Il Papa torna a chiedere un atto di clemenza per i detenuti di Carlotta De Leo Corriere della Sera, 10 gennaio 2017 Il Pontefice incontra il Corpo diplomatico e, parla di migranti: "Un approccio prudente non deve comportare politiche di chiusura, ma di lungimiranza. Il fondamentalismo è frutto di miseria spirituale e povertà sociale". Papa Francesco torna a chiedere un gesto di clemenza verso i detenuti per risanare le ferite della società e rafforzare la pace "la giustizia e il perdono sono ambedue essenziali". "Queste parole, oggi più che mai attuali, hanno incontrato - ha detto il Pontefice parlando di fronte al Corpo diplomatico riunito al Palazzo Apostolico - la disponibilità di alcuni capi di stato o di governo ad accogliere il mio invito a compiere un gesto di clemenza verso i carcerati. A loro, come pure a quanti si adoperano per creare condizioni di vita dignitose e favorire il loro reinserimento nella società, desidero esprimere la mia riconoscenza e gratitudine". I migranti - Durante il discorso, Francesco ha affrontato anche le altre sfide del mondo contemporaneo: in particolare le politiche di accoglienza verso i migranti e, all’opposto, le crescenti preoccupazioni interne per il pericolo terrorismo. "Un approccio prudente" alla questione dei migranti "da parte delle autorità pubbliche" non comporta "politiche di chiusura", ma valutare "con saggezza e lungimiranza" fino a che punto si può accogliere. "Non si può ridurre la drammatica crisi attuale a un semplice conteggio numerico"; il problema "non può lasciare alcuni paesi indifferenti mentre altri sostengono l’onere umanitario non di rado con notevoli sforzi e pesanti disagi, di far fronte ad un’emergenza che non sembra aver fine". Il terrorismo - Proprio per questo, il Pontefice fa "appello" ai leader religiosi e politici, contro il "terrorismo fondamentalista, frutto di una grave miseria spirituale" e "spesso" "di una notevole povertà sociale". Potrà essere "sconfitto solo con il contributo" dei leader religiosi e politici" : i primi trasmettano valori religiosi che non contrappongano "timore di Dio e amore del prossimo", i secondi garantiscano libertà religiosa, e riconoscano il contributo delle fedi alla edificazione sociale. "A chi governa compete - sottolinea il Papa - la responsabilità di evitare che si formino quelle condizioni che divengono terreno fertile per il dilagare dei fondamentalismi. Ciò richiede adeguate politiche sociali volte a combattere la povertà, che non possono prescindere da una sincera valorizzazione della famiglia, come luogo privilegiato della maturazione umana, e da cospicui investimenti in ambito educativo e culturale" Carceri e degrado di Giuseppe Genna lintellettualedissidente.it, 10 gennaio 2017 "Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti". Questa che sembra essere una verità extratemporale, tanto ovvia quanto sacrosanta, è invece stata scritta solo "recentemente", nero su bianco e in maniera inequivocabile, nella Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, art. 3 per l’esattezza. Perché è così importante ricordarlo? Perché sempre più spesso, trovandosi a parlare dei vari problemi che affliggono il nostro paese, ci si dimentica che appena tre anni fa l’Italia fu condannata proprio dalla Corte Europea, per aver violato tale articolo su descritto. Il problema delle condizioni in cui versano le carceri italiane è molto più serio di quanto in realtà non si pensi o non senta: le metodologie di emarginazione sono un chiaro aspetto di come uno Stato affronta alcuni suoi problemi, ma che di fatto essi vengono risolti in una pura scissione tra criminale e contesto sociale, tra quella che è considerata "malattia" e quello che è considerato "corpo sano". Spesso il criminale viene trattato proprio come un cancro: asportato fisicamente da un contesto reputato "sano", che lui stava danneggiando, e rinchiuso in un sistema "altro", lontano dalla dimensione sociale. Tale visione del crimine è purtroppo un retaggio culturale lasciatoci dal vecchio (nemmeno tanto in fin dei conti) pensiero positivista, secondo il quale il soggetto che ha commesso materialmente il crimine è il solo e unico responsabile dell’azione compiuta, motivo per cui va estirpato e poi "distrutto" prima che rechi ulteriori danni. Ma le maniere in cui un uomo può essere "distrutto" sono parecchie: dalla violenza fisica a quella psicologica, dalla violazione del proprio spazio personale alla mancanza di adeguate necessità primarie. Tutto questo era possibile trovarlo nelle carceri del Regno, proprio all’indomani dell’Unità d’Italia. Dalle parole di Vincenzo Padula, "Persone in Calabria" (1864): "Le prigioni di Cosenza bastano appena a 500 prigionieri e nondimeno al momento ne contengono 897. Manca a quegl’infelici l’aria da respirare, il luogo da muoversi, sono legati a mazzi, come i dannati dell’inferno, gli uni agli altri sovrimposti come fasci di fieno. La facilità onde si procede agli arresti, i papaveri che nascono sugli umidi e polverosi processi fanno che il numero dei prigionieri invece di scremare monti ogni giorno. È un male che non si deplora nella sola Cosenza, ma in tutte le provincie" Il problema delle carceri fu discusso ampiamente anche in un discorso, tenuto da Togliatti alla Camera dei Deputati, circa quarant’anni dopo la denuncia di Padula, dove quelli che dovevano essere solamente degli istituti di reclusione, venivano apostrofati come "ammazzatoi" e "cimiteri dei vivi". Col tempo, e soprattutto con la ricerca in ambito antropologico, psicologico e sociologico, si è giunti alla consapevolezza che un crimine è frutto di vari aspetti, non tutti imputabili direttamente alla persona condannata: gli aspetti economici, sociali e culturali in cui è cresciuto tale individuo e quelli in cui si trovava nel periodo in cui ha compiuto il crimine, il tessuto sociale in cui si è trovato costretto a vivere la propria quotidianità, e altri problemi derivati più dalla società che direttamente dal singolo. Tutti questi motivi hanno trovato espressione nel 1947, precisamente nell’articolo 27 della nostra Costituzione, in cui oggi è finalmente possibile leggere: "Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato". Non più punire, ma rieducare. Viene sottolineata, in tal modo, la priorità dell’essere persona prima che criminale, aprendo quindi alla possibilità di un ritorno alla società, e non chiudendo con un definitivo distacco da essa. ma tutto questo, oggi, a distanza di quasi sessant’anni, avviene effettivamente? Uno dei primi dati di cui bisogna tener conto quando si parla di condizioni carcerarie è il tasso di sovraffollamento. In Italia, i posti regolari riservati ai detenuti sono di poco superiori a 45mila, eppure, nel 2009 la percentuale di affollamento era, in media, del 147%. Solo nel carcere di Lamezia Terme, nel 2010, la percentuale si attestava intorno al 276,7% (più di 27 persone occupano il posto che era destinato solamente a 10 di loro). Questi che sembrano essere solo numeri evidenziavano una situazione di immenso disagio e richiedevano immediato aiuto. Negli ultimi anni qualcosa è cambiato e lo dimostra anche il XII rapporto stilato dall’Associazione Antigone che da circa trent’anni si occupa proprio delle condizioni in cui versano i nostri luoghi adibiti alla reclusione e alla rieducazione: dal 147% si è passati al 108, il che non significa che tutto è stato risolto, dato che l’istituto di Latina registra ancora una percentuale altissima (192,1) e si parla ancora di meno di quattro metri quadri a testa, ma che sicuramente qualcosa si è mosso. Ma quello dello spazio non è ovviamente l’unico problema: vi sono anche delle gravi mancanze sociali, nonché psicologiche. Se nell’Ordinamento Penitenziario (legge 354/75) il lavoro penitenziario è "elemento fondamentale del trattamento e strumento privilegiato di reinserimento sociale", di fatto, si può notare come questa dimensione sociale non venga sufficientemente tenuta in causa, dato che, tra il 2006 e il 2011 i fondi che lo Stato italiano stanziava per le "mercedi" sono andati diminuendo sempre più drasticamente. Come può dunque essere garantita la salute di un detenuto se gli viene a mancare lo spazio personale e viene minata la sua persona sociale? Ma forse questi non sono ancora i dati più preoccupanti dato che si è tralasciato il discorso sulla violenza fisica e psicologica cui ogni giorno i detenuti sono costretti a scontrarsi. Volendo trattare solo i casi presi in carico dal servizio sanitario interno alle carceri, circa un quarto delle persone detenute manifesta gravi forme di disturbo psichico; quindi quasi non stupisce se si parla di suicidi all’interno delle carceri E quando si trattano tali argomenti è giusto specificare che le morti vi sono sia tra i "cattivi", i detenuti, sia tra i "buoni", ovvero il personale adibito alla sicurezza all’interno del penitenziario; perché quando si parla di qualità all’interno di questi istituti non si sta parlando solamente di atroci criminali, violenti assassini e pedofili seriali, ma si tratta anche di dare una speranza a chi ha commesso uno sbaglio e intende veramente pagare; si vuole garantire la migliore qualità di vita possibile anche a chi, per lavoro, è costretto a viverle ogni giorno le difficoltà carcerarie; ma soprattutto si deve dimostrare che sia lo Stato, sia il sistema carcerario in sé, sono i primi a rispettare le regole che tanto difendono. Disagi psichici, sociali, casi di autolesionismo e suicidi sono argomenti troppo forti perché ci si volti dall’altra parte, come se tutto ciò accadesse lontano da noi solo perché voltiamo lo sguardo. Purtroppo la verità è che solo l’anno scorso, nel 2015, ci sono stati più di settemila casi di autolesionismo tra i detenuti, mentre quarantacinque persone hanno deciso di togliersi la vita e tra loro vi sono anche due poliziotti - ma solo l’anno prima, nel 2014, i suicidi nella polizia penitenziaria sono stati 11 - piuttosto che continuare quello che doveva essere solamente un percorso riabilitativo. E allora viene spontaneo chiedersi: quali sono le condizioni in cui versano i detenuti se alla prospettiva di un reintegro sociale preferiscono la morte? Ma forse la risposta è più semplice se togliamo la variabile "reintegro sociale" e inseriamo al suo posto la certezza di una disumana tortura. Perché forse la verità è questa sola: "C’è un’altra violenza. Reiterata, parcellizzata, diversificata. Aumentano quei comportamenti delittuosi che da tempo avrebbero dovuto rientrare in un’unica fattispecie: la tortura", una tortura di fronte la quale l’uomo scompare, a volte anche fisicamente. Quasi il 35% dei detenuti è straniero. Seimila sono islamici di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 10 gennaio 2017 Per Patrizio Gonella, Presidente di Antigone, va evitata "la segregazione che crea il rafforzamento della radicalizzazione e vanno previsti programmi sociali di deradicalizzazione". Il mondo politico e dell’associazionismo è diviso sulla proposta del ministro dell’interno Marco Minniti di rilanciare i Centri di identificazione ed espulsione. A proposito degli immigrati, Donato Capece, segretario generale del Sindacato autonomo della polizia penitenziaria (Sappe) dice: "Spero e mi auguro che le dichiarazioni di intenti del Viminale sulla annunciata stretta dei migranti irregolari in Italia trovi concretezza anche per quanto concerne le ricadute sul sistema penitenziario, dove oggi abbiamo presenti oltre 18.700 detenuti stranieri". Per il Sappe, "fare scontare agli immigrati condannati da un tribunale italiano con una sentenza irrevocabile la pena nelle carceri dei Paesi d’origine può anche essere un forte deterrente nei confronti degli stranieri che delinquono in Italia". Però i dati sugli stranieri in carcere risultano un pò più complessi. Il presidente di Antigone Patrizio Gonnella ha più volte spiegato che la presenza degli stranieri in carcere è dovuta al fatto che "subiscono maggiormente i provvedimenti cautelari detentivi rispetto ai cosiddetti detenuti nazionali". Nei confronti di un immigrato irregolare è certamente più difficile trovare soluzioni cautelari diverse dalla carcerazione. Sempre Gonnella ha spiegato il motivo: "I giudici di sovente motivano i provvedimenti di carcerazione sostenendo la tesi che gli immigrati privi di permesso di soggiorno non hanno un domicilio stabile ove poter andare agli arresti domiciliari. In realtà molto spesso gli irregolari una casa o una stanza dove vivere ce l’hanno ma non possono essere indicate quale domicilio regolare essendo loro stessi in una generale condizione di irregolarità". In sostanza l’immigrato non regolare finirà più facilmente in carcere in custodia cautelare rispetto allo straniero regolare. Quindi i tassi di detenzione sono legati alla Bossi Fini, messa molto spesso in discussione da associazioni, movimenti politici e personalità che studiano il fenomeno dell’immigrazione nel nostro Paese. Islam e carcere - Secondo le più recenti stime della Fondazione Ismu (Iniziativa e studi sulla multietnicità), gli stranieri residenti in Italia che professano la religione cristiana ortodossa sono i più numerosi (oltre 1,6 milioni), seguiti dai musulmani (poco più di 1,4 milioni), e dai cattolici (poco più di un milione). Passando alle religiose minori, i buddisti stranieri sono stimati in 182.000, i cristiani evangelisti in 121.000, gli induisti in 72.000, i sikh in 17.000, i cristiano- copti sono circa 19.000. L’indagine dell’Ismu evidenzia come il panorama delle religioni professate dagli stranieri è molto variegato e sfata il pregiudizio secondo cui la maggior parte degli immigrati professa l’islam. Per quanto riguarda le incidenze percentuali i musulmani sono il 2,3% della popolazione complessiva (italiana e straniera), i cristiano- ortodossi il 2,6%, i cattolici l’ 1,7%. Per quanto riguarda le provenienze si stima che la maggior parte dei musulmani residenti in Italia provenga dal Marocco (424.000), seguito dall’Albania (214.000), dal Bangladesh (100.000), dal Pakistan (94.000), dalla Tunisia, (94.000) e dall’Egitto (93.000). In Lombardia vivono più immigrati cattolici è la Lombardia, con 277.000 presenze, seguita dal Lazio (152.000) e dall’Emilia Romagna (95.000). Per quanto riguarda la religione degli stranieri in carcere, la situazione rispecchia quella generale. Secondo gli ultimi dati messi a disposizione dal Dap, i detenuti presenti al 31 dicembre 2016 erano 54.653, di questi 18.958 stranieri. Coloro che si sono dichiarati di religione islamica sono circa 6.000. Il presidente di Antigone Patrizio Gonnella spiega che "la radicalizzazione nei reparti dove sono reclusi detenuti sospettati di terrorismo di matrice islamica, nessun operatore parla e legge l’arabo, vivendo così nell’impossibilità di capire e dialogare con queste persone. Inoltre, salvo rarissime circostanze, gli Imam non sono abilitati ad entrare negli istituti di pena italiani. Questo porta i detenuti stessi a scegliere tra loro chi debba guidare la preghiera, senza alcuna garanzia rispetto a quanto viene professato. La presenza del ministro di culto darebbe invece la possibilità di portare nel carcere un Islam aperto e democratico". Per questo motivo apprezza la decisione del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria di affidare al vicepresidente dell’Ucoii dei corsi per il personale di polizia penitenziaria. Sempre Gonnella ricorda che "la Camera ha già approvato il ddl di riforma dell’ordinamento penitenziario dove si riconosce uno spazio ad hoc per la libertà di culto e vengono previsti una serie di diritti per i detenuti stranieri. Disegno di legge attualmente al Senato che, più volte, abbiamo sollecitato per un’immediata approvazione". Il presidente di Antigone infine conclude con un auspicio: "Va evitata la segregazione che crea il rafforzamento della radicalizzazione. Va evitata la sindrome della vittimizzazione. Va evitata la stigmatizzazione degli islamici che produce violenza e ulteriore radicalizzazione. Va evitato un sistema penitenziario affidato solo ai servizi di sicurezza. Vanno previsti programmi sociali di deradicalizzazione". Chi sono i "reclutatori" islamici nelle carceri italiane di Nadia Francalacci Panorama, 10 gennaio 2017 Low profile e carattere docile. I "promotori" del Corano e a volte anche della jihad monitorati dall’intelligence sono 33 per lo più tunisini. Sono figure carismatiche, conoscono passi del Corano a memoria e hanno un temperamento nella maggior parte di casi molto tranquillo. Riescono, però, a catalizzare attorno alla loro persona decine di altri detenuti con i quali iniziano prima l’opera di conversione, poi di radicalizzazione. Sono i cosiddetti "promotori", ovvero soggetti che all’interno delle carceri promuovono la parola del Profeta e molto spesso anche la jihad. Non necessariamente sono imam. In Italia sono 33 i "promotori" all’interno degli istituti di pena, schedati dalla nostra intelligence. Sono tutti di origine nordafricane, per la maggior parte tunisini, marocchini e egiziani. I predicatori originari della Tunisia sono 11, 7 del Marocco e altrettanti sono con passaporto egiziano. Ma tra i Paesi di origine dei predicatori compaiono anche l’Algeria, il Gambia, il Pakistan, la Tanzania, l’Albania ma a sorpresa anche la Francia e l’Italia. Due europei sono sotto la lente di ingrandimento degli investigatori. Entrambi sono figli di nordafricani ma nati in Europa. Il francese ha 27 anni, l’italiano solo 25. I promotori vestono all’occidentale, hanno comportamenti molto corretti, partecipano attivamente e con profitto alle attività che vengono svolte in carcere. Alcuni posseggono un livello di conoscenza della lingua italiana elevatissimo e non di rado vengono utilizzati come interpreti con i nuovi detenuti. Mantengono, spesso, un low profile, un basso profilo, cercando di non emergere tra i detenuti reclusi. Le carceri toscane e siciliane - Ma dove sono rinchiusi? Alcuni di questi promotori-predicatori sono detenuti negli stessi istituti penitenziari e sembrano formare dei veri e propri "centri di preghiera". Il numero maggiore si trova nelle carceri della Toscana, dove gli investigatori ne hanno "identificati" ben 8 distribuiti nelle varie case circondariali. Ma la maggior concentrazione è in una struttura nel cuore di questa regione. Dal Centro Italia si passa alla Sicilia dove si trova un’altra "sacca" importante di detenuti-promotori. Tra il carcere di Enna, Gela e Caltanissetta ce ne sono altri 8. L’unico italiano, invece, si trova recluso in una casa circondariale del Piemonte assieme ad un tunisino considerato anche lui molto attivo nella predicazione e nel proselitismo. Una parte di questi soggetti si trovano all’interno delle carceri dove si sono convertiti all’Islam i detenuti italiani oppure vi hanno trascorso una parte del loro periodo di reclusione. Il lavoro di intelligence della penitenziaria - "È difficile identificare i promotori- spiega a Panorama.it, Angelo Urso, Segretario Generale Uil-Pa - ma è sicuramente ancor più difficoltoso capire quali sono i rapporti che questi soggetti intrattengono con detenuti musulmani e con quelli italiani". "Essendo figure carismatiche vengono spesso circondate da un numero importante di reclusi - prosegue Urso - ma non necessariamente questi vengono tutti radicalizzati e quindi diventano potenziali terroristi. Spesso questi soggetti operano delle conversioni ma con altrettanta facilità pianificano traffici di stupefacenti, varie tipologie di reati comuni o, ad esempio, il traffico di armi". Terrorismo e boss mafiosi - "Questi soggetti, infatti, non sono solamente un punto di rifermento religioso ma anche d’affari - precisa Angelo Urso - proprio come lo erano i boss mafiosi. Le dinamiche carcerarie sono rimaste immutate, l’unica differenza è la lingua. In passato, intercettare le conversazioni dei mafiosi benché parlassero in codice, era comunque possibile. Oggi, con la lingua araba è diventato tutto molto più complesso". Dunque, il ruolo ricoperto dai "promotori" risulta essere davvero delicato non solo nella conversione ed eventualmente radicalizzazione di soggetti musulmani o italiani, ma anche come ponte tra il mondo islamico e le organizzazioni criminali italiane. "Jihad, entro nelle carceri alla ricerca dei cattivi maestri" di Asmae Dachan Il Fatto Quotidiano, 10 gennaio 2017 Youssef Sbai, ex vicepresidente delle Comunità islamiche, tiene corsi di formazione per individuare i detenuti radicalizzati dietro le sbarre. Contro il terrorismo dei jihadisti, l’islam entra nelle scuole di polizia penitenziaria. Il ministero della Giustizia ha nominato Youssef Sbai, 56 anni, marocchino, ex vicepresidente nazionale dell’Ucoii, Unione delle Comunità Islamiche d’I tali a, docente di fede musulmana. Lo scopo è fornire agli agenti strumenti per imparare a riconoscere tra i detenuti atteggiamenti di radicalizzazione, proselitismo alla violenza e cultura dell’odio. Come ha accolto questa nomina giunta in un momento in cui si parla molto del pericolo della radicalizzazione nelle carceri? In realtà non si tratta di un incarico nuovo, ma di un progetto iniziato già da un anno, nel gennaio 2016. Come docente e come credente musulmano ho accolto questa nomina con un profondo senso di responsabilità. Sono già stato chiamato da diversi direttori di scuole di polizia penitenziaria per tenere un corso di formazione e aggiornamento per il personale carcerario sui fenomeni del radicalismo, della violenza e del proselitismo nelle carceri italiane. Il mio compito è quello di presentare l’islam e fornire ai corsisti strumenti utili per comprendere e interpretare gli atteggiamenti dei detenuti. Quali sono gli istituti coinvolti nel progetto? Il corso si è già svolto nella scuola di Polizia penitenziaria Giovanni Falcone a Roma, e ora è attivo nella scuola di Cairo Montenotte, nel Savonese. Interesserà altri istituti. La particolarità è che il docente, in questo caso il sottoscritto, è allo stesso tempo uno studioso di islam e un musulmano praticante. Questo è il vero elemento di novità, perché oltre alla materia accademica, si offre quindi una testimonianza di fede vissuta in modo diretto. Il corso è rivolto anche ad altre figure professionali come educatori e psicologi. Come avviene la formazione? Ci sono tre diversi approcci. Il primo riguarda la pratica religiosa in sé, e dà ai corsisti un quadro di quali sono e come si svolgono. Il secondo riguarda aspetti culturali dei territori di provenienza dei detenuti musulmani. Il mio ruolo è di spiegare al personale quali sono gli aspetti che riguardano usi, costumi e tradizioni dei Paesi d’origine e quali, invece, sono le questioni dottrinali. La terza dimensione riguarda il confronto con gli operatori. Ha anche modo di incontrare i detenuti? Da anni faccio volontariato in diversi carceri. Incontro detenuti di fede musulmana che fanno esplicita domanda di un colloquio con un ministro di culto islamico. Riesce a individuare i segni di una possibile radicalizzazione? La questione del radicalismo difficilmente si può cogliere e percepire durante brevi colloqui. La radicalizzazione è un processo lungo, un fenomeno complesso che per essere scoperto richiede un’osservazione più vicina e prolungata. Servirebbe un’intervista approfondita col detenuto per riscontrare eventuali indicatori di un atteggiamento estremista. Quale approccio religioso riscontra nella popolazione carceraria musulmana? Molti dei carcerati che ho incontrato hanno un livello di istruzione, anche religiosa, molto basso, e di conseguenza, anche il loro atteggiamento spirituale riflette il cosiddetto islam popolare, quello diffuso nelle rispettive società di provenienza. Spesso hanno atteggiamenti religiosamente sbagliati, distorti e nel caso in cui dovessero incontrare un cattivo maestro, è facile che questo li porti alla devianza, a commettere azioni e adottare comportamenti che di islamico non hanno nulla e ne sono, semmai, una stigmatizzazione. Rapporti più frequenti fra istituzioni islamiche e Stato italiano potrebbero agevolare il riconoscimento di ciò che è religione, da ciò che non lo è? È possibile, a condizione che i musulmani siano all’altezza di affrontare questa responsabilità, mettendo a disposizione risorse umane, come professori, maestri e imam qualificati. In questo momento l’allerta per eventuali attacchi è molto alta. Il rischio c’è, e lo dicono i rappresentanti di diverse istituzioni italiane. Lo confermano anche i comportamenti di ex detenuti che hanno compiuto atti terroristici in Europa. Non possiamo, quindi, negare che esista un pericolo. La paura non deve farci cambiare la nostra quotidianità, l’importante è non abbassare la guardia. Contro il crimine l’Italia sa difendersi di Franco Mirabelli (Senatore Pd Capogruppo Commissione Antimafia) L’Unità, 10 gennaio 2017 La fine del 2016 e l’inizio del 2017 sono stati segnati da tragici attentati che hanno colpito Berlino e le città turche seminando morte, dolore e paure. Questa volta abbiamo sentito ancora più vicino il pericolo terrorista. E vicino a noi - in piena notte, a Sesto San Giovanni, nell’hinterland milanese - è stato fermato e ucciso l’attentatore di Berlino. Quello che è successo a Sesto San Giovanni dimostra come nel nostro Paese ci siano ottime capacità di indagine e di prevenzione e una rete di controllo del territorio, da parte delle forze dell’ordine, che funziona. Non è stato il frutto di un colpo di fortuna, come hanno subito detto quelli a cui piace pensare al nostro come ad un Paese in cui non funziona nulla. Così come non sono stati colpi di fortuna i numerosi interventi che hanno consentito di trovare e condannare o espellere centinaia di persone che tentavano di reclutare terroristi o preparavano attentati, o come non Io è stato il fatto che grandi eventi, quali Expo e il Giubileo, che hanno messo l’Italia al centro del mondo, si siano svolti senza episodi di terrorismo. La verità è che le prove difficili che l’Italia ha dovuto affrontare - dalla lotta al terrorismo interno negli anni 70-80, al contrasto alle mafie - hanno consentito di creare professionalità ed esperienze, modalità di azione e, soprattutto, di indagine che oggi ci consentono di fare bene prevenzione anche contro il nuovo terrorismo. La stessa scelta, fatta dallo scorso governo, di far coordinare dalla Direzione Nazionale Antimafia anche l’azione contro il terrorismo evidenzia quanto oggi possano essere utili le esperienze originali maturate in anni difficili per il nostro Paese. Abbiamo, quindi, istituzioni che funzionano bene, come è stato dimostrato da queste vicende, ma la situazione richiede che si prosegua nel mettere in campo ulteriori misure per sventare attentati e combattere il terrorismo islamico. In questo senso vanno lette sia le maggiori misure di sicurezza già messe in atto per prevenire stragi come quella di Nizza odi Berlino (con i blocchi sulle strade e i maggiori controlli nei luoghi sensibili), sia la maggiore attenzione che si è deciso di dedicare a ciò che succede nelle carceri e sul web, dopo che si è reso evidente che ci sono molti casi in cui i luoghi di detenzione e la rete sono stati utilizzati per radicalizzare alcune persone e reclutarle nelle organizzazioni legate all’Isis. In tutto questo scenario, fare l’equazione immigrazione-terrorismo serve solo a chi ha scelto di fare politica alimentando paure e agitando capri espiatori anziché assumersi la responsabilità dí affrontare concretamente i problemi. Così come confondere chi scappa da una guerra e chiede asilo con chi viene in Italia per delinquere o, semplicemente non ha diritto a restare nel nostro Paese, non aiuta a risolvere i problemi ma anzi crea le condizioni per alimentare conflitti, divisioni e paure. È giusto, invece, introdurre norme per rendere più rapide e fattive le espulsioni degli irregolari, come recentemente il governo ha deciso, per dare più sicurezza ai cittadini oltre che garantire la legalità. La scelta di realizzare nuovi Cie più piccoli, uno per Regione, in cui gli irregolari vengano trattenuti per poi essere rimpatriati nel giro di pochi giorni, grazie a processi di identificazione più rapidi, potrà dunque essere efficace se rispettosa dei diritti umani. È evidente, quindi, che i nuovi Cie dovranno essere una cosa diversa da ciò che si è conosciuto in passato. Liquidare anche questa nuova iniziativa - gestita direttamente dalle forze dell’ordine e dalle Prefetture - è utile per accelerare e aumentare le espulsioni di chi non ha diritto a stare in Italia - come foriera di corruzione e malaffare è lo slogan di chi non ha argomenti e considera ogni cosa inesorabilmente inutile e sporca. Purtroppo, anche su questo la polemica politica fa dire cose senza senso, soprattutto chi non distingue o finge di non distinguere tra centri come i Cie, dove le persone vengono private della libertà e vengono trattenute, e i centri di accoglienza dove risiedono persone che attendono di sapere se la propria richiesta di asilo è stata accettata. È inaccettabile, però, che chi vorrebbe governare questo Paese, come il Movimento 5 Stelle, anziché guardare al lavoro prezioso che svolgono tante cooperative e associazioni che assicurano assistenza con efficienza e solidarietà e anziché lavorare su controlli di qualità e di legalità per evitare si ripetano episodi di malaffare, preferisca solo sottolineare gli episodi negativi, utilizzandoli per teorizzare che è meglio non fare niente o per fare propaganda. Terrorismo. Circolare agli agenti: "Armati anche fuori servizio" di Paola Fucilieri Il Giornale, 10 gennaio 2017 Nelle scorse settimane la comunicazione della polizia Allerta a Milano: più controlli su persone e zone a rischio. Quando la paura è un concetto concreto e peraltro motivato, bisogna fare sistema. Tra chi controlla il territorio, chi si occupa delle indagini, chi si concentra sull’intelligence. Anche l’Italia deve realmente temere il terrorismo islamico? E allora il capo della polizia Franco Gabrielli si espone in prima persona e in due interviste afferma senza mezzi termini che "prima o poi l’Isis colpirà anche noi". E le novità non si fermano qui. Se negli ultimi tempi, infatti, se ne era parlato spesso - ma il risultato era sempre rimasto un nulla di fatto - dopo una circolare emessa a novembre scorso dal Dipartimento di pubblica sicurezza, è doveroso, per qualunque appartenente alle forze dell’ordine di tutta Italia, girare armato anche fuori servizio. Un invito su cui, i primi tempi, era scesa una coltre di riservatezza, ma che adesso non è più possibile negare e tanto meno smentire. Nel frattempo a Milano la tensione tra la gente è altissima. Ora che l’espressione "attentato in Italia" è stata sdoganata da Gabrielli, è chiaro che le persone temano ogni borsa o valigia abbandonata e non si sentano affatto sicure quando salgono su un convoglio della metropolitana. Non diciamo nulla di nuovo affermando che la nostra città rappresenta uno dei punti più critici dell’intera nazione. Non solo perché la Lombardia ha il numero più alto di foreign fighters accertati, non solo perché l’ultimo terrorista islamico, un "loro soldato", è stato ucciso a Sesto San Giovanni e quindi il risentimento verso il capoluogo lombardo è aumentato, ma anche dal punto di vista geografico, a differenza di Roma, Milano rappresenta, per le numerose vie di comunicazione che l’attraversano e la collegano ad altri stati, il cuore dell’Europa. "È giusto che la gente capisca - ci spiega un investigatore -, è un dovere prepararla psicologicamente a un probabile, possibile, potenziale attacco terroristico. Pur senza creare un allarmismo preciso anche perché, fino a ora, non è stato segnalato dall’intelligence nessun obiettivo sensibile che possa essere più appetibile di altri per questi terroristi. Le dichiarazioni del capo della polizia possono anche riuscire a stimolare la popolazione a un maggiore senso civico, quindi a collaborare maggiormente a livello informativo con le forze di polizia. Così si fa sistema". Mentre le forze dell’ordine a Milano attendono con ansia un potenziamento delle squadre investigative, i cui organici sono ancora fermi a quando non c’era l’emergenza terrorismo, ci sono tanti casi aperti e tante segnalazioni da verificare. Per il momento, a Milano, solo il controllo del territorio è stato rinforzato al massimo, ma questo potenziamento ha senso soltanto se va pari passo a un altro potenziamento: ci sono operazioni che il poliziotto in divisa (o comunque le pattuglie in genere) infatti non può fare, occorre l’intervento di chi è abituato a indagare e conosce il fenomeno. È vero: in città la vigilanza è massima. Non solo sono aumentati i controlli alle persone, ma ci sono più zone interdette al traffico dei veicoli e più controlli radiogeni (attraverso apparecchiature in grado di individuare facilmente armi, esplosivi, droghe ed oggetti pericolosi in bagagli, pacchi e borse) nei musei o nelle arre di grande affluenza. Numericamente, infatti, gli operatori che lavorano per l’Antiterrorismo - siano essi appartenenti alla Digos della polizia di Stato, ai Ros dei carabinieri o uomini della Guardia di Finanza - in una città come Milano, sono ancora troppo pochi: per fronteggiare le molteplici sfaccettature di ciò che oggi rappresenta il terrorismo islamico dovrebbero essere almeno il doppio. E poi questi investigatori non possiedono "licenza di uccidere". Spieghiamo. Lo scambio informativo con le forze di polizia europee non è così scontato e non ci sono banche dati unificate a livello continentale: quella dei clienti degli alberghi, che ai tempi del terrorismo rosso era accessibile a tutte le forze di polizia, infatti ora può essere consultata soltanto dalla Digos. Infine, in un momento storico in cui il controllo dei flussi di denaro è fondamentale per contrastare i complessi meccanismi di finanziamento al terrorismo, sarebbe auspicabile dare la possibilità anche al personale della Digos e dei carabinieri di accedere alla consultazione delle banche dati tributarie che invece sono a uso esclusivo solo della Guardia di Finanza e dell’agenzia delle entrate. Estesa la corruzione tra privati di Claudia Morelli Italia Oggi, 10 gennaio 2017 Nuova stretta per il reato di corruzione tra privati. Si estende la platea degli autori del reato così come le condotte corruttive; si inasprisce il trattamento sanzionatorio in ordine alla responsabilità degli enti privati (aziende e non solo); si punisce l’istigazione al reato. La modifica in senso restrittivo dell’art. 2635 del codice civile è contenuta nello schema di decreto legislativo che il governo Gentiloni ha approvato in via preliminare lo scorso 14 dicembre in attuazione della delega contenuta nella legge europea 2015 (n. 170/2016). Lo schema di dlgs è stato inviato alle camere che dovranno esprimere il parere. L’intervento è necessario per adeguare la normativa interna alla decisione quadro della Consiglio europeo n. 2003/568 anche a seguito dei diversi richiami della Commissione europea sulla necessità di adeguarsi alla Convenzione penale sulla corruzione sottoscritta a Strasburgo e ratificata dall’Italia nel 2012, ma senza che fosse conseguito il necessario adeguamento dell’ordinamento. Al momento, come riferisce la stessa relazione al provvedimento, i processi per corruzione tra privati sono in numero limitato (16 quelli iscritti negli anni 2013 e 2014), ma - pronostica il Governo - "ci si attende un incremento dei processi, al momento non quantificabile". Per quanto riguarda i cardini dell’intervento, innanzitutto viene modificata la fattispecie prevista dal codice civile sia con riguardo alla corruzione passiva che con riguardo a quella attiva. Sotto il primo profilo è estesa la platea degli autori del reato: non più solo le figure apicali della società o dell’ente privato (amministratori, sindaci ecc.), ma anche coloro che svolgono attività lavorativa con incarichi direttivi (le figure giurisprudenziali di amministratore di fatto); quanto alla corruzione passiva viene prevista la punibilità del soggetto estraneo che offre, promette o dà denaro o altra utilità non dovuti ai responsabili aziendali o a chi ha la vigilanza su questi ultimi. Sono ampliate le condotte tramite le quali si concretizza l’accordo corruttivo: ai fini della punibilità vale anche la sollecitazione di denaro o altra utilità da parte del soggetto intraneo; così come l’offerta del soggetto estraneo che siano accettate dall’altra parte coinvolta. La finalità è individuata nel compimento o nell’omissione di un atto in violazione degli obblighi inerenti all’ufficio di fedeltà a cui è tenuto il dipendente. Viene introdotto il reato di istigazione alla corruzione tra privati (articolo 2635-bis) sia dal lato passivo che da quello attivo, che si concretizza in caso di - rispettivamente - sollecitazione od offerta quando queste non vengono accettate. Introdotta anche la pena accessoria della interdizione temporanea dagli uffici direttivi della persona giuridica con l’inserimento dell’articolo 2635-ter, in caso di condanna per corruzione e per istigazione e a prescindere dalla entità della pena. Viene infine modificato il decreto sulla responsabilità delle persone giuridiche (dlgs 231/2001), stabilendo una responsabilità per quote nei casi di corruzione passiva e d’istigazione alla corruzione. Toscana: nelle carceri della Regione il record di detenuti italiani convertiti all’Islam di Nadia Francalacci Panorama, 10 gennaio 2017 Gli istituti penitenziari sono un terreno fertile per fare proseliti, con il rischio radicalizzazione che si fa più alto tra i reclusi: i numeri del 2016. Preghiere, lettura del Corano, qualche parola in arabo e poi la conversione all’Islam. La radicalizzazione e il reclutamento di cittadini europei da parte di organizzazioni terroristiche avviene nella maggior parte dei casi all’interno delle carceri. Meccanismo che vale anche nel nostro Paese, con la metà dei nuovi musulmani italiani convertiti in carcere che risultano reclusi negli istituti penitenziari della Toscana. In carcere conversioni più "a rischio" - Solamente nel 2016 nelle carceri italiane si sono convertiti all’Islam 17 italiani (16 uomini e una donna) con un percorso sviluppatosi nell’arco di poco tempo in un contesto, come ormai confermato dagli 007, che rappresenta un terreno favorevole alla diffusione di ideologie radicali e violente, tipiche della radicalizzazione terroristica. La conversione all’Islam - è bene precisarlo - non può e non deve essere necessariamente associata al terrorismo, ma se avviene in carcere assume indubbiamente una valenza diversa e, per gli investigatori, diventa elemento da monitorare con maggiore attenzione. Al proposito, un ulteriore elemento di preoccupazione è poi dato dall’impossibilità di applicare la normativa antiterrorismo sulle espulsioni per quanto riguarda la conversione ed eventualmente la radicalizzazione in carcere di cittadini italiani. Fari puntati sulla Toscana - Sicuramente l’attenzione degli investigatori e dell’intelligence contro la radicalizzazione è concentrata sulle carceri della Regione Toscana. Solamente nel carcere di Pisa sono state quattro le persone (tra cui l’unica donna italiana) a convertirsi all’Islam in meno di 12 mesi. Due, invece, sono quelli che si sono convertiti nella casa circondariale di San Gimignano, in provincia di Siena, uno in quella di Prato, un altro in quella di Volterra (Pisa) e uno nel carcere dell’isola di Gorgona (Livorno). I due uomini originari del nord della Toscana detenuti nel carcere pisano hanno 52 e 53 anni, mentre l’altro ne ha 32. Poco più che trentenne anche la donna (originaria della provincia lucchese e oggi scarcerata) che nel 2016 ha deciso di abbracciare la fede islamica. Gli altri detenuti convertitisi all’Islam hanno un’età compresa tra 30 e 52 anni, mentre il più anziano (detenuto nel carcere di Volterra) è un uomo di 63 anni. Al di fuori della Toscana si contano poi due italiani convertiti nelle carceri piemontesi, tre in quelle della Lombardia, uno in Sicilia, uno in Campania e infine uno in Sardegna. Il ruolo dei "promotori" - Ma come avviene la conversione? Spesso attraverso altri detenuti definiti "promotori", che possono essere imam reclusi oppure soggetti "leader" dediti appunto al fare proseliti o addirittura mediatori culturali che operano nelle stesse carceri, entrando e uscendo liberamente dalle stesse. Solo nel 2016, gli imam "esterni" che hanno avuto contatti con i detenuti reclusi nelle carceri italiane sono stati 22 e in alcune strutture carcerarie hanno avuto accesso anche due o tre imam diversi. La maggior parte di questi imam "esterni" sono marocchini, uno solo risulta di nazionalità italiana. Sardegna: jihadisti detenuti nelle carceri sarde, scoppia la polemica sulla sicurezza La Nuova Sardegna, 10 gennaio 2017 Preoccupano anche le possibili infiltrazioni esterne di parenti e amici. "Se si vuole migliorare la situazione della detenzione in Sardegna sia sul piano della sicurezza, che della tutela dei diritti, che delle ricadute positive o nefaste sull’intero tessuto sociale, bisogna cambiare modello. L’approccio non può essere emergenziale ma basato su attenzione, quotidianità e sensibilità per i problemi da parte di chi si occupa di politica a livello regionale così come avviene in altre regioni". Il garante dei detenuti di Nuoro, Gianfranco Oppo, ha le idee chiare. E non si scompone più di tanto anche davanti a "un’emergenza" come quella dettata dalla presenza di terroristi islamici nei penitenziari della Sardegna, a Badu e Carros e a Bancali, nello specifico. Forte di un’esperienza diretta di anni e anni di lavoro nel carcere barbaricino, Oppo chiede semplicemente più attenzione, costante e duratura, nei confronti del pianeta carcere. Anche perché il problema non è la sicurezza in se negli istituti del ministero di Giustizia. La polizia penitenziaria è pronta e preparata per affrontare ogni situazione. Il problema, caso mai, è la rete di rapporti esterni alle carceri che potrebbero crearsi nell’isola con i parenti o gli amici degli jihadisti reclusi con l’accusa di terrorismo internazionale. Un tema, quello della sicurezza, che ha già scatenato il marasma politico. "Ancora una volta siamo stati delusi dai soliti politici di turno - attacca Giovanni Villa, segretario generale aggiunto della Cisl-Fns, ancora una volta il deputato Mauro Pili nel suo modo di fare politica infastidisce e non solo, questa volta ha anche offeso un corpo di polizia. Se non si sente al sicuro e a suo agio faccia a meno di venirci in carcere, semplice". Non sono piaciute, insomma, le dichiarazioni di Pili dopo la visita lampo al carcere sassarese di Bancali. "Pare che la sua missione non tenda al miglioramento delle problematiche, ma ad aumentarle" insiste Villa. Immediata e alquanto piccata, la replica del deputato di Unidos: "Gli agenti sanno il mio impegno a tutela delle loro condizioni di lavoro - sottolinea -. Nel carcere di Bancali è in serio pericolo la sicurezza degli agenti, costretti a turni massacranti, con carenze di organico oltre il 40% del personale necessario. Agenti costretti ad entrare in servizio da soli in reparti delicati come quello dell’Alta sicurezza 2, dedicato al terrorismo internazionale. Una situazione che i vertici dell’amministrazione penitenziaria stavano cercando di coprire a scapito dei lavoratori e della loro sicurezza". "Appare superfluo rammentare - interviene Salvatore Argiolas, segretario regionale reggente dell’Ugl-Polizia penitenziaria - l’oggettiva condizione in cui versa la realtà penitenziaria della Sardegna, con palesi carenze sotto ogni profilo: oltre all’organico di polizia penitenziaria, quello dei direttori d’Istituto, di mezzi e risorse. Nel solo istituto di Sassari a puro titolo esemplificativo la carenza nell’organico della polizia ammonta a 150 unità". "La sicurezza non si baratta, si garantisce - aggiunge Giovanni Villa. L’utenza presente nei penitenziari dell’isola non ci fa paura, ci fa più paura l’immobilismo di chi dovrebbe garantire ai cittadini la giusta serenità". "Chiedano, i politici - chiude il sindacalista della Cisl -, assegnazione di mezzi e uomini per il corpo, chiedano un’adeguata formazione del personale su varie forme di terrorismo visto che fin che sono dentro le carceri non c’è da preoccuparsi considerata la professionalità della polizia penitenziaria". Reggio Calabria: i Radicali denunciano: "laboratorio in carcere mai utilizzato dal 2007" di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 10 gennaio 2017 Correva l’anno 2007 quando venne inaugurato il laboratorio di lavorazione dei marmi "Bottega di Michelangelo", un capannone attrezzato dentro il carcere di Reggio Calabria e finanziato con i fondi della Cassa delle Ammende. Fu inaugurato con tanto di taglio del nastro e in diretta tv dall’allora ministro della giustizia Clemente Mastella assieme all’ex capo del Dap, l’allora presidente della regione Loiero e l’ex provveditore regionale Paolo Quattrone. La radicale Rita Bernardini, assieme all’avvocato Gianpaolo Catanzariti, ha fatto visita al carcere e ha potuto costatare che tale laboratorio non è mai stato messo in funzione. "È diventato un deposito di schifezze - denuncia Rita Bernardini del Partito radicale transnazionale -, un immondezzaio dove è possibile scorgere macchinari costosissimi ormai inutilizzabili". La radicale si chiede quanto sia costato ai contribuenti e come mai non hanno nemmeno attivato dei corsi professionali per far lavorare i detenuti. Eppure l’idea era buona visto che il lavoro retribuito per i detenuti è un ottimo strumento trattamentale per assicurare il loro reinserimento nella società. Attività che scarseggiano negli istituti penitenziari. Il resoconto delle visite alla carceri reggine effettuate dal Partito radicale e dalla delegazione dell’Osservatorio carcere Camera penale di Reggio Calabria offre un panorama che riflette lo stato generale dell’intero sistema penitenziario italiano. Il numero dei detenuti risulta in progressivo aumento, in aumento la carcerazione preventiva dove incide anche il mancato utilizzo dei braccialetti elettronici che sono esauriti da tempo e ancora non viene bandita una gara dal ministero dell’Interno. Il numero dei detenuti in attesa di giudizio risulta impressionante. Abbiamo i numeri grazie alle risposte dei questionari presentati dalla radicale Bernardini e l’avvocato Catanzariti. Nell’istituto penitenziario di Reggio Calabria, su 216 detenuti presenti (la capienza regolamentare è di 184), ben 90 sono in attesa di giudizio. Nel carcere di Palmi, su 184 detenuti presenti (152 è il numero dei posti regolamentari), i detenuti in attesa di giudizio sono 137. Infine c’è il carcere di Arghillà con 315 detenuti presenti (la capienza regolamentare è di 302), dove 129 detenuti sono in attesa di giudizio. In particolare questo carcere ospita 29 detenuti tossicodipendenti, 2 risultano sieropositivi, 11 sono affetti dall’epatite c e tre da altre malattie infettive come la tubercolosi e la scabbia. Poi ben 70 detenuti risultano di avere patologie psichiatriche e 5 sono disabili. Firenze: Consiglio comunale approva risoluzione per promuovere lo sport a Sollicciano gonews.it, 10 gennaio 2017 Nicola Armentano (Pd): "Lo sport foriero di valori fondanti della società civile" Il Consiglio comunale ha approvato una risoluzione, primo firmatario Nicola Armentano (PD) e sottoscritta anche dai consiglieri PD Maria Federica Giuliani, Serena Perini, Fabio Giorgetti, alessio Rossi, Fabrizio Ricci, Cosimo Guccione, Domenico Antonio Lauria, Francesca Paolieri e dalla consigliera de La Firenze Viva Cristina Scaletti, dalla consigliera di Alternativa Libera Miriam Amato e dal consigliere di Firenze Riparte a Sinistra - Sinistra Italiana Giacomo Trombi, che impegna la giunta comunale a farsi parte attiva nei confronti del Ministero della Giustizia e del Coni, anche dei loro dirigenti e rappresentanti locali, per dare attuazione al Protocollo del 3 dicembre 2013 (dove le parti si impegnano a collaborare per migliorare le condizioni di vita della popolazione detenuta attraverso la diffusione e la pratica sportiva, programmi di attività stabile e organizzata, percorsi di tirocinio e qualificazione tecnica) sia per quanto riguarda la diffusione della pratica sportiva nel carcere di Sollicciano che per quelle relativa alla formazione e qualificazione tecnica dei detenuti, da poter utilizzare anche successivamente per facilitarne il reinserimento nel mondo del lavoro; a farsi promotore per coinvolgere nei vari programmi e progetti il vasto e variegato mondo delle associazioni sportive fiorentine. "L’obiettivo della risoluzione - spiega il consigliere Pd Nicola Armentano - è di offrire un’opportunità ai detenuti di Sollicciano nella speranza che lo sport possa portare, oltre all’impegno agonistico, anche etica e rispetto dell’avversario. Anche chi ha perso la strada maestra può riappropriarsi dei valori. Lo sport è foriero di valori fondanti della società civile. Messaggi etici, punti cardini dello sport quali lealtà, rispetto, correttezza sono utili a tutti i cittadini e, in particolare, a coloro come i detenuti che, per più motivi in momenti particolari della loro vita, hanno smarrito un percorso di onestà. Lo sport - conclude Armentano - non deve essere solo svago e divertimento ma anche traslatore di valori etici". Pisa: il sottosegretario Migliore in visita al carcere "situazione di emergenza" pisatoday.it, 10 gennaio 2017 Il sottosegretario alla Giustizia Gennaro Migliore ha visitato i vari reparti del carcere pisano e si è impegnato ad attivarsi presso il Ministero per far fronte alle condizioni particolarmente critiche. Visita al Carcere Don Bosco ieri, lunedì 9 gennaio, per il sottosegretario alla Giustizia Gennaro Migliore che, su sollecitazione del deputato questore Paolo Fontanelli, ha effettuato un sopralluogo di tutti i ‘braccì della casa circondariale. I due parlamentari, accompagnati dal direttore Fabio Prestopino e dal comandante della Polizia Penitenziaria Vincenzo Pennetti, hanno potuto visionare i vari reparti tra cui la sezione femminile e quella maschile, i relativi centri clinici, il polo universitario, la sezione Prometeo, il reparto giudiziario, le zone dei servizi, fino a completare tutto il tracciato. Il sottosegretario Migliore, preso atto di una situazione di reale emergenza, si attiverà immediatamente presso i dipartimenti competenti del Ministero della Giustizia, così da avviare i provvedimenti necessari a fare fronte alle diverse criticità che colpiscono la struttura che richiede interventi seri. Migliore si è inoltre soffermato anche con alcuni detenuti e ha ascoltato le loro richieste. Alla fine del giro si è recato presso la caserma degli agenti penitenziari per una visita alla struttura e al personale. Bologna: il Vescovo Matteo Zuppi concede un’intervista ai detenuti di Giuseppe Baldessarro La Repubblica, 10 gennaio 2017 Nell’incontro alla Dozza "Tra buoni e cattivi non c’è netta distanza". Non esistono nette separazioni tra buoni e cattivi. Io la penso come Papa Francesco quando ha detto che solo per grazia non è finito in carcere". È un arcivescovo che parla a cuore aperto quello che nei giorni scorsi si è fatto intervistare da detenuti e volontari della Dozza che costituiscono la redazione di "Ne vale la pena", periodico online ospitato dal sito "Bandiera Gialla". Un Matteo Zuppi che parla di detenzione e riscatto, di perdono e recupero, di convivenza tra le religioni e di unità dei cristiani. Nell’intervista, anticipata ieri da "Bologna Sette", il settimanale di Avvenire edito dalla curia, Zuppi risponde su diversi temi a partire proprio dalla possibilità di superare il carcere. Per l’arcivescovo "una struttura che garantisca sicurezza e renda possibile l’amministrazione della giustizia è necessaria". Anche se "il carcere inteso unicamente come contenitore di coloro che sbagliano non produce reale sicurezza". Da qui per aggiungere come in ogni caso sia necessario "trovare alternative alla detenzione", perché "tutto ciò che è utile per far crescere la persona va praticato, non dimenticando mai le vittime dei reati". Zuppi ha anche risposto ad alcune domande su religione e integrazione e in particolare sulla convivenza tra detenuti di sensibilità diverse: "Sia fuori che in carcere dobbiamo imparare la convivenza, e c’é ancora molta strada da fare, soprattutto nel rapporto tra le fedi. In carcere è maggiore la necessità di confrontarsi perché non possiamo ignorare la diversa religione di chi forzatamente ci vive accanto". E ancora: "C’è un cammino da percorrere, fra le chiese cristiane innanzitutto; poi c’è la grande sfida della convivenza con i mussulmani, in questi ultimi anni resa molto difficile da terrorismo che genera paura e pregiudizio". L’arcivescovo ha ricordato che Bologna "ha tradizione nobile di città umanista, di cultura, di accoglienza, di valori umani e di impegno politico", per poi sottolineare come si compito di ognuno "aiutare a far crescere quest’anima umanista, altrimenti prende il sopravvento la paura, in particolare verso la straniero, il povero, l’immigrato. O il detenuto". Milano: "Per MiTo onlus", ciclo di concerti nelle carceri di S. Vittore, Opera e Bollate affaritaliani.it, 10 gennaio 2017 L’Associazione "Per MiTo Onlus" presenta il primo dei concerti "Music from the World", che si terrà a San Vittore il 18 gennaio alle 17.30. Nel 2017, l’Associazione per MiTo Onlus promuoverà una serie di concerti nelle carceri di S. Vittore, Opera e Bollate, grazie alla collaborazione del Conservatorio di Milano, in particolare del Presidente Fassey e della direttrice Frosini, e delle Direzioni delle carceri milanesi. Questa serie di concerti denominata "Music from the World", sarà eseguita dall’orchestra Laboratorio di World Music del Conservatorio di Milano diretta da M. Alberto Serrapiglio, specializzata nell’esecuzione di musica di diversa provenienza geografica e culturale. Il programma proposto spazierà da Bach alla musica Yiddish, da Piazzolla alla musica turca, da Gershwin a Monti. L’Associazione, come recita il comunicato stampa, auspica che quest’iniziativa sia l’inizio di un progetto di ampio respiro, volto a impiegare la musica all’interno delle carceri come uno strumento di confronto e di ascolto, che possa stimolare l’aggregazione e la partecipazione attiva dei detenuti, secondo le proprie attitudini ed esperienze. Morto Zygmunt Bauman, filosofo della "società liquida" di Carlo Bordoni Corriere della Sera, 10 gennaio 2017 Di formazione marxista, ha studiato il rapporto tra modernità e totalitarismo, soprattutto la Shoah e il passaggio dalla cultura moderna a quella postmoderna. Sono assai rare le star della cultura. Ma Zygmunt Bauman, scomparso lunedì 9 gennaio all’età di 91 anni, ha goduto di un’immensa popolarità, grazie alla sua capacità di parlare alla gente con un linguaggio semplice e comprensibile, mai riduttivo. Lascia un vuoto incolmabile: aumenterà la "solitudine del cittadino globale", privo della sua voce indignata e rassicurante. Sempre defilato dalle sfere istituzionali, il suo pubblico non erano i sociologi, né gli addetti ai lavori, ma le persone comuni che si affollavano attorno a lui per ascoltare le parole di un vecchio saggio che sapeva "vedere" i fenomeni generazionali. Fuori dalla sua età, ma con la saggezza della sua età. Testimone della crisi di passaggio tra il XX e il XXI secolo - L’insofferenza all’ambiente accademico non gli ha impedito di essere riconosciuto come il più acuto osservatore della modernità, autore della brillante intuizione della "società liquida", efficace metafora della condizione attuale, in cui regnano l’incertezza e l’individualismo. Né di offrire un contributo fondamentale alla sociologia, risollevandola dalla condizione di decadimento in cui era precipitata alla fine del secolo scorso. Con una presenza critica che si è rafforzata a partire dagli anni Novanta, è stato il più lucido testimone della crisi di passaggio tra il XX e il XXI secolo. Una crisi profonda, radicata tra il crollo delle ideologie degli anni Settanta e la recessione economica del 2008. All’interno di questo mutamento epocale ha interpretato le molteplici emergenze, come il passaggio dal lavoro materiale a quello immateriale, le nuove tecnologie, la globalizzazione, la precarizzazione e le nuove povertà, fino al fenomeno delle grandi migrazioni e del terrorismo. Postmodernità e liquidità - Con l’idea della liquidità è riuscito a rappresentare l’essenza stessa del mondo in cui viviamo: la sua rapidità, permeabilità e mutevolezza. La solidità che aveva caratterizzato il mondo moderno, garantendo lo sviluppo economico attraverso la pace sociale e la certezza del diritto, si è venuta in parte vanificando a causa di quello stesso progresso che la modernità aveva sostenuto. Il pensiero di Bauman, pur non essendo sistematico, ha elaborato un’originale costruzione teorica, in grado di innovare le scienze sociali con una decisiva svolta metodologica. La sociologia, spesso ridotta a funzioni ancillari della politica e dell’industria, si è limitata in passato a osservare passivamente la società, offrendone un’immagine tanto realistica, quanto priva di ogni valutazione, secondo l’impostazione "avalutativa" di Max Weber. Bauman ha restituito alla società un ruolo attivo, mettendola in grado di agire efficacemente, rendendola protagonista del suo futuro. Questo secondo aspetto - pari, quanto a impatto nella coscienza collettiva, alla definizione di "società liquida" - modifica l’assetto tradizionale della sociologia: di una scienza che tendeva a prevedere il comportamento degli individui e, di conseguenza, anche a condizionarlo, di fatto rivelandosi uno strumento di controllo sociale. Bauman invece esclude ogni finalità di controllo: non più una sociologia per indirizzare, ma per acquisire le conoscenze adeguate e utilizzarle al meglio. Si invertono così i prìncipi stessi della sociologia tradizionale: l’uomo e la collettività non sono più soggetti passivi, finalizzati a un’indagine statistica, ma attori il cui sapere permette di fare scelte consapevoli. La sua è una sociologia libera da condizionamenti politici, ma con una qualità in più: la capacità di farsi critica senza pregiudicare l’obiettività. Ciò facendo, Bauman è riuscito, con insuperabile maestria, a raggiungere un duplice obiettivo: da una parte mantenere un livello di analisi di assoluta correttezza e affidabilità; dall’altra eliminare quegli aspetti di criticità che impediscono alla società attuale di migliorarsi. Il sociologo non è un capo o un trascinatore di folle, ma un imparziale osservatore della realtà, anche di quegli aspetti che non sono visibili in superficie o che sono stati occultati. La sua utilità universale è proprio quella di spiegare il presente. Per questo la sociologia formulata da Bauman è pervasa di umanità, si avvicina alla vita vissuta, alle esperienze individuali che, nel loro insieme - nella totalità dei piccoli e grandi eventi quotidiani che riguardano milioni di persone - assumono una valenza sociale. "L’insicurezza è per sempre" - Bauman ha attraversato il Novecento, vivendone le emergenze, le tragedie, le difficoltà. L’utopia marxista, poi l’oltraggio nazista e la Shoah, la militanza nell’esercito sovietico e l’epurazione dalla Polonia comunista, l’esperienza d’Israele e il rifiuto del sionismo, le delusioni e l’elaborazione di un pensiero critico che rifugge da ogni ideologia, dai pregiudizi e dall’omologazione, ne hanno fatto un testimone eccezionale del nostro tempo. In uno degli ultimi colloqui esprimeva la differenza tra il periodo della guerra e il presente: "Allora la gente era ottimista, vedeva la luce alla fine del tunnel. Le insicurezze erano temporanee, perché se la guerra fosse finita, tutto sarebbe andato a posto. Ora invece ci rendiamo conto che l’insicurezza è per sempre". Non sono parole di rassegnazione, ma un invito ad affrontare la realtà del presente, perché niente sarà più come prima. Nel consueto replicare a chi si preoccupava per lui, si coglie l’ultimo indizio di un carattere risoluto, con la pacatezza del gesto a sollevare l’inseparabile pipa: "Don’t worry! I had a long and interesting life!". Papa Francesco: "Il terrorismo si combatte con politiche sociali" di Carlo Marroni Il Sole 24 Ore, 10 gennaio 2017 Il mondo è dilaniato da guerre, percorso dal terrorismo di matrice fondamentalista, e occorrono politiche di profonda coesione sociale che cerchino di eliminare le cause del dilagare dell’estremismo in nome della religione. Politiche che evitino, quindi, la disgregazione della società, specie in Europa. Nel discorso annuale agli ambasciatori accreditati presso la Santa Sede (sono 182 i paesi che intrattengono relazioni diplomatiche) Papa Francesco affronta il complesso delle molte crisi nel mondo - alimentate in buona parte dal traffico mondiale delle armi -, l’emergenza permanente dei migranti e mette l’accento in particolare sulla "sciagura umanitaria" della Siria, per la quale torna a chiedere un negoziato serio, e sulla preoccupazione profonda per gli esperimenti nucleari in Corea. Religione a volte pretesto di violenza - Un discorso come da tradizione molto lungo e articolato, che racchiude la visione internazionale del Papa, che non è geopolitica nel senso tradizionale politico, ma è lo sguardo pastorale della sua Chiesa nel percorso della conversione pastorale. "Purtroppo, siamo consapevoli di come, ancor oggi, l’esperienza religiosa, anziché aprire agli altri, possa talvolta essere usata a pretesto di chiusure, emarginazioni e violenze. Mi riferisco particolarmente al terrorismo di matrice fondamentalista, che ha mietuto anche lo scorso anno numerose vittime in tutto il mondo: in Afghanistan, Bangladesh, Belgio, Burkina Faso, Egitto, Francia, Germania, Giordania, Iraq, Nigeria, Pakistan, Stati Uniti d’America, Tunisia e Turchia. Sono gesti vili, che usano i bambini per uccidere, come in Nigeria; prendono di mira chi prega, come nella Cattedrale copta del Cairo, chi viaggia o lavora, come a Bruxelles, chi passeggia per le vie della città, come a Nizza e a Berlino, o semplicemente chi festeggia l’arrivo del nuovo anno, come a Istanbul", dice Francesco, che ricorda i fatti sanguinosi degli ultimi anni. "Si tratta di una follia omicida che abusa del nome di Dio per disseminare morte, nel tentativo di affermare una volontà di dominio e di potere. Faccio perciò appello a tutte le autorità religiose perché siano unite nel ribadire con forza che non si può mai uccidere nel nome di Dio. Terrorismo frutto di grave miseria spirituale - Il terrorismo fondamentalista è frutto di una grave miseria spirituale, alla quale è sovente connessa anche una notevole povertà sociale. Esso potrà essere pienamente sconfitto solo con il comune contributo dei leader religiosi e di quelli politici. Ai primi spetta il compito di trasmettere quei valori religiosi che non ammettono contrapposizione fra il timore di Dio e l’amore per il prossimo. Ai secondi spetta garantire nello spazio pubblico il diritto alla libertà religiosa, riconoscendo il contributo positivo e costruttivo che essa esercita nell’edificazione della società civile, dove non possono essere percepite come contraddittorie l’appartenenza sociale, sancita dal principio di cittadinanza, e la dimensione spirituale della vita. A chi governa compete, inoltre, la responsabilità di evitare che si formino quelle condizioni che divengono terreno fertile per il dilagare dei fondamentalismi. Ciò richiede adeguate politiche sociali volte a combattere la povertà, che non possono prescindere da una sincera valorizzazione della famiglia, come luogo privilegiato della maturazione umana, e da cospicui investimenti in ambito educativo e culturale". "Servono politiche sociali di integrazione vera" - In questo quadro il Papa ribadisce il proprio convincimento "che ogni autorità politica non debba limitarsi a garantire la sicurezza dei propri cittadini - concetto che può facilmente ricondursi ad un semplice "quieto vivere" - ma sia chiamata anche a farsi vera promotrice e operatrice di pace". Quindi servono politiche sociali di integrazione vera, che escludano spinte centrifughe spesso fomentate da forze politiche alla ricerca di facili consensi. "Un approccio prudente da parte delle autorità pubbliche non comporta l’attuazione di politiche di chiusura verso i migranti, ma implica valutare con saggezza e lungimiranza fino a che punto il proprio Paese è in grado, senza ledere il bene comune dei cittadini, di offrire una vita decorosa ai migranti, specialmente a coloro che hanno effettivo bisogno di protezione. Soprattutto non si può ridurre la drammatica crisi attuale ad un semplice conteggio numerico. I migranti sono persone, con nomi, storie, famiglie e non potrà mai esserci vera pace finché esisterà anche un solo essere umano che viene violato nella propria identità personale e ridotto ad una mera cifra statistica o ad oggetto di interesse economico". "Tutti dovrebbero sentirsi costruttori e concorrenti al bene comune" - Per il Papa "il problema migratorio è una questione che non può lasciare alcuni paesi indifferenti, mentre altri sostengono l’onere umanitario, non di rado con notevoli sforzi e pesanti disagi, di far fronte ad un’emergenza che non sembra aver fine. Tutti dovrebbero sentirsi costruttori e concorrenti al bene comune internazionale, anche attraverso gesti concreti di umanità, che costituiscono fattori essenziali di quella pace e di quello sviluppo che intere nazioni e milioni di persone attendono ancora. Sono perciò grato ai tanti Paesi che con generosità accolgono quanti sono nel bisogno, a partire dai diversi Stati europei, specialmente l’Italia, la Germania, la Grecia e la Svezia". E aggiunge che gli stessi migranti non devono dimenticare che hanno il dovere di rispettare le leggi, la cultura e le tradizioni dei Paesi in cui sono accolti. Centrale il ruolo dell’Europa - In questo quadro è centrale il ruolo dell’Europa, dove non mancano le tensioni: "La disponibilità al dialogo è l’unica via per garantire la sicurezza e lo sviluppo del continente. Accolgo pertanto con favore le iniziative volte a favorire il processo di riunificazione di Cipro - proprio oggi riprendono i negoziati, mentre auspico che in Ucraina si prosegua con determinazione nella ricerca di soluzioni percorribili per la piena realizzazione degli impegni assunti dalle Parti e, soprattutto, si dia una pronta risposta alla situazione umanitaria, che rimane tuttora grave. L’Europa intera sta attraversando un momento decisivo della sua storia, nel quale è chiamata a ritrovare la propria identità. Ciò esige di riscoprire le proprie radici per poter plasmare il proprio futuro. Di fronte alle spinte disgregatrici, è quanto mai urgente aggiornare "l’idea di Europa" per dare alla luce un nuovo umanesimo basato sulle capacità di integrare, di dialogare e di generare, che hanno reso grande il cosiddetto Vecchio Continente". Per fermare i migranti resuscita il vecchio accordo con Gheddafi di Carlo Lania Il Manifesto, 10 gennaio 2017 Minniti a Tripoli: soldi e mezzi in cambio di uno stop ai flussi e controlli alla frontiera sud. Pur di fermare le partenze dei migranti dalla Libia l’Italia è pronta a resuscitare l’accordo siglato nel 2008 dal governo Berlusconi con Muhammar Gheddafi. Ad affermarlo sono state ieri fonti del governo di Tripoli al termine dell’incontro che il ministro degli Interni Marco Minniti ha avuto in Libia con il leader al Serraj e il ministro degli Esteri Taher Siyala. Il vertice è servito a mettere a punto accordi bilaterali per quanto riguarda il contrasto all’immigrazione e al terrorismo in cambio - se le notizie diffuse da Tripoli saranno confermate - di investimenti italiani in infrastrutture (all’epoca si parlò di 5 miliardi di euro, cifra che sembrerebbe confermata oggi) ma anche di soldi per organizzare voli che riportino i migranti nel paese di origine. Era stato lo stesso Minniti ad annunciare nei giorni scorsi l’intenzione di recarsi nel paese nordafricano per discutere con il premier Serraj come fare per mettere fine alle partenze dei barconi. "Dalla Libia arriva il 95% dei migranti ed è chiaro che il fenomeno va affrontato lì" aveva detto. Nessuno però si sarebbe immaginato che si sarebbe arrivati a rispolverare un accordo che aveva avuto come unico risultato quello di deviare quanti fuggono da guerre e miserie verso nuove rotte. Ora l’Italia sembra decisa a riprovarci. In particolare si chiede a Tripoli non solo di impedire ai barconi di prendere il mare, ma soprattutto di intensificare i controlli alle frontiere sud del paese impedendo gli ingressi dal Niger, paese che oggi rappresenta un vero crocevia per le centinaia di migliaia di disperati che cercano di raggiungere l’Europa Per questo, come era stato promesso a Gheddafi, l’Italia sarebbe pronta a fornire un sistema radar. Resta da vedere se il piano potrà attuarsi. Al momento Serraj controlla infatti solo una parte della Tripolitania e difficilmente sarà in grado di garantire l’impermeabilità del confini meridionali del paese. Si sta avviando invece verso la fine l’addestramento della Guardia costiera libica da parte della missione europea Sophia. Conclusa la prima fase, che prevedeva l’addestramento in mare di 78 ufficiali e sottufficiali libici, sta per avviarsi la seconda all’interno di basi situate in Italia, Grecia e Malta. Per arrivare entro primavera alla fase finale che consiste nella formazione dei libici a bordo delle navi che con le quali dovranno operare: otto motovedette già destinate nel 2011 dall’Itaia alla Libia e fermate dalla rivolta contro Gheddafi. Si tratta di pattugliatori italiani che sono stati adattati alle nuove esigenze e che l’Italia consegnerà nelle prossime settimane. Il Mediterraneo del resto sarà al centro delle azioni politiche e militari dei prossimi mesi. "È giunto il momento di imprimere una svolta alla missione europea contro gli scafisti", ha detto domenica la ministra della Difesa Roberta Pinotti. "È venuto il momento di passare a una fase due in Libia, sostenere la Guardia marina libica perché ci siano controlli in acque africane. Dobbiamo riuscire a farlo in acque libiche". Un annuncio a dir poco frettoloso. Il passaggio della missione europea dal controllo delle acque internazionali davanti alla Libia (che ha permesso fino a oggi il salvataggio di migliaia di migranti) alla cosiddetta fase "2Bravo" che prevede l’ingresso nelle acque territoriali libiche servono infatti una richiesta da parte del governo di Tripoli e una risoluzione dell’Onu che autorizzi l’intervento. Condizioni senza le quali ogni cosa è considerata come un atto di guerra. Che tutto questo avvenga in tempi relativamente brevi è però tutt’altro che scontato. A causa delle resistenze russe sono serviti mesi perché il Consiglio di sicurezza arrivasse ad approvare una risoluzione che autorizzasse la prima fase della missione europea. Difficile quindi che un intervento ancora più a ridosso delle coste libiche, con tutti i rischi che potrebbe comportare, riuscirà ad avere il via libera in tempi rapidi. Anche se, contrariamente al passato, quest’anno l’Italia fa parte del Consiglio di sicurezza come membro non permanente. Non a caso ieri il ministro degli Esteri Angelino Alfano, che oggi parteciperà a New York proprio a una riunione del Consiglio di sicurezza, ha ricordato come "nel Mediterraneo si giocano i destini del mondo". Obiettivo è sempre lo stesso: esternalizzare le frontiere europee, mettendo così fine agli sbarchi. "Come si sono spesi soldi per l’accordo con la Turchia per fermare i migranti - ha detto Alfano - occorre mettere a disposizione parecchi soldi europei per fermare le partenze mettendosi d’accordo con i paesi africani di origine e di transito". Italia-Libia, raggiunta l’intesa su migranti, petrolio e terrorismo di Francesco Grignetti La Stampa, 10 gennaio 2017 Patto per combattere scafisti, foreign fighter e contrabbando di idrocarburi. Minniti: cooperazione su ogni fronte. Oggi riapre l’ambasciata a Tripoli. Sarà un accordo in più punti, che ricalcherà quelli del 2008 e del 2012, il prossimo memorandum tra Italia e Libia che il nostro ministro dell’Interno, Marco Minniti, ha impostato ieri a Tripoli. Un accordo per combattere "insieme" gli scafisti come il terrorismo, e "tutti i traffici illeciti, dalla droga agli idrocarburi". In cambio, il governo italiano promette aiuti di ogni genere: mezzi navali e terrestri, strumenti, formazione, soldi. Minniti è volato a Tripoli, dove ha incontrato il premier al-Serraj e il ministro degli Esteri, Mohammed al-Taher Siyala, per un investimento politico a tutto tondo sul governo sponsorizzato dalle Nazioni Unite. La semplice presenza al suo fianco del nuovo ambasciatore designato, Giuseppe Perrone, che già stamani presenterà ufficialmente le credenziali e riaprirà l’ambasciata, la prima di un Paese occidentale, è stato un messaggio potente. "L’ambasciatore designato - spiegherà più tardi il ministro degli Esteri, Angelino Alfano - è uno dei migliori conoscitori della regione. La riapertura dell’ambasciata è un importantissimo segnale di amicizia ed è un segnale di forte fiducia nel processo di stabilizzazione di quel Paese". Anche Minniti è stato esplicito. "Sono venuto qui - ha scandito in conferenza stampa - innanzitutto per confermare il pieno impegno dell’Italia a supporto degli sforzi del Governo di Accordo Nazionale". L’accordo che il nostro governo si appresta a siglare con al-Serraj, secondo Minniti "si muoverà lungo 3 direttrici: stabilizzazione, che significa crescita economica sociale e civile; cooperazione antiterrorismo, per creare tutte le condizioni affinché non ci sia un ritorno di terroristi e foreign fighter verso i nostri territori ora che l’Isis è sulla difensiva in Siria e Iraq; contrasto comune ai trafficanti di uomini". Un pacchetto complesso per una lotta a tutto tondo innanzitutto all’immigrazione clandestina. Ben sapendo che una vera battaglia agli scafisti significa entrare in urto con potenti clan criminali. Il comunicato del Viminale è abbastanza sibillino al riguardo: "È stato espresso l’impegno congiunto a lottare contro l’immigrazione illegale e il traffico di esseri umani". A Tripoli, Minniti ha detto qualche parola in più: "Tenendo conto di accordi già fatti tra Italia e Libia, uno nel 2008, l’altro più recente del 2012, abbiamo comunemente deciso di raggiungere un accordo nei tempi più brevi possibili che consenta a Italia e Libia di combattere insieme gli scafisti". Trasparente è il riferimento agli accordi suggellati dai suoi predecessori, Bobo Maroni e Annamaria Cancellieri. Il primo prevedeva il pattugliamento misto delle acque libiche con respingimento di tutti i migranti intercettati e finanziamento dei centri di accoglienza: lo predispose il prefetto Alessandro Pansa, allora responsabile della polizia di frontiera, oggi capo dei nostri servizi segreti. Il secondo, mai attuato, rinviava alla "programmazione di attività in mare negli ambiti di rispettiva competenza nonché in acque internazionali, secondo quanto previsto dagli accordi bilaterali in materia e in conformità al diritto marittimo internazionale". Siccome è rimasta a mezza strada la missione navale europea "Sophia" che non ha mai avuto il permesso di entrare nelle acque libiche, è da vedersi se il via libera arriverà ora. "Obiettivo comune - ha spiegato Minniti - è stroncare il traffico di esseri umani. Per fare questo, c’è bisogno di un’attività di cooperazione a trecentosessanta gradi, a partire dalla messa in sicurezza dei confini, con particolare riferimento ai confini del Sud della Libia". L’Italia promette dunque aiuti ai libici per "sigillare" la frontiera meridionale della Libia, quella del Sahara, attraverso cui affluiscono centinaia di migliaia di disperati da ogni Paese africano, nonché rotta di jihadisti. Migranti. Tosi vuole ospitare il Cie a Verona. I penalisti: "È una scelta sbagliata" di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 10 gennaio 2017 Per le Camere Penali italiane i Centri di identificazione ed espulsione sono "luoghi disumani di vera e propria reclusione per chi non ha commesso reati". Nuova protesta ieri nel Centro di accoglienza di Cona: i nigeriani lamentano disparità di trattamento. Il sindaco di Verona Flavio Tosi appoggia la proposta del ministro dell’Interno Marco Minniti per la riapertura di nuovi Cie, i Centri di identificazione ed espulsione, e si è detto disponibile a ospitarne uno nella sua città. Lo scrive in un tweet avanzando anche delle polemiche nei confronti dei sui ex compagni di partito: "Maroni inventò i Cie, Zaia ora non li vuole: nel 2011 era a favore. Il segretario della Lega Lombarda li vuole, Salvini no: che coerenza". Tosi si è detto disponibile, purché poi le espulsioni vengano fatte veramente. La creazione di un Cie trova però la bocciatura della Camera penale veronese. Infatti i penalisti, con una nota, sottolineano che "la scelta è sbagliata perché ancora una volta il governo dimostra di non saper fare tesoro del conclamato fallimento dell’esperienza dei Cie, quale strumento necessario alla realizzazione delle espulsioni: ce ne sono 10 in Italia, ma solo 4 funzionanti". La nota degli avvocati veronesi si rifà al comunicato dell’Osservatorio carcere dell’Unione delle Camere penali italiane che boccia la proposta del ministro dell’Interno. "Non è la "risposta giusta" all’emergenza immigrazione - si legge nel comunicato - e ciò non solo perché, ancora una volta, il rimedio muove da spinte "di pancia" suscitate dal clamore di un evento che, ove solo si volesse andare oltre la drammaticità dei fatti, sarebbe troppo facile definire prevedibile attesa la circostanza che, nel centro di Cona, gli immigrati erano cresciuti in poco più di un anno da 50 a 1.400 ospiti". E proprio al Centro di prima accoglienza di Cona, teatro di proteste da parte di un gruppo di ivoriani per la morte per cause naturali di Sandrine Bakayoko, una giovane donna di 25 anni della Costa d’Avorio, ieri è montata un’altra protesta da parte dei profughi. Questa volta si tratta dei richiedenti asilo nigeriani. A spiegare le motivazioni del gesto è Simone Borile della cooperativa "Ecofficina" che gestisce il centro: "Il problema di cui parlano loro è un’ipotizzata disparità di trattamento, quelli che protestano dicono che agli altri migranti viene permesso molto di più solo perché il referente interno è ivoriano". Intanto l’Osservatorio carcere dell’Unione delle Camere penali italiane, svolgendo attività di monitoraggio e controllo, ha potuto verificare che i Cie sono "costosi, inefficaci e rappresentano luoghi disumani di vera e propria reclusione per persone che non hanno commesso alcun reato. Investire altre risorse - spiegano - nel collocare una struttura in ciascuna regione, significa amplifica- re le problematiche su tutto il territorio nazionale senza ottenere alcun risultato e perseverare nella violazione dei diritti fondamentali di coloro che vi sono ristretti". Le soluzioni, secondo i penalisti, quindi devono essere altre: "Si riduca al minimo il tempo in cui si valuta la posizione dell’immigrato (oggi la permanenza nei Cie è superiore a quanto previsto dalla legge), s’investa in risorse per ampliare il sistema di controllo dell’identità e della provenienza delle persone e non per costruire nuovi centri, inutilmente costosi e indegni per un paese civile. S’investa anche in una corretta informazione per avvicinare l’opinione pubblica a principi elementari di civiltà, affinché gli immigrati non siano considerati scarti della società". L’Osservatorio carcere dell’Unione delle camere penali conclude il suo comunicato raccontando un’iniziativa emblematica di alcuni detenuti: "Non è un caso che, in questi giorni di Natale, i ristretti nel carcere di Poggioreale hanno costruito il modellino di una nave, con a bordo la sacra famiglia che naviga verso la terraferma. Gesù, la Madonna e San Giuseppe che solcano il Mediterraneo, come migranti. Nell’opera anche un fiore rosso in mare, come simbolo del ricordo di tutti coloro che perdona la vita, cercando di scappare dalle guerre e dalla fame. Ma c’è anche una bandiera italiana, con cui i detenuti hanno voluto raffigurare il nostro Paese e la sua disponibilità di accoglienza" Tailandia: strappano bandiera, due giovani italiani arrestati. I genitori: "Siamo sconvolti" di Annalisa Grandi Corriere della Sera, 10 gennaio 2017 La notizia riportata dal "Bangkok Post". I due giovani, Ian e Tobias, di 18 e 20 anni, filmati mentre strappavano alcune bandiere thailandesi. Arrestati, rischiano fino a due anni di carcere. "Eravamo ubriachi" hanno detto in un video di scuse. Due italiani di 18 e 20 anni sono stati arrestati in Tailandia per aver strappato alcune bandiere. La notizia, inizialmente riportata dal sito del "Bangkok Post", è stata confermata all’Ansa da fonti della polizia thailandese. I due ragazzi, Ian Gerstgrasser e Tobias Gamper, originari di Naturno, paese della Val Venosta, in provincia di Bolzano, sono stati ripresi da una telecamera mentre strappano i vessilli nazionali a Krabi, tra le mete turistiche più frequentate del Paese. Sui social network il filmato che li ritrae di notte, per strada, mentre strappano alcune bandiere e ridono. Centinaia di migliaia di visualizzazioni, critiche e insulti da parte degli utenti thailandesi. E poi un altro video in cui i due, ripresi all’interno della stazione di polizia, chiedono scusa e spiegano che "in Italia la bandiera non è così importante". L’arresto e le scuse - Tutto, secondo quanto riporta il sito "Bangkok Post", è accaduto sabato mattina, intorno alle 3.30. Un filmato immortala i due giovani per strada, a Krabi, mentre si dirigono verso il loro hotel, il Soi Maharaj 2. A un certo punto uno si ferma, strappa una bandiera appesa al muro. E l’altro poco dopo fa lo stesso con altre quattro. Le telecamere di sorveglianza immortalano il loro gesto, il video viene postato su Facebook da un utente, Anake Saranath, ed è allora che la polizia rintraccia i due italiani e li ferma. "Non sapevamo che ci fosse una legge che protegge la bandiera - ha detto Tobias ai media locali, secondo quanto riferisce "Bangkok Post" -. Siamo molto dispiaciuti. Eravamo davvero ubriachi, amiamo i thailandesi e la loro cultura". Il filmato già dopo cinque ore aveva superato le 165mila visualizzazioni. Compariranno davanti al tribunale militare - Secondo la legge locale, il gesto di strappare il vessillo nazionale può essere punito con il carcere fino a due anni e una multa fino a 4mila Bath, poco più di 105 euro. Il caso è seguito dall’ambasciata italiana a Bangkok, che è in contatto con le famiglie dei due ragazzi, che compariranno davanti al tribunale militare di Surat Thani. La decisione del giudice è prevista per martedì. Le famiglie: "Siamo sconvolti" - "Non capisco come possa essere avvenuto" dice sconvolta la madre di Ian, il più giovane dei due arrestati. E non vuole commentare la vicenda nemmeno la mamma di Tobias. Le famiglie sono in stretto contatto con le ambasciate. "Voglio capire cosa posso fare per Ian" dice ancora la signora Gerstgrasser. Il giovane lavora in una giardineria a Laces, poco distante da Naturno, città dove risiedono entrambi gli arrestati: i titolari raccontano di non avere saputo che il giovane si trovasse all’estero. Entrambi i ragazzi sono conosciuti in paese, soprattutto Tobias, che ha una grande passione per il calcio e fa parte di una band musicale. Stati Uniti: meno detenuti con Obama di Maicol Mercuriali Italia Oggi, 10 gennaio 2017 Dai tempi della presidenza Carter per la prima volta nel 2015 è stata registrata la riduzione del 5%. Ma Donald Trump ha già detto che non chiuderà le prigioni gestite dai privati. Chissà che succederà nei prossimi anni alla popolazione carceraria americana. Durante l’amministrazione di Barack Obama, per la prima volta dai tempi di Jimmy Carter, il numero di detenuti nelle prigioni degli Stati Uniti è diminuito. Il presidente democratico si prepara a lasciare la Casa Bianca al repubblicano Donald Trump con circa 8 mila persone in meno dietro le sbarre, vale a dire il 5% in meno rispetto al 2009, e se il presidente eletto manterrà fede alle parole spese in campagna elettorale c’è da aspettarsi un cambio di rotta. Secondo di dati del Bureau of Justice elaborati dal Pew Research Center, dalla presidenza di Ronald Reagan in poi la popolazione carceraria sotto custodia federale è velocemente aumentata: durante gli otto anni di governo del quarantesimo presidente degli Stati Uniti d’America, successore di Carter, c’è stato un picco del 78% pari a 16.539 prigionieri con sentenza definitiva, sotto George Herbert Walker Bush del 39% (16.946 carcerati), poi ancora con Bill Clinton un aumento del 56% (38.769 carcerati), con G.W. Bush del 32 (36.784) e infine la leggera contrazione del 5% con Obama. I dati, come sottolinea il Pew Research Center, sono aggiornati alla fine del 2015, ma la stessa tendenza dovrebbe essere confermata anche per l’anno appena concluso. "È importante notare che i presidenti sono solo uno dei molti fattori che possono influenzare la dimensione della popolazione carceraria federale", fa notare il think tank statunitense. "I tassi di criminalità, le strategie delle forze dell’ordine e le tipologie di condanna possono giocare un ruolo altrettanto rilevante. I presidenti, poi, possono contribuire a impostare politiche federali apposite sulla giustizia e queste politiche possono influenzare la popolazione carceraria. Obama ha focalizzato la sua presidenza sulle questioni della giustizia, ha coordinato un’iniziativa del dipartimento di giustizia per avere pene più leggere per i condannati per reati inferiori". Dall’inizio degli anni Ottanta sino al 2013 la popolazione carceraria federale negli Usa ha avuto un incremento costante, di circa 5.900 carcerati all’anno, sfondando quota 219mila. Poi, negli ultimi anni, una leggera decrescita con il 2015 che si è chiuso con una popolazione carceraria di 205.723 detenuti. La scorsa estate Obama aveva annunciato di voler chiudere le prigioni private a seguito degli esiti delle ispezioni dei funzionari del dipartimento della giustizia, prigioni che ospitano circa il 12% della popolazione carceraria americana. Una decisione a cui Trump si era fermamente opposto. Non resta che attendere le mosse del presidente repubblicano per affrontare il fenomeno del sovraffollamento carcerario. Tunisia: perché i diritti dei detenuti sono importanti per prevenire la radicalizzazione? di Andrea Spinelli Barrile ibtimes.com, 10 gennaio 2017 "Bisogna mandare i condannati immigrati a scontare la pena nei loro Paesi. E per chi resta, come in Austria, lavoro obbligatorio". Con queste parole Matteo Salvini, segretario federale della Lega Nord, ha commentato l’ammissione che il primo ministro Paolo Gentiloni ha fatto qualche giorno fa parlando di radicalizzazione in Italia, quando ha dichiarato che "i percorsi di radicalizzazione si sviluppano soprattutto nelle carceri e sul web". Paradossalmente hanno ragione ed hanno torto entrambi. Hanno ragione, e noi di IBTimes Italia lo abbiamo scritto il 13 ottobre scorso, perché il carcere è davvero un luogo dimenticato nel quale chiunque può trasformarsi in un lupo solitario senza dare troppo nell’occhio, perché è importante far scontare le pene definitive - o parte di queste - nei Paesi di origine e perché il lavoro in carcere può veramente rappresentare una svolta rieducativa nel panorama sociale in Italia e in Europa. Un aspetto, e solo uno, dell’integrazione degli stranieri. I diritti negati ai detenuti, le condizioni di vita proibitive nella maggior parte delle carceri italiane, la promiscuità con la quale i detenuti vivono trascorrendo il 90 per cento del proprio tempo in cella senza lavorare né svolgere altre attività "rieducative" sono aspetti critici del sistema carcerario italiano. E non solo. Il carcere resta sempre lontano: di carcere non si parla mai, se non per invocarlo con la bava alla bocca, ma ciò non toglie che sia importante raccontarlo. È un mondo chiuso fortemente interconnesso con quello esterno, non fosse altro perché i detenuti hanno famiglia oltre che la speranza, un giorno, di uscire da lì: "mandare i condannati immigrati a scontare la pena nei loro Paesi", come ripete Salvini, non è sempre una buona idea se vogliamo guardare gli aspetti relativi alla sicurezza nazionale. Lunedì 2 gennaio Ghazi Jeribi, ministro della Giustizia della Tunisia, ha presentato un rapporto sulle condizioni delle carceri tunisine nell’anno 2015 lanciando un allarme che non ha avuto la risonanza che meritava: "Le prigioni tunisine soffrono di un sovraffollamento enorme […] sono ancora lontane dagli standard internazionali [che chiedono di garantire uno spazio pro capite di 4 metri quadri a prigioniero, nda]: in Tunisia la media è di 2 metri quadri a prigioniero". La Tunisia è il paese che più al mondo ha rifornito di combattenti le fila del gruppo Stato Islamico in Siria, in Iraq e in Libia. Molti di questi si sono radicalizzati in carcere e già nel 2014 un rapporto delle Nazioni Unite segnalava come il sovraffollamento e le condizioni di detenzione in Tunisia fossero un pericolo enorme per il paese africano - che continua a subire e sventare attentati e che vive uno stato d’emergenza permanente dalla strage del Bardo - e più in generale per tutto il bacino del Mediterraneo. In Tunisia sono detenute attualmente più di 20.000 persone (su 11 milioni di abitanti), 11.868 persone sono state arrestate nel 2016 - più della metà di loro per reati connessi al consumo di droga. I recidivi sono 9.200, 14.343 sono invece detenuti per la prima volta (2.680 in attesa di giudizio). Queste persone vivono in condizioni di vita oltre ogni immaginazione: in prigioni come quella di al-Qayrawan - la provincia nella quale vive la famiglia di Anis Amri, l’attentatore di Berlino ucciso a Milano - il sovraffollamento supera del 217 per cento la capacità della struttura, a Houareb siamo al 216 per cento e a Monastir al 192 per cento. Secondo il Ministero della Giustizia dei circa 20.000 residenti nelle galere della Tunisia quelli detenuti con l’accusa di estremismo sono 1.647 e di questi appena 183 sono stati giudicati da un tribunale. Inoltre, attualmente la promiscuità tra i detenuti sospettati di essere appartenenti a cellule islamiste, o più in generale reclusi per ragioni di radicalismo islamico, rischia di rappresentare una criticità enorme nelle conseguenze che questa promiscuità, unita alle condizioni di vita quasi impossibili, può avere sulla popolazione carceraria. Il ministro Jeribi ha annunciato in questo senso "nuovi standard" per la detenzione di questi soggetti, che saranno mescolati con i criminali comuni in una misura massima del 10 per cento. La definizione "criminale comune" in Tunisia è molto ampia: comprende, ad esempio, gli omosessuali, come anche i consumatori di cannabis e gli eroinomani. Soggetti, questi ultimi, fortemente inclini alla radicalizzazione perché viene promessa loro redenzione, o droga in quantità, qualora abbraccino la causa islamista. Secondo la narrazione fatta dal Ministero della Giustizia il problema del sovraffollamento carcerario nasce nel 2011, durante la primavera araba, quando diverse strutture detentive furono danneggiate durante le rivolte dei detenuti: il governo tunisino le sta restaurando, vuole aumentare la capacità delle strutture già esistenti ed entro il 2020 prevede di aumentare i letti di 7.265 unità, un terzo del totale dei carcerati detenuti oggi. Questo sovraffollamento è anche la ragione principale per la quale il Presidente della Repubblica di Tunisia Beji Caid Essebsi, il 2 dicembre scorso, ha detto che il suo paese non è disposto a riprendere indietro i detenuti tunisini arrestati in Europa e, tantomeno, ad arrestare i foreign fighters di ritorno: "Non li metteremo in prigione perché non abbiamo abbastanza spazio ma prenderemo le misure necessarie per neutralizzarli". Il 9 dicembre il Muftì della Repubblica di Tunisia spiegò che "i nostri giovani costretti ad arruolarsi tra le fila di Daesh dalla povertà e dalla disoccupazione vanno accettati quando tornano indietro, soprattutto se non hanno ucciso persone innocenti", il 13 il principale sindacato tunisino, l’Ugtt, ha proposto una "legge sul pentimento" per aiutare il reintegro nella società dei foreign fighters rientrati in patria. Dopo l’attacco a Berlino Angela Merkel ha telefonato al presidente tunisino, chiedendogli di accelerare il processo per il rimpatrio dei richiedenti asilo respinti e dei detenuti tunisini in Europa ma ricevendo un "no" di fatto da Essebsi. Pochi giorni prima di Natale Olfa Ayari, Presidente dell’Unione delle carceri, ha denunciato le "infiltrazioni terroristiche nelle carceri tunisine" e Russia Today ha descritto la Tunisia post-rivoluzionaria come "un incubatore di jihadisti". Il dibattito in Tunisia è accesissimo: fermare i foreign fighters di ritorno anche se non hanno commesso alcun reato in Tunisia? Identificarli e monitorarli? Molti sostengono che chi è tornato a casa è oggi una "bomba ad orologeria", editorialisti e commentatori chiedono che il governo impedisca ai foreign fighters di rinnovare il passaporto (e quindi di tornare a casa legalmente), il Fronte Popolare - partito politico della sinistra baathista - sostiene che i foreign fighters "dopo aver sfruttato la guerra civile in Siria vogliono fare contrabbando in Tunisia". Insomma, il dibattito pubblico sul tema è acceso tanto quanto lo è in Europa, con la differenza che la Tunisia vive sulla propria pelle e come un problema sociale quello della radicalizzazione. A gennaio dello scorso anno la Tunisia, in collaborazione con l’Ue, ha lanciato un progetto di riforma carceraria per rafforzare la capacità operativa ed istituzionale delle autorità carcerarie locali e per migliorare la riabilitazione dei detenuti. Al contrario però diversi paesi europei, come l’Italia o la Francia, al proprio interno faticano se non addirittura osteggiano una riforma del sistema penitenziario: gli attentati in Francia, da Cherlie Hebdo in poi, sono stati portati a termine sempre da persone radicalizzatesi in carcere e oggi in Italia sembra che la pena detentiva sia svincolata da ogni ipotesi rieducativa e anzi la vox populi tende a invocarla sempre più simbolicamente, per "dare l’esempio". La politica ha grandi responsabilità: in questo senso le istituzioni declinano la questione "sicurezza" come l’interpretazione di un diffuso sentimento di non-identificazione del cittadino nel detenuto, nel "pericolo", senza tuttavia accorgersi che il detenuto è un cittadino. Le soluzioni, insomma, non sono mai facili. Sono conseguenze delle analisi, che non sono mai semplici ma spesso troppo semplicistiche. Brasile. Il Presidente Temer: "vanno costruite subito più carceri" Reuters, 10 gennaio 2017 "È il primo passo da fare perché la situazione è drammatica", ha affermato il presidente. Di fronte alle ripetute sommosse seguite da stragi di detenuti avvenute nelle carceri brasiliane dall’inizio dell’anno, il presidente del Paese sudamericano, Michel Temer, ha ammesso la "necessità impellente di costruire nuovi penitenziari". "Le prigioni in sé non risolvono il problema, ma è il primo passo da fare perché la situazione è drammatica", ha aggiunto il capo di Stato. Dal 1° gennaio almeno 99 reclusi sono stati uccisi all’interno di case di pena brasiliane. Solo nello Stato di Amazonas (nord) si sono registrati 64 omicidi in tre differenti carceri. Di questi, ben 56 sono avvenute nella notte di Capodanno dentro il carcere Anisio Jobim di Manaus, divenuto così palcoscenico del peggior massacro di reclusi nella storia del Brasile dopo quello di Carandiru occorso nel 1992 (111 vittime). Drammatico anche il bilancio degli incidenti scoppiati venerdì scorso nel penitenziario di Boa Vista a Roraima (nord): 33 morti. Mentre a Paraiba (nord-est) altri due detenuti sono deceduti dopo una rissa. Svezia. Consiglio cristiano delle Chiese: assistenza spirituale in 46 istituti di pena agensir.it, 10 gennaio 2017 È cominciato con gennaio il mandato ufficiale di due anni per il coordinamento della cura spirituale dei detenuti che il Consiglio cristiano delle Chiese svedesi ha ricevuto in autunno dal Servizio svedese per le prigioni e la libertà vigilata, istituzione che fa parte integrante del sistema legale svedese. Sono circa 150 i sacerdoti, pastori, diaconi e assistenti pastorali a disposizione nelle 46 case circondariali del Paese. In ogni centro di detenzione esiste un Consiglio per la cura spirituale (Nav) che nomina un sacerdote della Chiesa di Svezia, un pastore di una delle chiese libere, un prete cattolico, un sacerdote ortodosso, ne cura la formazione e ne coordina il servizio. L’imam è nominato dal consiglio islamico danese. I diversi Nav fanno capo a un Comitato direttivo nel quadro del Consiglio delle Chiese. Se fino allo scorso anno i Nav già lavoravano intensamente nelle prigioni, questo incarico è "un atto di fiducia posto nel consiglio delle Chiese", ha dichiarato la segretaria generale Karin Wiborn. Tra i compiti dei cappellani è la conversazione personale, l’organizzazione di servizi religiosi e iniziative, la responsabilità dei volontari. I detenuti che lo desiderano, ovunque siano, possono fare richiesta di vivere una esperienza di ritiro spirituale presso il carcere maschile di Kumla e il penitenziario femminile a Frövi, per "riscoprire se stessi attraverso il silenzio e la contemplazione". "Il ritiro - viene specificato - non è un corso di fede cristiana". Pakistan. Scomparso attivista dei diritti umani di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 10 gennaio 2017 Salman Haider, professore universitario ed attivista per i diritti umani pachistano, è scomparso da venerdì vicino ad Islamabad e la famiglia teme che sia stato rapito da qualche gruppo militante talebano di cui lui era critico. La moglie ha denunciato la sua scomparsa al commissariato di Lohi Bher precisando di avere ricevuto venerdì un sms in cui Haider le chiedeva di riportare a casa l’automobile perché lui sarebbe rientrato in altro modo. Dopodiché famigliari ed amici hanno perso le sue tracce. Professore alla Università femminile Fatima Jinnah di Rawalpindi, il professor Haider è un attivista per i diritti umani che in passato ha lavorato come giornalista ed anche come drammaturgo. È conosciuto per le sue posizioni critiche nei confronti dei militanti talebani e degli altri gruppi estremisti pachistani. In suo appoggio lunedì 9 gennaio un gruppo di parlamentari del Partito del popolo del Pakistan (Ppp) ha firmato una petizione in cui si attira l’attenzione del ministero dell’Interno sul fatto che la scomparsa di Haider, "poeta, attivista sociale ed accademico, ha suscitato grave preoccupazione nell’opinione pubblica".