Giustizia sociale. Italia 24esima in Ue: situazione di grave iniquità per i giovani Redattore Sociale, 11 gennaio 2017 I dati del terzo Rapporto dell’Istituto Bertelsmann Stiftung indicano un piccolo miglioramento nel Social Justice Index. Ma nessun Paese dell’Ue è tornato ai livelli precedenti la crisi. Bene i Paesi scandinavi, meno Spagna, Portogallo, Grecia, Italia e Irlanda. L’analisi di Secondo Welfare. "La giustizia sociale è leggermente migliorata nella maggior parte degli Stati membri dell’Unione europea. Ma anche se il miglioramento è genuino siamo ancora lontani dai livelli precedenti alla crisi". È quanto emerge dal terzo Rapporto annuale dell’Istituto Bertelsmann Stiftung curato da Daniel Schraad-Tischler e Christof Schiller che si basa sulla misura del Social Justice Index, un indice composto da 6 dimensioni: prevenzione della povertà, equità dell’istruzione, accesso al mercato del lavoro, coesione sociale e non discriminazione, salute, giustizia intergenerazionale. Dal report, come ha spiegato Elisabetta Cibinel su Secondo Welfare, "emerge una situazione di grave iniquità per i più giovani". Il rapporto conferma quanto emerso nel 2015: la maggior parte dei Paesi ha registrato un piccolo miglioramento nell’indice di giustizia sociale, mentre solo 4 Paesi (nelle posizioni più elevate) hanno visto un lievissimo peggioramento rispetto all’anno precedente. "La dimensione che ha influito maggiormente su questo progresso è l’accesso al mercato del lavoro - si legge su Secondo Welfare - In quest’ottica anche Irlanda e Italia (che è al 24esimo posto), Paesi con i valori più bassi dell’indice, secondo i dati del Rapporto paiono aver trovato una strada di riforme e incentivi che sta iniziando a portare segnali incoraggianti nel mercato del lavoro". In testa alla classifica ci sono i Paesi scandinavi (Svezia, Finlandia e Danimarca), seguiti dalla Repubblica Ceca (salita di una posizione rispetto al 2015) che ha ottimi punteggi in salute e prevenzione della povertà, e da Olanda, Austria e Germania che hanno ottime performance per l’accesso al mercato del lavoro. Nelle posizioni più basse si trovano i Paesi che hanno subito maggiormente gli effetti della crisi - Spagna, Portogallo, Italia, Grecia, Irlanda - insieme a Romania, Bulgaria e Ungheria. "Nonostante il miglioramento generale, quasi nessun Paese dell’Ue è comunque riuscito a tornare ai livelli di benessere e giustizia sociale precedenti la crisi - scrive Secondo Welfare - Solo Repubblica Ceca, Germania, Lussemburgo, Regno Unito e Polonia mostrano un piccolo miglioramento rispetto al 2008. In questi Stati la crisi economica ha influito poco o nulla sull’andamento della giustizia sociale". Mercato del lavoro. Dal rapporto emerge l’aumento dei "working poor" che, pur avendo un lavoro a tempo pieno, sono a rischio povertà. A livello europeo la percentuale dei "lavoratori poveri" sul totale di quelli impiegati full time è passata dal 7 per cento del 2009 al 7,8 per cento del 2015. In Italia sono il 9,8 per cento del totale dei lavoratori a tempo pieno. "La Germana, che ha ottimi punteggi nell’accesso al mercato del lavoro e ha visto il suo indice di giustizia sociale salire nonostante la crisi, ha un’alta percentuale di lavoratori poveri (7,1 per cento)". Inoltre, il mercato è sempre più segmentato: da un lato ci sono i lavoratori precari senza nessuna tutela e dall’altra quelli assunti a tempo indeterminato e protetti contro i principali rischi (malattia, infortunio, disoccupazione, pensionamento). Giovani in difficoltà. Considerando i dati su bambini e giovani, dal rapporto emerge che in nessuno Stato dell’Ue la situazione è migliorata rispetto al 2008, mentre è decisamente peggiorata in quelli più colpiti dalla crisi. In generale la percentuale di giovani a rischio povertà è passata dal 26,4% al 26,9%, mentre in Spagna, Grecia, Portogallo e Italia è aumentata in modo significativo: era il 29,1% nel 2008, è il 33,8% nel 2015. Al contrario nel caso della popolazione over 65 il rischio di povertà o esclusione si è ridotto. "Questo è principalmente dovuto al fatto che, anche se tra il 2008 e il 2015 le pensioni e i trasferimenti monetari rivolti agli anziani sono diminuiti, questa diminuzione è stata più lenta rispetto a quella dei redditi dei giovani". I Neet sono il 17,3% dei giovani europei tra 15 e 29 anni, dato in calo rispetto al 2015 (erano il 18%), ma maggiore rispetto al 15% del 2008. Nei Paesi mediterranei i numeri sono molto più alti: i giovani che non studiano, non lavorano e non sono inseriti in percorsi di formazione sono il 33,1%. In Spagna e in Grecia quasi la metà della popolazione giovanile è disoccupata, in Italia il 40,3%. "Difesa dei diritti e dell’eguaglianza. Da qui deve partire il rilancio di Md" di Jacopo Rosatelli Il Manifesto, 11 gennaio 2017 Mariarosa Guglielmi, segretaria generale di Magistratura democratica. Al governo chiediamo riforme per una giustizia più razionale. I referendum promossi dalla Cgil? Come sempre daremo un contributo al dibattito. Segretaria Guglielmi, quali sono i dossier più importanti che governo parlamento devono affrontare entro la fine della legislatura? Parto dagli Stati generali dell’esecuzione penale voluti dal ministro Orlando: non vanno disperse le proposte ma soprattutto l’ispirazione culturale per un nuovo progetto di esecuzione penale e l’attuazione della sua finalità rieducativa, con il carcere come extrema ratio. Più in generale, servono riforme organiche per restituire razionalità ed effettività al sistema-giustizia. Per il processo penale, uno snodo è la riforma delle impugnazioni che, senza pregiudizio per le garanzie della difesa, limiti l’abuso degli strumenti processuali in vista della prescrizione. Sull’ordinamento giudiziario, mi auguro che non sia un precedente la scelta di modificarlo a colpi di decreti legge. Dopo l’allarmante vicenda della riforma dell’età di pensionamento, opportunamente ridotta ma poi prorogata da ultimo solo per i vertici della Cassazione, con misure peggiorative per i giovani magistrati, è ancora più urgente tornare al concorso subito dopo la laurea, per una selezione effettiva per merito e non per censo. Al vostro congresso avete posto l’accento anche sulla riforma del diritto d’asilo: perché vi preoccupa? È giusto l’obiettivo di una maggiore celerità del giudizio ma devono restare tutte le garanzie per la piena tutela dei diritti. Con la riduzione dei poteri di accertamento del giudice e l’esclusione dell’esame diretto del richiedente, l’abolizione dell’appello e la competenza riservata a pochi tribunali, si limita l’accesso alla giustizia e si rischia di trasformare il giudizio in mera verifica della regolarità della decisione presa dalla commissione territoriale. Il referendum costituzionale ha visto Md impegnata per il No. Domani (oggi, ndr) la Consulta si esprimerà sui quesiti promossi dalla Cgil: vi schiererete? Nell’esito del referendum costituzionale abbiamo colto la difesa di un progetto di democrazia nel quale il Paese ancora si riconosce e dal quale dobbiamo ripartire. È un progetto fondato sulla tutela del lavoro e dei diritti dei lavoratori, ambito nel quale Md ha sempre praticato il suo impegno per l’attuazione delle scelte di valore della Costituzione. Md offrirà il suo contributo al dibattito. Il congresso è stato una sorta di rinascita di Md, ma anche nella magistratura è cresciuta la sfiducia verso le realtà organizzate tradizionali. È vero, la crisi delle forme tradizionali della politica e della rappresentanza investe appieno l’associazionismo giudiziario e ci sono segni evidenti di regressione corporativa della magistratura. Md ha contribuito alla crescita culturale e politica dell’associazionismo giudiziario, portando al suo interno il senso di un impegno di tutta la magistratura per l’attuazione dei valori costituzionali. Proprio in questo quadro, al congresso abbiamo riaffermato l’attualità del progetto originario di Md. Da un lato, contrasto alla deriva burocratica, al carrierismo, al ritorno di una visione gerarchica dell’ordine giudiziario. Dall’altro, apertura alle istanze della società come antidoto all’autoreferenzialità e a una risposta corporativa al disagio per le difficili condizioni di lavoro dei magistrati. Torna quindi d’attualità il ruolo all’esterno dei tribunali di quello che Ingrao definì lo strano "animale" Md. Sì, il rilancio di Md guarda proprio al contesto esterno, profondamente mutato rispetto al panorama di "naturali" interlocutori esistente all’origine della sua storia, 53 anni fa. Cominciamo dal ragionare sulla nuova mappa delle diseguaglianze, per comprendere un fenomeno nel quale si riassumono gli effetti delle profonde trasformazioni di questi anni. Vogliamo ricercare il confronto nei luoghi dove i nuovi bisogni possono essere analizzati e compresi, costruendo sinergie con tutti gli attori della società civile, del mondo del lavoro e di quello giuridico che trovano le ragioni del proprio impegno nell’inveramento del principio di eguaglianza, verso l’obiettivo di un’Europa dei diritti e della solidarietà. La promozione dei diritti civili, la repressione di movimenti sociali (vedi Tav), la lotta alla corruzione, la tutela della salute pubblica (vedi Ilva), perfino la modifica della legge elettorale: ai magistrati si chiede di svolgere un ruolo in senso lato politico, salvo poi criticarne il protagonismo. Quali insidie vede? Il rapporto fra politica e magistratura risente del ruolo assunto dai giudici nel dare diretta attuazione alla Costituzione, rafforzato dal dialogo con le Corti sovranazionali, e nell’essere garanti della legalità anche nei confronti dei poteri forti. La carenza di forme di controllo e di risposte alternative a quella giudiziaria ha accreditato l’idea di una subalternità della politica alle iniziative della magistratura e la tensione generata dal ruolo forte della giurisdizione porta ad accusare i giudici di invasioni di campo. È un contesto in cui vedo due opposte tendenze, egualmente rischiose. La prima è la pretesa di un ritorno al modello di "giudice bocca della legge", e quindi la limitazione degli ambiti di intervento per la giurisdizione, la riduzione degli spazi interpretativi, e le scelte di politica criminale per attrarla verso l’ottica della prevenzione e della repressione, depotenziandone il ruolo di terzietà e di garanzia. La seconda è l’affermazione di tentazioni giustizialiste e, fra giudici e pm, di una concezione ‘sacralè della propria funzione: un rischio, questo, che si contrasta con la responsabilità sociale e culturale del magistrato per i provvedimenti adottati, l’attenzione alle garanzie, la consapevolezza dei limiti della propria funzione. In sostanza con l’accettazione del controllo sociale e del dovere di rendere conto della propria azione alla collettività, necessari contrappesi all’indipendenza della magistratura. Intercettazioni, i capi delle Procure: "Noi ostaggi dei fornitori privati" di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 11 gennaio 2017 Riunione al ministero: le ditte private, fornitrici dei server con cui vengono svolte le intercettazioni, possono accedere senza autorizzazione, a tutte le conversazioni registrate. Server statali e tecnici interni per tornare a un sistema "pubblico". Inizia come riunione al ministero della Giustizia di tutti i capi delle Procure distrettuali convocati dal capo di gabinetto del ministro Orlando sulla sicurezza delle intercettazioni, e finisce quasi come seduta di autocoscienza collettiva attorno a quella che ad esempio il procuratore di Roma definisce "prassi non corretta e pericolosa da superare con urgenza": la scoperta che "le ditte private", fornitrici dei server attraverso i quali nelle Procure vengono svolte le intercettazioni, "possono accedere da remoto, automaticamente e senza autorizzazione, a tutte le intercettazioni affidate alle medesime ditte, conservando sia i dati di traffico sia le registrazioni, e così di fatto realizzando una sorta di server parallelo". I procuratori di Reggio Calabria e di Salerno, Federico Cafiero de Raho e Corrado Lembo, aggiungono che la carenza di tecnici interni fa sì che "non si sia in grado di svolgere adeguate attività di vigilanza" su quello che fanno le ditte private. Il procuratore aggiunto di Palermo, Bernardo Petralia, ammette che "la titolarità dei server in capo alle ditte fornitrici comporta inevitabilmente problemi di etero-assistenza dei sistemi". Sottolinea "la serietà dei rischi per la sicurezza dei sistemi" Massimo De Bortoli, pm di quella Procura di Trieste che da un piccolo episodio ha avviato l’indagine poi sviluppata a fine 2016 dal pm milanese Piero Basilone su una delle tre maggiori aziende private del settore, Area. La cui linea difensiva - una sorta di informatico "così fan tutti" - trova però una indiretta conferma nel contributo che alla riunione ministeriale porta il procuratore aggiunto di Napoli, Giuseppe Borrelli. Dopo gli articoli del Corriere della Sera e la vicenda di Area, i pm della Procura di Napoli spiegano infatti di aver chiesto ai propri fornitori di dichiarare se essi accedano da remoto per la manutenzione e se, nel farlo, accedano ai dati relativi alle intercettazioni: e "alcune aziende - informa Borrelli i colleghi delle altre Procure, tutte presenti alla riunione tranne Trento, Milano, Perugia e Potenza - hanno confermato di agire in questo modo". Modo vietato, perché i dati delle intercettazioni devono risiedere solo sui server collocati in Procura. E, soprattutto, modo sinora sempre smentito come tecnicamente impossibile. Adesso invece è talmente "comprovato" che il procuratore romano Giuseppe Pignatone spiega che il proprio ufficio ha studiato come contromisura "un apposito firewall", proposta che il ministero accoglie "con favore". Il rappresentante della Procura Nazionale Antimafia, Giovanni Russo, rimarca che "solo in Italia le intercettazioni sono affidate a imprese private", e anche il componente del Csm, Francesco Cananzi, ritiene che "il settore deve recuperare una connotazione pubblicistica". Il procuratore di Torino, Armando Spataro, addita (come il delegato bolognese Enrico Cieri) l’assenza di un albo dei fornitori selezionati per trasparenza e affidabilità, nonché di quel repertorio di prestazioni tecniche pur previsto dal Codice delle Comunicazioni del 2003. Il suo collega di Catanzaro, Nicola Gratteri, racconta di aver scelto di attribuire nella gara pubblica il 30% di punteggio all’offerta economica delle ditte e il 70% alla qualità del servizio, griglia che ha portato a escludere 40 aziende e a selezionarne 4 per evitare i rischi della concentrazione in un solo fornitore. Ma non è solo una riunione di allarmi. Dal ministero arrivano infatti concreti segnali di cambio di rotta. Come l’acquisto di 36 nuovi server "statali" per iniziare a sostituire nelle Procure i server "privati" appartenenti alle ditte fornitrici, da far gestire ad "amministratori di sistema" non più esterni ma interni (42 quelli formati nel 2016). O lo schema di contratto-standard al quale i pm uniformino prestazioni e tariffe con le ditte. "È imprescindibile alzare il livello di sicurezza dei sistemi - mette a verbale il capo di gabinetto Gianni Melillo con il capodipartimento Gioacchino Natoli -: questa è l’attuale emergenza perché la sicurezza incide direttamente sulla stessa affidabilità dello strumento e dunque sulla credibilità della funzione". Anche per questo il ministero dice no all’ennesima proroga dei termini concessi ai pm per allinearsi alle prescrizioni del Garante della Privacy: la data resta il 31 gennaio pur se un mese fa, a fronte di 67 Procure già in perfetta regola, altre 68 avevano un grado di adeguamento "sufficiente", e 5 restavano fuorilegge. Ombrello sui whistleblower. L’anonimato prende forma di Giorgia Pacione Di Bello Italia Oggi, 11 gennaio 2017 Un organo europeo indipendente con sedi localizzate all’interno di ogni stato membro dell’Ue. E la realizzazione, all’interno del Parlamento europeo, di un’unità speciale (strutturata con siti web e hotline) per ricevere informazioni riservate da parte dei whistleblower. Questo quanto proposto dall’europarlamentare Deniss de Jong, componente della Commissione di controllo di bilancio Ue. La proposta sarà votata il mese prossimo, ma nel frattempo il gruppo dei Verdi accelera con una piattaforma attraverso la quale è già adesso possibile fare "soffiate" che il gruppo si impegnerà a trasmettere successivamente agli organismi europei preposti. Tornando alla proposta Jong, l’europarlamentare ha dichiarato che il problema dei whistleblower riguarda sia gli informatori che operano all’interno dell’Ue sia quelli che operano all’esterno. Ma mentre i primi possono godere della protezione dello statuto dei funzionari dell’Unione europea, i secondi, invece, non hanno nessun tipo di appoggio e si devono affidare esclusivamente alle legislazioni nazionali, che non sono uniformi a livello europeo. "È proprio per questo", spiega Jong "che nasce la necessità di dar vita a uno strumento legislativo comunitario che possa tutelare gli informatori esterni". Mentre l’Ue dibatte su come creare un organismo per proteggere gli informatori esterni, il gruppo parlamentare dei verdi ha creato la piattaforma Euleaks.eu, già operativa, che è in grado di raccogliere tutte le segnalazioni di chi vuole fare una soffiata. Per garantire maggiore sicurezza all’informatore, che vuole segnalare un illecito attraverso il sito internet, il gruppo dei Verdi consiglia di non aprire la piattaforma sul posto di lavoro, poiché lascia traccia, e di scaricare il browser "Tor" (torproject.org) che permette di innalzare il livello di sicurezza personale. Una volta inserito il documento, verrà richiesto come si vuole che questi dati vengano usati, se c’è una priorità immediata o possono essere analizzati in un secondo momento e quali sono le fonti. Quest’ultimo elemento è necessario affinché il gruppo possa verificare la veridicità delle informazioni immesse nel sistema. La piattaforma è programmata per proteggere l’identità dell’informatore che decide di farsi avanti. Come? Non viene richiesto nessun tipo di dato personale né tanto meno recapiti telefonici. Nel momento in cui si decide di condividere un documento, inoltre, il fi le condiviso sarà scaricato in modo criptato usando il browser Tor. In questo modo l’identità dal whistleblower è al sicuro. La profezia avverata di Sciascia sui professionisti dell’antimafia di Felice Cavallaro Corriere della, 11 gennaio 2017 Quello appena concluso è stato l’anno della caduta di alcuni "miti", in particolare personaggi simbolo della lotta alla criminalità finiti sotto processo. Adesso che dal palcoscenico di un’antimafia di facciata rotola uno stuolo di "professionisti" travestiti da politici, imprenditori, giornalisti, preti, magistrati "duri e puri", la profezia di Leonardo Sciascia viene spesso richiamata e condivisa anche da chi contestò lo scrittore eretico di Racalmuto. A trent’anni dalla pubblicazione del famoso e discusso articolo. Tanti ne sono trascorsi dal 10 gennaio 1987, quando nelle edicole e nella vita pubblica irruppe il provocatorio titolo del Corriere della Sera sui "professionisti dell’antimafia". Antimafia da vetrina - Con la sua profetica lungimiranza, senza che nessuno potesse allora immaginare la deriva dei nostri giorni, in tempi recenti segnata perfino dall’assalto di famelici magistrati ed avvocati sulla gestione dei beni confiscati, Sciascia, dal suo buen retiro di Contrada Noce, dalla casa di campagna a dieci minuti dai Templi di Agrigento, provava a smascherare i rischi dell’impostura, di una antimafia da vetrina. E ne aveva titolo, lui che la mafia l’aveva fatta diventare caso nazionale negli anni Sessanta con saggi e romanzi, sbattendola in faccia ad una opinione pubblica distratta, ad una classe dirigente spesso connivente, indicando la strada da perseguire, quella dei soldi, delle banche, delle tangenti. La caduta dei miti - Trent’anni dopo l’impostura è drammaticamente confermata dalla "caduta dei miti", come la definisce l’ex presidente dell’Antimafia Francesco Forgione nel suo libro "I tragediatori". È il caso di Silvana Saguto, la magistrata dei beni confiscati, del presidente della Camera di commercio Roberto Helg, beccato con una tangente da 100 mila euro accanto allo sportello antiracket intitolato a Libero Grassi. Incriminati il direttore di TeleJato Pino Maniaci per estorsione e un altro giornalista di Castelvetrano come prestanome di boss. Mentre non si placa la lite interna a Libera fra Don Ciotti e il figlio di Pio La Torre. E si è in attesa di una estenuante definizione dell’inchiesta tutta da chiarire dopo due anni sul presidente di Confindustria Sicilia Antonello Montante. Il giorno della civetta - Ma, quando ancora la trincea di Palermo era insanguinata dall’attacco dei boss e mentre qualche buon risultato già arrivava dal maxi processo di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, nel 1987 quel titolo scatenò una reazione scomposta. Animata anche da un gruppo di giovani (e meno giovani) costituiti in "Comitato antimafia", decisi a rovesciare addosso allo scrittore un nomignolo coniato ne "Il giorno della civetta". Si, lo definirono "quaquaraquà". Prendendo spunto dalla classificazione dell’umanità richiamata nel confronto fra il padrino di quel libro, don Mariano Arena, e l’uomo dello Stato, il capitano Bellodi. Molti lo difesero, ma scattò una delegittimazione di Sciascia, criticato anche da Pino Arlacchi, Eugenio Scalfari, Nando Dalla Chiesa, Giorgio Bocca, Giampaolo Pansa, pronti a protestare contro un articolo interpretato come un attacco a Leoluca Orlando e a Paolo Borsellino. Il riferimento all’allora sindaco di Palermo c’era davvero. Stimolo, diceva Sciascia, per evitare di ridurre l’amministrazione della cosa pubblica al solo rafforzamento dell’"immagine" personale. Una spinta a far prevalere scelte concrete sugli imbellettamenti superficiali della città. Spunto per spiegare che pesano di più i fatti e non le parole, che "vera antimafia è un acquedotto in più, anche a costo di un convegno in meno". E, forse, Orlando ha anche apprezzato l’indicazione, con gli anni. Borsellino a Racalmuto - Il secondo bersaglio non era Borsellino. Come Borsellino capì. Nel mirino c’era il massimo organo di autogoverno della magistratura, il Csm, che, avendo fissato delle regole per le carriere interne, non le applicava. Come accadde quando, per la poltrona di procuratore a Marsala, fu scelto lo stesso Borsellino al posto di un suo collega, virtualmente con più titoli, stando a quelle regole. Borsellino capì che non era un attacco a lui e lo disse a Racalmuto nel 1991 presentandosi ad un convegno nel paese di Sciascia, insieme con Falcone e con l’allora ministro della Giustizia Claudio Martelli: "Chiarimmo con Sciascia. L’uscita mirava ad altro. Ma fu sfruttata purtroppo all’interno di una pesante corrente corporativa della magistratura che sicuramente non voleva quei giudici e quei pool". E, un anno dopo l’articolo, se ne ebbe conferma. Perché quella stessa elastica interpretazione fu utilizzata all’interno della magistratura per impedire a Falcone di guidare l’Ufficio Istruzione. A distanza di trent’anni, tanti pensano ancora che in quell’occasione sarebbe stato preferibile eliminare dall’articolo ogni margine di equivoco. Proprio per evitarne un uso strumentale. E Sciascia ebbe modo di parlarne con Borsellino, a Marsala, fra testimoni come Mauro Rostagno, il regista Roberto Andò, il suo amico Aldo Scimè. Gli studenti pentiti - Si scatenò però un attacco astioso all’uomo, perdendo di mira la questione posta, e mischiando così le carte con quel nomignolo. Come ammettono oggi tanti di quei giovani coinvolti nel Comitato antimafia. Un pò pentiti. È il caso di studenti come Pietro Perconti e Costantino Visconti. Il primo oggi prorettore a Messina, il secondo professore di diritto penale, un’autorità in materia antimafia con il suo maestro Giovanni Fiandaca, autore di un libro fresco di stampa, "La mafia è dappertutto. Falso!". Una mazzata agli impostori caduti da quel palcoscenico, commenta: "L’antimafia si è fatta potere". Ed ancora: "Lui guardava con le lenti della profezia, più avanti, noi calati nel presente fino ai capelli eravamo una sparuta minoranza. Non potevamo prevedere gli effetti connessi ad una antimafia che si faceva essa stessa potere". Le nuove imposture - Riflessioni fatte proprie da un altro leader di quel Comitato, Carmine Mancuso, poliziotto, figlio dell’agente di scorta caduto con il giudice Cesare Terranova, ex senatore: "Una lucidità profetica, quella di Sciascia". Stessa posizione di Angela Lo Canto, la pasionaria del Comitato, poi consigliera comunale con Orlando, adesso ben lontana dal sindaco: "Sciascia vide dove nessun altro poteva vedere. In quel momento storico considerammo l’uscita infelice. Ma quel ‘quaquaraquà’ ci scappò di mano...". Vergato da un giovane racalmutese, Franco Pitruzzella, poi arruolato nel gruppo dei collaboratori dei magistrati impegnati nel processo contro Andreotti. Forse l’unico non pentito. A differenza di altri due studenti oggi dirigenti di polizia a Palermo, Giuseppe De Blasi, allora da 110 e lode, adesso in questura, e Giovanni Pampillonia, capo della Digos. Entrambi ormai da tempo faccia a faccia con le nuove imposture che ogni volta fanno pensare alla profezia. Sciascia e il florido mercato dell’antimafia di Alberto Cisterna (Magistrato) Il Dubbio, 11 gennaio 2017 Come Sciascia aveva immaginato, è stata la società civile a rivelarsi troppe volte un bluff in Sicilia, in Calabria come altrove. Un mix di manifestazioni, premi, riconoscimenti, targhe, commemorazioni, pubblicazioni, articoli, libri, serie televisive e via seguitando che ha creato un imprevisto quanto florido mercato dell’antimafia. Come tutti i mercati anche questo ha le sue leggi, i suoi padroni, le sue regole di ingaggio e quelle di uscita. Trenta anni sono molti. Ma per la lenta clessidra che misura il tempo della lotta alla mafia sembra il moto di pochi giri. Tra le parole che Sciascia adoperò nel suo celebre articolo sui "Professionisti dell’antimafia" sarebbe difficile trovare (ancora oggi) un punto di equilibrio condiviso, una convergenza che vada oltre l’immensa stima verso l’intellettuale e il sommesso tributo a chi parve la vittima più immediata di quelle parole, ossia Paolo Borsellino. La morte sua e di Falcone, di fatto, sono suonate come un sigillo sul "torto" di Sciascia, sull’errore tante volte rinfacciatogli per quella posizione. La falce mafiosa ha giocato uno scherzo terribile al genio di Racalmuto, facendolo apparire un antagonista di colui che, invece, lo amava profondamente (Falcone) e, addirittura, lo annoverava tra i suoi maestri (Borsellino). In questi giorni Felice Cavallaro e altri hanno ricostruito con chiarezza il clima di 30 anni or sono. Le scuse, le incomprensioni, i riavvicinamenti tra i protagonisti della querelle sono stati rievocati con precisione, ma quelle parole restano un materiale incandescente, difficile da manipolare. Sciascia evocava il rischio che, in nome di una professionalità così difficile da misurare e valutare, si consumassero ingiustizie, si aprisse la strada alla discrezionalità più sfrenata. In un settore, come quello della lotta alla mafia, in cui peraltro era e resta decisivo l’approccio dei media, la mediazione tra carte processuali e pagine dei giornali. Una cristalleria, fragile e incline alle crisi di nervi ancora oggi. C’è da chiedersi per quale ragione. La prima, sopra ogni altra, è che le mafie dopo trent’anni non sono state ancora battute. Sono all’angolo, in enorme difficoltà, sbrindellate in molte articolazioni, ma non sono ancora state sconfitte. Abbiamo la legislazione più severa del mondo, la migliore polizia giudiziaria, una parte importante della magistratura interamente votata a questa battaglia eppure non se ne viene a capo. La cosa più sconfortante è, soprattutto, che nessuno si senta in dovere di fornire un’indicazione, di dare una scadenza, di indicare un evento che possa servire da punto di verifica. Si combatte e basta in un’emergenza senza fine. Una gigantesca guerra di trincea in cui si lotta per vette, per colli o per radure che, una volta prese, non hanno alcun significato decisivo. Sono ormai centinaia le conferenze stampa in cui si annunciano sequestri, catture di boss e arresti salutati con toni roboanti e che, poi, si rivelano solo l’ennesima tappa di un’Anabasi infinita e sconsolata. La seconda, di ragione, che rende ancora scivolose le parole di Sciascia e arduo un ragionamento pacato, riposa nel mondo in cui la politica si è organizzata per combattere la mafia. Centrale in questa visione era il mito della società civile che doveva sostenere la prima linea delle toghe e delle polizie con la forza della propria innocente purezza. Un mito che Sciascia aveva spezzato con le sue parole, suonate come un j’accuse lanciato proprio contro chi doveva essere solo sostenuto e tutelato. Però, come l’intellettuale siciliano aveva immaginato, è stata la società civile - quella cioè che le mafie tiene in vita con la sua domanda di illegalità - a rivelarsi troppe volte un bluff in Sicilia, in Calabria come altrove. Un mix di manifestazioni, premi, riconoscimenti, targhe, commemorazioni, pubblicazioni, articoli, libri, serie televisive e via seguitando che ha creato un imprevisto quanto florido mercato dell’antimafia. Come tutti i mercati anche questo ha le sue leggi, i suoi padroni, le sue regole di ingaggio e quelle di uscita. Se le parole di Sciascia fossero oggi messe al centro di una discussione serena, si capirebbe che i "professionisti dell’antimafia" di cui occuparsi non sono (i pochissimi) magistrati o poliziotti che fanno carriera solo per la professionalità e l’impegno profuso sul fronte delle cosche. Lo sguardo dovrebbe volgersi a quel mondo in cui (esclusa Libera e pochi altri) vivono e operano gruppi della società civile con lo sguardo volto alle cordate di "combattenti" da promuovere mediaticamente e la mano tesa alle casse pubbliche di una politica che considera l’obolo all’antimafia sostanzialmente alla stessa stregua di una mazzetta alla mafia. Calcolo della pena ispirato al "favor rei" di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 11 gennaio 2017 Corte di cassazione - Sentenza 854/2017. Ai fini della concessione di una misura alternativa alla detenzione, la scissione del cumulo giuridico delle pene inflitte per il reato continuato fa sì che, nel caso di reato ostativo satellite, sia necessario fare riferimento alla pena inflitta in concreto a titolo di aumento per la continuazione. La Corte di cassazione, con la sentenza 854, accoglie il ricorso contro l’ordinanza con la quale il tribunale negava la concessione dei benefici penitenziari richiesti dall’imputato. Alla base del no il criterio seguito dal tribunale, che aveva ancorato lo scioglimento del cumulo giuridico tra i reati a una pena edittale e non a quella inflitta in concreto. Il risultato era stato un aumento della pena detentiva, già fissato con sentenza definitiva, per il reato satellite ostativo. Un’operazione, secondo il ricorrente in antitesi con la ratio del procedimento di sorveglianza, ispirato ai principi del favor rei e del favor libertatis. La Cassazione affronta e decide in favore del ricorrente la questione relativa al criterio di determinazione della pena per il reato che è di "ostacolo" all’accesso alle pene alternative alla detenzione, quando questo - nel reato continuato e nel conseguente cumulo esecutivo - non è il reato più grave. La Cassazione prende le distanze dall’indirizzo abbracciato dal tribunale per "sposare" quello proposto dalla difesa. Per la Suprema corte la scissione del cumulo giuridico delle pene irrogate per il reato continuato comporta, nel caso il reato ostativo sia satellite, la necessità fare riferimento alla pena inflitta in concreto, anche se si tratta di un semplice aumento di pena in continuazione. Mandato di arresto europeo. No al carcere in Romania: "non garantisce spazio minimo" di Mario Pari Brescia Oggi, 11 gennaio 2017 In quelle celle non sono garantiti i tre metri quadrati "calpestabili". Per questo un cittadino romeno, attualmente nel Bresciano, non può essere consegnato alla giustizia della nazione d’origine. La sentenza è della Corte d’appello di Brescia e arriva dopo la pronuncia, sul medesimo caso, avvenuta nel luglio scorso, della Corte di Cassazione. Dalla Suprema Corte era stato accolto il ricorso di un 39enne romeno che vive nella zona del basso Garda bresciano ed è assistito dagli avvocati Alessandro Bertoli e Mauro Bresciani. Nel marzo scorso il romeno era finito a Canton Mombello in esecuzione di un mandato di arresto europeo per diversi reati, tra cui l’associazione a delinquere e furto. Reati che sulla base di quanto stabilito dalla magistratura romena sarebbero stati commessi in Romania nel 2011. Poco dopo l’arrivo in Italia quindi il 39enne era stato arrestato e nei mesi successivi la prima sezione penale della Corte d’appello ne aveva disposto la consegna alla Romania. Ma nel mese di luglio la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso, con riferimento a uno dei motivi. Si tratta della "mancata richiesta alle autorità romene di garanzie sul trattamento penitenziario a cui dovrà essere sottoposto il consegnando, alla luce dei criteri fissati da ultimo dalla Corte di giustizia U.E. il 5 aprile 2016 in caso di consegna verso Stato membro nel quale sia documentato il rischio concreto di trattamento inumano e degradante". La Suprema Corte, nella sentenza d’accoglimento del ricorso faceva riferimento a "fonti di sicura attendibilità provenienti dal Consiglio d’Europa e dalla Corte Edu" che "dimostravano come la situazione delle carceri in Romania fosse particolarmente allarmante". Quindi sarebbe spettata alla Corte d’appello di Brescia, prima della decisione sulla consegna del cittadino romeno, la attivazione "per le dovute verifiche". Dopo l’annullamento della sentenza con rinvio ad un’altra sezione, la seconda, la Corte d’appello si è attivata, attraverso il Ministero della Giustizia, per ottenere una serie di informazioni. Da parte della Romania è stato risposto, che il cittadino avrebbe scontato la pena in un carcere dove avrebbe usufruito di uno "spazio minimo individuale" di "tre metri quadrati in caso di esecuzione della pena" in "regime chiuso" e "due metri quadrati" in caso di "regime semiaperto o aperto". Per la Corte d’Appello di Brescia, che fa riferimento alla Cassazione, la risposta romena "non garantisce" lo "spazio individuale intramurario conforme agli standard europei" che "va individuato in tre metri quadrati "calpestabili". Tale spazio non sarebbe assicurato, con riferimento al cittadino romeno di cui si è chiesta la consegna, perché "sulla scorta della risposta pervenuta, lo spazio minimo individuale garantito è quello di tre metri quadrati" per il "regime chiuso" e di "due metri quadrati" per "il regime semiaperto o aperto" in cui vanno "inclusi tuttavia il letto e i mobili afferenti". Dai magistrati d’appello viene quindi sottolineato che "il letto è normalmente pari a circa 1,5 metri quadrati" e quindi resterebbero "in caso di regime chiuso non più di 1,5 metri quadrati e in caso di regime semiaperto o aperto non più di 0,5 metri quadrati sempre calpestabili" in "aperta violazione" di quanto stabilito dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e dalla Carta dei Diritti Fondamentali UE, secondo quanto interpretato dalle Corti Europee. La richiesta di consegna "va quindi rifiutata". Il cittadino romeno nel frattempo è tornato in libertà. La Corte d’appello di Brescia, peraltro, precisa che "ove in un tempo ragionevole lo Stato della Romania faccia pervenire assicurazioni circa il rispetto nel caso concreto" dei "parametri minimi di detenzione sopraindicati (tre metri quadrati calpestabili nella cella)", la decisione "potrà essere rivista" e "potrà essere, sussistendo le altre condizioni di legge, eventualmente emessa sentenza favorevole alla consegna". Responsabilità civile dei magistrati, riforma non retroattiva di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 11 gennaio 2017 Corte di cassazione - Sentenza 258/2017. Non sono retroattivi i nuovi termini di decadenza per chi intende chiamare i giudici a rispondere del loro operato. La legge n. 18 del 2015, che ha modificato la legge Vassalli sulla responsabilità civile dei magistrati, la n. 117 del 1988, è vero che dà più tempo all’interessato per proporre l’azione, tre anni al posto dei due precedenti, di risarcimento, ma l’estensione non può essere applicata a domande depositata prima del 19 marzo del 2015, data di entrata in vigore della riforma. A chiarirlo è la Cassazione con la sentenza n. 258depositata ieri con la quale è stato anche sottolineato come i vecchi termini, ma la considerazione vale anche per i nuovi, non violano il principio di equivalenza di natura comunitaria e neppure confliggono con la più ampia prescrizione di 5 anni per esercizio di un’ordinaria azione di risarcimento del danno. La Corte ha così respinto il ricorso presentato da un uomo contro il decreto della Corte d’appello di Roma che aveva giudicato avanzata tardivamente la richiesta di risarcimento danni presentata nei confronti dello Stato. A venire contestata era l’interpretazione data dalla stessa Cassazione, come giudice dell’ultimo grado di giudizio, nel 2009, in base alla quale era stata respinta la domanda di conversione a tempo indeterminato di un contratto di formazione e lavoro con Atac (l’azienda di autotrasporto romana). Nella sentenza si fa innanzitutto una precisazione sulla forma del rito che deve essere applicata quando si vuole fare valere la responsabilità dei magistrati. L’unico rito applicabile è quello delineato dalla legge Vassalli per tutte le azioni avviate prima della riforma. Non ci sono spazi residui per l’applicazione del rito ordinario di cognizione per la responsabilità fondate sulla norma generale dell’articolo 2043 del Codice civile sull’ordinario risarcimento per fatto illecito. Non esistono neppure profili di contrasto con il diritto dell’Unione europea per la scelta di assoggettamento a un rito processuale speciale, visto che la normativa comunitaria non mette alcun paletto sulle forme processuali. A patto che siano rispettati i principi di effettività ed equivalenza. Princìpi poi, prosegue la sentenza, che non sono trasgrediti dall’introduzione del termine biennale della legge Vassalli. E a maggior ragione da quello triennale della riforma del 2015. Nel ricorso si sosteneva che termini assai brevi di decadenza, come quelli previsti, sono in contrasto con la disciplina comunitaria perché renderebbero assai difficile l’esercizio del diritto. Non è così, in realtà, sostiene la Cassazione, perché il termine biennale o triennale si colloca dopo che sono già stati intrapresi tutti i mezzi ordinari di impugnazione e, pertanto, "assicura un periodo di tempo più che ragionevole e sufficiente per valutare la sussistenza dei presupposti della responsabilità nel caso concreto e per approntare adeguatamente l’azione e la difesa in giudizio". A volere tacere poi di altre ipotesi assai brevi di decadenza, come quella dell’azione di risarcimento per la violazione di interessi legittimi. Quanto al principio di equivalenza, nessun profilo critico, visto che il limite si applica ai risarcimenti per danni provocati da (asserite) violazioni al diritto interno e a quello comunitario. Il termine di prescrizione di 5 anni non è poi determinante nel fare bocciare termini più brevi sia per la differenza dell’istituto della prescrizione da quello della decadenza sia perché ipotesi di prescrizione "breve" sono previsti dall’ordinamento. Violenza sessuale: se la vittima è una prostituta non scatta di per sé la minore gravità di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 11 gennaio 2017 Tribunale di Bari - Sezione I penale - Sentenza 7 ottobre 2016 n. 3919. Le persone dedite al meretricio non possono ritenersi nella libera disponibilità di chiunque, spettando alla loro esclusiva volontà, e non a quella altrui, la scelta se prostituirsi o meno. E nella valutazione globale della condotta integrante il reato di violenza sessuale commessa ai danni di una prostituta, al fine della configurabilità della circostanza attenuante speciale della minore gravità, non può attribuirsi alcun rilievo al fatto che la persona offesa eserciti l’attività di prostituzione. A ricordare tali principi è il Tribunale di Bari con la sentenza 3919/2016. Il caso - La vicenda trae origine da un episodio di violenza sessuale perpetrato ai danni di una ragazza nigeriana dedita all’esercizio della prostituzione, la quale per due anni aveva intrattenuto una relazione con un uomo sposato. Quest’ultimo, in seguito ad un acceso litigio, aveva costretto la donna ad entrare nella sua abitazione e, dopo averla picchiata e ridotta ad immobilità, aveva con la stessa un rapporto sessuale completo contro la sua volontà. Dopo la denuncia e le indagini, l’uomo veniva tratto a giudizio per rispondere di diversi reati, tra cui quello di violenza sessuale. In sede processuale, però, la difesa sosteneva la non configurabilità del reato previsto dall’articolo 609-bis del codice penale o, quantomeno, il riconoscimento della circostanza attenuante speciale della minore gravità, prevista dal comma 3 della stessa disposizione codicistica, in quanto la donna era una prostituta. La decisione - Il Tribunale condanna l’uomo per il reato di violenza sessuale e nelle motivazioni sottolinea, in particolare, l’irrilevanza dell’attività di meretricio della persona offesa al fine della configurabilità dell’attenuante della minore gravità. I giudici, in primo luogo, ricordano che "le persone dedite al meretricio non possono ritenersi nella libera disponibilità di chiunque, valendo per tutti il principio dell’autodeterminazione, ed anche per le prostitute, spettando alla loro esclusiva volontà quella di vendere il proprio corpo, e non alle altrui decisioni". Ciò posto, il Collegio condivide l’orientamento giurisprudenziale maggioritario sull’ipotesi di minore gravità del fatto nel reato di violenza sessuale, ai sensi del quale per la configurabilità dell’attenuante "è irrilevante la condotta di vita della persona offesa, in quanto il bene della libertà sessuale, afferendo alla sfera personale più intima dell’individuo ed al nucleo intangibile dei sui diritti personalissimi, ha il medesimo valore sia che appartenga a persona che intenda farne un uso misurato, sia che sia riferito a persona che ne disponga con leggerezza ed anche in maniera prezzolata". In sostanza, afferma il Tribunale, la configurabilità della circostanza attenuante speciale prevista dall’articolo 609 bis comma 3, c.p. presuppone una valutazione globale del fatto, quali mezzi, modalità esecutive, condizioni fisiche e mentali della vittima, così da potere ritenere che la libertà sessuale della persona offesa sia stata compressa in maniera non grave, a nulla rilevando la condotta di vita della vittima. Il reato continuato internazionale: problematiche e prospettive Il Sole 24 Ore, 11 gennaio 2017 Sentenza penale - Sentenza penale (in genere) - Riconoscimento della sentenza penale straniera - Condanna - Pene accessorie - Fatto commesso all’estero - Reato anche in Italia - Discrezionalità del giudice - Reati - Perseguibilità in Italia. Il riconoscimento della sentenza penale straniera può dare luogo alla condanna a pene accessorie a patto che il fatto commesso presso lo Stato estero costituisca reato anche in Italia. Intanto le pene accessorie irrogate a seguito del riconoscimento della sentenza penale straniera sono applicate discrezionalmente dal giudice, che le può anche motivare sinteticamente. Poi la sentenza penale straniera non può essere riconosciuta senza che prima sia stata verificata l’effettiva perseguibilità in Italia dei reati commessi all’estero. • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 23 maggio 2016 n. 21348. Fonti del diritto - Leggi - Legge penale - Territorialità - In genere - Reato commesso all’estero - Vincolo della continuazione con altro reato commesso in Italia - Giurisdizione del giudice italiano - Esclusione. Il reato commesso all’estero non può rientrare nella giurisdizione del giudice italiano per il solo fatto che sia legato dal vincolo della continuazione con altro reato commesso in Italia, trattandosi di ipotesi non compresa tra quelle che, ai sensi degli artt. da 7a 10 del cod. pen., comportano deroga al principio di territorialità sul quale si basa la giurisdizione dello Stato italiano. • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 22 gennaio 2016 n. 2986. Esecuzione - Condanna in Italia per più reati in continuazione - Detenzione patita all’estero per un fatto identico a uno dei reati oggetto della condanna inflitta in Italia - Computabilità in Italia per la determinazione della pena residua - Limiti. Al fine di determinare la pena residua da espiare, qualora la condanna in Italia sia avvenuta per più reati in continuazione, la detenzione patita all’estero per un fatto identico a uno dei suddetti reati, può essere presa in considerazione solo per esso e non anche per gli altri, in quanto l’istituto della continuazione mira a mitigare l’entità della pena complessivamente inflitta in relazione a violazioni costituenti espressione di un medesimo disegno criminoso, ma non sopprime la loro autonomia fenomenologica. • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 12 febbraio 2014 n. 6734. Esecuzione - Giudice dell’esecuzione - Concorso formale e reato continuato - Continuazione tra reato giudicato in Italia e reato giudicato all’estero - Possibilità - Esclusione. Non è applicabile "in executivis" la continuazione tra il reato giudicato in Italia e il reato giudicato con sentenza straniera riconosciuta nell’ordinamento italiano, non essendo l’ipotesi del vincolo della continuazione contemplata tra quelle cui può essere finalizzato il riconoscimento della sentenza ai sensi dell’articolo 12, comma primo, cod. pen. • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 30 novembre 2011 n. 44604. Sardegna: Sdr "grave situazione istituti penitenziari per carenza direttori e organici" Ristretti Orizzonti, 11 gennaio 2017 La realtà degli Istituti Penitenziari della Sardegna con le gravi carenze di Direttori, l’assenza di Vice Direttori e amministrativi nonché per l’insufficienza degli Agenti della Polizia Penitenziaria e degli Educatori è oggetto di una lettera aperta che Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme", ha inviato lo scorso 4 gennaio, anche via email, al Guardasigilli Andrea Orlando, sollecitando un suo autorevole intervento. "Attualmente per 10 Istituti, tre dei quali "Colonie Penali", sono in organico - si legge nella missiva al Ministro della Giustizia - 5 direttori penitenziari sono effettivi e 2 in missione, ormai conclusa. La situazione in certi periodi, quando qualche titolare è assente per ferie e/o per malattia, risulta insostenibile in quanto costringe chi ricopre già un doppio o triplo incarico a spostarsi da una struttura all’altra senza soluzione di continuità e con degli oggettivi limiti nelle possibilità concrete di svolgere al meglio il proprio ruolo istituzionale. Nonostante sia stata apprezzata la decisione di attribuire la Direzione della Casa Circondariale di Nuoro e della Casa di Reclusione di Tempio Pausania ad altrettante responsabili con un incarico "a missione" per sei mesi, è evidente che il lavoro non può che limitarsi all’ordinario". "I detenuti, i diversi operatori penitenziari, comprese le associazioni di volontariato, aspirano - sottolinea Caligaris - a una costante gestione illuminata, garantista e aperta al reintegro sociale di chi vive in stato di detenzione. Esperienze passate e recenti si sono positivamente riverberate ma ora sono offuscate dalle condizioni di fatto. Una realtà così poco esaltante, aldilà degli sforzi di chi quotidianamente offre il proprio generoso contributo di dirigente, non giova al sistema penitenziario nel suo complesso e rende oltremodo difficile rispettare il dettato costituzionale garanzia dei diritti di chi è privato della libertà oltre che di chi lavora con passione e abnegazione". "È appena il caso di ricordare - è detto ancora nella missiva di Sdr - che in Sardegna sono insufficienti anche gli Agenti della Polizia Penitenziaria, gli amministrativi nonché gli Educatori. Rileviamo, dai dati diffusi dal Ministero, che 4 strutture su 10 hanno superato il numero regolamentare di detenuti e che le Case di Reclusione all’aperto, nonostante i buoni propositi sono ancora sottoutilizzate. Siamo consapevoli dell’importante ruolo che Lei sta svolgendo per rafforzare il ricorso alle pene alternative ma in Sardegna ci sembra che occorra un impegno ancora più forte per evitare di considerarsi un "colonia" dove si possono trascorrere le vacanze ma dove non si vuole vivere". Sardegna: detenuti islamici nelle carceri dell’Isola, la polemica ora arriva in Parlamento castedduonline.it, 11 gennaio 2017 Il deputato Roberto Capelli chiede chiarezza al ministro Orlando. "Al Ministro della Giustizia Andrea Orlando chiediamo di fare chiarezza sui detenuti islamici presenti in Italia accusati di terrorismo internazionale e inseriti nei circuiti di alta sicurezza". Lo chiede Roberto Capelli, deputato di Centro democratico, che ha presentato un’interrogazione al Ministro Orlando che verrà discussa domani pomeriggio alle 15:00 nel corso del Question time alla Camera dei Deputati. "Secondo le nostre informazioni la metà di questi soggetti è detenuta in due carceri della Sardegna (20 su un totale d 44). Alla luce dei pronunciamenti dello stesso Presidente del Consiglio Paolo Gentiloni - continua il deputato sardo - che a riguardo della radicalizzazione di soggetti ha parlato di un lavoro da fare sulle carceri italiane anche immaginando una rimessa in uso dell’ex colonie agricole penali, quasi tutte ubicate in Sardegna. Fermo restando la convinzione dell’utilità dei regimi alternativi alla detenzione, desta stupore immaginare questa ultima misura per il caso in questione e per questo vogliamo chiedere al Ministro se è reale quest’ipotesi e, in caso positivo, di conoscere il numero dei soggetti potenzialmente interessati al trasferimento". "Più in generale, poi, vogliamo conoscere dal Ministro il numero esatto dei detenuti islamici accusati di terrorismo internazionale già inseriti nei circuiti di alta sicurezza della Sardegna e la loro destinazione, in modo da comprendere quali misure di controllo e monitoraggio siano attualmente previste nei loro confronti e se essi possano in qualche modo interagire con detenuti comuni o appartenenti alla criminalità organizzata", conclude Capelli. Teramo: detenuto 32enne muore in cella, il pm dispone l’autopsia Il Centro, 11 gennaio 2017 A dare l’allarme sono stati gli agenti di polizia penitenziaria che non lo hanno visto alzarsi per fare colazione. Ma quando sono andati vicino alla branda per Rachid Jnhaic, tunisino di 32 anni, non c’era più nulla da fare. La prima ipotesi è quella che il detenuto, che era da solo in cella, sia morto per cause naturali visto che sul corpo non sono stati trovati segni di violenza. Ma per fare definitiva chiarezza il pm di turno Bruno Auriemma, che sul caso ha aperto un fascicolo, ha disposto l’autopsia che sarà eseguita questa mattina. L’uomo era arrivato qualche mese fa dal carcere di Avezzano e doveva scontare una condanna legata a reati connessi alla droga. Avrebbe finito di scontare tutta la pena nel 2019. L’allarme è scattato intorno alle 7 di ieri mattina e sul posto sono subito intervenuti il personale medico e infermieristico della struttura carceraria e un’ambulanza del 118, ma per l’uomo non c’è stato nulla da fare. Roma: arrestato tunisino radicalizzato, nelle nostre prigioni dal 2011 di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 11 gennaio 2017 "Black Flag", bandiere nere. Questa è stata l’operazione condotta dalla Digos e coordinata dal pool antiterrorismo della procura della repubblica capitolina che ha messo a segno una serie di perquisizioni in tutta la regione Lazio e notificato un’ordinanza di custodia cautelare a un tunisino dell’ 82 detenuto alla casa circondariale di Rebibbia. Si chiama Saber Hmidi ed è sospettato di essere affiliato ad Ansar Al- Sharia, organizzazione libica legata ad al Qaida. Secondo le indagini, l’uomo in questione faceva proselitismo in carcere. Avrebbe ricevuto in custodia il vessillo del gruppo terroristico al quale apparteneva e nei vari penitenziari di transito istigava alla discriminazione religiosa e all’arruolamento nelle fila dell’Isis in Libia e in Siria. La radicalizzazione religiosa dell’uomo era iniziata durante la prima detenzione nel carcere di Velletri nel 2011. Da quell’istituto di pena, dove si trovava per violazione della legge sugli stupefacenti, era uscito profondamente cambiato, iniziando a praticare la religione islamica con assiduità nelle moschee della città. Proprio in quel periodo il 33enne sarebbe entrato in contatto con i fratelli tunisini della Shari - a entrando in possesso di una bandiera del gruppo terroristico simile a quelle del califfato dell’Isis. Saber Hmidi è arrivato in Italia nel 2008 e si è sposato con una donna italiana con la quale ha avuto una figlia. La coppia risulta residente a Ciampino e anche la donna si sarebbe convertita all’islam. È dal 2014 che il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha inserito il gruppo terroristico Ansar Al-Sharia nelle fazioni terroristiche. Per gli Stati Uniti faceva parte della lista delle organizzazioni terroristiche, dopo l’esecuzione da parte di tale gruppo di una serie di attentati, nel 2012, nei confronti della missione speciale statunitense nella città libica di Bengasi. Ansar Al- Sharia è considerata appartenente alla rete di al- Qaeda nel nord Africa e gestisce campi per l’addestramento di terroristi stranieri che vengono poi inviati in Siria, Iraq e Mali. Nel corso delle attività tecniche di intercettazione delle telefonate tra Hmidi e il padre, gli inquirenti hanno raccolto non solo la preoccupazione del genitore per le scelte del figlio ma anche elementi che confermano la conoscenza diretta dell’indagato con un leader di Ansar Al Sharìa, tale Zarrouk Kamal, morto in Siria nella città di Raqqa, nota roccaforte dell’Isis. Hmidi era ritenuto un vero e proprio leader all’interno del gruppo Ansar al- sharia nonché referente per molti tunisini e siriani. Le tappe in carcere - Gli inquirenti hanno spiegato il percorso di radicalizzazione e di proselitismo del tunisino avuto nelle varie carceri. Tutto ebbe inizio, come già ricordato, all’interno del carcere di Velletri nel 2011, poi è stato arrestato altre volte e, secondo la ricostruzione degli inquirenti, il tunisino è diventato sempre più violento e radicalizzato. Nel 2015 si era messo a capo di un gruppo di preghiera con lo scopo di creare problemi di natura gestionale e di adattamento con gli altri detenuti. E da allora la sua condotta è anche diventata violenta: nello stesso anno è stato mandante, nel carcere di Civitavecchia, di una vera e propria spedizione punitiva, con bastoni e sgabelli, nei confronti di un detenuto che si era lamentato delle preghiere notturne. Nel luglio 2015, nella Casa Circondariale di Frosinone, dove era stato trasferito per motivi di sicurezza, ha aggredito un detenuto italiano che aveva contestato i continui ed insistenti discorsi inneggianti all’Islam, mentre nel carcere di Napoli aggredì un nigeriano di fede cristiana. Le sue condotte violente si sono ripetute anche a Salerno e Viterbo. Un iter, quello delle conversioni e radicalizzazioni in carcere, ben noto in altri paesi europei come la Francia e il Belgio, dove sono stati forgiati i terroristi che hanno seminato il panico negli ultimi due anni con agghiaccianti attentati. Tra questi ricordiamo Salah Abdeslam, l’unico attentatore che non si fece saltare in aria durante il sanguinoso attentato del 3 novembre 2015 a Parigi, e Abdelhamid Abaaoud, cittadino belga considerato l’uomo che ha progettato la strage di Parigi. Proprio a quest’ultimo si deve la radicalizzazione di Salah tra le mura di un carcere dove scontava la pena per un furto. Solo due nomi di una lunga lista che comprende quelli di Adel Kermiche, il terrorista che ha sgozzato il prete nella chiesa di Saint Ètienne du Rouvray in Normandia, o Amedy Coulibaly il terrorista che ha agito nei giorni successivi all’attentato di Charlie Hebdo, uccidendo i clienti di un supermercato kosher. E poi c’è l’ultimo caso, l’attentatore del mercato di Berlino, anche lui radicalizzato nelle carceri. Le nostre. Ferrara: i Radicali "promuovono" il carcere dell’Arginone estense.com, 11 gennaio 2017 Una delegazione ha fatto visita alle carceri dell’Emilia Romagna nel primo Natale senza Marco Pannella. Nel primo Natale senza Marco Pannella, delegazioni del Partito Radicale hanno fatto visita agli istituti della Regione Emilia-Romagna rispettando la tradizione di passare le festività nelle carceri. Una iniziativa che è parte delle visite in 40 istituti di pena italiani, anche per ringraziare i quasi 20.000 detenuti che hanno aderito digiunando alla marcia per l’Amnistia del 6 novembre, in occasione del Giubileo dei carcerati. Bologna, Rimini, Ferrara, Forlì e Modena gli istituti visitati. Le criticità strutturali maggiori si rilevano nella Casa Circondariale di Forlì: la struttura detentiva risale alla metà dell’ottocento, e ritardi nella costruzione del nuovo istituto (con lavori iniziati nel 2005 e più volte interrotti) hanno impedito di intervenire in maniera efficace sull’edificio esistente. La delegazione ha rilevato come l’impegno della direzione e del personale di polizia penitenziaria in parte sopperisca ai disagi strutturali, nonostante anche le inottemperanze del magistrato di sorveglianza denunciate a tutti i livelli. Le carenze di organico, sia tra il personale civile che in quello di polizia, sono comuni a tutti gli istituti: questo ha ricadute soprattutto sulla qualità delle attività trattamentali, tanto più che tra il personale di polizia penitenziaria a mancare sono soprattutto i quadri. Le situazioni più virtuose sono rappresentate dagli istituti che ospitano il maggior numero di attività lavorative e rieducative: tra queste Bologna, Ferrara e Forlì. A Modena sono del tutto assenti attività lavorative gestite da terzi, al di fuori dal lavoro ordinario in carico all’amministrazione penitenziaria. Nell’istituto modenese si rileva anche un tasso di detenuti stranieri, per la gran parte privi di documenti di identità, superiore del 20% rispetto alla media nazionale: una popolazione carceraria così composta crea enormi difficoltà di gestione, influendo sulla possibilità di creare percorsi rieducativi adeguati. La presenza di un gran numero di detenuti tossicodipendenti o condannati per reati bagatellari conferma la necessità di ripensare il sistema di espiazione delle pene. Ovunque, le grandi carenze strutturali, di organico e di risorse compromettono la buona gestione dei circuiti penitenziari, sottoponendo i detenuti a una continua violazione dei loro diritti fondamentali e il personale carcerario a lavorare in situazioni di pressione e disagio. Le visite proseguiranno nelle prossime settimane a Piacenza e Reggio Emilia. Alessandria: carcere San Michele, venti agenti in più e un sistema di videosorveglianza radiogold.it, 11 gennaio 2017 Entro un mese il carcere San Michele di Alessandria potrebbe contare su 15 o 20 agenti di Polizia Penitenziaria in più. Questo il primo provvedimento a breve termine stabilito per fronteggiare la carenza di personale durante l’incontro tra il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria Luigi Pagano e i vertici degli istituti alessandrini. 10 unità arriverebbero dall’istituto penitenziario di Alba, attualmente inattivo, altre 3 dalla Casa Circondariale di Alessandria Cantiello e Gaeta. L’intenzione del provveditorato regionale è anche richiamare al "San Michele" le dieci unità distaccate fuori regione. Al vaglio anche alcune novità strutturali come l’introduzione di un sistema di videosorveglianza e di automazione di cancelli che permetterebbe di destinare ad altre mansioni 5 o 6 agenti, oltre a una differente organizzazione del lavoro: non più un agente fisso preposto al monitoraggio di una sezione ma pattuglie di tre unità attrezzate per un controllo itinerante tra le varie aree. "L’auspicio è che queste novità alleggeriscano i carichi di lavoro degli agenti attualmente in servizio" ha detto a Radio Gold il direttore del carcere di San Michele Domenico Arena. La prossima settimana tutte queste novità saranno vagliate in un faccia a faccia tra i vertici alessandrini e i sindacati. "L’obiettivo è trovare una soluzione entro l’estate" ha aggiunto il direttore Arena "è soprattutto nei periodi di ferie che la carenza di personale comporta maggiori problemi. Stiamo uscendo da una emergenza e dobbiamo attrezzarci per evitarne un’altra durante il periodo estivo". "Recepiamo favorevolmente che sia stata riconosciuta la protesta, il disagio del personale" ha sottolineato a Radio Gold il segretario generale Uil-Pa Salvatore Carbone "ma ora è troppo presto per esprimere giudizi su quello che è stato deciso. Siamo agli albori di quanto è necessario fare per San Michele. Ad oggi non so come reagirà il personale: l’iniziativa di non mangiare il pasto in mensa è partita dai lavoratori stessi. Spetterà a loro decidere dopo questo spiraglio aperto. Per il momento, però, mi pare che i provvedimenti ipotizzati siano ancora insufficienti. Di certo serve anche una risposta della politica. Tutto il mondo penitenziario spesso è stato tenuto ai margini dei problemi amministrativi locali". A proposito di politica proprio nei giorni scorsi i consiglieri di opposizione Maurizio Sciaudone (Forza Italia), Emanuele Locci (Popolo della Libertà), Domenico Di Filippo (Movimento 5 Stelle) hanno chiesto la convocazione di una Commissione Sicurezza e Ambiente dove ascoltare dai sindacati appartenenti alla Polizia Penitenziaria un quadro sulla situazione dei carceri presenti in città, a seguito degli ultimi avvenimenti. Vulnerabili, soli, senza voce: ai minori è dedicata la Giornata del migrante Redattore Sociale, 11 gennaio 2017 Si svolgerà il prossimo 15 gennaio. Galantino, segretario della Cei: "Sboccare legge cittadinanza e legge minori soli". Di Tora, presidente Cei: "Il dramma dei minori soli ci riguarda tutti". Perego (Migrantes): "Assicurare l’accoglienza". Sono i migranti più vulnerabili, più a rischio e spesso "senza voce". Ai minorenni stranieri è dedicata quest’anno la Giornata mondiale del migrante e del rifugiato 2017. Come ha scritto Papa Francesco nel suo messaggio, specialmente quelli che arrivano soli, sono tre volte indifesi: " perché minori, perché stranieri e perché inermi". La Giornata, presentata oggi a Roma, si svolgerà domenica prossima 15 gennaio. "Nel nostro paese ci sono oltre un milione di minori migranti, il nostro parlare evangelicamente deve partire dai loro volti e dalle loro storie. Così come deve partire dai loro volti e dalle loro storie il nostro dire alcuni sì e alcuni no, senza quella superficialità gridata da chi parla tanto di migranti senza aver mai parlato coi migranti", sottolinea monsignor Nunzio Galantino. Per questo il segretario della Cei (Conferenza episcopale italiana) chiede di sbloccare al più presto due legge fondamentali, ferme al Senato: la riforma della cittadinanza che permetterebbe "di allargare la partecipazione, cuore della democrazia, e favorire processi di inclusione e integrazione" e la legge sui minori stranieri non accompagnati, per far sì che questi ragazzi non siano destinati "a nuovi orfanatrofi, ma a case famiglia, a famiglie affidatarie, accompagnate da una formazione attenta a minori preadolescenti e adolescenti". Per Galantino bisogna dire sì anche "all’identificazione dei migranti che arrivano tra noi, anzitutto per un’accoglienza attenta alla diversità delle persone e delle storie, pronta a mettere in campo forme e strumenti rinnovati di tutela e di accompagnamento che risultano una sicurezza per le persone migranti e per la comunità che accoglie". E favorire "un’accoglienza diffusa, in tutti i comuni italiani, dei migranti forzati, in fuga da situazioni drammatiche". Per monsignor Guerino Di Tora, presidente della Commissione Episcopale Cei per le migrazioni il messaggio del Pontefice invita ad avere uno sguardo attento sul futuro: "oggi il fenomeno della migrazione è un fenomeno mondiale e che non si può semplificare in maniera leggera: i minori soli sono quelli che muoiono in mare, ma anche i bambini soldato - sottolinea - solo nel 2016 cinquemila minori sono stati dichiarati scomparsi. Questo è un dramma che ci riguarda tutti". Per Di Tora, bisogna aprirsi all’accoglienza come chiede Francesco "si tratta di un problema innanzitutto umano. Non possiamo prescindere dalla questione migratoria altrimenti il nostro diventa un Cristianesimo puramente estetico". "Attorno ai diversi volti di minori migranti, per evitare violenze, sfruttamento e abusi, è messa alla prova la capacità istituzionale di tutela dei diritti fondamentali, primo tra tutti il diritto di famiglia in Italia e all’estero - sottolinea monsignor Giancarlo Perego, direttore della Fondazione Migrantes. La difficoltà è passare da un diritto a un servizio e a un servizio in rete, cioè garantire ai minori una città e una casa. A questo proposito, in Italia soprattutto nella collaborazione tra Comuni, enti ecclesiali, associazioni e cooperative, servizi sanitari e scuole, sono nati percorsi sperimentali di pronto intervento, di ospitalità, di accompagnamento, di formazione che hanno costruito città e casa attorno ai minori migranti e ai loro familiari. Si è trattato di più percorsi di advocacy e di cura, anche sperimentali, sia per la diversa età dei minori, ma anche per i numerosi paesi di provenienza e le differenze culturali". Secondo Perego nel rapporto con i minori migranti è cresciuta anche la Chiesa, una Chiesa plurale, da una parte nella sua capacità caritativa di costruire servizi, progetti di educazione interculturale, di genitorialità attiva e partecipativa, per costruire segni di fraternità, ma anche per avviare esperienze di pastorale giovanile che rinnovano gli ambienti di aggregazione giovanile e gli oratori, sperimentando percorsi d’incontro e d’intervento specifici. "Con il minore migrante, è necessario da una parte ricercare forme di collegamento e conoscenza familiari anche a distanza, dall’altra costruire, in assenza di figure genitoriali, un percorso educativo e di crescita integrale, attento anche alle diverse dimensioni della vita giovanile (sport, scuola, affetti, amicizie, formazione al lavoro)" aggiunge. Nel 2017 le Diocesi Lombarde celebrano il primo centenario della morte di Santa Francesca Saverio Cabrini, santa della nostra terra di Lombardia e patrona universale di tutti gli emigranti, che verrò ricordata anche in occasione della Giornata di domenica. "L’esempio luminoso della santa patrona degli emigranti e la sua intercessione siano di sprone per le nostre Chiese e per tutta la società civile per un rinnovato impegno e una rinnovata attenzione al mondo dei migranti a cominciare dai piccoli, dai minori e dai meno tutelati - sottolineano in una nota le Chiese di Lombardia. Le soluzioni durature sono quelle che tengono conto della situazione internazionale, senza mancare di denunciare le dimensioni negative della globalizzazione, a cui si connettono i conflitti locali, nazionali e internazionali, la violenza, la miseria e le condizioni ambientali; criminalità, abusi, guerre, violazioni dei diritti umani, corruzione, povertà, squilibri e disastri ambientali sono spesso alla radice del fenomeno migratorio motivato non tanto dall’aspirazione a passare da una vita fatta di mediocrità a una vita caratterizzata dall’eccellenza, una vita degna di questo nome, quanto piuttosto dalla ricerca di una terra in cui poter almeno sopravvivere". Migranti. Richieste d’asilo, il decalogo del Csm per l’emergenza di Errico Novi Il Dubbio, 11 gennaio 2017 "Che i procedimenti sulle richieste d’asilo rappresentino un’emergenza ci è chiaro ormai da tempo", dice Claudio Galoppi, togato che al Csm presiede la settima commissione. Così come il ministro Andrea Orlando, anche l’organo di autogoverno della magistratura è mobilitato per affrontare il nodo della protezione internazionale. Materia che sarebbe passata per non prioritaria fino a qualche mese fa, ma che adesso è diventata il nodo da sciogliere con maggiore urgenza sul fronte giustizia. Le ragioni sono ormai chiare: ogni mese nei tribunali italiani arriva una raffica di ricorsi da parte di migranti che si sono visti negare lo status di rifugiati. Non esistono dati completi per il 2016, ma ci si aggira ormai attorno ai 4mila casi al mese. Un’ondata di fronte alla quale gli uffici giudiziari si trovano sostanzialmente impreparati. Ecco perché il guardasigilli spinge per il varo immediato del suo disegno di legge, che velocizza i tempi di queste cause ed evita che i migranti privi dei requisiti approfittino della pluriennale attesa per rendersi irreperibili. Ed è sempre per lo stesso motivo che il Csm si muove in parallelo. Entro la fine del mese Palazzo dei Marescialli dovrebbe approvare la circolare su cui lavora appunto la commissione presieduta da Galoppi. Si tratterà di un documento con cui verranno indicate "buone prassi", che i singoli distretti saranno invitati ad adottare per accelerare i tempi. Tra queste dovrebbe essere segnalata senz’altro l’iniziativa della presidente della Corte d’appello di Firenze Margherita Cassano, che il Csm ha in realtà già "bollinato". Si tratta di un progetto che prevede l’applicazione al "Tribunale capoluogo", quello di Firenze appunto, di alcuni magistrati provenienti da altre sedi dello stesso distretto, Lucca e Livorno in particolare. Poche unità, da destinare una volta alla settimana allo smaltimento dei fascicoli che trattano le richieste d’asilo. Misura non particolarmente traumatica, in termini organizzativi, ma che ha comunque suscitato malumori tra la magistratura toscana. Tanto che il Consiglio giudiziario di Firenze aveva bocciato il progetto. Il caso è emblematico: la magistratura locale ha fatto resistenza perché i colleghi dirottati, seppur temporaneamente, sui casi di protezione internazionale sono già oberati di lavoro. Si tratta però di una realtà con cui il sistema giudiziario fare i conti. Il Csm in proposito non può far altro che inviare una "esortazione", sotto forma di circolare: la si metterà a punto già a partire dalla prossima settimana quando, spiega ancora Galoppi, "saranno disponibili i dati definitivi sui carichi di lavoro relativi alle richieste d’asilo e si sarà completato il monitoraggio sulle buone pratiche adottate in questo campo". Più o meno contemporaneamente lo stesso guardasigilli Orlando potrebbe ottenere il via libera a introdurre per decreto alcune delle norme previste nel suo ddl. Una corsa contro il tempo a cui partecipano sia l’esecutivo che l’organo di autogoverno, basata su un’emergenza che il ministro della Giustizia aveva segnalato alla commissione Schengen già l’estate scorsa. Non a caso Orlando predispose già allora lo schema normativo che, oltre alle sezioni specializzate in 12 Tribunali, prevede la soppressione del ricorso in appello. C’è voluto il caso Amri perché il nuovo governo, almeno, comprendesse l’urgenza di queste misure. Migranti. Cie, il no dei vescovi: "Non vanno riaperti" Il Manifesto, 11 gennaio 2017 La Cei: puntare sull’accoglienza diffusa. M5S: "Minniti riferisca sull’accordo con la Libia". Arriva da Oltretevere l’ennesimo No alla proposta del ministro degli Interni Marco Minniti di riaprire i Centri di identificazione ed espulsione. Dopo la Caritas, la Fondazione Migrantes e il Centro Astalli ieri a pronunciarsi contro i Cie sono stati direttamente i vescovi italiani per bocca del segretario generale della Cei monsignor Nunzio Galantino, contrario alla riapertura delle strutture se, ha detto, "dovessero continuare a essere luoghi di trattenimento e reclusione". Una bocciatura pesante. Monsignor Galantino ha ricordato come, oltre al mondo cattolico, a dirsi contrari ai Cie siano stati finora anche numerose associazioni impegnate nella solidarietà sociale, oltre a giuristi "impegnati da anni nella tutela e promozione dei migranti". No quindi a strutture chiuse, "anche se con pochi numeri di persone, senza tutele fondamentale, che rischiano di alimentare fenomeni di radicalizzazione e dove finiscono oggi, nella maggior parte dei casi, irregolari dopo retate, come le donne prostitute, i migranti più indifesi e meno tutelati". I vescovi prendono atto delle precisazioni fatte dal ministro Minniti, successivamente all’annuncio della riapertura dei Cie, di voler garantire condizioni di vita e di detenzione dignitose, contrariamente a quanto troppo spesso avvenuto in passato, all’interno delle strutture. Così come sono consapevoli dei distinguo posti dai sindaci italiani, per i quali nei centri dovrebbe essere internati in attesa di essere espulsi solo migranti irregolari che hanno compiuto dei reati e per questo potenzialmente pericolosi per la società. Questo però non basta, anche se portano monsignor Galantino a esprimere un "no condizionato" dalla verifica di quanto accadrà. L’importante - ha proseguito il segretario generale della Cei - è che i Cie "non diventino parcheggi abusivi e malgestiti". Ma la cosa importante per i vescovi a riuscire ad organizzare una "accoglienza diffusa" nel territorio dei migranti. In pratica un sostanziale via libera la piano messo a punto nelle scorse settimane dal Viminale con l’Anci, l’associazione dei comuni italiani e soprattutto non chiudere tutte le possibilità di entrare legalmente in Italia e in Europa. Sul primo punto, Galantino ha ricordato come si tratti di "accogliere alcune persone che e famiglia in fuga, due su tre delle quali potrebbero fermarsi solo alcune settimane o mesi". Per quanto riguarda la chiusura delle frontiere "è contraddittorio chiudere forme e strade per l’ingresso legale e poi approvare leggi per combattere lo sfruttamento lavorativo e il caporalato". Intanto dopo i viaggio di Minniti in Libia, il Movimento 5 stelle ha chiesto al ministro degli Interni di presentarsi in parlamento per riferire sui contenuti dell’accordo siglato con il premier libico Serraj per fermare le partenze dei migranti dalla Libia verso l’Europa. Un chiarimento necessario, affermano in una nota congiunta deputati e senatori M5S delle commissioni Esteri e Difesa di Camera e Senato - "visto che a quanto pare dal governo di Tobruk non arrivano certo rassicurazioni, men che meno dal generale Haftar". Droghe. Eroina pura, un "killer" a Torino di Lorenzo Camoletto* Il Manifesto, 11 gennaio 2017 Eroina con un grado di purezza intorno al 50%, e comunque oltre il 30%, sono i dati che provengono da alcune delle analisi effettuate nel dicembre scorso a Torino. Sono risultati sorprendenti e preoccupanti. Un dato sconvolgente per una piazza abituata da anni a sostanze in cui il principio attivo era mediamente 5-10 volte più basso e insieme una triste profezia di morte per chi, inconsapevolmente si fa una "pera" dieci volte più potente di quanto lui pensi, magari consumando il rito in solitudine, nascosto in qualche luogo difficile da raggiungere, senza avere con sé il naloxone, farmaco salva vita in caso di overdose (Narcan). Torino e il Piemonte possono contare su una rete consolidata di servizi a bassa soglia che favorisce il dialogo fra attività socio sanitarie del pubblico e del privato con i consumatori. Questa rete si è attivata usando i suoi strumenti di comunicazione e ha quindi diffuso il più possibile l’allerta fra i frequentatori dei drop-in, delle unità mobili e nei gruppi di interesse dei consumatori stessi, lo ha poi diffuso anche in internet attraverso i social media. Tuttavia il forte impegno potrebbe non bastare e il timore è che presto comincino ad arrivare notizie di morti sospette. Che cosa sta succedendo nel mercato? Perché qualcuno sta vendendo allo stesso prezzo eroina così pura? Un tentativo da parte di un nuovo attore di conquistare il mercato? Una crisi di domanda così forte da indurre un brusco rialzo della qualità dell’offerta? Domande aperte per un fenomeno che stupisce e lascia increduli consumatori e operatori del settore, ma che prima di tutto mette a rischio molte vite e chiede di essere analizzato e fronteggiato; il drug checking (test degli stupefacenti associato ad informazioni sulla prevenzione ed orientamento del consumatore), diffuso ed organizzato, collegato ad un sistema di allerta rapida che coinvolga anche i consumatori, potrebbe essere una risposta estremamente efficace ed efficiente in questi casi. Il progetto B.A.O.N.P.S. propone lo strumento del drug checking nei contesti del divertimento con un doppio obiettivo: tutelare la salute dei consumatori aumentando la loro consapevolezza sulla tipologia delle sostanze che intendono consumare e scoprire precocemente la presenza di nuove sostanze psicoattive migliorando la conoscenza e la capacità di risposta del sistema dei servizi dedicati. B.A.O.N.P.S è reso possibile grazie alla collaborazione con il Cad (il Centro Regionale Antidoping "Alessandro Bertinaria") e alle competenze e conoscenze dei suoi specialisti con i quali si riesce ad avere analisi veloci "sul campo" e - nei casi dubbi- analisi più approfondite in laboratorio. Altri attori come Lab57 Alchemica o Infoshock offrono da anni lo stesso servizio, con metodologie diverse ma altrettanto efficaci e, fra i servizi di prossimità, sta crescendo l’interesse per poter implementare lo strumento del drug checking su vasta scala. Ma l’ambito del loisir è altro rispetto alla scena classica del consumo "di strada", nella quale il pericolo non è rappresentato tanto dall’introduzione di una nuova sostanza psicoattiva, ma dalla qualità e dai "tagli" più o meno pericolosi contenuti nell’eroina e cocaina vendute nelle piazze. Per questo tipo di consumo, nonostante i tentativi di alcuni servizi a bassa soglia (a Reggio Emilia, Aosta e nei dintorni di Torino), non c’è ancora un piano di implementazione consolidato e su vasta scala del drug checking; eventi tragici come le morti di questi giorni ci dicono che è venuto il tempo di organizzarlo. *Progetto B.A.O.N.P.S., Coop. Alice Il governo della Rete è un dovere Salvatore Sica Il Mattino, 11 gennaio 2017 La vicenda degli arresti per cyber-spionaggio ha un incredibile valore simbolico; è come se, in un colpo solo, si fossero concentrate plasticamente tutte le criticità della società dell’informazione e della comunicazione, e l’occasione per una riflessione di sistema non può e non deve essere smarrita. Esaminiamo i vari aspetti; gli arrestati: italiani, residenti a Londra ma attivi a Roma. È il paradigma della società della rete, senza un territorio, sfuggente ad ogni logica tradizionale di controllo e, se votata al male, abilissima a gestire il fenomeno noto come Forum Shopping, ovvero la scelta di quale giudice e quale legge cui sottoporsi. Si ignorano i dettagli processuali, ma c’è da scommettere che si porranno comunque questioni processuali di "competenza" territoriale e giurisdizionale. Il secondo dato palese è che Il vecchio adagio, "l’informazione è potere", oggi, nel contesto telematico, ha una valenza amplificata all’infinito; niente a che vedere con il "tradizionale" dossieraggio, cui la storia, soprattutto dei servizi deviati, ci aveva abituati. Se qualcuno avesse ancora dei dubbi, li rimuovesse: il "bene economico" per antonomasia attualmente sono i dati personali, più del petrolio, e, per certi versi, più delle stesse riserve auree, perché questi ultimi possono subire le conseguenze dell’opera di "disvelamento" delle informazioni riservate. Inoltre, agli scettici della rete, che ancora leggono la politica in termini tradizionali di potere costituito, dovrebbe essere ben presente la lezione che dall’episodio si ricava: i "cospiratori", i cultori di un "contropotere" o, più semplicemente, i "mercanti" di informazione, dispongono della mostruosità di un database che noi stessi quotidianamente implementiamo Se, come pare, è stato violato l’account Apple di Renzi, ci rendiamo conto di quanto sia infernale il meccanismo in base al quale ogni giorno riempiamo di noi, della nostra vita, delle nostre relazioni, non importa di quale natura, la Rete, convinti di essere assistiti da sicurezza e riservatezza, o, addirittura persuasi di partecipare al dibattito nella "arena" più grande che la storia abbia conosciuto, ed in realtà alimentiamo i potenziali speculatori o i malintenzionati? Il problema non è dissimile se si tratti dei profili social o della posta elettronica di personaggi illustri o di soggetti comuni. Ma è ovvio che dalle elezioni americane in poi, ed ora con la vicenda in questione, il livello della discussione deve necessariamente mutare. La vita e le informazioni riservate di Renzi, Monti, Draghi o le nostre di cittadini comuni valgono, sul piano etico, alla stessa maniera. Non è così sul piano politico-istituzionale! Qui si tratta di sicurezza nazionale ed internazionale, si tratta di segreto di Stato, di segreto industriale o bancario; in definitiva si tratta di elaborare un disegno complessivo di "governo parallelo o alternativo" della società. C’è un unico aspetto positivo, se così si può dire, di questa vicenda: la politica non può più voltare la faccia. Urge il recupero del suo primato, che metta da parte la timidezza o il condizionamento lobbistico delle multinazionali della comunicazione e faccia affrontare, senza remore, una disciplina sovranazionale, e, per quanto possibile, nazionale, della Rete. Urge un’opera di trasparenza su chi, come e perché archivia i dati che circolano nell’etere telematico, e per far ciò occorrono una netta volontà dei governi, un rafforzamento dell’opera, meritoria, ma ancora insufficiente, delle sole polizie "postali", una specializzazione degli investigatori: non è un caso che la vicenda sia emersa in una fase in cui, probabilmente anche in connessione alla lotta al terrorismo, si siano rafforzati i controlli della Rete. Ma, di pari passo, non è più rinviabile la campagna per un uso responsabile del web e del suo monitoraggio, che non equivale a censura ad ogni costo: gli interventi di Soro e del ministro Orlando dei giorni scorsi sembrano attenere ad altro profilo, ma concernono lo stesso tema, quello di porre un freno ad una rete "far west", specie ora che il bersaglio si è fatto più grosso, e il bersaglio sono i governi stessi. Stati Uniti. I 15 anni "disumani" di Guantánamo da Amnesty International Il Manifesto, 11 gennaio 2017 Il 1° gennaio, a seguito di un voto dell’Assemblea generale, gli Usa sono entrati a far parte per tre anni del Consiglio Onu dei diritti umani. Nella dichiarazione a sostegno della propria candidatura, gli Usa avevano promesso di promuovere i diritti contenuti nella Dichiarazione universale dei diritti umani, di rispettare gli obblighi previsti dai trattati internazionali e di avere un rapporto costruttivo con gli organi di monitoraggio sull’attuazione dei trattati delle Nazioni Unite. Dieci giorni dopo, l’11 gennaio 2017, è il 15° anniversario dalle prime detenzioni nella base navale di Guantánamo Bay, in territorio cubano: detenzioni del tutto antitetiche alla Dichiarazione universale dei diritti umani e dunque in contrasto con gli obblighi del diritto internazionale e con le raccomandazioni degli organi di monitoraggio sull’attuazione dei trattati Onu. Ma quando si tratta di rispettare gli obblighi in materia di diritti umani, gli Usa assumono troppo spesso un approccio selettivo e, con Guantánamo, hanno scelto di ignorarli sin dall’inizio. Per tutti questi 15 anni, gli Usa si sono vantati di essere un protagonista globale nel campo dei diritti umani. Lo hanno fatto persino quando hanno fatto ricorso alla tortura e alle sparizioni forzate, a Guantánamo e altrove. Hanno continuato a farlo anche quando hanno rifiutato di portare di fronte alla giustizia i responsabili di tali crimini di diritti internazionali, impedendo così di risarcire le vittime delle violazioni dei diritti umani e di conoscere in pieno la verità. La creazione, il funzionamento e la mancata chiusura di Guantánamo derivano dal fatto che tutte e tre le branche del governo Usa hanno rifiutato di considerare le detenzioni secondo quanto prevede il diritto internazionale. Invece, hanno applicato un pacchetto di "leggi di guerra" derivato da una mal concepita risoluzione approvata dal Congresso dopo gli attacchi dell’11 settembre. Nel 15° anniversario della sua apertura, a Guantánamo restano 55 detenuti, 45 dei quali senza accusa né processo. Gli altri 10 hanno subito o stanno subendo processi di fronte a commissioni militari che non rispettano gli standard internazionali sul giusto processo che gli Usa sono tenuti a osservare. Sei di loro rischiano la pena di morte. La base navale di Guantánamo sta per avere un nuovo comandante. Prima delle elezioni, il presidente eletto Donald Trump aveva dichiarato che avrebbe tenuto aperto il centro di detenzione e lo avrebbe "riempito di altra gente cattiva". Circa la metà delle persone che si trovano ancora a Guantánamo, prima di esservi trasferite erano state poste in detenzione segreta nell’ambito dei programmi della Cia. La stessa base di Guantánamo è stata usata dalla Cia nel 2003 e nel 2004 come centro segreto di detenzione. Le sparizioni forzate, la tortura e i trattamenti crudeli inumani e degradanti sono stati parte integrante dei programmi della Cia, sui quali permane ancora impunità. Amnesty International continua a chiedere al presidente Obama, anche nel poco tempo rimasto prima che lasci la Casa bianca, di adempiere alla promessa di porre fine alle detenzioni a Guantánamo e di farlo in linea con gli obblighi internazionali degli Usa sui diritti umani. Sono passati ormai quasi sette anni dal primo impegno in questo senso. Sebbene l’amministrazione Obama abbia accusato il Congresso di aver impedito la chiusura di Guantánamo, per il diritto internazionale le leggi o i disaccordi politici interni non possono considerarsi scuse legittime per venir meno al rispetto degli obblighi internazionali. È improbabile che gli Usa accetterebbero scuse del genere se arrivassero da altri governi. Il resto del mondo non dovrebbe accettarle quando arrivano dagli Usa. Stati Uniti. Guantanámo, così l’eredità di Bush ha avvelenato le promesse di Obama di Carlo Bonini La Repubblica, 11 gennaio 2017 Come in una maledizione, l’uomo che aveva promesso all’America di liberarla dalla galera per "enemy combatants", per combattenti nemici, in cui ha finito per rinchiudere se stessa, ha dovuto alla fine arrendersi. "Gitmo", acronimo per Guantánamo, base della Us Navy dal 1903 nell’estremo lembo meridionale dell’isola di Cuba, la prigione che da 15 anni, ogni anno, costa ai contribuenti 445 milioni di dollari, il monumento allo "stato di eccezione" in cui, nella Patria dei diritti civili, la war on terror, la Guerra al Terrore dichiarata l’11 Settembre del 2001 da George W. Bush, si è fatta nel tempo vendetta, tortura, e incubatore di odio senza rendere per questo l’America e il mondo intero luoghi più sicuri, sopravvivrà a Barack Obama. E in una cabala del calendario, il 20 gennaio, giorno in cui Donald Trump giurerà come 45esimo Presidente degli Stati Uniti, lei, "Gitmo", avrà appena festeggiato il suo 15esimo lugubre compleanno. Era infatti l’11 gennaio del 2002, quando il primo C-130 dell’esercito Usa, partito dalla base americana di Bagram, Afghanistan, depositava su una pista arroventata dal sole dei Caraibi un centinaio di fantasmi in tuta arancione rastrellati sul fronte afgano che, per quasi 20 ore, avevano attraversato metà del globo con lo sguardo e i sensi sigillati da occhiali da saldatore e cuffie alle orecchie. Ed era l’11 gennaio del 2002 quando l’America decideva di mostrare al mondo di quale violenza potesse essere capace la sua vendetta per il martedì di sangue delle Torri Gemelle e del Pentagono. Inginocchiati come animali da cortile nelle stie, storditi da dosi massicce di meflochina nel sangue (1,250 milligrammi, cinque volte la dose massima tollerata), un potente antimalarico con effetti collaterali esiziali sulla psiche, prigionieri afgani, pachistani, sauditi, segretamente battezzati dall’Intelligence militare e civile americane come terroristi dal doppio valore - perché potenziali "fonti" di informazioni vitali per la sicurezza nazionale e insieme "minaccia concreta e imminente" - venivano mostrati al mondo intero quello zoo a cielo aperto che era "Camp X-ray", il primo e provvisorio campo di prigionia sull’isola. Allo sguardo della stampa americana e internazionale che arrivava in volo da Puerto Rico, come in un safari, i corpi dei prigionieri erano esposti nella ferocia di quella detenzione a cielo aperto, in gabbie di 5 metri quadrati, impediti nei movimenti dalle catene alle caviglie, violati nei loro bisogni primari, il cibo, il sonno, l’igiene personale. In attesa degli interrogatori nei prefabbricati, dove funzionari della Cia sperimentavano le nuove tecniche autorizzate dalla Casa Bianca (privazione del sonno, waterboarding, uso dei cani, molestie sessuali). Perché quelle immagini potessero imprimersi per sempre nella retina dei nemici dell’America e fossero da monito a chi avesse voluto seguirne l’esempio. Sappiamo come è andata. Sappiamo che dopo le stie di "X-ray" arrivò il cemento armato di "Camp Delta", in una escalation scientifica della detenzione che avrebbe mobilitato le intelligenze giuridiche dell’America (da Viet Dhin ad Alan Dershowitz) per dare cornice "legale" e costituzionale a un buco nero che non ne aveva, né poteva averne. Con "Commissioni Militari" quali tribunali speciali che avrebbero dovuto assicurare il fairplay di un processo accusatorio ma ne sarebbero stati al contrario solo il simulacro. Come l’incontrovertibilità dei numeri si sarebbe del resto incaricata di dimostrare: 8 condanne in 15 anni a fronte di una popolazione di detenuti che sarebbe arrivata a 780 prigionieri. Sappiamo anche che quelle tute arancioni sarebbero diventate maledizione e nemesi della lotta al Terrore. Uniforme simbolica fatta indossare agli ostaggi innocenti decapitati ritualmente dal Terrore islamista nel mattatoio iracheno, prima, in quello siriano, poi. Al punto che persino Bush, sotto l’urto delle rivelazioni che a cominciare dal 2003 avrebbero svelato cosa si consumava davvero nelle segrete di "Gitmo" come in quelle di Abu Ghraib, avrebbe di fatto finito con il riconoscere in quale angolo cieco avesse cacciato l’America. E, così, da Camp Delta avrebbero cominciato ad essere più i prigionieri che lasciavano la prigione di quanti vi facessero ingresso. Era il 14 marzo del 2008, ultimo anno di Bush alla Casa Bianca, quando l’ultimo detenuto arrivava sull’isola. Poi, con Obama, sarebbe cominciato il progressivo svuotamento del Campo: 183 i prigionieri rilasciati dal gennaio 2009 a oggi. Gli ultimi, il 5 gennaio scorso. Quattro cittadini sauditi restituiti a Riad dopo 15 anni di detenzione in assenza di qualsiasi imputazione o processo. Uno di loro, Mohammed Abu Ghanem, accusato, senza che ne fosse mai fornita la prova, di essere una delle guardie del corpo di Osama Bin Laden, era stato tra i primi 20 detenuti ad essere rinchiuso nelle stie di "X-Ray" e la sua foto da inginocchiato in tuta arancione sarebbe diventata l’immagine simbolo della prigione. Nel 2015, prima di arrendersi alla decisione di rinunciare a ricorrere ad un ordine esecutivo presidenziale per disporre la chiusura di Guantánamo, Obama aveva accarezzato l’idea di trasferire le poche decine di detenuti rimasti in una nuova struttura sul continente americano nella base di Fort Leavenworth, Kansas, dove, per altro, era nata nel 1942 sua madre, Stanley Ann Dunham, figlia di un militare. Ma l’idea era annegata nell’ostruzionismo del Congresso. E in quel riflesso pavloviano, iscritto nelle parole d’ordine del Partito Repubblicano prima e nei tweet del Presidente eletto poi, per cui "non si può chiudere una prigione che protegge la sicurezza nazionale". Un’affermazione la cui inconsistenza è dimostrata nei fatti, essendo provato che non un solo attacco al suolo o agli interessi americani nel mondo è stato sventato grazie a informazioni ottenute dai detenuti di "Gitmo". Sull’isola, ne restano oggi 55: 19 già con un nullaosta alla riconsegna ai Paesi di origine, se mai accetteranno di qui al 20 gennaio di darle corso. Se non riuscirà Obama nei prossimi 10 giorni, non sarà Trump nei prossimi 4 anni a offrirgli un destino diverso. Stati Uniti. Condannato a morte il killer della strage di Charleston La Stampa, 11 gennaio 2017 È stato condannato a morte Dylann Roof, il giovane bianco autore del massacro nella chiesa della comunità afroamericana metodista a Charleston, in South Carolina, dove aprì il fuoco il 17 giugno 2015 uccidendo 9 persone. Il massacro avvenne il 17 giugno di due anni fa. È la prima condanna federale alla massima pena per un crimine dell’odio. Per circa tre ore la giuria è rimasta riunita prima di deliberare e la sentenza giunge dopo una serie di deposizioni dell’imputato che non ha mostrato alcun rimorso o segnale di pentimento. Al contrario, Dylann Roof ha insistito ancora oggi davanti ai giudici: "Sento che dovevo farlo". Ha respinto con forza ipotesi su possibili turbe psicologiche e non ha mai chiesto perdono o clemenza, né ha tentato di fornire motivazioni per le sue azioni. Ha parlato per cinque minuti senza fermarsi oggi, sotto lo sguardo inquisitorio della giuria, ha ricordato - come rivolgendosi singolarmente a ciascuno di loro - che il dissenso di un solo giurato sarebbe bastato per risparmiarlo: "Ho il diritto di chiedervi una condanna all’ergastolo - ha aggiunto - ma non so a cosa possa servire". Poi, alla lettura del verdetto, è rimasto impassibile, senza mostrare emozione, immobile nel silenzio mentre diversi familiari delle vittime non riuscivano a trattenere le lacrime. Voleva ripristinare la segregazione o innescare una guerra razziale. Così aveva risposto il giovane killer agli agenti dell’Fbi quando fu fermato dopo aver compiuto la strage. Un episodio drammatico che ha colpito al cuore la comunità locale e l’America tutta, e che per i sostenitori dei limiti alla circolazioni di armi - il presidente Barack Obama in testa - ha costituito l’ennesima prova che è il momento di cambiare, ispirando quindi appelli e campagne in questo senso. La risposta della comunità locale scossa dal folle gesto è stata di solidarietà e unità, al punto da promuovere azioni che hanno portato alla rimozione della bandiera confederata dagli edifici pubblici in South Carolina per la prima volta in 50 anni, esempio poi seguito anche da altri stati. Un simbolo storico ma ormai insanguinato dalla follia di Roof per cui quella bandiera era diventata feticcio delle suoi obiettivi criminali, con cui aveva posato fiero prima di impugnare quell’arma, una Glock 45, e scaricare il suo odio in una chiesa piena di fedeli. Con loro era rimasto seduto per 45 minuti durante un gruppo di preghiera, prima di aprire il fuoco a sangue freddo. Tailandia. Restano per ora in carcere i due italiani arrestati, saranno espulsi La Stampa, 11 gennaio 2017 I turisti altoatesini sono finiti in carcere dopo aver strappato alcune bandiere. Restano in una cella della stazione di polizia di Bangkok, Tobias Gamper (20 anni) e Ian Gerstgrasser (18), i due altoatesini condannati oggi in Tailandia con la condizionale - in attesa di espulsione - per aver strappato e gettato a terra alcuni tricolori nazionali. Lo precisano fonti diplomatiche a Bangkok. I due giovani sono stati condannati ieri pomeriggio. La pena può essere di due anni di carcere o 4 mila bath o di entrambe le misure. Sulle polemiche politiche seguite a un’affermazione dei ragazzi, secondo i quali in Italia alla bandiera sarebbe attribuito un significato diverso che non in Thailandia, il governatore altoatesino Arno Kompatscher ha frenato: "Alle loro affermazioni, credo, non vada attribuito alcun significato di carattere politico", ha affermato. Rispondendo a un cronista, che gli chiedeva se il gesto dei ragazzi in Tailandia sia da porre in relazione con la propaganda contro il tricolore attuata dai separatisti come ad esempio Eva Klotz, il governatore ha risposto: "Un conto sono gli obiettivi politici che ognuno può avere, un conto sono i mezzi usati per perseguirli. Questi ultimi non debbono essere volti a ferire i sentimenti di una parte della cittadinanza". Gran Bretagna: sedata con sostanze chimiche la rivolta nel carcere di Shirley blastingnews.com, 11 gennaio 2017 I detenuti devastano i locali del carcere con estintori e armi di fortuna, la polizia era pronta ad intervenire con le armi. Lunedì pomeriggio gli agenti della sicurezza del carcere di massima sicurezza di Souza-Baranowsky sono stati costretti a sedare un principio di rivolta. La struttura penitenziaria si trova nella contea di Middlesex, Massachussets a circa 50 miglia da Boston. Tra le più tecnologicamente avanzate degli Stati Uniti, ospita circa un migliaio di detenuti. Stando alle dichiarazioni del Dipartimento di Correzione dello stato i problemi iniziano quando due detenuti definiti letteralmente "di alto rango" scatenano una rissa nei locali comuni. Una dozzina di detenuti presenti hanno opposto resistenza all’intervento degli agenti di custodia, rifiutandosi di rientrare nelle celle, hanno costretto le guardie a ritirarsi nelle guardiole. Sono state distrutte le telecamere utilizzando estintori e parti di suppellettili. Il vero e proprio allarme è stato dato alle 16:00, il direttore dell’istituto di pena ha contattato le autorità esterne alla prigione, come la polizia di stato. Agenti di polizia in assetto antisommossa hanno atteso all’esterno della struttura, non vi era comunque pericolo di fuga essendo gli stessi detenuti confinati in un ambiente interno. Alle ore 19.00 i locali stessi venivano irrorati con un agente chimico non meglio specificato e questo a permesso di riprendere il controllo dell’area. Le autorità hanno dichiarato che non ci sono stati feriti gravi ne tra il personale ne tra i detenuti. Tutti coloro coinvolti nei disordini saranno trasferiti in altre unità carcerarie fino a conclusione delle indagini e l’istituto non riceverà altri prigionieri fino a tale data. Si può prevedere che l’inchiesta sarà accurata anche perché non è la prima volta che il carcere di massima sicurezza di Souza-Baranowsky sale agli onori della cronaca. Inaugurato nel 1998 è stato teatro di altri fatti di cronaca passati alla storia, come l’uccisione di padre John Geoghan, detenuto qui per una condanna a 10 anni per atti di pedofilia. Uno dei maggiori scandali degli anni 90 che scosse la chiesa cattolica fino ai massimi vertici che vide lo stesso padre John Geoghan massacrato e strangolato nel 2003 da Joseph L. Druce, altro detenuto pericoloso, forse su commissione, come si ipotizzo nel processo. Gran Bretagna. Detenuta transessuale messa in un carcere maschile, muore suicida metro.co.uk, 11 gennaio 2017 Jenny Swift, proveniente da Liverpool, è stata arrestata con un ordine di custodia cautelare presso il carcere di Doncaster nello scorso mese di novembre dopo essere stata inizialmente accusata di tentato omicidio in seguito all’accoltellamento del 26enne Eric Flanagan. In seguito alla morte di quest’ultimo, avvenuta il 15 dicembre, la polizia ha passato il caso al Crown Prosecution Service aggiornando l’accusa dell’imputata da tentato omicidio ad omicidio colposo. La Swift, tuttavia, è stata a sua volta trovata morta due settimane più tardi, il 30 dicembre. Parlando al tabloid "The Star", un suo amico ha affermato che la 49enne aveva chiesto di essere messa in un carcere femminile, ed era diventata infelice ed anche malata dopo che le era stato negato il trattamento ormone femminile nella prigione di categoria B maschile. Jenny Swift era infatti un transgender e stava prendendo ormoni femminili da tre anni come parte del suo processo di transizione. L’amico ha inoltre sostenuto che Jenny Swift era stato vestito come un uomo e fatto incamminare verso il carcere nudo dopo aver rifiutato di indossare abiti maschili. Poi ha scritto ad un amico dal carcere, dettagli che successivamente il Guardian ha condiviso. Nella lettera, Jenny Swift ha descritto il modo in cui era stata schernito dagli altri detenuti e voleva essere spostato in una dependance con altre persone trans. La missiva diceva: "Sai con chi sono stata sbattuta? Tutti tipi odiosi. Ma io sono Jenny Swift e sono orgogliosa di stare mio angolo da sola, non ho bisogno di nessuno". È il terzo caso - L’amico ha ora chiesto che venga condotta un’indagine sua morte, che ritiene potesse e dovesse essere evitata: "Voglio che ci sia un’indagine di massa, perché una cosa simile è successa altre due volte prima e non dovrebbe accadere. Sì, il mio amico ha sbagliato, ma era più vulnerabile in carcere in quell’ala rispetto ad u qualsiasi altro individuo. Credo che la gente transgender abbia bisogno di una propria ala riservata in queste strutture e che dovrebbe prendere i propri ormoni senza restrizioni". Resta inteso che Jenny Swift stava usando farmaci senza prescrizione quando è arrivata alla prigione, ed era stato in contatto con il team di assistenza sanitaria del penitenziario di Doncaster in proposito. Di più: i medici possono rifiutarsi di curare i pazienti o le donne trans che hanno avuto aborti, stando alla Legge. Un’altra fonte ha negato che le sia stato rifiutato il passaggio a un carcere femminile, sostenendo invece che queste discussioni erano in corso quando Jenny è morta. Il suo decesso è il terzo caso di apparente suicidio di un trans in poco più di un anno. Alla fine del 2015, due donne transgender sono state trovate morte in un carcere maschile nel giro di un mese. Joanne Latham, 38 anni, da Nottingham, è morta nella struttura penitenziaria di Woodhill a Milton Keynes, poco dopo la scomparsa della 21enne Vicky Thompson, avvenuta nel carcere Armley a Leeds. Andrew Neilson, direttore delle campagne presso l’Howard League per la riforma penale, ha detto: "Abbiamo assistito ad un numero di morti di transgender nelle carceri che hanno spinto per una recente revisione da parte del Ministero della Giustizia sul modo in cui i detenuti transgender e le loro esigenze possono essere meglio soddisfatte. Le indagini sul decesso di Jenny Swift saranno senza dubbio approfondite, in particolar modo su come la vittima sia stata tenuta in regime di detenzione e se il carcere maschile di Doncaster fosse il posto giusto per lei". La salute prima di tutto - "Mentre i transgender possono soffrire di particolari vulnerabilità, dobbiamo tenere a mente allo stesso tempo che il suicidio e l’autolesionismo influenzano tutti gli altri detenuti. L’anno scorso ha visto il maggior numero di suicidi registrati in prigione, ad un ritmo di uno ogni tre giorni. Ci sono questioni più ampie relative a sovraffollamento, carenza di personale e di un impoverimento dei regimi carcerari che devono essere affrontate presto". Un portavoce del Ministero della Giustizia ha confermato la morte di Swift e ha dichiarato di essere consapevole del fatto che lei fosse una trans nonostante fosse tenuta in un carcere esclusivamente maschile. Nessuna spiegazione è stata data per la decisione di metterla lì, anche se il portavoce ha detto che un’inchiesta era stata aperta in proposito: "Le morti autoindotte sono una tragedia e lo stato della salute mentale di chi è in custodia viene preso molto sul serio. Abbiamo una vasta gamma di misure già in atto per aiutare i detenuti che soffrono di questi problemi. Ma riconosciamo che si può fare di più. È per questo che abbiamo stanziato più fondi per la sicurezza delle carceri". Il Ministero della Giustizia ha inoltre stabilito nuove linee guida per affrontare il trattamento dei prigionieri transgender, aggiungendo che tutti i prigionieri trans (indipendentemente dalla posizione carcere) devono poter esprimere il genere con cui si identificano. Brasile. Perché nelle carceri brasiliane c’è così tanta violenza Internazionale, 11 gennaio 2017 L’ondata di violenza che c’è stata all’inizio dell’anno nelle carceri del Brasile ha puntato i riflettori su un sistema ormai al collasso. Quasi cento detenuti sono morti solo nella prima settimana di gennaio, uccisi mentre le guardie erano apparentemente incapaci di fermare lo spargimento di sangue. Come si è arrivati a questo? Il primo problema è il sovraffollamento, spiega la Bbc. Un giro di vite nei confronti dei reati violenti e legati alla droga ha visto negli ultimi quindici anni la popolazione carceraria del Brasile aumentare. La prigione nello stato di Roraima, dove il 6 gennaio sono stati uccisi 33 detenuti, ospita 1.400 persone, il doppio della sua capacità. Il sovraffollamento rende difficile per le autorità carcerarie mantenere separate le fazioni rivali. E causa l’aumento della tensione all’interno delle celle, con i detenuti che si disputano le limitate risorse, come materassi e cibo. Il secondo problema è la guerra tra bande rivali. Le uccisioni sono comuni tra le mura delle prigioni brasiliane - 372 detenuti sono morti in questo modo nel 2016, secondo la Folha de São Paulo - ma questo aumento è da collegarsi alla rottura di una tregua che vigeva da quasi vent’anni tra due delle più potenti bande del paese. Fino a poco tempo, il Primeiro comando da capital, di São Paulo, e Comando vermelho, di Rio de Janeiro, avevano un rapporto di collaborazione, presumibilmente per garantire il commercio di marijuana, cocaina e armi nelle città e oltre i confini del Brasile. Recentemente la pace è finita, anche se le ragioni sono poco chiare. E vista la repressione del governo nei confronti delle bande criminali, ci sono migliaia di persone appartenenti a entrambe le bande rinchiusi nelle carceri brasiliane. Terzo problema è la mancanza di risorse. Molte carceri brasiliane sono sotto-finanziate. In seguito alle ultime rivolte il governatore dello stato ha chiesto al governo federale attrezzature come metal detector, braccialetti elettronici e dispositivi per bloccare il segnale telefonico dentro le carceri. La sua richiesta mostra la mancanza di attrezzature di base anche in carceri molto affollate. Il governatore ha anche chiesto l’invio di forze federali. Male addestrate e mal pagate, le guardie carcerarie devono affrontare spesso detenuti che non solo sono più numerosi, ma inoltre sentono di avere poco da perdere visto che già devono affrontare condanne lunghe. Il governo brasiliano ha annunciato un piano per modernizzare il sistema, ma visto che il paese si trova nella peggiore recessione degli ultimi decenni e la spesa pubblica è bloccata per vent’anni, è difficile vedere come possa finanziarlo. Tunisia. Nel 2017 saranno rilasciati 300 presunti terroristi Nova, 11 gennaio 2017 Nel 2017 in Tunisia saranno rilasciati 300 presunti terroristi. È l’allarme lanciato oggi dal quotidiano "Al Chorouk" che cita statistiche ufficiali dell’amministrazione generale delle carceri del ministero della Giustizia. Secondo il quotidiano, sono 1.658 i detenuti per reati di terrorismo in Tunisia e solo 110 sono stati condannati. "Presto saranno rilasciati", aggiunge il quotidiano, segnalando che tra i detenuti vi sono 69 terroristi di età non superiore ai 20 anni e solo 66 di essi saranno presto giudicati. Altri 1.017 detenuti per reati di terrorismo hanno tra i 20 e i 30 anni e 200 di essi dovranno essere rilasciati nei prossimi mesi. Ci sono poi detenuti di nazionalità straniera accusati di terrorismo che saranno espulsi verso i loro paesi d’origine. Si tratta di 4 algerini, 6 libici, un marocchino, un palestinese, un tedesco e un portoghese.