donati alle carceri oltre 1.000 libri, in memoria dell’On. Franco Quattrone strill.it, 13 gennaio 2017 Giuseppe e Maria Francesca Quattrone, figli di Franco Quattrone, avvocato docente universitario e politico calabrese, che il 13 gennaio avrebbe compiuto 76 anni, hanno donato questo Natale a diversi case di reclusione calabresi (Carcere di Reggio Calabria, Casa di Reclusione di Laureana, Carcere di Locri) in favore dei detenuti, la preziosa e ricca biblioteca personale paterna. Si tratta di oltre 1.500 libri tra romanzi, testi di letteratura italiana e straniera, testi sacri, diverse biografie di politici e storici e saggi di autori noti a livello internazionale. Franco Quattrone è scomparso a 71 anni lo scorso 2 novembre 2012. È stato un noto politico calabrese. Sin dall’età di 19 anni con il padre dott. Giuseppe Quattrone poi divenuto Sindaco della Città di Reggio Calabria, ha iniziato la sua carriera politica per divenire assessore e consigliere comunale, a soli 30 anni Presidente degli Ospedali Riuniti di Reggio Calabria, deputato ed esponente di spicco della Democrazia Cristiana, sottosegretario di Stato alla funzione pubblica, lavoro, sanità e presidenza del consiglio per diverse legislature, Presidente della Camera di Commercio di Reggio Calabria. Da sempre appassionato alla politica e politico per vocazione, venne coinvolto ingiustamente in diversi processi nel 92, circa 17, dai quali - tutti - è stato assolto nonostante abbia subito 13 mesi di carcerazione preventiva. La Corte di Strasburgo nel ripercorrere e confermare l’irragionevole durata dei processi e l’ingiusta detenzione a suo carico, ha riconosciuto con sentenza del novembre 2013 anche le lungaggini dei procedimenti della legge Pinto emettendo sentenza di condanna verso lo Stato Italiano. Sentenza che, tuttavia, a causa della sua prematura scomparsa, hanno potuto leggere solo i figli. "Ci sembrava il giusto tributo in memoria di nostro padre. Chi lo conosceva a fondo sapeva quanto affamato di sapere e di cultura fosse. Sin da bambina ricordo che nei viaggi in aereo fatti assieme iniziava un testo appena acquistato magari in edicola ed arrivati allo scalo romano, lo aveva già finito. A me sembrava incredibile - afferma la figlia Maria Francesca - e nel mio piccolo cercavo di emularlo perché da sempre ci invitava alla lettura regalandoci i classici. Dei giornali quotidiani che comprava minimo 5/6 al giorno, alla nostra domanda papà ma come fai a leggerli tutti? Rispondeva, occorre farsi un’opinione e poiché i giornali spesso le esprimono difformi sui medesimi fatti, meglio farsi una opinione propria. Se non riesci - diceva - almeno leggi tutti i titoli per essere aggiornata e soffermati invece su quelli che destano la tua curiosità. I libri di lettura di ogni genere erano sempre sul suo comodino in pile alte come grattacieli, ed ogni giorno era il turno di uno, prima di riposare dopo pranzo o prima di andare a letto dopo cena. L’estate poi li comprava a vagoni e li portava in viaggio o alla sua casa adorata del mare a Scilla dove si recava in vacanza con la moglie Cettina. Abbiamo però censito tutti i testi in modo da consegnare una biblioteca ordinata e catalogata per autore. Nel fare questo lavoro bellissimo, ma anche doloroso emotivamente abbiamo rintracciato testi e dediche a lui che conserviamo gelosamente, da Andreotti ad Enzo Scotti, da scrittori come Sciascia al nostro caro amico giornalista Gregorio Corigliano. Crediamo molto nel ruolo rieducativo delle istituzioni verso il detenuto condannato e crediamo che ciascuno di noi possa nel suo piccolo aiutare coloro che vivono in una situazione di restrizione della libertà personale. La privazione più forte (dopo la mancanza) che possa esistere per l’essere umano quella che, a torto come nei casi di ingiusta detenzione o a ragione, come per i condannati definitivi, ti priva della tua vita e soprattutto ti allontana forzatamente dai tuoi affetti. Occorre allora trovare un modo per alleviare le sofferenze di queste persone o per dare loro modo di trovare la forza o di viaggiare con la mente ed uscire da un mondo solo a righe. Papa Francesco di recente ha detto rivolgendosi ai detenuti "non lasciatevi rinchiudere nel passato, anzi trasformatelo in cammino di crescita". Ecco, insieme alla Fede di qualunque religione essa sia, forse la crescita dell’uomo può essere in qualche misura confortata e supportata dalla lettura di testi. La scelta di donare questa preziosa biblioteca alle carceri viene dalla certezza che nostro padre l’avrebbe condivisa, sia per sua indole generosa ed altruista, sia per aver vissuto egli stesso e noi tutti il dramma della privazione della libertà. Dramma ancor più forte se nella consapevolezza dell’innocenza. L’archiviazione è stata resa possibile grazie ad amici personali e fraterni come la dottoressa Katia Marcianò che ha curato la catalogazione e la dottoressa Maria Antonia Belgio Presidente della Lidu che ha fatto da tramite con alcune strutture carcerarie. Ringraziamo da ultimo, ma per prime personalmente le Direttrici delle carceri di Reggio Calabria dottoressa Maria Carmela Longo, la dottoressa Angela Marcello della Casa di Reclusione di Laureana e la dottoressa Patrizia Delfino del Carcere di Locri che hanno accettato la nostra donazione. Tramite l’accoglienza di questi testi nelle loro strutture auspichiamo di aver regalato ai detenuti qualche ora di serenità per la costruzione di un futuro che esiste. Lecce: il progetto "Giallo, rosso e blu. I bambini colorano Borgo San Nicola" fondazioneconilsud.it, 13 gennaio 2017 Nel carcere di Borgo San Nicola di Lecce non esistono sale d’attesa. Spesso un bambino aspetta più di mezz’ora per poter vedere suo padre o sua madre, insieme ad altre decine di persone e a tanti altri bambini. Sono infatti mediamente tra i 250 e 300 i figli dei detenuti nel carcere leccese. Con il progetto "Giallo, rosso e blu. I bambini colorano Borgo San Nicola" saranno proprio loro, insieme ai genitori, a creare uno spazio dedicato e protetto, in cui attendere l’incontro e in cui passare del tempo insieme. Parteciperanno infatti, sotto forma di gioco, alla ristrutturazione di alcune aree del carcere che saranno adibite a sale per le visite dei figli ai genitori detenuti. L’iniziativa - che è sostenuta da Fondazione Con Il Sud, Compagnia di San Paolo, e Fondazione Cariplo attraverso il Bando Infanzia, Prima - è promossa dall’Associazione Fermenti Lattici in collaborazione con altre organizzazioni locali. Oltre alle attività per facilitare il rapporto dei detenuti del carcere di Borgo San Nicola con i propri figli, il progetto permetterà di realizzare altre iniziative tra le mura della casa circondariale. Tra queste, la creazione di un gruppo di genitori che si occuperà della gestione della biblioteca, il teatro, la cura di un orto, un laboratorio di musica. Anche nel carcere di Benevento si sperimenta la bellezza del "fare" insieme, superando l’esclusione sociale attraverso la passione per l’arte. Grazie al lavoro di Daniele, Emanuele, Francesco e Gedy, oggi la Chiesa di San Modesto è abbellita da nuove vetrate realizzate nel corso del laboratorio di arte sacra nell’ambito del progetto "Liberare la pena", sostenuto dalla Fondazione Con Il Sud e promosso da Fondazione Opus Solidarietatis Pax Onlus in collaborazione con un’ampia partnership di istituzioni, associazioni, organizzazioni locali. Esperienze che diventano strumenti di riscatto; occasioni per ripartire come avviene anche per i detenuti che partecipano ai laboratori per la realizzazione di paramenti sacri e di ostie. Un lavoro che è stato presentato lo scorso 6 novembre anche a Papa Francesco, in occasione del Giubileo dei Carcerati. Rovigo: Accademia dei Concordi; arte e fiabe dei detenuti, più il video premiato Rovigo Oggi, 13 gennaio 2017 Scritto dagli ospiti della Casa circondariale di Brindisi, il libro "Peter Pan e l’isola dei sogni" verrà presentato lunedì 16, assieme al video arte danza "Il mio grido". Lunedì 16 gennaio, alle ore 17.30, all’Accademia dei Concordi verrà presentato il libro "Peter Pan e l’isola dei sogni", rivisitazione della fiaba originale di J.M. Barrie, scritto dai detenuti del carcere di Brindisi e prodotto dalla Alpha Ztl, compagnia d’arte dinamica. Il libro è illustrato ed accompagnato da un dvd contenente un audiolibro, video arte documentario e foto, il tutto tradotto anche in lingua inglese. L’audiolibro è stato musicato da due musicisti rodigini. In tale occasione verrà trasmesso anche il video arte danza "Il mio grido", realizzato con i detenuti del carcere di Rovigo e ora rappresentato a livello mondiale in festival di arte contemporanea, cinema e video arte. Non solo un libro, musicato da due rodigini, ma anche la trasmissione del video arte realizzato 6 anni fa dai detenuti della casa circondariale di Rovigo, ora famoso in tutto il mondo. L’occasione per assistere ad entrambi, è proprio quella della presentazione di questo libro, accompagnato da un audiolibro, video arte documentario e foto, realizzato con la collaborazione dei detenuti della casa circondariale di Brindisi. Libro che verrà presentato in Accademia dei Concordi lunedì 16 gennaio. Il libro, dal titolo "Peter Pan e l’isola dei sogni", contiene anche un dvd audiolibro nel quale le voci di Marcello Biscosi e Norman Douglas Harvey leggono la fiaba, riadattata dai detenuti, con le musiche originali del compositore Nicola Rigato e l’ambientazione audio di Simone Pizzardo e contiene anche le voci dei detenuti che leggono parti del testo della fiaba originale. Il video arte dal titolo "Peter Pan Syndrome", con la regia del coreografo brindisino Vito Alfarano, da spazio ad una visione artistica della Sindrome di Peter Pan. Vito Alfarano, con la Compagnia di danza rodigina Fabula Saltica e assieme a un gruppo di artisti rodigini, ha svolto i laboratori nella Casa Circondariale di Rovigo dal 2008 al 2010 realizzando vari progetti tra cui il video arte danza "Il mio grido". Il video ha ricevuto una menzione speciale dal già Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ed è stato selezionato e programmato in numerosi festival di arte contemporanea, festival di cinema e video arte in tutto il mondo. "Il mio grido" verrà trasmesso a distanza di sei anni a Rovigo in tale occasione. Il ricavato del libro darà la possibilità alla AlphaZTL Compagnia d’Arte Dinamica di continuare a svolgere la sua attività sociale e culturale. Migranti. Corridoi umanitari, la Cei firma il Protocollo di Pino Ciociola Avvenire, 13 gennaio 2017 Grazie all’intesa con Viminale e Farnesina, potranno entrare in Italia 500 profughi eritrei, somali e sud-sudanesi. Permetterà l’arrivo in Italia, nei prossimi mesi, di 500 profughi eritrei, somali e sud-sudanesi, fuggiti dai loro Paesi per i conflitti in corso, il "Protocollo tecnico" siglato stamane dalla Conferenza episcopale italiana (che agirà attraverso Caritas italiana e Fondazione Migrantes) con il segretario generale, monsignor Nunzio Galantino, e la Comunità di Sant’Egidio con il suo presidente, Marco Impagliazzo, il sottosegretario all’Interno Domenico Manzione e il direttore delle politiche migratorie della Farnesina, Cristina Ravaglia, per lo Stato italiano. "Troppo spesso ci troviamo a piangere le vittime dei naufragi in mare, senza avere il coraggio poi di provare a cambiare le cose" ha spiegato monsignor Galantino. Questo Protocollo consentirà un ingresso legale e sicuro a "donne, uomini e bambini che vivono da anni nei campi profughi etiopi in condizioni di grande precarietà materiale ed esistenziale". La Chiesa Italiana "si impegna nella realizzazione del progetto facendosene interamente carico, grazie ai fondi dell’8 per mille - ha continuato il segretario della Cei, senza quindi alcun onere per lo Stato italiano. Attraverso le diocesi accompagnerà un adeguato processo di integrazione ed inclusione nella società italiana". Secondo il fondatore della Comunità di Sant’Egidio, Andrea Riccardi, "questo accordo per nuovi corridoi umanitari, che siamo felici di realizzare con la Cei, risponde al desiderio di molti italiani di salvare vite umane dai viaggi della disperazione". L’Etiopia, stando all’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati (Unhcr), oggi è il Paese che accoglie il maggior numero di rifugiati in Africa, più di 670mila persone: un afflusso dalle dimensioni tanto ampie determinato da molte ragioni, per ultima la guerra civile in Sud Sudan scoppiata nel dicembre 2013. Emergenza gelo, è allarme per la vita dei migranti di Carlo Lania Il Manifesto, 13 gennaio 2017 Bloccati in Grecia e Serbia. Allarme in particolare per bambini e neonati. A rilanciare per l’ennesima volta l’allarme è stata l’Unhcr, sottolineando come le condizioni dei profughi confinati sulle isole dell’Egeo siano rese impossibili da settimane dall’ondata di gelo che ha colpito la Grecia e i Balcani. "Chiediamo al governo greco di trasferirli al più presto sulla terra ferma", ha sollecitato l’agenzia dell’Onu, senza però aver ricevuto sinora una risposta. Alloggiati in tendopoli o in bungalow buoni più per i soggiorni estivi dei turisti che per fronteggiare le basse temperature di questi giorni, oppure ammassati in centri di accoglienza ridotti allo stremo per il sovraffollamento, migliaia di uomini, donne e bambini sono costretti da settimane a farsi largo nelle strade ghiacciate, circondati da fango e neve e affidandosi all’aiuto offerto dalle tante ong che da giorni distribuiscono coperte e abiti pesanti. Una situazione giudicata "insostenibile" da una portavoce della Commissione europea, ben attenta però a mettere in chiaro di non potere né volere interferire nelle scelte della Grecia. "Sta ad Atene garantire l’accoglienza adeguata", ha detto la portavoce. Secondo le stime ufficiali attualmente in Grecia ci sarebbero 62 mila profughi, quasi tutti siriani, 15 mila dei quali si trovano sulle isole dell’Egeo. Le condizioni di vita più dure si registrano a Lesbo, dove nei giorni scorsi alcuni migranti alloggiati nel campo di Moria sono stati trasferiti in alberghi della zona. Il governo ha inviato anche una nave da guerra attrezzata con letti, coperte e stufe in grado di poter accogliere 500 persone. L’operazione, però, procede a rilento a causa della diffidenza mostrata dai rifugiati, contrari a salire a bordo nel timore di essere trasferiti in altre isole o addirittura in Turchia, paese dal quale sono partiti. Perdipiù a molti non è proprio piaciuta la scelta di inviare una nave da guerra per soccorrere chi è fuggito da un conflitto. "Perché non hanno usato un traghetto?", ha chiesto un cooperante intervistato dalla agenzie di stampa greche. Seppure situazioni di difficoltà non mancano neanche nei campi allestiti nel nord del paese, il governo greco non sembra per ora intenzionato a fare quello che ai più sembra essere la soluzione più ovvia, vale a dire portare via i rifugiati dalle isole sistemandoli in strutture sulla terra ferma. Una determinazione che sarebbe dettata da Bruxelles e dagli stati membri dell’Unione europea, che preferirebbero sapere i migranti bloccati sulle isole nel timore che - una volta sulla terra ferma - possano proseguire verso il nord Europa. Ma anche per le restrizioni poste dalla Turchia, con la quale da marzo del 2016 esiste un accordo per fermare le partenze ma disposta a riprendere indietro solo quanti, approdati sulle isole dell’Egeo, non le abbiano mai lasciate. Come al solito a pagare il prezzo più alto sono i più deboli, le donne e i bambini. Questi ultimi soprattutto, per i quali Save the Children ha richiamato l’attenzione per le pesantissime condizioni in cui sono costretti a vivere non solo in Grecia ma in tutti i Balcani. "Insieme ai neonati sono i più vulnerabili tra la popolazione intrappolata e senza accesso ad alcuna fonte di calore o nessun riparo e sono particolarmente esposti all’ipotermia", ha detto l’organizzazione. Condizioni drammatiche che ovviamente riguardano tutti i migranti, ma che vede nei piccoli rifugiati, molti dei quali viaggiano soli, i soggetti più a rischio. "Se non si interviene tempestivamente - avverte Save the Children - decine d migranti e soprattutto bambini, rischieranno la morte per congelamento". Un’emergenza che oltre la Grecia riguarda in modo particolare la Serbia, paese nel quale, secondo Medici senza frontiere, si troverebbero almeno 8.500 migranti. L’organizzazione ha contato 6 mila i posti disponibili nei centri di accoglienza allestiti dal governo, ma di questi - avverte - solo 3.140 sono attrezzati per l’inverno. Nella capitale Belgrado - dove da una settimana le temperature oscillano tra i meno 15-20 gradi della notte e delle prime ore del mattino ai meno 8-10 nel corso della giornata - almeno 2.000 migranti vivono in magazzini abbandonati. Tra di loro abbondano i casi di infezioni respiratorie e malattie della pelle dovuti proprio alle temperature rigide, mentre sono sette i casi di ipotermia che Msf ha curato insieme a Medicines du Monde. Ieri ad Atene e sulle isole per qualche ora si è fatto vedere un sole tiepido, ma le previsioni annunciano per la prossima settimana un peggioramento delle condizioni meteorologiche. "Ci sarà un’ulteriore diminuzione delle temperature e siamo molto preoccupati per quanto potrebbe accadere", ha comunicato l’Unhcr. I cittadini francesi che sfidano la giustizia per soccorrere i migranti irregolari di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 13 gennaio 2017 Mentre l’ondata xenofoba anti immigrati si alza sempre più alta, in Europa si assiste al diffondersi del fenomeno contrario, quello di chi a rischio della propria fedina penale aiuta i migranti "irregolari" a passare le ormai blindate frontiere del vecchio continente. Si tratta di semplici cittadini, contadini, professori, studenti, che cercano di intervenire lì dove le autorità latitano. Una direttiva europea del 2002, la Facilitation Directive, afferma il principio per cui chi aiuta "un migrante irregolare a entrare in Europa o durante il suo viaggio all’interno dei confini dell’Unione sta violando la legge" mettendo sullo stesso piano scafisti e operatori umanitari, per questo le autorità possono procedere con arresti e denunce. Un caso è quello di Cedric Herrou, un coltivatore di ulivi francese della Val Roia, al confine tra Italia e Francia. Herrou è accusato di aver aiutato a passare il confine duecento migranti senza documenti regolari, e di aver sfamato e offerto riparo a 57 di loro. La pena ipotizzata è pesante: 5 anni di prigione e circa 30mila euro di multa. Il processo è iniziato il 4 gennaio a Nizza e si attende la metà di febbraio per la sentenza. Il gesto di Herrou ha ottenuto la solidarietà di molte persone in Francia, dove si è aperto il dibattito sui cosiddetti "reati di solidarietà". La ricercatrice Jennifer Allsopp, del Refugee Studies Centre dell’università di Oxford, ha messo in evidenza come sia in atto una tendenza che criminalizza operatori e cittadini che si organizzano, e lo dimostra la nascita di alcune associazioni come Roya citoyenne o Habitat et citoyenneté. L’unica soluzione, fino ad oggi, è quella di tenere costantemente allertata l’opinione pubblica e una conseguente protezione legale dato che, come lo stesso Herrou ha affermato, "se dobbiamo infrangere la legge per difendere le persone lo faremo". Una dichiarazione di principio, sostanziata da gesti concreti come quello di Pierre- Alain Mannoni, un insegnante processato ma in seguito assolto dal tribunale di appello sempre a Nizza. Anche per Mannoni l’accusa era quella di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina dopo che, nel novembre 2016, era stato fermato a Mentone con tre donne eritree nella sua vettura: subito è scattato un procedimento penale che lo ha condannato a sei mesi di carcere, ma il 6 gennaio i giudici hanno stabilito che aiutare a scopo umanitario non può essere soggetto ad una sanzione penale. Una decisione importante che riconosce in qualche modo l’azione di chi aiuta i migranti e, come ha commentato Mannoni dopo il suo rilascio: "una vittoria per tutte quelle persone che hanno bisogno di aiuto". Non per tutti, però, c’è un esito positivo: lo ha sperimentato la professoressa in pensione Claire Marsol, condannata a dicembre dello scorso anno a pagare una multa di 1500 euro dalla Corte di Appello di Aix-en-Provence, per aver dato un passaggio alla frontiera a due ragazzi immigrati. Le segnalazioni di casi simili si stanno moltiplicando e il quotidiano inglese The Guardian ha raccontato la storia dell’attivista danese Lisbeth Zornig, sanzionata con l’ammenda di circa 3mila euro per aver assistito una famiglia siriana, e nel solo paese scandinavo sono 279 le persone accusate di violazione della legge sul "traffico di esseri umani". Ancora peggiore è la situazione dei volontari spagnoli e danesi delle organizzazioni "Team Humanity" e "Proem Aid groups" che, nel gennaio dello scorso anno, sono stati arrestati dalla polizia greca mentre prestavano aiuto ai migranti che sbarcavano sull’isola di Lesbo e ora rischiano fino a dieci anni di carcere. Intanto cresce la richiesta di introdurre negli ordinamenti dei singoli stati europei una clausola umanitaria, che impedisca a chi assiste i migranti di finire sotto processo, nella speranza che i gesti di solidarietà attiva di tanti privati cittadini inizino a mettere in crisi l’attuale atteggiamento di chiusura in molti Pesi dell’Unione Dimenticati e senza diritti, sono oltre tremila gli italiani detenuti all’estero di Marco Sarti linkiesta.it, 13 gennaio 2017 La maggior parte è incarcerata in Europa, ma molti sono rinchiusi in prigioni ben più lontane. Dall’Africa sub sahariana ai paesi sudamericani. Quasi tutti sono rinchiusi in attesa di giudizio. In molti casi privati dei diritti umani, vittime di violenze e senza assistenza. Dalle prigioni della Mauritania alle carceri venezuelane, sono oltre tremila gli italiani detenuti all’estero. Colpevoli o innocenti, spesso scontano la pena senza alcuna tutela dei diritti umani. Privati di beni di prima necessità, costretti a vivere in celle sporche e sovraffollate, non di rado vittime di malagiustizia e corruzione. Tutti protagonisti di storie dimenticate. Per avere un’idea del fenomeno basta leggere le statistiche pubblicate ogni anno dal ministero degli Esteri. Nel 2015, ultimo dato disponibile, i nostri connazionali incarcerati fuori confine erano 3.288. La maggior parte è ancora in attesa di giudizio. Ben 2.544 si trovano in Europa - 1.191 solo in Germania - ma ci sono italiani rinchiusi nelle galere di mezzo mondo. Quasi 500 persone sono nel continente americano: la Farnesina ha registrato 79 casi in Brasile, 77 negli Stati Uniti d’America, e 150 tra Perù, Argentina e Venezuela. Più di 40 sono in Medio Oriente, una decina in Asia (quasi tutti in India). E poi ci sono 15 italiani nelle prigioni dei paesi sub sahariani. Chiusi nelle celle del Senegal (5), Guinea, Congo, Ghana, Mali, Mauritania e Nigeria. Poco prima di Natale la questione è arrivata in Parlamento. La senatrice grillina Paola Donno ha presentato un’interrogazione per fare luce sul fenomeno, ricordando il dramma dimenticato di molti connazionali. Privati dell’assistenza di un legale o di un interprete, in alcuni casi. Altre volte abbandonati nella totale assenza di igiene e dignità. "I connazionali detenuti - si legge - sono esposti a diffusi episodi di contrazione di malattie a cui, però, non seguono idonee cure, anche a causa di difficoltà legate al recapito di medicinali e alla sottoposizione a visite specialistiche". Nel disinteresse generale, in questi anni c’è chi ha intrapreso una battaglia per difendere i loro diritti. Nove anni fa Katia Anedda ha fondato l’associazione "Prigionieri del Silenzio", un impegno nato da una dolorosa esperienza personale. Oggi si occupa di aiutare gli italiani detenuti all’estero. L’associazione offre un sostegno ai familiari, fa da tramite con le autorità e la Farnesina. In alcuni casi cerca persino di offrire un supporto economico, magari organizzando una raccolta di fondi. "Non entriamo mai nel merito delle vicende processuali - racconta Anedda - Non ci interessa se una persona è colpevole o innocente, è importante che vengano rispettati i suoi diritti". Purtroppo non sempre è così. Soprattutto lontano dall’Europa, le situazioni drammatiche non mancano. Ci sono casi in cui i nostri connazionali vengono privati dei beni di prima necessità, non mancano episodi di violenze e torture. Dalle prigioni della Mauritania alle carceri venezuelane, sono oltre tremila gli italiani detenuti all’estero. Colpevoli o innocenti, spesso scontano la pena senza alcuna tutela dei diritti umani. Privati di beni di prima necessità, costretti a vivere in celle sporche e sovraffollate, non di rado vittime di malagiustizia e corruzione Dopo anni di lavoro in prima linea, lo scorso ottobre Anedda ha raccontato alcune delle vicende più eclatanti in un bel libro pubblicato da Historica Edizioni. Si intitola "Prigionieri dimenticati, Italiani detenuti all’estero tra anomalie e diritti negati". Con la prefazione dell’ex ministro Giulio Terzi di Sant’Agata, tra le pagine sono riportate una dozzina di storie incredibili. E quasi sempre sconosciute. È il triste destino che accomuna quasi tutti gli italiani incarcerati all’estero. Spesso non possono contare neppure sulla presenza delle istituzioni. "In alcuni consolati ho trovato grande collaborazione - racconta Anedda - in altri nemmeno rispondono alle mail". Un silenzio che riguarda anche giornali e televisioni: "I media di queste cose non parlano, non fa notizia". Intanto queste persone sono lasciate da sole a convivere con il proprio dramma. "Gran parte dei questi detenuti - si legge nell’interrogazione depositata a Palazzo Madama - ha una famiglia residente in Italia e non ha diritto ad un supporto economico per le spese legali e di gestione da affrontare, ivi compreso un aiuto psicologico gratuito". Molti di loro sono colpevoli, certo. I reati più diffusi riguardano il traffico di stupefacenti. Ma insieme a veri e propri criminali non manca chi sta pagando per un errore o una leggerezza. Del resto, in alcuni paesi, per finire in carcere basta il possesso di pochi grammi di marijuana. "E così ti rovini la vita" racconta Anedda. In diverse realtà gli istituti di pena sono un inferno. In Sudamerica spesso è la criminalità organizzata comandare all’interno delle prigioni. Nei casi migliori i detenuti italiani sono costretti a pagare continuamente i propri compagni di cella, altre volte sono sottoposti a incredibili violenze. Molti di loro sono colpevoli, certo. I reati più diffusi riguardano il traffico di stupefacenti. Ma insieme a veri e propri criminali non manca chi sta pagando per un errore o una leggerezza. Del resto, in alcuni paesi, per finire in carcere basta il possesso di pochi grammi di marijuana In questi giorni Anedda sta seguendo il caso di un ragazzo romano incarcerato in Colombia. Era in vacanza con la moglie e la figlia di sette anni, si è lasciato coinvolgere in una storia più grande di lui. È stato arrestato all’aeroporto, mentre si imbarcava per l’Italia, in possesso di una piccola quantità di droga. "La moglie non lavora e non sa come mantenerlo - racconta - la bambina, che lo ha visto arrestare davanti ai suoi occhi, è sconvolta e ha bisogno di un sostegno psichiatrico". La presidente di Prigionieri del silenzio non si nasconde. "È giusto pagare per il reato commesso. Ma nessuno può privare una persona dei propri diritti. Non si può morire per una condanna". Per alcuni connazionali è finita davvero così. Anedda ricorda il caso di Simone Renda, un giovane leccese deceduto pochi anni fa in un carcere messicano. Arrestato in circostanze poco chiare, nonostante un principio di infarto è stato trattenuto per due giorni in cella senz’acqua, cibo e assistenza sanitaria. Non è più uscito. Un altro prigioniero del silenzio, ennesima vittima dimenticata. Stati Uniti. Detenuto giustiziato in Texas: è la prima esecuzione del 2017 Ansa, 13 gennaio 2017 Eseguita negli Stati Uniti la prima condanna a morte del 2017. A subire l’iniezione letale è stato Christopher Wilkins, 48 ??anni, condannato a morte in Texas per aver ucciso due persone nel 2005 in una vendetta legata al traffico di droga. Dichiarato morto alle 6.29 della sera, ora locale, 13 minuti dopo l’iniezione, l’uomo si è rivolto a due parenti di una delle vittime che assistevano all’esecuzione dicendo "mi dispiace". Si tratta della 539esima persona giustiziata nello Stato americano da quando nel 1976 la Corte Suprema degli Stati Uniti ha reintrodotto la pena di morte. Lo scorso anno sono state venti le condanne a morte eseguite, la cifra più bassa registrata nel Paese dal 1991. Medio Oriente. Minacciato l’attivista palestinese che filmò l’omicidio di Hebron di Riccardo Noury Corriere della Sera, 13 gennaio 2017 Imad Abu Shamsiyya, l’attivista di Hebron che filmò l’uccisione di un aggressore palestinese già ferito e inerme, per cui il 4 gennaio un tribunale militare israeliano ha condannato il soldato israeliano Elor Azaria, continua a subire minacce da parte dei coloni e dell’esercito d’Israele. Il 7 gennaio, quattro giorni dopo la condanna, un gruppo di giovani coloni ha lanciato sassi contro l’abitazione della famiglia di Imad Abu Shamsiyya (già oggetto sin dal 2015 di attentati dei coloni e di perquisizioni dell’esercito) e poi si è fermato a lungo insultando l’attivista e i suoi familiari. Il giorno successivo un soldato israeliano ha fermato e perquisito in modo aggressivo e senza alcun apparente motivo, il fratello diciassettenne di Imad Abu Shamsiyya. Le minacce erano iniziate ben prima della conclusione del processo. Una conclusione, peraltro, fortemente contestata anche all’interno delle istituzioni israeliane: in molti, dal primo ministro Netanyahu ai ministri della Cultura e dello Sport e quello dell’Istruzione, Miri Regev e Naftali Bennett, chiedono che Elor Azaria sia graziato. Il 26 agosto sulla pagina Facebook di Imad Abu Shamsiyya era apparso un post in ebraico il cui testo recitava "È tempo che tu venga ucciso. Sei una fonte di pericolo per i coloni di Tel-Rumeida", seguito dal logo del gruppo estremista di destra Kach. Più o meno contemporaneamente, in rete erano circolati un video in cui Imad Abu Shamsiyya era accusato di essere un terrorista al servizio di un’organizzazione "sospetta" (B’Tselem, la nota associazione israeliana per i diritti umani) e una foto con titolo "Ricercato" e sotto queste parole: "Cari ebrei, questo è il numero di Imad Abu Shamsiyya, il cane che ha fatto il video del soldato che uccide l’aggressore. Dobbiamo bombardarlo di telefonate e spiegargli quanto lo amiamo". Dal 28 al 30 agosto Imad Abu Shamsiyya si era presentato per tre giorni di seguito alla polizia di Hebron per denunciare quanto stava accadendo: non solo non aveva potuto presentare la denuncia ma l’ultima volta era stato anche minacciato d’arresto. Nella città vecchia di Hebron vivono 6500 palestinesi e circa 600 coloni (la cui presenza, ai sensi della IV Convenzione di Ginevra, è illegale), la maggior parte dei quali ha approvato l’operato di Elor Azaria. Nella zona circolano tranquillamente magliette e volantini in cui s’invoca l’uccisione di Imad Abu Shamsiyya. L’organizzazione Front Line Defenders ha lanciato un appello alle autorità israeliane sottolineando che Imad Abu Shamsiyya non ha fatto altro che svolgere il suo lavoro di difensore dei diritti umani, che consiste anche nel documentare le violazioni e chiedendo loro d’indagare sulle minacce ricevute da Imad Abu Shamsiyya e dai suoi familiari e di prendere tutte le misure necessarie per garantire la loro sicurezza e incolumità. L’Iraq ci dice che anche nel secolo dei diritti umani non c’è posto per i gruppi minoritari di Andrea Riccardi Sette del Corriere, 13 gennaio 2017 L’Iraq sotto il regime di Saddam Hussein era un Paese in preda a un regime violento. La repressione era fortissima. Lo sanno i dissidenti, imprigionati, uccisi, torturati. Lo sanno i curdi, il 1796 degli abitanti, che rivendicavano l’autonomia. Negli anni Ottanta Saddam usò anche le armi chimiche contro di loro. Più della metà della popolazione irachena, gli sciiti, ha subito una repressione feroce dal regime, espressione dell’egemonia sunnita (minoritaria ma al potere dal 1921). Le figure politiche sciite furono colpite da una dittatura violenta che non tollerava differenze. Anche l’autorità dei grandi ayatollah di Najiaf, la città santa sciita, non fu rispettata del tutto: nel 1999 fu assassinato il grande ayatollah Sadiq al-Sadr. Il grande ayatollah Al Sistani è oggi la maggiore figura di riferimento per gli sciiti iracheni che emerge da questa storia dolorosa. Il regime di Saddam non ha nulla per cui essere rimpianto. Mi ha sempre colpito come i cristiani, pur riconoscendo le nefandezze del regime, lo considerassero il male minore. Per loro, dalla caduta di Saddam è cominciato un tempo duro. Erano un milione e mezzo nel 2003. Oggi due terzi e più se ne sono andati: giudicano impossibile vivere nel caos iracheno. Si concentrano nel Nord. Nel 2010 un’aggressione terroristica uccise 52 cristiani che pregavano nella cattedrale siro-cattolica di Bagdad. Tanti gli assassinii. Ben 125.000 cristiani hanno lasciato la piana di Ninive, loro tradizionale homeland, sotto la pressione di Daesh per rifugiarsi in Kurdistan. Nel quadro della dittatura di Saddam, i cristiani avevano uno spazio (garantito e compresso), tanto che Tareq Aziz, il cui nome cristiano era Mikhail Yuhanna, ricopriva la carica di viceprernier. Eppure anche allora i cristiani fuggivano per la durezza della situazione. L’Iraq è stato, lungo i secoli, una terra in cui hanno abitato tanti gruppi minoritari, che vengono da una storia lontana. La strategia di sopravvivenza di queste realtà, invise all’islam, è stata in genere nascondersi in zone montuose o in angoli periferici della società. Tra questi gruppi ci sono gli yazidi, di cui il mondo ha appreso l’esistenza quando sono stati brutalmente attaccati da Daesh, che ha compiuto stragi orribili e ha rapito parecchie donne, rendendole schiave sessuali. Gli uomini -si vede in un triste filmato - sono stati costretti alla conversione all’islam. Gli yazidi, chiamati sprezzantemente "adoratori del diavolo", sono eredi di una religione sincretica, che aveva un centro sul monte Sinjar, quasi al confine con la Turchia. Qui, nel 1915, ospitarono e difesero generosamente gli armeni in fuga dagli ottomani. Proprio dal Sinjar li ha scacciati la violenza di Daesh. Hanno subito discriminazioni e repressioni lungo tutta la loro storia. Il loro numero in Iraq sembra oggi intorno al mezzo milione. Un altro gruppo particolare sono i mandei, detti "cristiani di San Giovanni", in realtà una religione di origine gnostica. I mandei non hanno templi ma celebrano i loro riti - specie il battesimo - sulle rive del Tigri, nelle cui prossimità spesso vivono. Dopo molte persecuzioni ne restano circa 6o.000. Il regime ottomano è stato sempre duro con questi gruppi: non li considerava nemmeno "gente del Libro" come i cristiani e gli ebrei, che avevano un posto nel regime islamico come cittadini di seconda categoria. Gli ebrei, una comunità storica e rilevante in Iraq (circa 130.000), sono emigrati da vari decenni e forse resta solo qualche anziano nascosto. I pogrom antisemiti del 1941, stimolati dai nazisti, furono il segnale della fine di una convivenza fino ad allora piuttosto positiva. Tra i vari monumenti ebraici, la tomba del profeta Naum (già meta di pellegrinaggi), non lontana da Mosul, è oggi custodita da un cristiano. Sono resti di un mosaico di religioni, infranto per sempre nel Novecento. Gli Stati dittatoriali e le violenze fanatiche non sopportano le minoranze. Eppure, nonostante tanti dolori, sono sopravvissuti per secoli. Oggi, nel secolo dei diritti umani, sembra impossibile che gruppi minoritari restino in questa parte del mondo. Triste contraddizione del nostro tempo. Haiti. Le comunità locali chiedono giustizia a sette anni dal terremoto da Action Aid Italia pressenza.com, 13 gennaio 2017 Non solo danni e distruzioni immediate, ma anche un lungo percorso per tornare alla normalità negli anni a venire. È la dura eredità dei terremoti, come quello di Haiti. A sette anni dal sisma che ha colpito l’isola, le comunità locali pagano ancora gli errori della ricostruzione e rivendicano i loro diritti sulla terra. In occasione dell’anniversario del terremoto che il 12 gennaio 2010 ha causato 222mila vittime, ActionAid presenta il rapporto "Giustizia per Haiti. Ricostruzione post-terremoto e land grabbing: il caso Caracol", che denuncia l’accaparramento di terra (land grabbing) a danno di 3.500 persone per la costruzione del Caracol Industrial Park nel nord del paese. Il progetto, considerato uno dei simboli della ricostruzione, ha invece finito per peggiorare le condizioni economiche delle comunità locali con una lunga serie di inadempienze, errori e scelte illegittime. Il Caracol Industrial Park avrebbe dovuto creare circa 65mila nuovi posti di lavoro, rilanciando l’economia e le esportazioni del paese grazie ai finanziamenti del governo di Haiti, dell’Interamerican Development Bank (IDB), della United States Agency for International Development (Usaid) e della Sae-A, azienda coreana di abbigliamento. La sua costruzione ha causato una violazione sistematica dei diritti delle popolazioni locali - come quello alla terra, alla casa, il diritto a essere consultati in maniera preventiva, libera e informata (Free, Prior and Informed Consent), il diritto al cibo e a un’equa compensazione - contribuendo così a deteriorare le condizioni di vita delle persone che vivevano grazie alle terre oggi occupate dal parco industriale. Le famiglie che hanno perso il loro principale mezzo di sostentamento, la terra, hanno per questo deciso di presentare un reclamo formale all’Interamerican Development Bank con il supporto dell’Accountabily Counsel, associazione di avvocati impegnata nella difesa dei diritti delle comunità locali, e di ActionAid Haiti. Il rapporto di ActionAid analizza gli errori e le violazioni che hanno caratterizzato il progetto sin dalle primissime fasi. In primo luogo la scelta dei terreni, ubicati nell’area di Caracol-Chabert, senza alcuna consultazione previa con le famiglie che li occupavano. In secondo luogo i primi studi di impatto, che indicavano i terreni di proprietà pubblica ignorando il complesso sistema di diritti consuetudinari e informali che regolavano l’accesso alla terra delle popolazioni locali. In terzo luogo le consultazioni per la definizione delle compensazioni, realizzate quasi un anno dopo l’avvio del progetto e svolte con 41 "leader naturali" comunitari non rappresentativi delle famiglie interessate. Infine le compensazioni, la cui definizione è avvenuta sulla base di metodologie errate, con tempi di erogazione lunghi e cifre finali del tutto inadeguate. La costruzione del parco industriale è avvenuta a partire dal 2011 con la promessa non mantenuta di promuovere lo sviluppo locale e causando la cementificazione di 246 ettari di terreni tra i più fertili del paese. Nonostante le elevate stime iniziali sulla creazione di nuovi posti di lavoro - 18mila nel 2014 e 37mila entro il 2020 - a luglio 2016 c’erano state solo 9.266 assunzioni. Anche chi è riuscito a trovare impiego nel Caracol Industrial Park, in maggioranza giovani donne, deve ora far fronte alle cattive condizioni di lavoro con salari bassi, rischi per la salute e violazioni delle norme di sicurezza. In una serie di interviste realizzate da ActionAid Haiti in collaborazione con l’associazione locale Arede (Association pour la Reforestation et la Defense de l’Environnement) e il Collettivo contadino vittime di Caracol (Kpvtc) su un campione di 58 capifamiglia interessati dal progetto, 54 hanno affermato di trovarsi in una situazione socio-economica peggiore rispetto a 5 anni prima. "Ho coltivato la mia terra per 22 anni, ma ho dovuto lasciarla senza alcun risarcimento. Non c’è stata negoziazione, ci hanno detto di accettare il risarcimento offerto. Pensavamo che il parco ci avrebbe portato benefici. Prima ci hanno promesso la terra, poi la casa, alla fine tutto ciò che abbiamo ottenuto è stato un piccolo risarcimento", racconta Marie Marthe Rocksaint, piccola agricoltrice e madre di due figli, costretta a lasciare la sua terra quando è iniziata la costruzione del parco industriale. ActionAid e Kpvtc chiedono ai responsabili del progetto di aggiornare il calcolo dei danni ai prezzi di mercato del 2016, di istituire un soggetto indipendente con funzioni di verifica delle compensazioni ricevute da ogni singola famiglia e di realizzare una trasparente revisione dei criteri di vulnerabilità. È inoltre indispensabile garantire alle famiglie colpite un adeguato accesso alla casa e alla terra e definire un piano di compensazioni non finanziarie per migliorare le loro condizioni di vita. Ancora oggi non vi sono state risposte alle richieste avanzate dal Kpvtc di avviare un processo inclusivo e partecipato che porti alla definizione ed erogazione di eque compensazioni. Le famiglie colpite dal progetto non potranno riavere indietro la loro terra, ormai completamente cementificata, ma hanno il diritto di avere giustizia vedendosi riconosciuti tutti i costi che stanno sostenendo e le relative compensazioni necessarie a garantire loro uno stile di vita degno. Ad Haiti la fame colpisce il 50% della popolazione e il 22% dei bambini sotto i cinque anni. Il 60% delle persone vive di agricoltura, cifra che raggiunge il 75% nelle aree rurali, in un paese che importa oltre il 50% del cibo dall’estero e che è costantemente a rischio di crisi alimentare. Il terremoto, la siccità e gli eventi climatici estremi - ultimo dei quali il devastante uragano Matthew - hanno aggravato la situazione. Una situazione di vulnerabilità che colpisce in modo particolare le donne, che pur avendo accesso limitato alle risorse produttive - in special modo la terra - e guadagnando meno, sono responsabili dell’alimentazione familiare. Nonostante l’insicurezza alimentare che minaccia il paese, dopo il terremoto del 2010 la ricostruzione ad Haiti ha puntato sull’espansione del turismo e dell’industria manifatturiera, affidando un ruolo centrale agli investimenti esteri.