A chi interessano i carcerati? di Sebastiano Zinna Città Nuova, 12 gennaio 2017 La scarsa attenzione alle vittime e la paura della criminalità spingono a chiedere sempre più pene ma il carcere non risolve il problema. Necessarie misure alternative e recupero, secondo Costituzione. Diciamocelo francamente, nella nostra testa un pensiero ronza e prevale sugli altri: in fondo se la sono cercata! E tanto basta per dedicarsi a pensieri più urgenti e pressanti. Poi le cronache ci riportano a riconsiderare la nostra posizione e fatti di cronaca gravissimi ci obbligano a forzati schieramenti pro o contro, o ci impongono etichette inaccettabili tra garantisti e forcaioli. Ebbene l’approccio corretto è un altro e deve partire da un dato di realtà. Il carcere è una triste necessità di cui non riusciamo liberarci e con la quale ci tocca fare i conti. Intanto una costatazione: la prigione è sempre più presente nelle nostre società. In molti stati il numero di detenuti è nettamente aumentato e con esso la durata delle detenzioni. Ma i crimini violenti non sono diminuiti. Questo a riprova che il carcere non può essere una cura o il rimedio risolutivo di problemi quali droga, delinquenza minorile, ecc. Basta guardare i risultati per convincersi che il carcere non ha una funzione terapeutica né riabilitativa. La riprogettazione della persona è un processo complesso e difficile che può solo essere stimolato, sostenuto e accompagnato. Anche perché, casi eclatanti di taluni personaggi, possono essere usati a dimostrazione dell’inutilità, per esempio, dei benefici penitenziari o delle misure alternative. In Francia, è stato pubblicato un importante libro che tenta di analizzare la complessità penitenziaria: Prisons de France, di Farhad Khosrokhavar. L’autore cerca di fare il punto sul complesso sistema di relazioni tra carcerati e carcerieri, sul modo in cui la prigione ridefinisce al suo interno i gruppi, sugli effetti della prigionia sulla mente degli individui. Si tratta di effetti devastanti, la cui gravità è proporzionale alla durata della pena, che raramente erano stati descritti in modo così chiaro e che oggi, non c’è da sorprendersi, catalizzano anche i processi di radicalizzazione politica o religiosa. C’è però un dato di fatto su cui non si riflette abbastanza: che ce ne viene, come cittadini, a tenere in piedi un sistema siffatto? Sarebbe come tenere in piedi un ospedale che non guarisce, che produce più malati che guarigioni. Eppure si reclama sempre più carcere anche se ne constata il fallimento. La prospettiva può cambiare quando noi incontriamo la persona carcerata. Nessuno può girare lo sguardo dall’altra parte di fronte ai crimini che vengono commessi. I processi vanno celebrati e le condanne vanno eseguite. Ma non basta. Occorre lavorare seriamente e mettere in campo le iniziative necessarie per preparare l’uscita da carcere e il ritorno in società sin dall’ingresso in carcere. È questo che come cittadini ci interessa: il ritorno in società. Perché se il condannato torna peggio di prima, come cittadino sono doppiamente vittima. Vittima del reato punito e vittima dei reati che saranno commessi. Inoltre, occorre dirselo con franchezza, fino a quando in questo contesto non si sarà una seria attenzione alle vittime, i carcerati non godranno di una piazza favorevole. In questa direzione vanno letti i dati sugli ammessi ad alcune misure alternative. A dicembre le persone messe alla prova sono state 6.557 e i condannati che svolgono lavori di pubblica utilità sono 5.954. Il lavoro di pubblica utilità è una sanzione penale consistente nella prestazione di un’attività non retribuita a favore della collettività da svolgere presso lo Stato, le regioni, le province, i comuni o presso enti e organizzazioni di assistenza sociale o volontariato. Tale sanzione, inizialmente, prevista nei soli procedimenti di competenza del giudice di pace, dal 2000, trova, a legislazione vigente, applicazione anche nei casi di violazione del Codice della strada, legge sugli stupefacenti oltre che come obbligo dell’imputato in stato di sospensione del processo e messa alla prova o come obbligo del condannato ammesso alla sospensione condizionale della pena. Per far svolgere il lavoro di pubblica utilità, il magistrato richiede una copertura assicurativa per eventuali infortuni e responsabilità civile verso terzi. Molti enti estendendo ai condannati la copertura assicurativa prevista per i volontari. Molto opportunamente si è risolto un problema che rischiava di far fallire queste possibilità alternative al carcere. Erano incominciate delle pressioni sui soggetti che si avvalevano dei condannati a svolgere lavori di pubblica utilità, per via della mancata copertura assicurativa da parte dell’Istituto nazionale infortuni sul lavoro (Inail). Questo ente appellandosi alla dicitura di "lavoro" di pubblica utilità esigeva somme ragguardevoli anche per periodi passati ritenendo non sufficiente la copertura assicurativa che parecchi enti hanno per i propri volontari. La legge finanziaria, infatti, ha finalmente ricompreso nella platea dei destinatari della copertura assicurativa Inail, prevista per i volontari impegnati in progetti di utilità sociale, anche i soggetti impegnati in lavori di pubblica utilità. Avere la possibilità di svolgere un lavoro di pubblica utilità per i condannati di reati non troppo gravi (violazioni del codice della strada, tossicodipendenti condannati per un reato di lieve entità, condannai ammessi alla liberazione condizionale) è una importante occasione per venire a contatto con realtà sociali a loro sconosciute ed è un modo concreto di avvicinarle al mondo delle vittime delle violazioni della legge penale. Attività sicuramente più rieducative di tante giornate in carcere. Di fatto, bisogna partire da una grave carenza di risorse, come spiega Luisa Prodi, presidente del Seac (Coordinamento Enti e Associazioni di Volontariato Penitenziario), "avere meno di 20 centesimi al giorno per la rieducazione significa che, se non ci fosse un po’ di volontariato in alcune carceri, non ci sarebbe assolutamente niente, proprio niente". Nell’assoluta necessità di provvedere il cibo o generi di prima necessità come può essere una saponetta, la rieducazione diventa un bene di lusso ma così si esce fuori dalla Costituzione. Come sottolinea il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella "l’istituzione carceraria rappresenta per lo Stato una necessità non derogabile, ma alcune volte anche una sconfitta. Il carcere comunque non è - e non deve mai essere - il luogo in cui viene negata la speranza. Chi esce dal carcere non sia un isolato, ma torni a sentirsi a pieno titolo cittadino e membro della nostra comunità nazionale. Per ciò servono anche, come è naturale, l’attenzione e la partecipazione della società civile, degli intellettuali, degli artisti, dei mezzi di comunicazione". Carceri: il 30% dei detenuti non ha una condanna definitiva di Valeria Zeppilli studiocataldi.it, 12 gennaio 2017 La problematica del sistema carcerario è, tra i numerosi punti dolenti del sistema giustizia italiano, di certo quello più delicato. Soprattutto se si considera che molti detenuti sono in carcere in attesa di giudizio e parte di loro sarà probabilmente prosciolta e se si pensa alla drammatica questione del sovraffollamento. Nonostante gli interventi legislativi che in maniera diretta o indiretta stanno cercando di risolverla, anche a seguito della condanna inflitta al nostro paese dall’Unione Europea con la sentenza pilota cd. Torreggiani del 2013, ancora non si vedono segnali di una possibile soluzione concreta. Al momento il legislatore sembra abbia cercato di adottare soluzioni temporanee e settoriali piuttosto che definitive e strutturali. Lo ha fatto nel 2014 con il decreto cd. svuota-carceri e nel 2016 con la più recente opera di depenalizzazione. Ma il problema resta e in gran parte è anche legato alla inaccettabile lentezza della macchina giudiziaria. Molti, troppi detenuti sono in carcere senza che vi sia stata ancora una condanna. E dovremmo chiederci: quanti di loro sono innocenti? Secondo i dati del Ministero della giustizia, aggiornati al Marzo 2016, ad essere stato condannato in via definitiva è solo il 65% dei detenuti, mentre la colpevolezza è ancora da dimostrare per oltre il 30% di essi (su 53.495, 9.074 sono in attesa di primo giudizio e 9.440 hanno subito una condanna non definitiva). Oltre al fatto, gravissimo, che nelle carceri italiane la percentuale di "potenziali innocenti" è davvero preoccupante, come accennato un altro problema affligge il sistema da tempo, senza che si sia riusciti ancora a superarlo: il sovraffollamento. Il Ministro Orlando ha qualche tempo fa reso noto che il rapporto tra l’esecuzione penale in carcere e le soluzioni esterne ad esso è passato dal 4 a 1 di inizio mandato all’1 a 1. Ma, come lo stesso Ministro non ha mancato di sottolineare, si è ancora lontani dalla soluzione. A tal fine è stato predisposto un intervento che dovrebbe rendere utilizzabili 2/3mila posti in più grazie all’inaugurazione di nuovi padiglioni ricavati da colonie penali agricole ed ex ospedali psichiatrici giudiziari, ma non basta: i detenuti "di troppo" sono circa 4mila. Per rendersi meglio conto della situazione, basta dare uno sguardo alle statistiche pubblicate dal Ministero della giustizia con aggiornamento al 31 marzo 2016. Dati ufficiali alla mano, questa la situazione delle patrie galere con riferimento, in via generale, ai detenuti presenti e alla capienza regolamentare dei penitenziari e, nello specifico, alla loro "posizione giuridica": Complessivamente ci sono 53.495 detenuti a fronte di una capienza regolamentare complessiva di 49.545 posti. Si legga: circa 4.000 detenuti "di troppo". In alcune carceri la situazione è davvero disastrosa. In Lombardia, ad esempio, nel carcere Opera "I.C.R." di Milano ci sono 1.265 detenuti, mentre i posti sono solo 911: 354 detenuti in più della capienza massima. Poco diversa la situazione a "San Vittore": 1.030 detenuti a fronte di 751 posti. Non vanno meglio le cose in due carceri nel napoletano: il "Giuseppe Salvia" di Poggioreale e il "Pasquale Mandato" di Secondigliano. Basti pensare che il primo ha 1.640 posti e 1.997 detenuti, mentre il secondo 1.021 posti e 1.321 detenuti. Sebbene questi siano i casi che più di tutti balzano agli occhi, è in generale l’andamento complessivo, come si evince anche dai dati totali, ad essere ancora davvero negativo. Non mancano comunque casi in cui il rapporto posti/detenuti è come dovrebbe essere o poco sopra la tolleranza. In due carceri, addirittura, non c’è nessun detenuto: ci si riferisce al "Giuseppe Montalto" in Piemonte, in cui ci sono 140 posti vuoti, e al Lauro, in Campania, in cui ce ne sono 38. La questione, se non fosse chiaro, va davvero presa sul serio. E a ricordarlo è stata anche una recente sentenza della Corte di giustizia dell’Unione Europea, resa il 5 aprile 2016 nelle cause riunite C-404/15 e C-659/15, con la quale i giudici hanno precisato che il sovraffollamento delle carceri del paese richiedente può addirittura essere un impedimento all’esecuzione di un mandato di arresto europeo. L’appello di Papa Francesco - La gravità della situazione è nota a tutti e, purtroppo, non riguarda solo il nostro paese. A tal proposito, nei giorni scorsi anche Papa Francesco, nel corso della prima udienza generale del 2017, ha sollevato a gran voce il problema, lanciando un appello: il sovraffollamento carcerario deve finire, i diritti dei detenuti devono essere garantiti, le condizioni nelle celle devono tornare ad essere umane. Al di là della religione, Bergoglio ha sottolineato che gli istituti penitenziari devono effettivamente essere "luoghi di rieducazione e di reinserimento sociale" e le condizioni di vita dei detenuti "degne di persone umane". La situazione nell’Unione Europea - Come si è accennato, il sovraffollamento carcerario e le condizioni disastrose in cui si trovano a vivere i detenuti sono problematiche che non riguardano solo l’Italia. Dal confronto con gli altri paesi UE, però, il Belpaese esce con un’immagine pessima. Come riportato dall’associazione per i diritti dei carcerati, nella penisola il tasso di sovraffollamento è del 108%, peggiore, ad esempio, di quello di Germania (81,8%), Spagna (85,2%) e Inghilterra e Galles (97,2%). In barba a quanto previsto dalla legge sull’ordinamento penitenziario, che si apre con una frase che non lascia spazio a fraintendimenti: "Il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona". La riforma delle carceri e della giustizia penale vedrà mai la luce? di Paolo Martini risorgimentoitaliano.news, 12 gennaio 2017 Ma quando sarà approvata la riforma della giustizia penale? Qualcuno forse ricorderà un articolo di Risorgimento in cui davamo per certo che una promessa del Ministro Orlando, quella che quel provvedimento sarebbe arrivato con la fiducia in Aula il 7 dicembre, subito dopo il famoso referendum sulla riforma della Costituzione, sarebbe stata smentita dai fatti. Renzi si è dimesso, è arrivato Gentiloni e sono arrivate le vacanze di Natale e quel famoso testo - che contiene nuove norme su prescrizione e intercettazioni, di cui tutti si occupano, ma anche norme importanti sull’ordinamento penitenziario, di cui non si occupa nessuno - non è ancora tornato all’esame dell’Aula di Palazzo Madama. Il ministro della giustizia, che è lo stesso Ministro Orlando che c’era nel governo Renzi, ha assicurato che subito dopo le feste, alla ripresa dei lavori, il provvedimento sarebbe tornato all’esame e al voto del Senato. Per ora l’attività è ripresa e non si vede la luce. Forse avevano visto giusto i soliti Radicali che già prima del referendum e poi nel loro "Natale nelle carceri" avevano chiesto a gran voce, con uno sciopero della fame di dialogo, di stralciare almeno le norme sull’ordinamento penitenziario, cioè quelle norme fatte per rendere un po’ meno incivile la detenzione nel nostro Paese. Se possiamo scommettere di nuovo, anche alla luce della condizione di questa legislatura oltre che della tradizionale tendenza di buona parte della classe politica di tirar fuori il peggio su argomenti come i diritti, le garanzie, l’immigrazione, la sicurezza, l’ordine pubblico quando il voto è vicino, né la riforma del penale né l’ordinamento penitenziario diventeranno presto legge. E - come dicemmo - non c’entra il vituperato bicameralismo perfetto. Le toghe "di destra": "Sciopero? Prima incontriamo Orlando" di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 12 gennaio 2017 Magistratura Indipendente annuncia, con una nota, che al direttivo Anm di sabato si opporrà alla linea dura dei "davighiani". La giunta esecutiva centrale dell’Anm non decide e Magistratura indipendente, la corrente delle toghe di destra, gioca d’anticipo chiedendo un incontro al ministro della Giustizia Andrea Orlando. La riunione tenutasi la scorsa domenica a Roma si è conclusa con un nulla di fatto. La giunta unitaria non ha trovato, al termine di frenetiche consultazioni, l’accordo su quale possa essere la migliore forma di protesta in risposta al governo che non ha voluto apportare correzioni al cosiddetto decreto Cassazione. Come si ricorderà, l’ultimo Consiglio dei ministri del 2016 non ha portato alle toghe i tanto attesi correttivi al provvedimento contestato dalla stragrande maggioranza delle toghe. In particolare, nessun aumento dell’età pensionabile a 72 anni. L’Associazione nazionale magistrati aveva accusato l’esecutivo di non aver mantenuto gli impegni. Inizialmente alcuni gruppi associativi, in particolare Autonomia & Indipendenza, la corrente del presidente Piercamillo Davigo, erano per lo sciopero. Poi, però, la minaccia è rientrata, rimandando ogni decisione al Comitato direttivo centrale del prossimo 14 gennaio. L’iniziativa delle toghe "di destra": trattativa subito - Vista la situazione d’impasse all’interno della giunta, il gruppo di Mi nell’Anm ha deciso che un incontro ufficiale con il ministro Orlando potrebbe agevolare il percorso per una soluzione condivisa. La proposta d’incontro sarà, quindi, messa all’ordine del giorno del direttivo di domenica. Alla delegazione che dovrebbe incontrare Orlando in via Arenula, Magistratura indipendente chiede poi che ci sia anche una rappresentanza di giudici di prima nomina. Ciò in quanto, oltre al mancato aumento dell’età pensionabile, il decreto 168 non ha riportato a tre anni il termine di legittimazione, cioè il periodo minimo di permanenza in una sede giudiziaria necessario per poter presentare domanda di trasferimento. L’argomento è di particolare interesse per i giovani magistrati che in questi mesi si sono anche riuniti in un comitato spontaneo, denominato Comin, di cui è portavoce un sostituto procuratore di Crotone, Gaetano Bono. Sul punto, si legge nella nota di Mi, "è opportuno e utile promuovere una partecipazione attiva agli incontri sindacali del Comitato spontaneo di coordinamento dei giovani magistrati. Mossa per evitare che vinca la linea dei "davighiani" - È una svolta conciliante quella di Magistratura indipendente, concepita evidentemente per differenziarsi dalla linea dura portata avanti in questi mesi dai davighiani di Autonomia & Indipendenza. Come scrivono infatti le toghe di Mi, "l’Anm è chiamata a valorizzare ogni proficua iniziativa senza per questo dover abdicare alle proprie assunzioni di responsabilità: rappresentare vuol dire decidere ed è con le decisioni che si assumono le responsabilità. Ma nel confronto delle idee e delle proposte occorre essere aperti e favorire un modo di fare Associazione non inquadrato in vecchie burocrazie o strutture decisionali rigide". Un messaggio chiaro alla attuale presidenza Davigo ritenuta, da una parte della magistratura associata, più pronta allo "scontro" che alla mediazione con la politica, da sempre accusata dal leader dell’Anm di non essere all’altezza del compito, soprattutto sotto l’aspetto della "legalità". La nota si chiude con richiamo "al dialogo che è sempre doveroso". A questo punto bisognerà attendere il direttivo di sabato per vedere quale delle due linee, quella dialogante di Mi o quella più severa di A& I, prevarrà tra i magistrati. Il Senato sul caso Albertini e Robledo. Così la politica invade il campo della giustizia di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 12 gennaio 2017 E adesso chi è che fa invasione di campo di chi? È un peccato che Alfredo Robledo e Gabriele Albertini abbiano una qualche ribalta, l’uno da pm e l’altro da ex sindaco di Milano e poi europarlamentare e ora senatore Ap-Ncd imputato di aver calunniato il pm nel 2012. E peccato persino per le polemiche politiche sul fatto che Albertini avesse o non avesse minacciato di non appoggiare più il governo nel caso in cui il Senato non gli avesse dato l’insindacabilità. Perché se invece ci si astrae dalle reciproche rivendicazioni, per le quali domani in condizioni normali il Tribunale di Brescia avrebbe sentenziato l’assoluzione o la condanna di Albertini, risalta l’accecante paradosso di un ceto politico che, dopo essersi sgolato per anni a denunciare "l’invasione di campo" della magistratura nelle prerogative della politica, e a lamentare l’interferenza delle inchieste giudiziarie sull’attività degli eletti dal popolo, platealmente invade il campo della giustizia e sottrae l’attuale senatore alla sentenza penale. Come? Retroattivamente riconoscendo ad Albertini (che senatore non era nel 2012) la garanzia costituzionale dell’"insindacabilità" (ora per allora) delle opinioni espresse dai parlamentari nell’esercizio delle funzioni. Un testa-coda spettacolare, visto che lo stesso Senato il 4 dicembre 2014, investito da Albertini della medesima questione nella causa civile, non gli aveva dato alcun scudo proprio perché "all’epoca dei fatti non rivestiva la qualifica di senatore". Nel 2012 Albertini era infatti europarlamentare, ma nel 2015 anche il Parlamento europeo non gli aveva concesso scudo, ritenendo che non vi fosse un nesso tra le sue opinioni sul pm e le sue funzioni europarlamentari. Martedì, invece, il Senato, su proposta della relatrice del Pd in giunta, ha votato a larghissima maggioranza - 185 sì bipartisan, 65 no (grillini e 17 dissidenti del Pd) e 2 astenuti - di considerare scriminate dall’articolo 68 della Costituzione le dichiarazioni del 2012 con le quali l’allora non senatore attribuiva al pm scorrettezze e arbitrarietà in alcune indagini. L’argomento per estendergli l’insindacabilità è stato che Albertini nel 2012 non era senatore, però poi "sulla stessa questione si è esposto da senatore con ben 38 interventi" che hanno "involto, e anzi attraversato, tutte e tre le cariche (sindaco, parlamentare europeo, senatore) coperte nel periodo in cui ha dovuto sempre far fronte agli attacchi giudiziari del dottor Robledo". Logica opposta a quella con cui il Senato nel 2015 decise di non decidere sulla natura ministeriale o meno della corruzione contestata nel 2014 a Tremonti, in relazione ai 2,5 milioni pagatigli da Finmeccanica nel 2008 come tributarista per la consulenza fiscale sull’acquisizione da parte di Finmeccanica della società americana rDrs Technologies, e volti per l’accusa a fargli superare l’iniziale ostilità all’operazione quand’era già in predicato di divenire ministro dell’Economia. In quel caso il Senato valorizzò che la pattuizione fosse "collocabile l’8 maggio 2008", giorno "della firma dell’apparente consulenza ma anche del giuramento di Tremonti come ministro, da cui poi la necessità, inespressa, di posizionare anche nell’ora il tempus dell’accordo corruttivo". Adesso, invece, nel caso di Albertini ecco che l’essere attualmente senatore proietta miracolosamente a ritroso addirittura su 5 anni prima lo scudo dell’insindacabilità contro l’imminente sentenza. A chi l’ora in meno, a chi gli anni in più: segno che orologio e calendario valgono a targhe alterne per una politica che, non temendo di farsi davvero casta, non esita a pretendersi giudice di se stessa. Cybersicurezza della Pa, solo 150 milioni nel 2016 di Antonello Cherchi Il Sole 24 Ore, 12 gennaio 2017 Il crimine cibernetico è una minaccia per lo Stato, anche perché il sistema di infrastrutture pubbliche su cui viaggiano i dati ha parecchie pecche. Il problema non è solo italiano. Gli Usa, che pure dedicano alla sicurezza delle infrastrutture informatiche budget ben più consistenti del nostro, sono alle prese con gli attacchi russi. Qui da noi, però, i segnali di debolezza delle reti non sono di oggi e, nonostante il Piano nazionale per la protezione cibernetica e la sicurezza informatica, mostrano il fianco ai pirati della Rete. Per questo ieri il Garante della privacy, Antonello Soro, ha potuto dire che le vicende di questi giorni dimostrano "quanto sia in ritardo il sistema di sicurezza cibernetica nel nostro Paese". Allarme già lanciato da Soro nella relazione annuale, a giugno dello scorso anno. In quella sede il Garante aveva sottolineato come il peso del cybercrime nell’economia mondiale sia stimato in 500 miliardi di euro l’anno, di poco al di sotto del narcotraffico nella classifica dei guadagni illeciti. Ancora prima di quelle segnalazioni, il Garante aveva potuto toccare con mano la debolezza del sistema cibernetico pubblico. Nel 2008 l’Autorità per la privacy aveva registrato diverse falle nella gestione dei dati personali da parte dell’Anagrafe tributaria, costringendo quest’ultima a un lavoro di adeguamento durato anni. Gli ultimi rilievi del Garante sono di marzo scorso. È, invece, ancora in corso la messa a punto del sistema di intercettazioni nelle procure, anch’esso finito sotto osservazione dell’Authority. Appartiene alla gestione Soro, invece, la lettera spedita due anni fa all’allora premier Matteo Renzi, nella quale il Garante segnalava "una serie di gravi criticità sulle misure di sicurezza logiche e fisiche" nella gestione dei tre princi- pali nodi italiani di interscambio internet (Ixp, internet exchange point). Si sollecitava, pertanto, il Governo a intervenire, perché "si tratta di strutture nevralgiche nel sistema di comunicazioni elettroniche del Paese poiché, attraverso questi nodi interscambio, passano enormi flussi di traffico relativo alle comunicazioni elettroniche degli abbonati e utenti (anche pubbliche amministrazioni e imprese) dei principali operatori nazionali". Secondo Gabriele Faggioli, responsabile dell’Osservatorio information security e privacy del Politecnico di Milano, nonché presidente di Clusit, l’associazione per la sicurezza informatica, c’è intanto un problema di investimenti: nel 2016 sono stati stanziati 150 milioni di euro per proteggere la rete pubblica. "Una cifra - spiega Faggioli - contenuta rispetto all’ampiezza della Pa". Inoltre, c’è da considerare l’evoluzione tecnologica, anche quella criminale, a cui non corrisponde un’analoga crescita dell’attenzione di chi utilizza le tecnologie. "Il 78% dei rischi informatici - spiega Faggioli - viene attribuito ai comportamenti inconsapevoli degli utenti". Infine, il ricorso a tecnologie sempre più "remotizzate", che consentono di lavorare lontano dagli uffici, "aumenta i pericoli di attacchi". Trafficante o innocente? Il lungo giallo dell’eritreo Medhanie Tesfamariam Berhe di Salvo Palazzolo La Repubblica, 12 gennaio 2017 Per il ministero degli Esteri eritreo il giovane detenuto a Palermo non è il trafficante di uomini Mered Medhanie. Il dipartimento dell’immigrazione conferma l’identità ribadita sin dal momento dell’arresto dal giovane eritreo, ovvero Medhanie Tesfamariam Berhe. Le autorità eritree confermano che il suo documento è originale. Un altro colpo di scena al processo di Palermo che vede imputato il presunto re della tratta di esseri umani. Chi è davvero il giovane eritreo che entra a testa bassa nel gabbiotto degli imputati, lo sguardo perso nel vuoto e gli abiti malridotti? Attorno a lui, una squadra di agenti della polizia penitenziaria, non lo perdono di vista un momento, nell’aula della quarta sezione del tribunale il giovane eritreo è accusato di essere il re dei trafficanti di uomini imbarcati sui barconi lungo il Canale di Sicilia. Medhanie Yehdego Mered, il "generale" lo chiamavano nelle intercettazioni. Ma lui continua a dire di essere un’altra persona. Lo ripete dall’8 giugno, da quando è sceso dalla scaletta dell’aereo su cui era stato caricato dalle autorità del Sudan, al termine di un’operazione di polizia scattata grazie ad alcune indicazioni della National Crime Agency inglese. "Mi chiamo Medhanie Tesfamariam Berhe - ribadisce - e sono solo un operaio, avete sbagliato persona". Ieri, in aula, il suo avvocato ha consegnato ai giudici un’attestazione del Dipartimento dell’Immigrazione e della nazionalità eritreo: "Confermano che il documento d’identità mostrato dal mio cliente è autentico", dice Michele Calantropo: "In carcere c’è un innocente". La procura ritiene diversamente: al momento dell’arresto, l’uomo aveva sì quella carta d’identità, ma anche un telefonino da cui sono partite chiamate ad alcuni trafficanti di uomini. E anche le parole pronunciate dal giovane sembrano quelle di un trafficante. Per la procura, la prova principe è nella voce: un esame, in corso, dirà se la voce del giovane arrestato in Sudan è la stessa del "generale", intercettato dalla polizia durante l’indagine sulla tratta dei migranti. Ma questo è un caso ricco di colpi di scena. Anche la difesa punta sulla perizia fonica, ne sta facendo fare un’altra. È ormai un giallo internazionale. Su Facebook si è fatto vivo pure il presunto vero Mered per difendere l’imputato di Palermo: "Hanno fatto un errore con il suo nome - scrive - lo sanno che lui non è un trafficante, tutti lo sanno che non è un trafficante". Per la procura, quel post su Facebook è solo un grande bluff. La difesa insiste: "È su Facebook la prova che un innocente è in carcere ingiustamente". L’avvocato Calantropo invita a consultare il profilo della donna che l’indagine della polizia ha identificato come la moglie del generale, Lydia Tesfu si chiama. "Fra i post di due anni fa, ci sono le foto col marito - dice il legale - è un uomo del tutto diverso da quello detenuto nel carcere di Pagliarelli". Nelle foto c’è l’uomo con i capelli ricci e il crocifisso al collo che per diversi mesi è stato ritenuto dagli investigatori il "generale", l’uomo della foto "ufficiale" delle ricerche (foto anche questa rubata su Facebook). Chi è davvero il giovane eritreo con lo sguardo perso nel vuoto mentre un’interprete gli spiega cosa avviene nell’aula di giustizia? Un innocente o un grande impostore? La procura gioca la carta del pentito, l’ex trafficante Atta Wehabrebi, sarà sentito il 17 gennaio: sostiene di conoscere l’uomo col crocifisso, dice che non è il "generale". Per l’accusa, un altro indizio della colpevolezza del giovane eritreo imputato a Palermo. La difesa oppone una lunga lista di amici di Tesfamariam. E anche un altro pentito, Seifu Haiade, sentito dalla procura di Roma e dalla Capitaneria di porto nell’ambito di una vecchia indagine. Seifu riconosce invece Mered il "generale" nell’uomo col crocifisso. Un giallo che sta diventando intricato, l’ultima parola la dirà il collegio presieduto da Raffaele Malizia al termine del processo. Intanto, la National Crime Agency conferma la bontà della loro fonte in Sudan ed esclude scambi di persona in carcere. Ovvero, la persona fermata dentro un bar di Khartum sarebbe la stessa che poi è salita sull’aereo per Roma dopo un mese di carcere. Perché anche questo ipotetico colpo di scena ha fatto capolino nel giallo. Il "generale" è uomo influente, ricchissimo. Se è lui nella gabbia degli imputati di Palermo è davvero un grande attore. Se non è lui, siamo di fronte a un drammatico errore giudiziario. Carcere e dintorni. Quando la giustizia diventa un incubo di Valter Vecellio almcalabria.org, 12 gennaio 2017 Come ricorda opportunamente il "Grande Bardo", William Shakespeare ne L’Amleto, "ci sono più cose in cielo e in terra che non sogli la tua filosofia…". Verissimo. E quante ce ne sono in quel territorio che chiamiamo "pianeta giustizia". Eccone una che fa al nostro caso, la racconta l’avvocato Giorgio Carta, specializzato in "Diritto militare". L’avvocato Carta si è dato una sorta di missione, quella di raccontare attraverso il sito grnet.it le "follie giuridiche" che si insinuano nei codici militari, e che grazie a queste "follie" trovano poi pratica attuazione. Questa è così incredibile che dev’essere per forza di cose vera. L’anno 2016 volge al termine e un militare, scrive l’avvocato, "in un momento di sconforto si punta la pistola alla tempia", vuole uccidersi. Ci ripensa, desiste. Magari si può pensare che qualcuno si preoccupi: perché quel militare ha pensato di uccidersi? E quell’arma in mano, magari, chissà, prima di puntarla contro se stesso, poteva usarla per uccidere altre persone? Vai a capire cosa ti prende in certi momenti… Niente di tutto ciò. Quel militare si trova indagato nientemeno che "per violata consegna e per distruzione di armamento militare"; perché il proiettile l’ha esploso, ma è finito altrove, non nella tempia come in origine si voleva fare. Ineccepibile al punto di vista della forma. Aver distrutto un proiettile senza giusto e valido motivo, è senz’altro reato. D’altra parte, si può dar torto all’avvocato Carta quando osserva che "un dramma personale così grave da indurre un uomo ad un gesto estremo, lo espone anche alla eventualità di una detenzione in un carcere militare?" Sempre Carta racconta il caso di un militare "sottoposto a procedimento disciplinare per essersi cagionato una frattura ossea durante l’espletamento del servizio". Insomma: "Non ha prestato la dovuta attenzione, procurandosi così colposamente un’infermità fisica". Sorridiamone, anche se il sorriso è amaro. Resta però solo l’amaro (senza ombra di sorriso), quando si legge la lettera scritta dal signor Ludovico Gay. "Mi chiamo Ludovico Gay, ho 50 anni e da 4 anni combatto contro una disgrazia che mi toglie la forza e la voglia di vivere, e che mi isola dal resto del mondo. Non si tratta di una grave malattia fisica, né di una forma di depressione cronica, anche se sono convinto che ci siano tante analogie tra la mia e questo tipo di avversità che capitano agli umani. La mia disgrazia si chiama Giustizia". È accaduto questo: "Il 12 dicembre del 2012, all’alba, degli agenti della Guardia di Finanza, pistole e manette bene in vista, mi "catturano" mentre dormivo nel letto di casa mia, ignaro di tutto. Mi notificano una lunga ordinanza di arresto che coinvolgeva oltre 30 persone, tra dirigenti, funzionari pubblici ed imprenditori privati, accusati a vario titolo di corruzione, abuso d’ufficio e concussione. Gli agenti mi hanno fatto preparare un bagaglio minimo e sotto gli occhi sgomenti di mia moglie (oggi ex) e dei miei figli, mi hanno portato a Regina Coeli, dove sono rimasto rinchiuso per i successivi 120 giorni, di cui buona parte in stato di isolamento, nel braccio, per intendersi, dove finiscono i detenuti da tenere sotto controllo o ai quali deve essere inflitta una punizione". Un trattamento da riservare a un mafioso, un terrorista pronto a tagliarti la gola, a un cinico speculatore sulla pelle di bambini o anziani… Non si direbbe proprio: "Sono rimasto li fino all’8 aprile del 2013, 120 giorni esatti, fintanto che la Corte di Cassazione ha deciso la mia immediata scarcerazione, annullando "senza rinvio" l’ordinanza di arresto e quella del "tribunale delle libertà" che aveva invece confermato la necessità "cautelare" certo della mia colpevolezza e giustificando tale necessità in quanto non avevo mostrato alcuna "resipiscenza" in sede di interrogatorio di "garanzia". Altrettanto convinti della mia colpevolezza sono stati, da subito, gli organi di informazione: tg nazionali, giornali, siti noti e ignoti, blog e altro, inclusi quelli dei 5 Stelle. Unanimi hanno invocato per qualche settimana successiva al blitz della Magistratura, la necessità di pene esemplari per quella che era stata definita la "cricca dell’agricoltura, hanno elaborato teorie che prospettavano inimmaginabili sviluppi dell’inchiesta che avrebbe coinvolto presto i vertici politici ed istituzionali del Ministero e hanno concordato più o meno coralmente sulla necessità di gettare le chiavi della piccola cella nella quale ero rinchiuso, senza mostrare, per giunta, segnali di pentimento. Il migliore articolo pubblicato sul caso, dal mio punto di vista, fu di un giornalista di cui non ricordo il nome, del quotidiano "Il Messaggero", il quale, credo più che altro preoccupato di dare un po’ di coerenza alla sua narrazione, scrisse più o meno di me: e non saranno certo questi gli unici benefici ricevuti dal Gay, direttore generale di Buonitalia". Il suo pezzo, ordinanza alla mano, elencando i milioni di contributi che avevo erogato a soggetti pubblici e privati nel corso degli anni in cui avevo lavorato al Ministero delle politiche agricole, accertava che avevo ricevuto in cambio tre (tre!) notti in alberghi di lusso e la promessa (la promessa!) di una cucina". Ah! Ecco che alla fine qualcosa viene pur fuori… No, invece: "Non importava se già in sede di interrogatorio avevo dimostrato, documenti alla mano, che i soggiorni erano missioni istituzionali e che la cucina era stata regolarmente pagata a rate e per il suo effettivo costo. Non un euro di mazzetta, nessun conto milionario in paradisi fiscali, nessuno appartamento con vista monumentale, nessuna vacanza su lussuose barche in luoghi esotici, niente di niente, ma sicuramente, per il giornalista, qualche cosa doveva esserci, altrimenti tutto questo baccano (di manette e di inchiostro!) non avrebbe trovato alcuna "giustificazione". Credo di essere stata l’unica persona che ha colto allora, in quella parte di articolo, l’evidenza di un’indagine inconsistente, basata su congetture illogiche e non documentate, meramente assertive, che i media avrebbero dovuto e potuto cercare di comprendere e di denunciare anziché lasciarsi andare al facile e appassionante gioco del massacro mediatico contro persone private, di fatto, anche della libertà di parola". E come finisce questa odissea? "Dopo un lungo processo, che il codice di procedura penale definisce addirittura "immediato cautelare", il 14 aprile del 2016 è arrivata la sentenza di assoluzione in primo grado, piena, perché il "fatto non sussiste". Giustizia è fatta? Ebbene no, perché il "ragionevole dubbio" che fossi colpevole del reato di corruzione, sebbene fosse stato instillato dalla Cassazione prima e sancito poi dalla sentenza di primo grado, non è stato sufficiente affinché il Pubblico Ministero, affatto resipiscente, non potesse o non volesse presentare il ricorso in appello. Da un punto di vista formale infatti, il PM può appellare un giudizio che ritiene non corretto, anche senza apportare qualche nuovo elemento di prova a favore della sua tesi accusatoria. E nel silenzio quasi totale dei media, gli stessi che ieri mi condannavano senza giudizio, oggi, attendo una nuova sentenza. E in attesa di questo giudizio in qualche modo, "ragionevolmente" contaminato almeno dal dubbio che qualche fraintendimento abbia generato l’inchiesta che mi ha stravolto la vita, continuo a scontare la condanna latente del pregiudizio sociale. Perfino trovare una casa è diventata un impresa impossibile. I locatori curiosano su internet ed è fatta: la casa è già stata affittata a miglior referenza, ci dispiace tanto. Il lavoro è una chimera e d’altra parte le istituzioni latitano. Nessuno beneficio finanziario o morale è previsto in questi casi. Anzi, potendo si infierisce ancora un pò negando perfino le spese legali che in questo caso dovrebbe risarcire il Ministero con l’avvallo dell’Avvocatura di Stato. Trovare un senso e dare un perché alla vita di ogni giorno è l’impegno quotidiano maggiore, il come vivere poi è relegato alla saltuarietà di qualche lavoretto e alla magnanimità dei pochi amici che, in questi casi sciagurati, restano fedeli e vicini". Ora non chiedete al curatore di questa rubrica di commentare, di esprimere un’opinione. Sarebbe qualcosa di molto, molto, molto volgare e a prescindere dai reati previsti dal codice, di incompatibile con la buona educazione che nonostante tutto si vuole continuare ad avere. Però il lettore, credo, ha sufficiente immaginazione per capire senza leggere; e confido che il cuor suo condivida analoga inquietudine, identico sdegno, lo stesso sentimento di ripulsa e (anche) orrore. Dichiarazione infedele, sì al sequestro dei pc di Ferruccio Bogetti e Gianni Rota Il Sole 24 Ore, 12 gennaio 2017 Corte di cassazione - Sentenza 1159/2017. Per accertare il reato di dichiarazione infedele è legittimo il provvedimento di sequestro dei computer dello studio medico. Intanto, in presenza di dichiarazioni accusatorie secondo cui il software viene utilizzato per la gestione di una contabilità parallela, per rinvenire il corpo del reato può sempre disporsi la sua perquisizione. Poi l’utilizzo di un software attivabile solo con pen drive rende proporzionata l’ablazione dell’intero sistema informatico. Infine, ai fini dello svolgimento delle indagini penali, il pubblico ministero, diversamente dagli altri soggetti istituzionali, può sempre acquisire apparecchiature informatiche anche quando contengono dati sensibili. Così la sentenza 1159/2017 della terza sezione penale della cassazione (presidente Cavallo, relatore Scarcella) depositata ieri. Il ricorso - Nei confronti di tre odontoiatri, indagati per il reato di dichiarazione infedele, il Pm dispone il sequestro di attrezzature professionali, tra cui sette personal computer. I diretti interessati si oppongono al Tribunale del riesame affidandosi a tre motivi di illegittimità. Le attrezzature professionali non sono qualificabili come cose pertinenti al reato o come corpo di reato in assenza di indizi, tracce o elementi decisivi per provare la colpevolezza. La Convenzione di Budapest del 2008 sulla criminalità informatica impedisce il sequestro di interi sistemi informatici. Il sequestro di software è illegittimo e viola le norme processuali in tema di segreto professionale se sono ivi contenuti i dati sensibili dei clienti. Il Pm ribadisce la funzionalità del provvedimento allo svolgimento delle indagini penali e il Tribunale del riesame sposa la sua tesi e rigetta il ricorso. La sentenza - I professionisti ricorrono in Cassazione ma la Corte conferma la legittimità del sequestro. In primo luogo, la ricerca del software applicativo e della pen drive possono rendersi necessari per accertare le modalità di commissione del reato di dichiarazione infedele. In presenza di dichiarazioni accusatorie in base alle quali il software applicativo viene utilizzato per la gestione di una contabilità parallela, infatti, è sempre da ritenersi congrua la sua perquisizione per rinvenire il corpo del reato su cui condurre ulteriori accertamenti. Inoltre l’utilizzo di una componente nascosta del software, attivabile mediante pen drive, giustifica e rende proporzionata l’ablazione dell’intero sistema informatico. Ciò perché occorre apprendere tutti i supporti hardware per sottoporli ad analisi informatica ed accertare all’interno del software il fatto oggetto di presunto reato. Infine, non rileva il fatto che le attrezzature informatiche contengano dati personali sensibili che rivelano i rapporti professionali con i clienti dello studio. Il Pm, infatti, non ha limiti nell’acquisizione di apparecchiature informatiche contenenti dati sensibili, diversamente dai soggetti pubblici, che possono utilizzarli solo per lo svolgimento di funzioni istituzionali. Vittime dell’usura: la sospensione non scatta per il procedimento prefallimentare di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 12 gennaio 2017 Corte di cassazione - Sezione I civile - Sentenza 11 gennaio 2017 n. 507. La sospensione della procedura concorsuale, prevista in favore delle vittime dell’usura non si applica alla fase prefallimentare. La Cassazione (sentenza 507), respinge il ricorso di una società contro la sentenza che aveva dichiarato il fallimento proprio e dei soci accomandatari, una decisione che doveva essere considerata nulla, ad avviso dei ricorrenti, perché il tribunale non aveva sospeso la procedura concorsuale, per 300 giorni, come previsto dall’articolo 20 della legge 44/99. La Corte d’appello di Milano aveva, infatti, respinto il reclamo, ritenendo che la disposizione invocata, pur trovando applicazione nei processi esecutivi di tipo collettivo come il fallimento, non scatta nelle procedure prefallimentari che hanno natura cognitiva e non esecutiva. Ad avviso dei giudici di seconda istanza, per applicare la proroga alle procedure prefallimentari, deve sorgere la necessità di contemperare le esigenze di tutela delle vittime dell’usura con i diritti dei creditori. Una circostanza che, nel caso specifico, non si era verificata. I creditori erano professionisti che chiedevano il pagamento del compenso per l’attività prestata a favore della società, ai quali non era addebitabile alcun delitto di usura o estorsione. Per i ricorrenti, la corte territoriale aveva invece sbagliato ad applicare la legge 44/1999, senza considerare che la sospensione dei termini prevista dalle norme antiusura dovrebbe intervenire prima della sentenza di fallimento. Secondo la difesa della società, l’inapplicabilità della norma alla fase predibattimentale non sarebbe in linea con un’interpretazione costituzionalmente orientata, tenuto conto che la sentenza di fallimento "spoglia il debitore di tutti i suoi beni come da interpretazione "autentica" del commissario antiracket". La Suprema Corte, conferma la correttezza del verdetto della Corte d’appello. La procedura prefallimentare non ha natura esecutiva, ma cognitiva, prima della dichiarazione di fallimento non può, infatti, dirsi iniziata l’esecuzione collettiva, come prima del pignoramento non è iniziata l’esecuzione individuale. Per questo il procedimento per la dichiarazione di fallimento non è soggetto alla sospensione dei procedimenti esecutivi prevista per le vittime dell’usura e dell’estorsione. Sardegna: Caligaris (Sdr) "la priorità per le carceri resta la carenza di personale" Ristretti Orizzonti, 12 gennaio 2017 "Spiace osservare che ancora una volta sia stata trascurata nel question time la specificità sarda relativamente alle carceri. La Sardegna è l’unica regione italiana dove i Direttori effettivi sono 5 per 10 Istituti, non ci sono Vice Direttori, sono carenti gli Ispettori e gli Agenti della Polizia Penitenziaria nonché gli Educatori e gli amministrativi. Si tratta di inadeguatezze che incidono pesantemente sull’efficienza del sistema penitenziario isolano e che prescindono dalle "strutture altamente moderne". Risultano gravemente deficitarie cioè tutte quelle prerogative che garantirebbero il pieno rispetto del dettato costituzionale anche con riferimento ai diritti di chi lavora". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme", commentando le risposte del Ministro della Giustizia Andrea Orlando all’interrogazione del Deputato del Centro Democratico Roberto Capelli. "Anche la questione delle Case di Reclusione all’aperto di Mamone, Isili e Is Arenas – aggiunge Caligaris – deve essere esaminata in un’ottica di efficienza. Nessuna delle Colonie Penali ha un Direttore esclusivamente assegnato. Mamone in particolare si trova in un’area dove quando piove e/o nevica resta isolata. Da anni si parla di un rilancio ma finora è rimasto sulla carta. Occorre chiarezza o si creano condizioni di lavoro autentiche con investimenti consistenti e operatività manageriali altrimenti è preferibile attivare cooperative sociali. Il Ministero della Giustizia deve riconsiderare il proprio ruolo". Rossano Calabro (Cs): troppi jihadisti, pochi agenti, ecco la "Guantánamo italiana" di Michel Dessì Il Giornale, 12 gennaio 2017 Nel carcere di Rossano, in Calabria, sono detenuti 8 terroristi. Gli agenti protestano: "Qui non è garantita la sicurezza". Mentre nel nostro Paese si intensificano i controlli, vengono alzate barriere di cemento armato "anti-camion", installati metal detector nelle chiese e nei musei, le grandi città sono presidiate dall’esercito in assetto di guerra giorno e notte per paura di subire attentati, alcuni obiettivi sensibili, come il carcere di Rossano, vengono dimenticati. La Guantanámo Italiana, così viene chiamata la casa circondariale dove sono attualmente detenuti otto terroristi legati ad Al Qaeda e all’Isis, è a rischio. Manca la sicurezza. A denunciarlo, ancora una volta, è il Sappe, il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria. "La situazione, nell’ultimo periodo, è peggiorata. Non ci sono gli uomini per garantire la sicurezza del carcere." dichiara al Giornale.it Giovanni Battista Durante, segretario generale del Sappe. "Fino a qualche tempo fa il penitenziario veniva presidiato dall’esercito e dalle forze dell’ordine oggi, invece, la sicurezza della struttura è a carico degli agenti di Polizia Penitenziaria. È un lavoro duro da svolgere. Non ci sono gli uomini e i mezzi. Così è difficile mantenere gli standard di sicurezza." Aggiunge Durante. Nella casa circondariale di Rossano, fino a qualche tempo fa, erano reclusi ventuno detenuti accusati di terrorismo internazionale. Quasi tutti fondamentalisti islamici. Tredici di loro, recentemente, sono stati trasferiti in Sardegna. Fra gli otto attualmente carcerati a Rossano ci sono anche coloro i quali hanno inneggiato all’Isis dopo gli attentati di Parigi e Bruxelles. Già allora fu lanciato l’allarme. Quel grido rabbioso "Viva la Francia libera", fece preoccupare i cittadini e non solo. Attualmente, nel carcere cosentino, sono in servizio solo 120 agenti. Con tre turni da coprire. Per i servizi di vigilanza esterna servono 38 uomini: quattro sentinelle sui muri di cinta e una pattuglia esterna automontata. "C’è carenza di personale. Lo diciamo da due anni e nessuno fa niente. Il direttore del carcere, nel periodo natalizio, è stato persino costretto a revocare le ferie degli agenti e a richiamarli tutti in servizio. Allo Stato chiediamo più uomini". Conclude il segretario generale del Sappe. Certamente non basteranno le novecento assunzioni previste per il 2017. Basti considerare che ogni anno sono circa milleduecento gli agenti che vanno in pensione. Dunque, nelle carceri italiane, sempre meno poliziotti a discapito della sicurezza. Dell’Italia. Alessandria: carcere; subito più agenti, ma da ottobre sarà rivoluzione di Marco Madonia alessandrianews.it, 12 gennaio 2017 Il direttore della Casa di Reclusione fa il punto dopo l'incontro con il provveditore regionale. "Avremo presto più agenti e investiremo sulla tecnologia e sulla videosorveglianza, ma servono ragionamenti strutturali". Da ottobre partirà il progetto Agorà, vera svolta: la sorveglianza dinamica darà più responsabilità ai detenuti. Non saranno forse gli interventi dei prossimi giorni a risolvere la situazione della Casa di Reclusione di San Michele, che si è ormai cronicizzata, ma certo saranno una prima importante risposta alla crisi di personale dell'istituto, quantificabile in circa 40 unità e che diventa ancor più grave nei periodi di festa, quando aumentano le richieste di ferie e i turni di chi è in servizio inevitabilmente si allungano oltremodo. Il direttore della Casa di Reclusione di San Michele, Domenico Arena, fresco di un lungo e approfondito confronto con il provveditore regionale, Luigi Pagano, fa il punto della situazione, rispondendo così pubblicamente anche alle molte sollecitazioni arrivate dal sindacato UilPa. "Su moltissimi aspetti siamo in sintonia con quanto sottolineano gli agenti di polizia penitenziaria - racconta Arena - a partire dal dato relativo alla carenza di personale. La situazione si è acutizzata sotto Natale, anche perché alcuni detenuti hanno dovuto ricorrere a ricoveri ospedalieri, e questo per noi significa organizzare delle scorte che drenano ulteriore personale dall'istituto. Ci tengo però a sottolineare che il nostro istituto ha in corso un progetto che prevede l'uscita ogni giorni di 20 detenuti per lavorare all'esterno, una situazione positiva ma che ci richiede ulteriori attenzioni per realizzare i giusti controlli". Nel periodo festivo dei circa 180 dipendenti complessivi che ruotano intorno al carcere di San Michele 110 hanno potuto prendere ferie a rotazione, ma la situazione è diventata particolarmente difficile per chi si trovava in servizio. "Ora la situazione sta già tornando alla normalità - spiega il direttore - ma il problema strutturale rimane. Nel brevissimo tempo verrà risolto grazie all'arrivo di una decina di agenti dall'istituto di Alba, che ad oggi è inattivo, e da 3 unità provenienti dalla Casa circondariale Catiello e Gaeta di Alessandria. Nel budget dei fondi 2017 ricaveremo poi le risorse per l'introduzione di alcuni sistemi di videosorveglianza e cancelli automatici, che ci consentiranno di recuperare ancora qualche altra unità di personale. Il tutto in attesa che riprenda il turnover fermo da anni e si possa tornare ad assumere personale aggiuntivo". La vera rivoluzione è però attensa per febbraio e poi per ottobre, due passi avanti verso il processo di cambiamento già avviato da tempo all'interno della struttura di San Michele, e che porterà all'introduzione della Sorveglianza Dinamica, un nuovo sistema di gestione dei detenuti all'interno della struttura. "Non bastano interventi quantitativi per risolvere i problemi - chiarisce il direttore Arena - servono anche cambiamenti qualitativi nel modo di agire degli agenti e nella nostra organizzazione interna, un cambiamento lungo e difficile, ma sul quale stiamo lavorando da anni. Intanto da febbraio ci saranno meno postazioni fisse con agenti costretti a rimanere sempre e solo al proprio posto ad osservare i detenuti, con la conseguenza di rendere il lavoro degli operatori anche più vario, interessante e motivante. Saranno organizzati pattugliamenti in gruppi di 3 agenti, di cui almeno uno anziano, che si muoveranno per la struttura in maniera non prevedibile, controllando quanto sta succedendo. La vera rivoluzione culturale si avrà però ad ottobre, con il progetto Agorà. Per decenni abbiamo convissuto con un sistema che riteneva gli agenti responsabili di ciò che succedeva nell'area di loro pertinenza, ma è ora di responsabilizzare maggiormente i detenuti, offrendo loro più opportunità di crescita, quando lo meritano". Il progetto prevede la restituzione alle sezioni detentive del loro ruolo di camere di pernottamento, realizzando in circa metà istituto, nelle ore diurne, una gestione differente rispetto a quella attuale. "Le celle resteranno aperte, consentendo ai detenuti di circolare liberamente per gli spazi, di mangiare insieme, di dedicarsi alle attività quotidiane che vengolo loro proposte e di fare sport. La vita comunitaria può aiutare il reinserimento delle persone e sarà un aiuto anche per la sorveglianza, perché verranno concentrare le risorse. Avremo tutti gli agenti, gli educatori e gli operatori che circoleranno a stretto contatto con i detenuti. Un carcere più umano e responsabilizzante è anche un carcere più sicuro. Il modello su cui lavorare, come avviene in alcune esperienze in Europa e sperimentato nel carcere di Opera o a Rebibbia, è quello per cui se si offrono opportunità ai detenuti che lo meritano, questi saranno i primi a lavorare dall'interno per coglierle, invece di cercare ogni occasione per "fregare" gli agenti con l'unico scopo nella vita di riuscire a nascondere un cellulare o ottenere clandestinamente un po' di fumo". Un altro dei motivi di scontro con il sindacato è stata la decisione di affidare ispezioni al nucleo investigativo regionale di Torino e non al personale interno al carcere, ma per direttore Arena si tratta in questo caso di una semplice procedura obbligata: "quando ci sono delle inchieste della Procura è normale che intervenga personale esterno. Non succede solo ad Alessandria, ma ovunque. Io ho piena fiducia nel nostro personale e ce l'ha anche l'amministrazione a Torino, ma le procedure sono queste. Quando entrano cellulari e sostenze illecite in istituto bisogna sondare ogni strada, pur sperando che nessuno del personale sia coinvolto. Ci prepariamo al peggio sperando il meglio". Il nuovo sistema prevederà comunque anche un inasprimento del trattamento per quei detenuti che si dimostreranno non intenzionati a collaborare: "delle 6 sezione detentive in cui il carcere di San Michele è diviso - spiega Arena - una potrebbe essere destinata a rimanere con le celle chiuse, e servirà per chi dimostrerà che non è ancora pronto per un percorso di responsabilizzazione. L'obiettivo è quello di ridurre sempre più la distanza fra i detenuti e il mondo esterno, specialmente per chi si trova verso il fine pena, facilitando il reinserimento in società. Per questo stiamo promuovendo iniziative che aiutino chi si prepara a uscire a trovare un'occupazione e un rilancio nella vita. Il progetto con Amag Ambiente consente per ora a 8, ma presto a 16 detenuti, di lavorare gratuitamente per il bene della città, ma presto incontreremo l'agenzia per il lavoro Manpower per costruire con loro occasioni di tirocinio e inserimento lavorativo per chi lo meriterà. Dalla crisi si esce accelerando e non frenando, anche se bisogna farlo con la giusta attenzione. La storia ci insegna che un carcere chiuso su se stesso è più insicuro e aumenta i casi di recidiva per chi poi finisce il periodo di detenzione. Serve un cambio di paradigma e, pur fra diverse difficoltà, è in questa direzione che stiamo andando". Genova: telefonini proibiti e pidocchi nelle carceri, emergenza a Marassi e Pontedecimo di Stefano Origone La Repubblica, 12 gennaio 2017 Denuncia del segretario regionale Uil Polizia Penitenziaria, scattata la profilassi per le detenute. Hashish e un cellulare. Il pacco era destinato a un detenuto nell’ora d’aria ed è stato intercettato dalla polizia penitenziaria. La denuncia arriva da Fabio Pagani, segretario regionale Uil Pa Polizia Penitenziaria. "Il 2017 è iniziato nei peggiori modi. Chiediamo al Governo e al ministro della giustizia di aprire un confronto presso il dipartimento della Funzione Pubblica per chiudere le tematiche in sospeso. Mancanza di organico, qualità del lavoro, rinnovo del contratto". Ma non è tutto. Nel carcere femminile di Pontedecimo è stata attivata la profilassi sanitaria a causa della presenza di pidocchi al reparto al primo piano. Alcune detenute sono state isolate. Ritornando a Marassi, il pazzo conteneva 45 grammi di hashish e un telefonino nuovo di zecca. Le telecamere hanno inquadrato chi lo ha lanciato ed è stata avviata un’indagine per capire chi fosse il detenuto destinatario. Cassino (Fr): lite tra detenuti, italiano sfregiato da un tunisino con una lametta di Katia Valente ciociariaoggi.it, 12 gennaio 2017 Una normale giornata in sezione, porte aperte e discussioni tra detenuti. Si conoscono, si capiscono. A volte no, discutono e si animano. Altre volte ancora la furia cieca domina le menti, anche solo per pochi istanti, e provoca problemi e danni. È quello che è accaduto domenica. Due detenuti della Casa circondariale San Domenico hanno iniziato a parlare tra di loro, poi hanno cominciato ad alzare i toni. Un alterco che ha visto un tunisino, poco più che trentenne, afferrare in un istante una lametta e sfregiare al volto il suo interlocutore, un italiano, pare, di origini ciociare. È stata solo la prontezza degli agenti della polizia penitenziaria a evitare che le conseguenze fossero ancora più gravi. Immediatamente è stato bloccato l’aggressore mentre la sua "vittima" è stata trasferita in ospedale. Proprio qui, i medici del Santa Scolastica hanno dovuto applicare ben 15 punti di sutura: la ferita correva lungo tutta la guancia. Poco dopo è stato dimesso e riaccompagnato al San Domenico. Futili i motivi alla base della lite tra i due ospiti della casa circondariale. Provvedimenti interni, intanto, per l’aggressore che nel recente passato si sarebbe reso protagonista di altre azioni "pericolose", come l’incendio della sua stessa cella per protesta. Difficile anche la battaglia quotidiana delle forze di polizia penitenziaria all’interno di una struttura che presenta un sovraffollamento particolarmente alto. Quasi 300 detenuti che vivono in sezione, con le porte aperte durante il giorno, secondo le disposizioni dipartimentali, sotto massima osservazione e attenzione da parte degli agenti in sofferenza con i numeri del proprio organico. Proprio loro, poco più di una settimana fa, sventarono il tentativo del figlio di un detenuto mentre provava a consegnare - durante un colloquio - quasi dieci grammi di cocaina al padre. Bastarono alcuni movimenti strani e gli agenti riuscirono a cogliere il tentativo di passare la droga al genitore. Immediato l’arresto. Anche per il ragazzo si aprirono le porte del carcere. Trapani: spunta telefonino in carcere. Il detenuto: "l’ho trovato nel bagno del tribunale" di Salvo Palazzolo La Repubblica, 12 gennaio 2017 Il cellulare sequestrato a un pregiudicato per rapina. Le indagini condotte dalla procura di Marsala. Per giorni, un gruppo di detenuti del carcere "San Giuliano" di Trapani ha telefonato liberamente grazie a un cellulare. Uno dei reclusi, un pregiudicato per rapina, ha ammesso: "L’ho trovato nel bagno del tribunale di Marsala, durante la trasferta di un processo". Una giustificazione che non convince, ma al momento questa dichiarazione ha fatto scattare la competenza della procura della repubblica di Marsala, ribadita nei giorni scorsi dalla procura generale di Palermo dopo un conflitto di competenza che si era aperto con la procura di Trapani. Un vero e proprio giallo, su cui adesso indagano gli investigatori della polizia penitenziaria, mentre si sta cercando di ricostruire chi abbia utilizzato il cellulare. Nella migliore delle ipotesi, il telefonino potrebbe essere stato utilizzato per salutare amici e parenti; il sospetto che si fa strada è invece più grave, alcuni detenuti potrebbero aver gestito affari e traffici illeciti dal carcere. "Adesso, spero che non si faccia cadere la responsabilità sugli agenti della polizia penitenziaria", dice Dario Quattrocchi, il segretario regionale del sindacato degli agenti Uspp. "Continuano ad essere troppe le carenze negli organici e il personale è oberato di lavoro". Nel carcere di Trapani, ci sono 400 detenuti; i poliziotti penitenziari dovrebbero essere 320, sono invece 250. A ottobre, è anche arrivato un rinforzo di 35 unità in vista dell’apertura del padiglione ristrutturato (la caduta di alcuni calcinacci aveva praticamente imposto i lavori). Di certo, una falla nei sistemi di sicurezza e di scorta c’è stata. Se anche fosse vera la storia del telefonino trovato nel bagno del tribunale di Marsala, non si comprende come mai nessuno si sia accorto dell’apparecchio nei giorni successivi. Udine: Gherardo Colombo "una giustizia più umana che garantisca la nostra sicurezza" di Mario Salandra Messaggero Veneto, 12 gennaio 2017 "Giustizia è rispetto delle regole o qualche cosa di più? A cosa serve? C’è giustizia oggi? Come dovrebbe essere la giustizia per essere utile e umana?". Queste e molte altre sono le domande cui si è cercato di rispondere durante l’evento annuale "Sulle regole", l’incontro con l’ex magistrato Gherardo Colombo che ha coinvolto decine e decine di istituti scolastici in tutta Italia. A questo evento ho partecipato anch’io con la mia classe e devo dire che mi è piaciuto molto, soprattutto per gli spunti di riflessione che ne sono derivati. Colombo è andato subito al punto, spiegando cosa significa "giustizia", cosa fosse e sia considerato giusto o sbagliato affinché si potessero stabilire delle norme che regolino la convivenza civile. Personalmente penso che la giustizia, inteso come il vivere civile, "giusto", non sia solo frutto di valori, per così dire, laici, ma anche religiosi (o etico-morali). Anch’essi hanno contribuito a rendere il mondo un po’ più civile e umano. Colombo ha poi proposto il suo pensiero (da me totalmente condiviso) sul fatto che le carceri abbiano una funzione più importante e profonda rispetto a quello che di solito pensiamo. Riprendendo le sue parole: "Per molti la giustizia equivale a punizione. Questa giustizia, ossia quella secondo cui qualcuno comanda e altri obbediscono, è la giustizia per cui chi sbaglia deve essere punito, piuttosto che essere accompagnato a non sbagliare più". Questo significa che è retribuzione del male con il male, provoca discriminazione, risponde al conflitto dipendente dalla trasgressione con il conflitto causato dall’esclusione. Ed è vero: noi la prigione la pensiamo come il luogo della punizione, mentre il suo obiettivo deve essere la riabilitazione della persona all’interno della comunità, affinché capisca e si penta del reato. Ecco, quindi, un significato umano di giustizia! Colombo successivamente ha spiegato che deve essere la conoscenza il nostro punto di partenza: "Chi conosce può scegliere, e chi sceglie è libero, e solo chi è libero può raggiungere gli scopi che si prefigge. Ma anche assumersi le proprie responsabilità, inscindibili dalla libertà, praticare la giustizia e realizzare una società migliore". La giustizia, quindi, dovrebbe fondarsi sul reciproco riconoscimento e significare alleanza. La nostra sicurezza non si garantisce con la minaccia del carcere, ma si garantisce attraverso l’educazione. "Se riusciamo a comprendere il perché delle regole - è il pensiero dell’ex magistrato - diventa più semplice rispettarle". Treviso: "le forme del teatro", spettacoli e incontri per i detenuti della Casa circondariale ilpopoloveneto.it, 12 gennaio 2017 Fondazione Benetton Studi Ricerche, Cpia "Alberto Manzi" (Centri Provinciali per l’Istruzione degli Adulti) e Teatro Del Pane uniscono competenze e risorse per portare il teatro all’interno del Casa Circondariale di Treviso. Le tre realtà trevigiane, consapevoli della funzione terapeutica e pedagogica delle arti sceniche, promuovono, fra gennaio e marzo 2017, il progetto Le forme del teatro, articolato in spettacoli e laboratori di formazione per i detenuti e per gli insegnanti del Cpia che operano sia all’interno della Casa Circondariale che nei centri di istruzione per gli adulti. Saranno quattro gli spettacoli teatrali proposti ai detenuti e organizzati, fra gennaio e marzo, nella sede della Casa Circondariale. Si comincerà venerdì 27 gennaio con il duo comico di Pordenone composto da Andrea Appi e Ramiro Besa, in arte I Papu; si proseguirà venerdì 3 febbraio con uno spettacolo dell’attore Andrea Pennacchi accompagnato dalle musiche di Sergio Marchesini; e con altri due appuntamenti, in corso di definizione, in programma venerdì 10 e 17 marzo. A margine degli eventi, gli artisti coinvolti dialogheranno con i detenuti, favorendo occasioni di confronto e riflessione. Al fine di promuovere un coinvolgimento attivo e diretto dei destinatari dell’iniziativa, saranno proposti inoltre due laboratori di formazione teatrale, a cura di Mirko Artuso, direttore artistico del Teatro Del Pane, attore, regista ed esperto nella formazione teatrale, che si avvarrà della collaborazione di Suelo Faganello, fisioterapeuta, esperta in movimento e benessere del corpo. Un laboratorio si svolgerà all’interno della Casa Circondariale e sarà rivolto ai detenuti, a cui saranno proposti quattro appuntamenti a cadenza settimanale fra febbraio e marzo. Il secondo momento formativo, in programma nella sede del Teatro Del Pane e concentrato nell’arco di un fine settimana, è pensato per gli insegnati del Cpia. "In ogni persona ci sono storie che aspettano di essere raccontate: si cercherà di andare alla ricerca di queste storie, senza dare per scontato i modelli culturali di appartenenza" spiega Artuso, che continua "la sfida che ci si propone è quella di costruire un percorso di educazione teatrale, partendo dalla teatralità spontanea, istintiva, naturale, sotto la guida esperta di un formatore teatrale, che cercherà di metterla in luce, di valorizzarla, ma anche di contenerla e canalizzarla verso vie proficue. Tra gli obiettivi: favorire l’espressione individuale e di gruppo; incoraggiare l’accettazione della propria individualità; attivare la creatività personale attraverso il fantastico, l’immaginario e il sogno; facilitare la crescita interrelazionale e la consapevolezza personale; sviluppare la sincronizzazione con il gruppo e con l’ambiente attraverso momenti d’insieme". "Il "teatro in carcere" è una pratica diffusa ormai da anni in diversi istituti di pena del nostro Paese, sia in forma di rappresentazioni teatrali fruite dai detenuti sia come spettacoli in cui a essere protagonisti sono i detenuti stessi" spiega Orazio Colosio, dirigente scolastico del Cpia "Alberto Manzi". "L’esperienza che il Cpia, la Fondazione Benetton e il Teatro del Pane, in collaborazione con la direzione della Casa circondariale del carcere di S. Bona, intendono proporre ai detenuti assume forse significati nuovi e diversi rispetto a quanto avviene in altre realtà perché intende porre l’accento sulla pratica teatrale piuttosto che sullo spettacolo, sull’attività laboratoriale e creativa dei detenuti, sulla funzione terapeutica e pedagogica di quest’ultima, in grado di intervenire sugli aspetti relazionali e la cura di sé. Si tratta di una proposta che nasce dalla convinzione che il teatro, nella forma della fruizione e in quella della sperimentazione di forme espressive, forse inusuali, ma non per questo meno interessanti ed efficaci, possa e debba entrare a pieno titolo e con una propria specificità a far parte delle attività trattamentali. È un inizio, nella speranza che il progetto possa trovare continuità e, perché no, permettere ai detenuti della Casa circondariale di Treviso, nei prossimi anni, di far conoscere alla società la realtà del carcere dando corpo e voce, su un palcoscenico, alle proprie emozioni e ai propri pensieri". Racconta Marco Tamaro, direttore della Fondazione Benetton: "l’anno scorso abbiamo avuto modo di portare nel carcere di Santa Bona il nostro spettacolo Ritorni, ispirato dall’edizione 2014 del Premio Carlo Scarpa, dedicato ai villaggi di Osmace e Brežani, vicino a Srebrenica. Un lavoro che, a vent’anni dalla fine della guerra in Bosnia-Erzegovina, lascia sullo sfondo il racconto del conflitto e delle sue crudeltà per portare in scena storie di impegno quotidiano che testimoniano un lento e difficile cammino verso la pace, fatto di tolleranza, condivisione e perdono. La sentita partecipazione dei detenuti e le loro manifestazioni di apprezzamento ricevute, anche per corrispondenza, nei giorni successivi alla messa in scena e all’incontro con l’attore, Filippo Tognazzo, e con uno dei protagonisti della storia narrata, Zijo Ribic, ci hanno convinto dell’utilità del linguaggio teatrale per superare barriere e aprire forme di dialogo, di condivisione e di riflessione. Abbiamo perciò deciso di impegnarci in un progetto più articolato, cercando, come di consueto, di stabilire sinergie con altre realtà del territorio, unendo le forze in vista di un obiettivo comune". È in fase di valutazione anche la proposta di uno spettacolo per gli studenti del Cpia della Provincia di Treviso, da tenersi nell’auditorium degli spazi Bomben della Fondazione Benetton. Per informazioni: Fondazione Benetton Studi Ricerche, tel. 0422.5121, fbsr@fbsr.it. Rovigo: i detenuti diventano arbitri di calcetto, progetto del Comitato polesano del Csi Il Gazzettino, 12 gennaio 2017 Imparare a far rispettare le regole dopo averle infrante: la Casa circondariale diventa fucina di arbitri di calcio a 5, grazie alla collaborazione tra il carcere e il comitato polesano del Csi. Il quale, grazie a Ciro Liotto, arbitro Csi che lavora come agente di polizia penitenziaria all’interno del carcere, ha organizzato una serie di attività sportive per i detenuti, che spaziano dal calcetto agli scacchi. Tra queste anche la possibilità di diventare arbitri di calcio a 5, tramite un corso e un esame finale tenuti dallo stesso Centro sportivo italiano. "Oltre all’attività sportiva classica, abbiamo colto l’occasione per dare il nostro contributo anche nel sociale spiega Andrea Denti, presidente del Csi di Rovigo - così è nata l’idea di organizzare, oltre alle attività sportive, anche un corso per arbitri: un modo per educare al rispetto delle regole, non solo del gioco, ma anche della vita". Il corso è partito in questi giorni e vede la partecipazione di quaranta detenuti di diverse nazionalità, i quali saranno impegnati con lezioni pratiche e teoriche per quattro ore alla settimana, tenute da Liotto. Entro la fine di febbraio l’esame finale tenuto da una commissione del Csi: chi lo supererà sarà a tutti gli effetti una giacchetta nera e potrà arbitrare, una volta uscito dal carcere, nel campionato di calcio a 5 Csi. "C’è chi nella vita ha sbagliato e sta pagando per i propri errori, ma il carcere deve avere prima di tutto una funzione rieducativa e questa iniziativa va proprio in questa direzione", spiega Liotto, che già adocchiato tra i partecipanti chi ha la stoffa per arbitrare. Ce ne sono almeno due particolarmente bravi, che potrebbero veramente arbitrare una volta scontata loro pena". Al corso per direttori di gara vengono affiancati tornei di calcio a 5, calcio balilla, ping pong e scacchi. "Ci piacerebbe premiare la squadra vincitrice del torneo di calcetto - aggiunge Liotto - organizzando un’amichevole all’interno del carcere con una squadra di non detenuti". Un piano Marshall contro la povertà di Leopoldo Grosso* e Don Armando Zappolini** Il Manifesto, 12 gennaio 2017 L’analisi del voto, sia quello delle elezioni amministrative, sia quello referendario per le caratteristiche che ha assunto pro-contro il Presidente del Consiglio e il suo governo, ha mostrato quanto l’aumento della povertà e la crescita delle disuguaglianze si traducano in un malcontento che punisce chi ha responsabilità di governo e non ha assunto come priorità la questione sociale. Il crescente impoverimento del ceto medio di fronte all’allargarsi della povertà assoluta e relativa, le diminuite possibilità di mobilità e ascesa sociale, la mancanza di lavoro per i giovani, la disoccupazione e l’assoluta insufficienza degli interventi di protezione e di tutela delle persone e delle loro famiglie rimaste senza reddito, gli sfratti esecutivi per morosità incolpevole che spesso esitano nella separazione del nucleo alla ricerca di un’ospitalità provvisoria, pongono oggi alla politica domande ineludibili e l’assunzione di chiare priorità. L’esigibilità dei diritti sociali e il rispetto degli articoli della Costituzione in merito richiedono la creazione di un "piano Marshall" per l’occupazione che sappia coniugare reddito e opportunità di lavoro, a partire dalle tante urgenze e necessità che, dall’agricoltura alle energie rinnovabili, dal dissesto idro-geologico alla valorizzazione dei beni culturali, dal lavoro di cura alla protezione dell’ambiente, i vari territori avvertono e denunciano. I venti miliardi del decreto "salva banche" hanno dimostrato che, quando c’è la volontà politica, le risorse finanziarie sono reperibili. In 18 miliardi è stata stimata la spesa per il reddito di cittadinanza, la misura di contrasto alla povertà e di inclusione sociale di cui tutti i paesi europei sono dotati tranne Italia e Grecia. Non è tollerabile la comparazione tra uno "scudo" a protezione di chi ha investito in titoli truffaldini più di 100.000 euro e un sussidio di 400 euro solo a chi, con figli, per poterne beneficiare, non deve avere un reddito superiore a 3000 euro annui! Se ne avvantaggerebbero 2 persone povere su 10. È la celebrazione del paradosso dell’ossimoro dell’"universalismo selettivo" proposto dal ministro Poletti. Sono le briciole di un miliardo e mezzo di stanziamento quando, per tamponare la situazione, tutti gli studi asseriscono che ne sono necessari almeno 8 miliardi. È elemosina anticostituzionale. La campagna "Miseria Ladra", nata tre anni fa e declinata nei vari territori di tutta Italia sotto la spinta del Gruppo Abele e di Libera che l’hanno promossa intende rilanciare, città per città, le iniziative di contrasto alla povertà e alle disuguaglianze sociali, con l’obiettivo di creare reti di associazioni e di cittadini che si attivino a partire dalle necessità territoriali, coniugando la protesta con la proposta, l’aiuto alle persone indigenti e in difficoltà con la sollecitazione e la collaborazione con gli Enti locali. I Comuni che mostrano adeguata sensibilità alla problematica e che, per legge, devono comunque provvedere alle misure di Sostegno di Inclusione Attiva (Sia) la cui finalità consiste nel combinare l’aiuto economico (per quei pochi indigenti selezionati) con la riqualificazione professionale, coi lavori socialmente utili e con le necessità del territorio, non possono pensare in termini autoreferenziali. Spesso, e non solo i Comuni più piccoli, mancano di personale e talvolta anche delle competenze specifiche necessarie. Non è auspicabile che le già ridottissime risorse stanziate per la povertà vengano adoperate, anche solo in parte, per potenziare la macchina dei Comuni e dei Consorzi socio-assistenziali. C’è bisogno dell’apporto di tutti, e in particolare delle organizzazioni che storicamente si sono confrontate con la problematica, con l’obiettivo la valorizzazione delle loro capacità, i bisogni del territorio, il fare - col volontariato e la cittadinanza attiva - "impresa sociale". È questa la direzione che dovrebbe assumere un provvedimento per il reddito di dignità che abbia il coraggio di non ridursi ad essere una piccola pezza per pochi beneficiari a fronte di una platea molto più ampia di persone in stato di bisogno. *presidente onorario Gruppo Abele **presidente Cnca Migranti. Orlando: il reato di clandestinità aumenta il rischio terrorismo di Errico Novi Il Dubbio, 12 gennaio 2017 Il guardasigilli al question time: "da eliminare le norme bandiera che ostacolano la sicurezza". Alla Camera il ministro ricorda che ogni migrante diventa indagato appena mette piede in Italia: "così i tempi si dilatano e si consente ai soggetti pericolosi di far perdere le proprie tracce". Al question time di Montecitorio Andrea Orlando usa un’espressione chiave: "Stato di indeterminatezza". È quello che si crea con migranti capaci di diventare una minaccia "per la sicurezza pubblica" e di cui l’Italia perde di fatto il controllo. È successo con Amri, si verifica in ogni occasione in cui una persona potenzialmente pericolosa arriva in Italia, chiede di vedersi riconosciuto lo status di rifugiato pur senza avere i requisiti, impugna il diniego della commissione giudiziaria con una causa in Tribunale e vede così trascorrere anche anni prima che il processo si concluda. E in quella che ieri nel suo intervento alla Camera il guardasigilli ha definito "situazione di limbo" non è difficile far perdere le proprie tracce. È ormai chiaro che nella gestione dell’emergenza migranti l’aspetto giudiziario è decisivo proprio per quei casi dietro cui si possono nascondere potenziali terroristi. E che, sia secondo Orlando che per il ministro dell’Interno Marco Minniti, ci siano alcune cose da fare subito: semplificare e accelerare le cause sulle richieste d’asilo, rendere efficiente il sistema dei Cie e, aspetto forse prioritario, eliminare il reato di clandestinità. È quest’ultimo il punto sul quale lo stesso guardasigilli batte con maggiore forza nell’Aula di Montecitorio. "Oltre a punire le persone per il solo fatto di migrare", ricorda, quel reato "finisce per ostacolare le attività investigative". Serve dunque una "profonda riflessione", secondo il ministro: "I migranti assumono la qualità di indagati non appena giungono sul territorio nazionale, e ciò ha ricadute disfunzionali per la costruzione del compendio probatorio, per il sovraccarico di lavoro nelle Procure e i costi di assistenza difensiva". È chiaro che lo status di indagato fa in modo che prima di poter arrivare a un’espulsione, anche nei casi in cui il diritto d’asilo non sussiste, si debba prima completare l’iter del processo penale. Meccanismo ormai chiarissimo, tanto che il guardasigilli chiede esplicitamente di abbandonare quella che definisce una "norma bandiera" capace solo di "intralciare il buon funzionamento del sistema". In attesa che si arrivi al superamento del reato di clandestinità, Orlando punta a mettere sui binari nel più breve tempo possibile il ddl sulla protezione internazionale, di cui anche ieri ha ricordato i due aspetti qualificanti: "Procedimento definito in 4 mesi con ricorso non reclamabile e ricorribile solo per Cassazione". L’impianto che, negli auspici di via Arenula, dovrebbe scongiurare anche i rischi di incostituzionalità, si basa sulle sezioni speciali da istituire nei 12 Tribunali più "caldi" e su un ragionamento fatto dal ministro della Giustizia anche nel, suo intervento a "Porta a Porta" di lunedì sera: "Intanto l’Unione europea non ci chiede di avere tre gradi di giudizio per la definizione delle richieste d’asilo. Inoltre il nostro ordinamento prevede addirittura un procedimento in quattro fasi: i tre gradi del processo vero e proprio sono preceduti infatti dal procedimento amministrativo che avviene davanti alla commissione provinciale, e che il disegno di legge prevede di rendere più articolato anche nel contraddittorio, in modo che la causa in Tribunale proposta dal migrante in caso di diniego dello status di rifugiato diventi di fatto un appello". Visto che resterebbe comunque la possibilità di ricorrere in Cassazione, si presume così di lasciare intatte le garanzie difensive previste dalla Costituzione. Le spiegazioni con cui ieri Orlando ha risposto ai quesiti dei deputati hanno riguardato anche il caso delle colonie penali agricole in Sardegna. Alcuni parlamentari eletti nell’isola avevano manifestato allarme per l’ipotesi di concentrarvi i detenuti per reati di terrorismo. L’ipotesi però non esiste, ha detto Orlando: "Si valuta di destinare tra l’altro a queste colonie chi è detenuto per reati di altra natura ma è anche a rischio radicalizzazione. Si tratterebbe non di una destinazione specifica ma regolata dai criteri trattamentali generali". I reclusi potenzialmente a rischio radicalizzazione sono 375, di cui 170 sottoposti a "specifico monitoraggio" da parte del Dap. Ci sono poi i 45 detenuti per terrorismo, disseminati nelle sezioni alta sicurezza di 8 penitenziari, tra cui quelli di Sassari e di Nuoro, dove se ne contano in effetti 27, più della metà. Una scelta, ha spiegato Orlando, dovuta al fatto che i due istituti sardi sono "strutture moderne adatte a coniugare le esigenze di sicurezza a quelle di trattamento specifico". Giustizia sociale in Ue: piccoli miglioramenti ma preoccupazione per i giovani felicitapubblica.it, 12 gennaio 2017 Dal terzo rapporto annuale dell’Istituto Bertelsmann Stiftung curato da Daniel Schraad-Tischler e Christof Schiller, emerge come la giustizia sociale sia in leggero miglioramento nella maggioranza degli Stati dell’Unione Europea. Tale studio prende in considerazione 6 elementi d’analisi: prevenzione della povertà, equità dell’istruzione, accesso al mercato del lavoro, coesione sociale e non discriminazione, salute, giustizia intergenerazionale. Se da un lato il rapporto evidenzia un leggero miglioramento nel complesso, non mancano le criticità tra cui la più evidente è quella che fa riferimento a una forte iniquità diffusa tra i più giovani. Quanto alla giustizia sociale, lo studio replica in sostanza quanto era stato rilevato nel 2015: i segnali positivi sarebbero da attribuirsi all’accesso nel mercato del lavoro in quasi tutti gli Stati Ue, compresi alcuni insospettabili come ad esempio Irlanda e Italia, che è al 24° posto della classifica generale e dunque molto indietro rispetto agli altri Paesi malgrado i miglioramenti. La testa della classifica è occupata da Svezia, Finlandia e Danimarca. Seguono Repubblica Ceca - che ha attuato piani di interventi ritenuti molto validi in materia di prevenzione della povertà e salute - Olanda, Austria e poi Germania che hanno dato il meglio per quanto riguarda il mercato del lavoro. Nella posizioni più basse navigano invece gli Stati dell’Europa meridionale - Spagna, Portogallo, Italia e Grecia - e l’Irlanda. Indietro anche i Paesi dell’Est e in particolare la Romania, la Bulgaria e l’Ungheria. Il rapporto spiega come nonostante la situazione generale di miglioramento, praticamente nessuna nazione membro Ue sia stata capace di tornare a una situazione di benessere pre-crisi, dunque riferita al 2008. Lo studio parla dell’aumento dei "working poor", definizione che indica tutti coloro che, nonostante un lavoro full time, restano a rischio povertà. Una percentuale in salita dunque, dal 7% del 2009 al 7,8% del 2015, mentre nel nostro Paese i "lavoratori poveri" costituiscono il 9,8% dei lavoratori a tempo pieno. Situazione, questa, che riguarda a sorpresa anche la Germania dove, sebbene gli ottimi punteggi ottenuti nell’accesso al mercato del lavoro e l’aumento dell’indice di giustizia sociale, gli occupati full time a rischio di povertà sono del 7,1%. Ma l’aspetto più preoccupante mostrato dal rapporto riguarda i giovani, soprattutto per quelli provenienti dai Paesi che hanno maggiormente risentito della crisi economica. Se in generale, infatti, la percentuale di giovani a rischio povertà è salita dal 26,4% al 26,9%, andando ad inquadrare la situazione dei soli Stati dell’Europa meridionale, scopriamo che Spagna, Grecia, Portogallo e Italia hanno subìto aumenti molto maggiori: dal 29,1% nel 2008 al 33,8% nel 2015. La strategia Isis tra Trump e Putin di Franco Venturini Corriere della Sera, 12 gennaio 2017 Con le spalle al muro a Mosul e a Raqqa, lo Stato Islamico patisce la fine dell’inimicizia tra il Cremlino e la Casa Bianca e punta a destabilizzare Turchia ed Europa. Fatalmente i terrorismi si somigliano e producono gli stessi tragici lutti, ma nella storia di ieri come in quella di oggi le loro cause e le loro finalità restano spesso diverse. L’orribile attentato di Gerusalemme ripropone tanto le differenze quanto le somiglianze (esaltate dal "fattore camion") senza però modificare la tela di fondo: il cosiddetto Stato Islamico può influenzare i palestinesi più militanti, può essere già diventato un loro occulto consigliere attraverso l’esempio di tanti delitti, ma la sua battaglia è nichilista e globale, viene combattuta all’interno dell’Islam oppure dove l’Occidente è più vulnerabile, e non si è mai fatta coinvolgere più di tanto dalla causa nazionale palestinese. Netanyahu può dunque avere ragione quando parla dell’attentatore simpatizzante dell’Isis, e quando sottolinea come la dinamica dell’attentato sia stata ispirata dai precedenti di Nizza e di Berlino. Anche se l’Intifada dei coltelli e degli investimenti l’hanno inventata i palestinesi, più di un anno fa. Ma soltanto riscontri oggi non disponibili consentirebbero di stabilire un vero nesso operativo tra Isis e terrorismo palestinese, aprendo, allora sì, un capitolo nuovo e potenzialmente esplosivo. In attesa delle necessarie verifiche l’Isis non rinuncia peraltro alle "sue" stragi. Dopo Berlino, Istanbul e un certo numero di altri massacri che non scuotono più la nostra sensibilità (quelli che si susseguono a Bagdad, per esempio) è diventato evidente che la falce manovrata dagli uomini in nero ha fretta. La falce dell’Isis teme di rimanere schiacciata tra Putin e Trump e per questo è impegnata in una inedita corsa contro la storia. Sapevamo da tempo che l’Isis voleva radicalizzare e mobilitare le maggiori comunità islamiche occidentali. Sapevamo che voleva impaurirci e farci cambiare i nostri stili di vita, sfruttare l’effetto destabilizzante dei flussi migratori, forse persino vagheggiare la "presa" dell’Europa immaginata in Francia da Michel Houellebecq. Ma oggi non è più tempo di sogni. Oggi si annuncia il mutamento dell’ordine postbellico e del disordine post Muro, Putin sta imponendo nuovi equilibri mediorientali, è in arrivo l’incognita Trump, nessuno sa come cambierà una America fino a ieri declinante e l’Europa affronta da posizioni di debolezza l’anno delle grandi prove elettorali. Berlino, Istanbul, Bagdad? Nella nuova cornice del mondo in mutamento sono tutti colpi andati a segno. Che purtroppo promettono di ripetersi con altrettanta lucidità. Messo con le spalle al muro a Mosul e minacciato della stessa sorte a Raqqa, l’Isis gioca attraverso il terrorismo una partita per la sua sopravvivenza: bisogna impedire ad ogni costo che Putin e Trump, voltata la pagina della inimicizia tra il Cremlino e Obama, uniscano le loro forze per distruggerlo. Abbiamo archiviato troppo in fretta la caduta di Aleppo e il suo inaudito tormento con l’Occidente che stava a guardare. Perché è dalle ceneri di Aleppo che è nata la nuova alleanza dei vincitori. La Russia, beninteso, e con essa Bashar al-Assad. L’Iran, forte delle sue milizie e forte soprattutto di un asse sciita che dalla Siria raggiunge ora l’Iraq e il Libano. E la Turchia, l’ultima venuta, che Putin utilizza come contrappeso verso l’Iran grazie a uno scambio inconfessabile: Erdogan chiude un occhio sulla "provvisoria" permanenza di Assad al potere, Putin ne chiude due sui regolamenti di conti tra turchi e curdi siriani. In Siria c’è già una zoppicante tregua voluta dalla nuova Triplice. Presto dovrebbe esserci una firma ad Astana, se possibile prima dell’insediamento di Trump il 20 gennaio prossimo. E questo ci dice quanto prudente sia Putin sui previsti nuovi rapporti con Washington: meglio accelerare, meglio vincere prima dell’arrivo di Trump. E dopo aver fatto la guerra in polemica con l’America fare la pace escludendo l’America, poi si sarà sempre in tempo a farne dono a Trump. I tagliagole dell’Isis sanno di avere davanti una via obbligata. Colpire nella parte di Siria controllata dai turchi, in prossimità del confine. Colpire direttamente la Turchia, indebolire Erdogan che punta al referendum presidenzialista e allearsi di fatto con i curdi del Pkk per moltiplicare gli attentati. Fare appello alle monarchie sunnite del Golfo escluse dall’alleanza guidata da Putin e nemiche giurate dell’Iran. Sperare che Trump storca il naso davanti alla mano libera concessa a Erdogan contro i curdi siriani, sin qui ottimi alleati di Washington. Colpire il quartiere sciita di Bagdad, da "buoni" sunniti. E beninteso colpire Berlino, perché sarebbe assurdo rinunciare alla destabilizzazione dell’Europa proprio ora che le urne si avvicinano, che il populismo sembra avanzare e che come sempre tutto dipenderà dalla Germania. Il terrorismo dell’Isis ha una strategia. Una strategia che ha sin qui risparmiato l’Italia, più utile come hub di confusi flussi migratori ed eventualmente come terra di transito, anche se il capo della polizia Franco Gabrielli ha ragione quando avverte che presto o tardi potremmo anche noi pagare un prezzo. Una strategia che vuole rendere ancor più vulnerabile l’Europa. Una strategia che deve far saltare la Triplice di Aleppo, e dunque bombardare di attentati la Turchia. Una strategia che vuole nascondersi dietro le bandiere sunnite, estendere il conflitto con gli sciiti e rilanciare il reclutamento. E, soprattutto, una strategia che vuole impedire che sul Medio Oriente scenda una pax russo-americana. Putin e Trump non devono andare a braccetto contro l’Isis, ha giurato il redivivo Al Baghdadi. Il che è un eccellente motivo perché i due lo facciano al più presto. Stati Uniti. Uccidere un killer nazista è come uccidere Luther King di Piero Sansonetti Il Dubbio, 12 gennaio 2017 Dylann Roof ha 22 anni. È stato condannato a morte da una corte federale. Dylann aveva 20 anni quando ha commesso il suo orrendo delitto. È entrato in una Chiesa di evangelici afroamericani, a Charleston, ha assistito per circa tre quarti d’ora alla funzione celebrata dal reverendo Clementa Pinckney, poi ha estratto una pistola. Ha sparato, prima sul reverendo, poi su otto persone a caso, tutte afroamericane, donne e uomini, e le ha uccise. Ha provato a scappare, ma l’hanno beccato quasi subito. Aveva ancora l’arma in mano, però non l’ha usata contro i poliziotti bianchi. S’è arreso. "Che hai fatto? ", gli hanno chiesto sgomenti gli agenti. Lui ha risposto che erano sei mesi che si preparava a questa azione, ed era sicuro che il suo attacco avrebbe provocato una rivolta dei neri e poi una specie di guerra civile che avrebbe prodotto il ritorno alla segregazione degli afroamericani. Quello voleva: la segregazione. Per la verità lui non ha detto afroamericani, ha detto "negri". Nella politologia americana Dylann Roof è considerato un "suprematista" bianco, cioè un seguace della teoria della "supremazia bianca". E nel diritto americano il delitto che ha commesso si chiama "delitto dell’odio". Detto più semplicemente, Dylann è un nazista e il suo delitto è uno dei più orrendi delitti razzisti avvenuti negli Usa nell’ultimo mezzo secolo. Molti parenti delle nove vittime, in questi mesi, hanno rassicurato Dylann. Gli hanno fatto sapere che sarà perdonato, anzi, che da loro è già stato perdonato. Anche perché sicuramente questa sarebbe stata la posizione del reverendo Pinckney, che aveva dedicato la vita alla lotta per i diritti degli afroamericani, ma anche alle idee della nonviolenza, e del perdono, e si era battuto tante volte contro la pena di morte. Negli Stati Uniti la stragrande maggioranza dei bianchi è favorevole alla pena di morte, è contraria invece la stragrande maggioranza o forse la quasi totalità dei neri. Dylann Roof quando ha ascoltato le dichiarazioni di perdono nei suoi confronti, e anche la sollecitazione a pentirsi, a esprimere il suo pentimento, è rimasto immobile, di ghiaccio. Ha detto di non essersi pentito. Di essere convinto della necessità di tornare alla segregazione, e che la via migliore sia quella di innescare una guerra civile tra neri e bianchi. Dylann non ha mostrato nessuna emozione neanche l’altra sera, quando gli hanno letto la condanna a morte. Né impaurito, né esaltato. Su diversi giornali si sono lette osservazioni, in parte espresse da varie organizzazioni umanitarie, di soddisfazione per una ragione di principio. È la prima volta nella storia degli Stati Uniti che viene sentenziata la pena di morte per un "reato dell’odio". Ha un senso uccidere Dylann, perché è un assassino, uno stragista, un ammiratore di Hitler? Non ha nessun senso. Forse uccidere Dylann, allo stesso modo nel quale lui ha ucciso il reverendo Pinckney e altre otto persone, è un delitto meno grave di quello commesso da Dylann. Ma resta un delitto. Uccidere è sempre un reato, è il più grave dei reati, farlo con premeditazione, come sarà in questo caso, è un abominio. Non può esistere il Diritto ad uccidere. Se lo Stato uccide va fuori del diritto. Molti, moltissimi, hanno scritto tante volte queste cose. Hanno segnalato l’incongruenza di una grande democrazia come quella americana, forse la più grande democrazia moderna, che prevede e ammette ed esercita la pena di morte. Pochi però, pochissimi, insorsero quando l’ 11 giugno del 2001, in una prigione dell’Oklahoma, fu messo a morte un certo Timothy McVeigh. Timothy aveva commesso un delitto ancora più tremendo: con una autobomba micidiale, nell’aprile del 1995, aveva fatto saltare in aria un intero edificio che ospitava uffici del governo e della polizia, e aveva ucciso 168 persone. Il più grave attentato di tutti i tempi, nella storia degli Stati Uniti, prima dell’ 11 settembre. Timothy non seppe mai dell’11 settembre, perché lo uccisero due mesi prima. Due mesi esatti. Anche lui era un suprematista bianco, un nazista, e le voci che si levarono per chiederne la salvezza furono flebili flebili. È facile chiedere che non sia ucciso Abele, no? Ma Caino, Caino possiamo massacrarlo quando vogliamo? Uccidere un nazista non è un reato, uguale, identico all’uccisione di un missionario, o di Luther King, o di Gandhi, o di Teresa di Calcutta? Temo che questa domanda raccolga pochissime risposte positive. E Dylann morirà, nel silenzio, o addirittura nella soddisfazione di molti, anche di molti pacifisti, anche di molti combattenti contro la pena di morte. Ieri persino il liberal "Washington Post" ha espresso la preoccupazione che il governo impedisca l’esecuzione. O comunque la rinvii a lungo. Dylann è un nazista? Crepi. Spero di sbagliarmi. Cinque sparizioni molto sospette in Pakistan di Matteo Miavaldi Il Manifesto, 12 gennaio 2017 "Guerra torbida" contro il dissenso. Nel mirino gli attivisti che si sono esposti nel denunciare i crimini dell’esercito in Belucistan. Società civile in allarme. Nell’ultima settimana una serie di sparizioni sospette ha messo in allarme la società civile pakistana, al centro di un’azione repressiva che sembra avere come obiettivi tutte le voci critiche verso l’operato delle forze di sicurezza nazionali nelle zone più turbolente del paese. Tra il 4 e l’11 gennaio si sono perse le tracce di cinque attivisti pakistani che, recentemente, si erano esposti in prima persona per denunciare, violenze, sparizioni, sequestri, omicidi extra giudiziali e dislocamenti di massa in Beluchistan. La regione da anni è al centro di operazioni militari spesso condotte in spregio delle leggi internazionali in materia di diritti umani da parte dell’esercito regolare di Islamabad. Salman Haider, poeta e professore universitario, è sparito a Islamabad venerdì 6 gennaio. Due giorni prima i parenti di Waqas Goraya, blogger, e di suo cugino Asim Saeed avevano denunciato la scomparsa dei due a Lahore. Non si hanno più notizie di Ahmed Raza Naseer, blogger affetto da poliomielite, visto l’ultima volta nei pressi di Lahore sabato 7 gennaio, né di Samer Abbas, attivista e presidente della Civil Progressive Alliance Pakistan (ong pachistana impegnata nella lotta contro gli estremismi, il terrorismo e le violenze dell’esercito), sparito mercoledì 11 gennaio a Karachi. I dettagli delle sparizioni destano sospetti su un’operazione evidentemente pianificata dall’alto. Saeed, ad esempio, era appena rientrato in patria dopo un periodo di lavoro a Singapore, mentre Goraya, residente nei Paesi Bassi, era tornato a visitare i parenti da pochi giorni. Entrambi, indica il Guardian, animavano la pagina Facebook Mochi, che ospita contenuti di denuncia di corruzione nelle fila dell’esercito pakistano e della repressione operata contro gruppi politici invisi alle forze dell’ordine. La moglie di Haider ha rivelato alla stampa di aver ricevuto un sms sospetto da parte del marito proprio la notte della sua sparizione: la avvertiva di aver abbandonato la propria auto sulla superstrada che collega Islamabad a Rawalpindi, la sede del quartier generale dell’esercito e dei servizi segreti pakistani. Da giorni i partiti dell’opposizione e gruppi della società civile protestano di fronte alle sedi locali dei "press club" di Islamabad, Karachi e Lahore, denunciando l’inazione del governo di fronte alla sparizione di chi criticava l’operato dell’esercito. Il ministro degli interni pakistano Chaudhry Nisar Ali Khan, di fronte al senato federale, ha dichiarato che il governo si sta impegnando nelle ricerche degli attivisti spariti e che le operazioni sono sotto la sua diretta supervisione. La Human Rights Commission of Pakistan, in un comunicato, ha dichiarato che "gli eventi della scorsa settimana dimostrano che i pericoli (di violazioni della libertà d’espressione, ndr) si estendono già anche agli spazi digitali", mentre il quotidiano pakistano Dawn mette in guardia sull’inizio di "un nuovo capitolo nella guerra torbida e illegale dichiarata dallo stato contro la società civile". Nigeria. Da mille giorni nelle mani di Boko Haram di Matteo Fraschini Koffi Avvenire, 12 gennaio 2017 Nel 2016 solo in 21 sono state liberate con un accordo. Molte ragazze "vendute" o costrette a sposare i miliziani. "Le lacrime non si asciugano, il dolore nei cuori rimane". Il presidente nigeriano, Muhammadu Buhari, ha pronunciato queste parole per commemorare i mille giorni dal sequestro di massa di Chibok, una località nel remoto nord-est della Nigeria. Un lungo periodo soprattutto per i familiari delle circa 195 studentesse rapite dagli jihadisti di Boko Haram nella notte tra il 14 e il 15 aprile del 2014 ancora in mano ai loro sequestratori. La fiaccola della speranza, però, resta viva più che mai. Alimentata anche dagli episodi del 2016 in cui 24 giovani sono state ritrovate in seguito alle offensive dell’esercito nigeriano. "Mi rende felice vedere che alcune ragazze stiano tornando a casa sebbene mia figlia non sia ancora tra di loro - ha spiegato alla Reuters Rebecca Joseph, una delle madri residenti a Chibok. Continuo quindi a pregare affinché la mia bambina e le sue altre compagne vengano liberate e ridate presto alle loro famiglie". Nonostante gli insorti, in oltre sette anni di ribellione, avessero già effettuato rapimenti, con Chibok (vennero rapite in 276) si era oltrepassato il limite. La loro operazione provocò infatti una campagna politica e militare a livello internazionale destinata a ritrovare le giovani vittime il prima possibile. "Fuori dalla Nigeria, le ragazze di Chibok si sono trasformate nel simbolo del conflitto in corso contro Boko Haram - afferma Sola Tayo, membro dell’istituto di ricerca londinese, Chatham House -. La rabbia globale generata dal sequestro ha aumentato il valore che esse rappresentano per i ribelli". Durante la prigionia, le ragazze sono state costrette a sostenere l’insurrezione, sposandosi con dei miliziani o commettendo attentati, spesso suicidi, contro le autorità locali e la popolazione. Quest’ultima strategia delle "ragazzine-bomba" aveva scioccato il mondo e sollecitato una ferma risposta da parte delle Nazioni Unite: "Deve essere chiaro che questi bambini sono vittime, non esecutori consapevoli - aveva dichiarato Manuel Fontaine, direttore Unicef per l’Africa centrale e occidentale. Ingannare i bambini e costringerli ad atti suicidi è una delle forme più orribili di violenze perpetrate in Nigeria e nei Paesi vicini". La furia di Boko Haram, nella lotta per formare un califfato nel cuore dell’Africa, si è infatti sparsa in gran parte della regione del Sahel. Anche a causa della pressione esercitata dai contingenti militari degli Stati regionali di Nigeria, Ciad, Niger e Camerun, Boko Haram sembra però essersi diviso. L’anno scorso, infatti, una parte dei militanti, attraverso il leader Abu Musab al-Barnawi, ha giurato fedeltà al Daesh. L’altra parte, invece, ha mantenuto la sua autonomia difesa dal comandante Abubakar Shekau. "Resta quindi difficile capire in quale gruppo si trovino le restanti 195 ragazze di Chibok", sostengono gli esperti. Delle 24 studentesse finalmente liberate l’anno scorso, una era incinta, un’altra aveva già un bambino e un’altra ancora si era sposata con un miliziano. Le altre 21 erano state rilasciate lo scorso ottobre in seguito a un accordo che ha coinvolto il Comitato internazionale della croce rossa (Cicr), il governo svizzero e quello nigeriano. Non si hanno però conferme riguardo a cosa i ribelli abbiano guadagnato: alcuni parlano di soldi, altri di uno scambio di prigionieri. "Con il tempo la comunità internazionale ha smesso di fare pressione sulle autorità nigeriane per liberare le liceali - commenta un analista locale, Stanley Ukeny, speriamo quindi che l’attenzione ritorni rispetto a questa drammatica vicenda". Stati Uniti. Detenuti imparano a domare i cavalli "ci insegnano a essere uomini migliori" La Repubblica, 12 gennaio 2017 Molto prima che il sole del deserto abbia la possibilità di scaldare il cortile polveroso della prigione, 20 detenuti dell’Arizona iniziano a prendersi cura dei loro cavalli. Gli uomini, molti dei quali condannati per crimini violenti, iniziano a rimuovere il fango incastrato negli zoccoli, a stringere i loro sottopancia e a manovrare il morso di questi animali ancora poco abituati al contatto con l’uomo. I cavalli sono infatti dei Mustang, una specie selvatica abituata a correre libera attraverso le ampie pianure dell’America nord-occidentale. I detenuti ritratti nel servizio Reuters di Mike Blake e Jim Urquhart partecipano al programma "Wild Horse Inmate" nel corso del quale imparano ad addestrare questii animali poi destinati alla U.S. Border Patrol, agenzia federale che controlla le frontiere del Paese. "Questo lavoro mi ha insegnato molte cose su me stesso che non conoscevo. Come la pazienza, la perseveranza, la gentilezza e la comprensione", assicura Brian Tierce, 49 anni, che ad oggi ha scontato cinque dei suoi sette anni di reclusione per violenza domestica. "È più il lavoro che facciamo su di noi di quello sui cavalli", afferma Rick Kline, 32 anni, che ha scontato cinque dei sette anni comminatigli per furto d’auto. "Ho capito come essere calmo. Spero mi aiuti a essere un bravo padre per i miei due figli quando tornerò a casa", aggiunge. Dal 2012 ad oggi è il 62enne Helm che insegna come prendersi cura di questi animali ai detenuti della prigione di Florence, oltre 200 chilometri a nord del confine Messicano; l’uomo si dice entusiasta della loro risposta al contatto con i cavalli. Nonostante sia troppo presto per osservare gli effetti a lungo termine della partecipazione dei prigionieri al "Wild Horse Inmate", Helm assicura che dei circa 50 che hanno lasciato la prigione in questi anni, nessuno vi ha fatto ritorno. Un risultato che fa riflettere, se si considera che a livello nazionale si stima che circa il 68 per cento di chi ha scontato una pena torna dietro le sbarre entro tre anni dal rilascio. Repubblica Centrafricana. Criminali di guerra ancora liberi La Repubblica, 12 gennaio 2017 Urgente, secondo Amnesty International, la ricostruzione di un sistema giudiziario che non faccia più sentire impuniti coloro i quali si sono resi responsabili di omicidi e gravissimi abusi sulla popolazione civile. In un nuovo rapporto diffuso oggi, Amnesty International ha denunciato che persone sospettate di aver commesso crimini di guerra nel conflitto della Repubblica Centrafricana, tra cui omicidi e stupri, stanno alla larga da indagini e arresti e in alcuni casi vivono fianco a fianco alle loro vittime. L’organizzazione per i diritti umani ha chiesto che siano destinate ampie risorse alla ricostruzione del sistema giudiziario del paese e all’istituzione della Corte penale speciale per favorire l’arresto e il processo dei responsabili di tali crimini. Il potere dell’impunità. "Migliaia di vittime di violazioni dei diritti umani in tutta la Repubblica Centrafricana attendono ancora giustizia - ha detto Ilaria Allegrozzi, ricercatrice di Amnesty International sull’Africa centrale - mentre coloro che hanno commesso crimini orrendi come omicidi e stupri continuano a girare indisturbati nel paese. Siamo di fronte a un’impunità di dimensioni sconcertanti, che pregiudica i tentativi di ricostruire il paese e di dar luogo a una pace duratura. L’unica soluzione di lungo termine, per porre fine a questa impunità tanto radicate - ha detto ancora Ilaria Allegrozzi - è la revisione complessiva del sistema nazionale di giustizia, che passa attraverso la ricostruzione dei tribunali, delle prigioni e degli apparati di polizia. Nel frattempo, finanziare la Corte penale speciale, anche attraverso rigorose forme di protezione dei testimoni, è un passo avanti fondamentale verso la giustizia". Una debolezza atavica. Secondo il rapporto di Amnesty International, intitolato "La lunga attesa per la giustizia", decine di persone sospettate di crimini di diritto internazionale e di altre gravi violazioni dei diritti umani sfuggono agli arresti e alle indagini, grazie anche alle responsabilità del governo centrafricano e delle forze Onu di peacekeeping presenti nel paese. Il sistema giudiziario della Repubblica Centrafricana, già debole prima del conflitto, è stato ulteriormente compromesso dai combattimenti che hanno causato tanto la distruzione di documenti quanto la fuga del personale. Fuori dalla capitale Bangui operano pochissimi tribunali e solo otto delle 35 prigioni del paese sono in funzione. I prigionieri sono tenuti in edifici pericolanti e in condizioni insalubri. La mancanza di sicurezza ha favorito numerose evasioni. Vittime e criminali vivono fianco a fianco. In una conferenza internazionale dei donatori, organizzata a Bruxelles nel novembre 2016 è stato presentato un piano per la ricostruzione e il mantenimento della pace che prevede 105 milioni di dollari in cinque anni, per rafforzare il sistema giudiziario nazionale e rendere operativa la Corte penale speciale. "Loro [le persone sospettate di crimini di guerra] vivono fianco a fianco con le loro vittime. Prendono gli stessi taxi, fanno la spesa negli stessi negozi e vivono negli stessi quartieri. Nessuno è stato arrestato o posto sotto indagine. Questo clima d’impunità non fa altro che rassicurarli", ha raccontato un esponente della società civile di Bangui. Per ora sono 384 le persone arrestate. Le forze Onu di peacekeeping hanno aiutato le autorità nazionali ad arrestare 384 persone per crimini collegati al conflitto commessi tra settembre 2014 e ottobre 2016. Ma questo gruppo comprende solo una piccola manciata di personaggi di primo piano sospettati di aver commesso i crimini più gravi e 130 sono evasi da un carcere nel settembre 2015. L’impunità ha contribuito all’aumento della violenza registrato dal settembre 2016. Un mese dopo, ex combattenti della coalizione Seleka hanno attaccato la città di Kaga-Bandoro, uccidendo almeno 37 civili, ferendone altri 60 e costringendo alla fuga oltre 20.000 persone. Negli ultimi mesi sono stati fatti passi avanti riguardo all’istituzione della Corte penale speciale, un tribunale "ibrido" composto da giudici e personale nazionali e internazionali col colpito di processare persone sospettate di aver commesso crimini di diritto internazionale nel corso del conflitto. La corte penale strumento indispensabile. Il rapporto di Amnesty International presenta una serie di raccomandazioni fondamentali affinché la Corte penale speciale entri in funzione prima possibile e operi in modo da assicurare indagini efficaci e processi equi. Sebbene cinque dei sette milioni di dollari necessari per i primi 14 mesi di attività siano stati assicurati, occorre molto altro per garantire sostegno per i primi cinque anni. I paesi donatori dovrebbero anche contribuire alla nomina, sia ora che in futuro, di giudici e personale qualificati. "La Corte penale speciale è un organismo fondamentale per assicurare che le vittime di alcuni dei più gravi crimini commessi nella Repubblica Centrafricana ottengano giustizia. Per questo, dovrebbe ottenere il massimo sostegno possibile", ha commentato Allegrozzi. Fondamentale il programma di protezione-testimoni. "Altrettanto indispensabile è lo sviluppo di un rigoroso programma di protezione per le vittime e i testimoni, in modo che possano prendere parte ai procedimenti giudiziari in condizioni di sicurezza. A loro volta gli imputati dovranno beneficiare di tutte le garanzie relative al giusto processo, inclusa l’assistenza legale. Il clima di paura che ha avviluppato la Repubblica Centrafricana sin troppo a lungo deve terminare", ha concluso Allegrozzi. Il rapporto di Amnesty International si basa su decine di interviste a persone che fanno parte del settore giudiziario della Repubblica Centrafricana: giudici e procuratori, membri e consulenti del ministero della Giustizia, il presidente dell’Ordine degli avvocati e altri legali. L’incontro con le vittime. L’organizzazione ha inoltre incontrato vittime di crimini di diritto internazionale e di altre violazioni dei diritti umani. Le informazioni ottenute attraverso queste interviste sono state incrociate con informazioni e dati forniti da altre fonti, tra cui rapporti prodotti nell’ambito del settore giudiziario e da attori sociali, politici e umanitari della Repubblica Centrafricana. Nel luglio 2014, Amnesty International aveva fatto i nomi di 21 persone ragionevolmente sospettate di aver commessi crimini di diritto internazionale: solo due di loro sono state arrestate e Amnesty International non è a conoscenza di indagini concrete nei confronti delle altre. Marocco. Grazia reale per 791 detenuti in occasione del manifesto di indipendenza Nova, 12 gennaio 2017 Il re del Marocco, Mohammed VI, ha emanato un decreto di grazia reale in occasione della commemorazione della presentazione del manifesto dell’indipendenza, avvenimento che risale all’11 gennaio del 1941. Beneficiano di questa grazia reale 791 detenuti condannati da vari tribunali del regno marocchino. "In occasione della commemorazione della presentazione del Manifesto di indipendenza - si legge in una nota dell’agenzia di stampa del Marocco "Map" - quest’anno 2017, Mohammed VI ha accettato di concedere la grazia ad una serie di condannati da vari tribunali". Molti dei beneficiari godranno quindi di uno sconto di pena.