"Non esistono mostri, ma persone che fanno cose mostruose". Intervista a Ornella Favero di Luca Andreazza Il Dolomiti, 9 febbraio 2017 "Non esistono mostri, ma persone che fanno cose mostruose", si chiude così l’intervista di Ornella Favero per il Dolomiti. Riflettere sulle regole, su colpa ed espiazione, su percorsi di recupero e reinserimento: giustizia e carcere. Ornella Favero, direttrice della rivista "Ristretti Orizzonti" del carcere Due Palazzi di Padova e presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia, sarà al Liceo Rosmini di Trento giovedì 9 febbraio. Questa giornata rientra nell’ambito del progetto "Storie dal carcere per crescere insieme. Dalla viva voce", promosso dall’associazione Il Gioco degli Specchi con il contributo della Fondazione Cassa Rurale di Trento. La redazione della rivista è composta da persone detenute nel carcere di Padova anche nelle sezioni di alta sicurezza. Nelle riunioni quotidiane i redattori, sotto l’esperta guida di Ornella Favero, si confrontano sui loro vissuti per riprogettare la loro esistenza, raccolgono e divulgano attraverso una newsletter gli articoli nazionali di argomento carcerario, organizzano convegni di riflessione sulla questione carceraria e, più in generale, della giustizia in Italia. I giovani e i detenuti si confrontano in un dialogo spesso molto franco in cui trovano spazio i sentimenti più contrastanti che vanno dalla rabbia legittima di chi ha subito la violenza di un reato e dal disprezzo per i colpevoli, alla compassione verso le vittime e al diritto di redenzione sociale dei condannati, grazie a percorsi di reinserimento che prevedano magari anche momenti di riconciliazione. L’incontro prevede anche un corso di formazione in vista della visita al cercare di Padova. Ogni anno incontra migliaia di studenti. I detenuti raccontano la loro storia a partire dall’assunzione di responsabilità del reato commesso. Si parla di droga, furto e rapina, di omicidi passionali o legati alla criminalità organizzata. Un confronto per creare una nuova cultura... Questo percorso è iniziato 13 anni fa, i detenuti oppure ex detenuti raccontano le loro storie personali non per soddisfare le curiosità dei ragazzi, ma per far capire ai più giovani come si può giungere al reato. Un gesto che può capitare a tutti in prima persona oppure ai propri famigliari. Non sempre il reato è una scelta oppure una conseguenza del contesto sociale. È necessario creare quella consapevolezza che il reato può essere il frutto di piccole scelte sbagliate, un lento scivolamento: sono tanti i comportamenti a rischio, come mettersi alla guida dopo aver bevuto oppure l’assunzione di droghe leggere. Il 17 dicembre scorso Luca Soricelli si toglieva la vita nel carcere di Spini. Rinchiuso dopo aver dato fuoco al distributore. seppur noto ai servizi psichiatrici, è stato valutato compatibile con una struttura carceraria. Perché succede? Il disagio e la marginalità è meglio nasconderla e non vederla e per questo il carcere viene considerato, a torto, la soluzione di tutti i problemi sociali, invece di intervenire inviando queste persone in Comunità oppure seguirle dal punto di vista psichiatrico. Uomini e donne più fragili non reggono e questi gesti accadono. Non bisogna lasciarsi travolgere dalle campagne di odio e vendetta: trovare e punire il colpevole a tutti i costi. La realtà è sempre più complessa di quando invece si tende sempre a semplificare. Un esempio è quanto successo a Vasto: il ragazzo ha evidentemente commesso un errore, ma non è scappato, si è fermato a prestare soccorso. I giudizi, l’opinione pubblica, il grido contro l’impunità e la caccia al mostro hanno fatto il resto. Un tema sempre all’ordine del giorno è il sovraffollamento delle carceri e il personale carcerario sottodimensionato. Tutto si esaspera, non mancano tensioni e qualche volte le guardie subiscono violenza... È scarso soprattutto il personale nel campo degli educatori e dei psicologi. Il disagio si acuisce e le risorse per fornire quel sostegno alle persone che hanno bisogno di aiuto è assolutamente insufficiente. Capita però anche il contrario e la violenza diventa un meccanismo di rieducazione... Ogni tanto succede, ma sono semplici episodi isolati che però producono tanto rumore. Negli ultimi anni sono stati introdotti importanti sistemi di trasparenza. Una volta non si poteva sapere cosa sarebbe accaduto all’interno del carcere, oggi invece il volontariato e il Garante dei detenuti sono un punto di riferimento per il detenuto e per la famiglia. La persona detenuta ha maggiori garanzie e sicurezze. Il Garante ha fatto visita anche al carcere di Trento, redigendo un rapporto molto critico e non tenero, segno che quanto messo in campo per migliorare la situazione carceraria dei detenuti e del personale funziona e la strada intrapresa è quella giusta. Un altro problema è quello dei detenuti in attesa di giudizio... Una criticità del sistema italiano. L’Italia ha il rapporto più alto fra detenuti in attesa di giudizio e colpevoli. Se c’è il pericolo di fuga è un discorso, ma questo aspetto andrebbe tenuto maggiormente sotto controllo e soprattutto ridotto. A mio avviso la carcerazione preventiva è il risultato della pressione mediatica che cerca un colpevole ad ogni costo. Si è passati dalla presunzione di innocenza alla presunzione di colpevolezza. Un telefilm americano potrebbe spiegare meglio la corretta procedura e la distorsione del giustizialismo italiano. L’attentato di Berlino ha fatto emergere l’esistenza del problema della radicalizzazione nelle carceri... Questo è un alibi, anzi è urgente attivare un percorso di apertura e garanzia. Se un detenuto sembra attratto dalla radicalizzazione e si agisce isolandolo, carcerandolo nelle sezioni speciali e togliendogli i diritti l’approdo diventa inevitabile. Nelle carceri esiste l’etica interna? Esistono le sezioni protette, dove vengono incarcerate le persone che si sono macchiati di crimini sessuali e i collaboratori di giustizia. La società anche in questo caso esercita una pressione sui carcerati per atti sessuali e c’è la condivisione dell’idea che queste persone debbano pagare un prezzo più alto. Anche qui sarebbe necessario fermarsi un attimo e analizzare le diverse storie: si tratta in molti casi di una patologia, chi ha subito abusi in giovane età spesso tende a ripetere gli stessi gesti e allora forse la soluzione ideale sarebbe curare il detenuto in strutture psichiatriche. Esiste una scarsa cultura alla quale bisogna prestare attenzione: i mostri non esistono, esistono persone che fanno cose mostruose. Segreto investigativo. I magistrati in rivolta: "inchieste a rischio" di Liana Milella La Repubblica, 9 febbraio 2017 Nel mirino l’obbligo per le polizie di informare i capi su tutte le indagini. Giù le mani dal segreto investigativo. Che, codici alla mano, è nelle mani della sola magistratura. Arriva da Torino e dai procuratori di tutto il Piemonte un netto "altolà" alle polizie e alla possibilità di trasmettere ai capi - e quindi, inevitabilmente, anche ai responsabili politici - i rapporti con le notizie di reato. La circolare del procuratore di Torino Armando Spataro viene condivisa da tutti i colleghi. Sarà il capo dell’ufficio a chiedere formalmente il rispetto del segreto. Le polizie potranno controbattere, ma qualora dovessero insistere in quello che Spataro e i suoi colleghi considerano "un vulnus", un’aperta violazione del segreto delle indagini, non resterebbe che la via di un conflitto di attribuzione davanti alla Corte costituzionale. Che succede tra toghe e investigatori? Tutto nasce dal decreto legislativo del 19 agosto 2016 sulle polizie che, all’ultimo articolo, nelle "disposizioni finali e transitorie", posiziona una "bomba", l’obbligo di trasmettere alla scala gerarchica i rapporti inviati alla magistratura "indipendentemente dagli obblighi prescritti dalle norme del codice di procedura penale". Giusto quelli che mettono in capo al solo pm il coordinamento delle indagini. Una norma "singolare" che da subito crea grande allarme nella magistratura. Il capo della polizia Franco Gabrielli, a dicembre, emana una circolare in cui cerca di limitare i danni e insite sul solo coordinamento, ma questo non basta alle toghe. Preoccupate dalle scontate conseguenze del decreto di agosto: un’indagine delicata che riguarda esponenti politici potrebbe immediatamente finire sul tavolo del ministro, risalendo per la scala gerarchica. A Torino si muove Spataro. Discute con i suoi pm. Scrive una circolare in cui si paventa "il rischio di compromettere il segreto investigativo" e in cui si ribadisce che "il coordinamento è esercitato in via esclusiva dal pubblico ministero". Se, violando queste regole, la polizia trasmette notizie viola le regole e danneggia e le indagini. Per questo i singoli pm dovranno segnalare al capo dell’ufficio le notizie da tenere rigorosamente riservate, il capo lo comunicherà alla polizia che potrà opporre le sue ragioni. Ma qualora dovesse insistere nella trasmissione dei rapporti non resterebbe per i pm che la via della Consulta. Una linea motivata e netta. Pienamente condivisa dal procuratore generale di Torino Francesco Saluzzo che il primo febbraio ha riunito i procuratori del Piemonte. Tutti d’accordo nel niet a una norma che, già a dicembre, Spataro non aveva esitato a definire viziata "da profili di incostituzionalità" per il contrasto con le altre norme del codice. La battaglia dei magistrati piemontesi contro il decreto di agosto è destinata a "camminare" verso Roma. Il pg Saluzzo si sta preparando a scrivere al ministro della Giustizia Andrea Orlando per segnalare l’anomalia di una norma che rischia di danneggiare profondamente il segreto di indagine e quindi le indagini stesse. Pur interpretato in chiave soft da Gabrielli, il comma 5 dell’articolo 18 apre un varco incomprensibile sulle regole condivise del segreto investigativo. Disapplicare le norme sulla prescrizione: la proposta indecente della Corte Europea di Vincenzo Vitale Il Dubbio, 9 febbraio 2017 Il recente conflitto tra la Corte costituzionale italiana e la Corte di Giustizia europea in materia di prescrizione non rappresenta soltanto una delle ultime schermaglie procedurali e burocratiche fra Roma e l’Europa, ma segna in modo preciso una sorta di spartiacque culturale e giuridico che, oggi, sembra invalicabile. La Consulta, infatti, ha emesso un provvedimento con il quale, rimettendo la questione alla Corte di Giustizia, ha revocato in dubbio che gli organismi comunitari godano della legittimazione necessaria per chiedere ed ottenere da uno Stato membro che esso adegui la propria legislazione di carattere penale - soprattutto quella dettata in ambito garantistico come la normativa sulla prescrizione - a principi diversi e dettati da organi europei in senso esattamente contrario: vale a dire anti-garantistico. Insomma, la Corte costituzionale ritiene in modo sacrosanto che dal momento che la prescrizione dei reati - anche di quelli dovuti alle frodi Iva in sede europea - è sottoposta, come non potrebbe non essere, al principio di legalità, è del tutto illegittimo ciò che assurdamente la Corte Europea chiede di fare: vale a dire, che i giudici italiani "disapplichino" le norme interne sulla prescrizione in ossequio al richiamo europeo. Davvero, non ci si sorprende ormai più di nulla! Siano giunti anche a questo, cioè alla richiesta operata da una Corte internazionale di disapplicazione della legge interna. Bisognerebbe allora spiegare a codesti Soloni del diritto che dall’alto scanno europeo pretendono di dettar legge, che l’istituto della disapplicazione della legge penale in Italia non esiste, come non esiste in nessun altro Stato degno di questo nome. Non solo. Se i giudici intendessero disapplicare una legge interna dello Stato, commetterebbero un illecito penalmente rilevante, in quanto nessuno, neppure il giudice, è legittimato a far finta di nulla, omettendo di dar corso a quanto dalla legge voluto e stabilito. E ciò evidentemente anche in tema di prescrizione. L’unico caso legittimo di disapplicazione è quello a cui è chiamato il giudice dello Stato nell’ipotesi in cui per risolvere una determinata controversia sia necessario preventivamente conoscere della legittimità di un atto amministrativo che ne costituisca il presupposto: in questa ipotesi - e soltanto in questa ipotesi - il giudice, se ritenga che quel determinato atto sia illegittimo, è autorizzato a disapplicarlo e a risolvere la controversia davanti a lui pendente. Ma anche in questa ipotesi, la disapplicazione avrà un effetto limitato a quella singola controversia, non estendendosi agli altri casi analoghi e neppure investendo la validità dell’atto disapplicato in quanto tale. E la Corte Europea vorrebbe consentire ai giudici italiani una cosa del genere in tema di prescrizione, che è istituto di diritto penale sostanziale? Si tratterebbe di una gravissima ed inconcepibile ferita inferta all’ordinamento costituzionale, in quanto il singolo giudice diverrebbe arbitro assoluto della applicazione o della disapplicazione della legge penale, il che, in uno Stato di diritto, è inammissibile. E qui come non mai - come ben sapeva Hegel - il fine non giustifica i mezzi: li specifica. E la Consulta, sapendolo, non può che respingerli Basta intercettazioni "a strascico". Parola di giudice di Renato Farina Libero, 9 febbraio 2017 Il capo dei Gip di Bologna: "non si possono fare le intercettazioni per fini esplorativi". Intercettazioni? No, grazie!. È accaduto a Bologna. Il gip, con meno colorite parole, ha bloccato i pm e mandato al diavolo le loro pretese invasive in nome del codice e del diritto, oltre che della civiltà giuridica. I pubblici ministeri si sono infuriati, ma non hanno piegato il giudice per le indagini preliminari, dottor Letizio Magliaro, che ha insistito nel vietare alla Procura di carpire conversazioni telefoniche di sei indagati su sette perché, in mancanza di "gravi indizi", queste tecniche investigative avrebbero funzionato come reti a strascico, penetrando nella vita della gente senza sufficienti motivi. Scrive, in linguaggio asettico, che le intercettazioni non possono avere "carattere meramente esplorativo". Non è una stranezza, ma codice di procedura penale. E una notizia che fa sobbalzare gioiosamente il cuore dei garantisti di qualsiasi religione, sesso, etnia e opinione politica. Ma perché ci stupisce? Perché quando ci sono di mezzo appalti pubblici, e in genere si lambisce la politica e i suoi intrecci con gli appalti, una retata telefonica non si nega mai. Ora apprendiamo che non solo in teoria, quella la conoscevamo, ma anche nella pratica ci sono dei limiti di pietra e non di carta velina. Non crediamo che questo tipo di decisioni sia un favore ai delinquenti, ma un onore reso alla giustizia e alla serenità della gran massa di cittadini che si sente esposta alla penetrazione di organi dello Stato nella propria intimità con motivi che somigliano spesso a pretesti. Dunque ottimo. Il problema è che quella di Bologna pare proprio un’eccezione. Facendo così girare le pale (con una elle) del sospetto. E costringe a rilevare lo strano doppiopesismo della magistratura, che - quando c’è di mezzo una città rossa, con amministrazione rossa e relative coop in tinta - applica regole meravigliose, di alta scuola giuridica da Stato di diritto. Che esista un codice regionale a nostra insaputa? Una guida Monaci con le aree geografiche e politiche dove funzionano certe salvaguardie e altre dove invece il cannone dell’accusa può tirare ad alzo zero con il consenso sicuro del gip? Ci piacerebbe che si ponessero sul tema qualche domanda anche i magistrati, magari fornendo qualche risposta. Ottimo argomento anche per il Csm, che dovrebbe porsi il problema di questo regionalismo giudiziario; o per il Parlamento, dove la giustizia è sempre accantonata, anzi seppellita per timore di rivalse dell’ordine in toga contro il potere legislativo ed esecutivo. Non è questione di non essere mai contenti, e di eccepire anche quella volta che la magistratura si comporta come in America o Gran Bretagna, ma vorremmo - come predicato dalla Corte europea di Strasburgo - che ci fosse una costanza di criteri e di interpretazioni onde non far perdere credibilità alla giustizia e confondere i cittadini. Il caso non è uscito finora dalle pagine bolognesi del Resto del Carlino, dove ha scovato la notizia Gilberto Dondi. Il reato è di quelli che destano allarme sociale (associazione a delinquere per turbativa d’asta e abuso d’ufficio) e le cifre in ballo sono pesanti: 157 milioni. Si tratta dei servizi di "Global Service" (pulizia, cura degli impianti eccetera) di tutto il comune di Bologna per svariati anni. Un boccone enorme. La procura di Torino passa un’intercettazione a quella di Bologna, da cui si evince che quella gara è stata addomesticata. Gente grossa è coinvolta, e non facciamo nomi visto che sono stati prosciolti. La Procura infatti propone l’archiviazione per tutti; però, invece di dare la colpa a se stessa per il fiasco, accusa il giudice di aver fatto naufragare l’inchiesta "per il diniego in più occasioni opposto all’attività di intercettazione". Al che le risposte di Magliaro sono quelle di cui sopra, e proprio nella sentenza con cui conferma l’archiviazione: mancavano gravi indizi e si sarebbe usato uno strumento invasivo per esplorare, e non si fa. Il capo dei gip di Bologna, Grazia Nart, ribadisce il concetto in un’intervista. Dice: "Non si possono fare le intercettazioni per fini esplorativi. Perché se no si potrebbe mettere sotto intercettazione il mondo intero. I giudici di questo ufficio sono scrupolosi e le concedono solo quando devono essere date. Se in altri posti (i Gip) sono di manica più larga io questo non lo so". Ma lo sanno tutti gli italiani, specie quelli che abitano dalle parti di Arcore. Se fossimo in un Paese serio, con una stampa meno asservita e con un Parlamento meno flaccido e impaurito, questo garantismo a tinte alterne dovrebbe mobilitare inchieste, e indurre verifiche sul campo da parte di Csm e ministro Guardasigilli sull’applicazione a chiazze di colore di ciò che dovrebbe valere per tutti. "Democrazia in pericolo", i giovani avvocati in rivolta contro Davigo di Orlando Sacchelli Il Giornale, 9 febbraio 2017 Appello dell’Associazione Italiana Giovani Avvocati alle istituzioni: stop alla deriva giustizialista. Nel corso degli anni Piercamillo Davigo ha rilasciato alcune dichiarazioni che denotano il suo modo di concepire la giustizia. Vediamone alcune: "Non esistono innocenti, ma solo colpevoli non ancora scoperti"; "Se la giustizia perde di severità ed efficienza è a causa dell’elevato numero di avvocati"; "L’errore giudiziario non esiste: sono i testimoni che, mentendo, traggono in inganno il giudice. Il giudice non sbaglia"; "Non esistono nemmeno le ingiuste detenzioni: la colpa è del nostro ordinamento che non consente l’utilizzabilità nel dibattimento delle dichiarazioni assunte nella fase delle indagini preliminari". Ovviamente ciascuna frase va contestualizzata, perché estrapolata dal discorso in cui è stata pronunciata può avere un significato diverso da quello voluto. Però, si sa, le parole pesano. Specie se a pronunciarle è un magistrato. E il crescente attivismo mediatico di Davigo, in qualità di presidente dell’Associazione nazionale magistrati, non poteva di certo passare inosservato. E infatti provoca le proteste dei legali, controparti naturali dei pubblici ministeri. "Il crescendo delle esternazioni del dottor Davigo - dichiara l’avvocato Michele Vaira, presidente dell’Aiga (Associazione Italiana Giovani Avvocati) - inizialmente derubricate dalla maggior parte degli osservatori a mere provocazioni retoriche di un singolo, sebbene autorevole, esponente della magistratura, comincia a preoccupare". Cerchiamo di capirne di più. "Rese in rappresentanza del 90% dei magistrati italiani osserva Vaira - mettono in discussione non solo i principali punti fermi segnati in secoli di progresso giuridico, ma le stesse fondamenta della nostra architettura costituzionale e delle più importanti convenzioni internazionali". In altre parole sono a rischio "la presunzione di innocenza, il diritto di (e alla) difesa e il contraddittorio nella formazione della prova". Preoccupa inoltre un altro aspetto. "Da quando Davigo ha assunto la presidenza dell’Anm denuncia Vaira - non una voce di dissenso si è levata da parte di alcuna componente dell’ordinamento giudiziario". Vuol dire che le tesi di Davigo coincidono con la visione che la magistratura italiana ha del processo e dei diritti fondamentali della persona? "Se così fosse - puntualizza il presidente dell’Aiga - saremmo in presenza di una vera e propria emergenza democratica". Una cosa è certa: le affermazioni di Davigo suscitano quasi sempre un notevole clamore mediatico, alimentato dalla forte esposizione del presidente di Anm sugli organi di stampa. Ciò per Vaira comporta un rischio enorme: "Che le stesse contribuiscano a formare un’opinione pubblica insensibile al rispetto dei fondamentali diritti della persona umana". E visto che Davigo ricopre anche la carica di presidente di sezione della Corte di cassazione, osserva Vaira, ciò "contribuisce ad aumentare lo sconcerto e la preoccupazione per le sue argomentazioni". Il quadro è indubbiamente allarmante. I giovani avvocati sollecitano le massime istituzioni politiche (nella persona del ministro della Giustizia), giudiziarie (il vice presidente del Csm) e forensi (presidente del Consiglio nazionale forense) ad una "immediata ed inequivoca presa di posizione, con l’obiettivo di porre un argine (prima di tutto culturale) alla deriva giustizialista insita nella teorizzazione da parte del presidente dell’Anm di principi in contrasto con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo e con la Costituzione della Repubblica italiana". Le istituzioni chiamate in causa dai giovani avvocati interverranno, in qualche modo, per rispondere a questa grave denuncia? Flop al convegno e fiction di successo, i paradossi di Mani pulite di Luca Mastrantonio Corriere della Sera, 9 febbraio 2017 Se ci fossero stati gli attori Stefano Accorsi e Miriam Leone, sarebbe andata diversamente. Non ci sarebbe stato quel vuoto nell’Aula magna del Palazzo di Giustizia, martedì scorso, dove si celebravano i 25 anni di Mani pulite. Un vuoto sorprendente, perché è figlia naturale di quella stagione la forza parlamentare più dirompente oggi, il Movimento 5 Stelle, che grida: "Fuori i corrotti, dentro gli onesti!". Onesti fino a prova contraria, come suggeriscono non tanto i problemi attuali dei Cinque Stelle quanto gli epiloghi giudiziari dei precursori del giustizialismo entrista: An, Lega e Italia dei Valori... Per questo suona un po’ fantapolitica la spiegazione che Antonio Di Pietro, al Fatto Quotidiano, ha dato della platea semideserta: ai tempi di Mani pulite, dice, i corrotti venivano considerati ladri, oggi non è così. Dal canto suo "Il Giornale", che ha festeggiato il flop pubblicando a doppia pagina un discorso di Bettino Craxi, sostiene che l’insuccesso è dovuto alla matrice grillina del convegno, dove non è stato dato spazio agli "sconfitti". Curioso. La narrazione di Mani pulite, per altri versi, è stata un successo clamoroso con 1992, la serie ideata da Accorsi e prodotta da Wildside per Sky, di cui sono già stati annunciati i sequel, 1993 e 1994 (i capitoli sulle stragi di mafia e sulla discesa in campo di Berlusconi). Il paradosso, però, è utile a stanare un fraintendimento che riguarda le fiction, retaggio forse della vocazione cattolica e comunista a educare il popolo: si crede che le fiction a carattere sociale o sfondo storico possano sensibilizzare l’opinione pubblica su un tema specifico; invece si tratta di intrattenimento puro, e da un grande risultato di audience non ne consegue per forza la formazione di una coscienza. E poi: la fiction 1992 è un racconto polifonico che si ispira liberamente a fatti realmente caduti, con tutti i vantaggi di quel "liberamente" ("Quanto sesso... magari!" commentò Di Pietro); mentre su cosa sia realmente accaduto durante e dopo Tangentopoli gli italiani sono ancora divisi. Nordio va in pensione. I 40 anni in magistratura del pm controcorrente Di Andrea Pasqualetto Corriere della Sera, 9 febbraio 2017 Ha chiuso la quarantennale carriera come l’aveva iniziata, con una garbata puntura controcorrente: "Non è che ci vogliono affossare: vedo solo incapacità di comprendere i problemi della giustizia e sostanziale indifferenza". Parole di Carlo Nordio all’indirizzo del legislatore, colpevole di non aver esteso la proroga ai pensionamenti dei magistrati "togliendo risorse a chi ne ha bisogno, senza che ci sia un reale risparmio". Al di là dell’uscita in agrodolce, resta il simbolo. Nordio se ne va a settant’anni da procuratore reggente di Venezia ma di lui rimane soprattutto il ruolo di pm, in antitesi a quello di Antonio Di Pietro e del suo pool di rito ambrosiano. Mentre Mani Pulite muoveva contro il berlusconismo, lui tentava l’assalto a Botteghe oscure e alle Coop rosse che, per reazione, l’hanno ribattezzato "toga azzurra". Liberale, illuminista scettico e autoironico, autore di vari saggi, il trevigiano Nordio ha condotto importanti inchieste, dai tempi della colonna veneta delle Brigate Rosse a quelli recenti della corruzione del Mose, seguita da procuratore aggiunto. In mezzo ci sono i suoi tentativi di dare all’Italia un nuovo codice penale, più semplice e sfrondato dai mille commi. Ci ha provato da presidente della Commissione per la riforma del codice penale. Ma è stata un’operazione fallimentare perché la grande riforma che sognava non è mai arrivata e il suo codice è sempre rimasto chiuso in qualche cassetto parlamentare. Nessuna delusione: "Il concetto di giustizia si afferma solo nel calvario delle sue sconfitte", è uno dei motti di Nordio 41-bis, legittimo il no a libri e giornali di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 9 febbraio 2017 Legittima la norma che consente al Dap di vietare ai detenuti sottoposti al regime del 41-bis di ricevere libri e giornali dall’esterno. La Corte costituzionale ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 41-bis, comma 2-quater, lettera a) e lettera c), della legge 354/1975. L’articolo - si legge nella nota della Corte - consente in particolare all’amministrazione penitenziaria, in base a circolari ministeriali del Dap "di adottare, tra le misure di elevata sicurezza interna ed esterna volte a prevenire contatti del detenuto con l’organizzazione criminale di appartenenza, il divieto di ricevere dall’esterno e di spedire all’esterno libri e riviste di stampa". Il giudice delle leggi (relatore Franco Modugno) si è espresso su una questione sollevata dal magistrato di sorveglianza di Spoleto, che aveva raccolto l’appello di un detenuto sottoposto al cosiddetto "carcere duro". Secondo il giudice remittente l’articolo non sarebbe in linea con la Carta nella parte in cui fa un generico riferimento alla possibilità di limitare gli oggetti ricevibili. In particolare nell’ordinanza si ipotizza il contrasto dell’articolo 41-bis con gli articoli 15, 21, 33, 34 e 117 della Costituzione. L’articolo 15 sarebbe violato, perché la norma presidia con riserve di legge e di giurisprudenza la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione senza che, secondo la dottrina conforme, si possa fare differenza sui mezzi e le forme adoperate. Dunque la tutela riguarderebbe anche i libri e le riviste inviate per lettera o con un pacco. L’autorità giudiziaria potrebbe contemperare l’esigenza di sicurezza con i diritti costituzionalmente tutelati, scegliendo tra varie misure, tra cui il visto di censura che consentirebbe di trattenere gli scritti pericolosi. L’altro possibile contrasto riguarda l’articolo 21 per la compressione incongrua e non proporzionata dell’esercizio del diritto di informarsi del detenuto. Un diritto che non sarebbe garantito dalla possibilità di consultare libri e riviste all’interno del carcere vista la scarsità dell’"offerta" e i tempi lunghi per ottenere i permessi. Dubbi anche sul contrasto con il diritto allo studio, garantito dagli articoli 33 e 34 della Carta, che assicurano una scuola aperta a tutti per raggiungere i gradi più alti dell’istruzione. Per finire il magistrato di sorveglianza ha eccepito la violazione dell’articolo 117 della Costituzione per la parte in cui recepisce l’articolo 3 della Cedu sul divieto di trattamenti inumani e degradanti e l’articolo 8 della stessa Convenzione sul rispetto della vita privata e familiare. Attualmente sono circa 750 i detenuti sottoposti al 41-bis in Italia, un regime introdotto dopo le stragi di mafia in cui persero la vita i magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Per conoscere le ragioni della Consulta che ha giudicato non fondata la questione sarà necessario attendere le motivazioni. Reati ostativi e liberazione anticipata "speciale", pena da spacchettare di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 9 febbraio 2017 Pena carceraria da "spacchettare" per i detenuti pericolosi che chiedono la liberazione anticipata speciale. La Prima sezione penale della Corte di cassazione (sentenza 6013/17, depositata ieri) ha accolto ieri il ricorso dei legali di Rocco Papalia, boss della ‘ndrangheta trapiantata a Milano con roccaforti nell’hinterland milanese di Corsico e Buccinasco, rinviando al tribunale di sorveglianza di Cagliari il calcolo dei benefici per l’eventuale scarcerazione anticipata (Dl 146/2013 "svuota carceri"). Il collegio dell’esecuzione nel novembre del 2014 aveva respinto il reclamo dello stesso condannato contro la decisione della Sorveglianza di non applicare il beneficio, sulla scorta del fatto che si tratta di una pena contenente vari reati cosiddetti "ostativi" (dal sequestro di persona al traffico di stupefacenti). La Cassazione ha però corretto l’interpretazione del Tribunale cagliaritano, ribadendo che non ci sono nell’ordinamento dati normativi per sostenere che la nuova disciplina dell’ordinamento penitenziario (articolo 4-bis, legge 354/75) "abbia creato uno status di "detenuto pericoloso" che permei di sé l’intero rapporto esecutivo a prescindere dal titolo esecutivo di condanna". In sostanza il cumulo di pena, prosegue il relatore, deve essere sciolto "in presenza di istituti che, ai fini della loro applicabilità, richiedano la separata considerazione dei titoli di condannane delle relative pene" (in coerenza con il precedente 3130/15). In un caso di pena "assemblata" come quello in esame, il giudice avrebbe pertanto dovuto ricostruire i singoli addendi della condanna (ridotta a 30 anni dai 41 del cumulo materiale) e stabilire quali "segmenti" erano nel frattempo stati espiati. A questo proposito la Corte aggiunge che il criterio da seguire prevede che "deve intendersi scontata per prima la pena più gravosa per il reo con la conseguenza che, ove si debba espiare una pena inflitta anche per reato ostativo alla fruizione di benefici penitenziari, la pena espiata va imputata innanzitutto ad esso". (sentenza 613/1999 della Prima penale). Quindi il Tribunale di Cagliari dovrà ora calcolare se i 24 anni finora scontati dal boss della ‘ndrangheta milanese abbiano esaurito la soglia ostativa, nel qual caso potrebbe dar luogo alla liberazione anticipata speciale. La Prima sezione torna anche sul secondo motivo di ricorso, incentrato sugli effetti della parte del decreto svuota-carceri non convertita in legge (in particolare, sulla circostanza di aver proposto la domanda di liberazione durante la vigenza del Dl). La Corte, respingendo il motivo, ha specificato che la norma più favorevole contenuta in un decreto non convertito può avere solo e semmai effetti in relazione ai "fatti commessi" e che quindi l’efficacia è ristretta ai fatti concomitanti (alla vigenza del Dl) e non tutela, invece, la pretesa in sé. Diffamazione, Facebook non è stampa di Carlo Melzi d’Eril e Silvia Vimercati Il Sole 24 Ore, 9 febbraio 2017 Facebook è un mezzo di diffusione ma non è stampa, sicché alla diffamazione ivi commessa è applicabile l’aggravante della diffusione attraverso un qualsiasi mezzo di pubblicità (articolo 595 comma 3 C.p.), ma non quella dell’attribuzione di un fatto determinato con il mezzo della stampa (articolo 13 legge n. 47 del 1948). Questo è quanto stabilito dalla quinta sezione penale della Cassazione, con sentenza n. 4873 depositata l’1 febbraio 2017. Nel 2013 un utente pubblicava sulla propria bacheca uno scritto offensivo che attribuiva alla persona offesa un fatto determinato. Il pubblico ministero chiedeva il rinvio a giudizio per diffamazione aggravata dalla commissione a mezzo stampa con l’attribuzione di un fatto determinato (articolo 595 C.p. e 13 legge stampa), il che determinava un aumento di pena tale da imporre l’udienza preliminare. Il Giudice dell’udienza preliminare, viceversa, riteneva che la corretta qualificazione del fatto corrispondesse all’articolo 595 comma 2 e 3 C.p., ovvero la diffamazione aggravata da un qualunque mezzo di diffusione sia pure con l’attribuzione di un fatto determinato, reato meno grave, che non imponeva l’udienza preliminare. Così, il Gup ordinava la restituzione degli atti al pubblico ministero affinché provvedesse alla citazione diretta a giudizio dell’imputato. Il pubblico ministero proponeva ricorso per cassazione per abnormità del provvedimento. Nel rigettare l’impugnazione, la Corte ribadisce che la lesione di onore e reputazione, diffusa tramite social network, integra il reato di diffamazione aggravato da un qualunque mezzo di diffusione, quale appunto è quello telematico, mentre non può essere applicata l’aggravante prevista dall’articolo 13 della legge n. 47 del 1948 espressamente per la diffamazione commessa a mezzo stampa. Per giungere a tale conclusione, la Corte muove dalla sentenza delle Sezioni Unite (n. 31022 del 2015) secondo cui le garanzie costituzionali per il sequestro dalla stampa sono applicabili all’intera informazione professionale, poco importa se impressa sulla carta o inserita nel web. Insomma, l’articolo 21 Cost. tutela la stampa, ovvero i mezzi con cui si fa del giornalismo, indipendentemente dallo strumento con cui sono diffusi. Viene così richiamato lo "spartiacque" tracciato dal citato precedente: da un lato le testate telematiche, equiparate a quelle cartacee, a cui sarebbe applicabile la disciplina prevista per la stampa; dall’altro blog, social network, newsgroup e newsletter, per i quali non varrebbe altrettanto. Accogliendo tale indirizzo, nella decisione in commento la Cassazione conclude che, poiché "il social network più diffuso, denominato Facebook, non è inquadrabile nel concetto di "stampa"", deve essere esclusa l’aggravante prevista dall’articolo 13 legge stampa. Se una simile conclusione pare condivisibile, non lo sono i suoi presupposti. In particolare, non pare condivisibile - anche se avevamo segnalato il rischio che ciò accadesse - che la definizione di stampa, coniata dalle Sezioni Unite per estendere una garanzia, diventi tout court la nuova definizione di "stampa", utilizzabile nell’intero ordinamento, e quindi anche per delineare le disposizioni incriminatrici in materia. Ancor più precisamente, non vedremmo ostacoli insormontabili al fatto che la Corte ricorra a una nozione figurata di stampa, per estendere, in sostanza in via analogica, una disciplina di garanzia prevista come la tutela dal sequestro. Tuttavia, va tenuto ben presente che la frattura, operata dalle Sezioni Unite, tra i giornali on line e gli altri mezzi di telematici, Facebook compreso, non pare avere una legittimazione giuridica "forte" in quanto né nella legislazione ordinaria, né a livello costituzionale è dato rinvenire una nozione di informazione professionale. Ci pare non corretto, quindi, per tratteggiare i confini del penalmente rilevante, richiamare una nozione figurata di stampa. Quest’ultima, infatti, ha, come tutte le nozioni figurate, confini vaghi, che contraddistinguono, peraltro anche la definizione di giornalismo. Soprattutto in quest’ambito, perciò, riteniamo che, nel definire il perimetro delle incriminazioni la giurisprudenza, in ossequio al principio di tassatività, dovrebbe a tornare alla più solida interpretazione letterale dell’articolo 1 della legge n. 47 del 1948, in base al quale sono "stampa" solo le riproduzioni tipografiche o effettuate con mezzi meccanici e fisico chimici destinate alla pubblicazione, a prescindere dal contenuto, definizione da cui Internet è stata fino ad oggi esclusa. Dunque, in sintesi, allo stato, la diffamazione via Facebook dovrebbe essere punita dall’articolo 595 comma 3 C.p. e non dalle aggravanti tipiche della stampa perché Internet è diverso dalla stampa e non perché Facebook non è una testata giornalistica. Stato di ebbrezza: seconda prova irrilevante per il malfunzionamento dell’etilometro di Domenico Carola Il Sole 24 Ore, 9 febbraio 2017 Corte di Cassazione - Sezione VII - Sentenza 31 gennaio 2018 n. 4573. I giudici della VIII sezione Penale della Corte di Cassazione, con sentenza n. 4573 del 31 gennaio 2017, ricordano come sia normale che la seconda delle due prove effettuate con l’etilometro possa dare come esito un’alcolemia maggiore della prima, per cui questo è irrilevante come dimostrazione di un malfunzionamento dell’apparecchio. Tale malfunzionamento deve essere sempre provato da chi intenda disconoscere i risultati delle misurazioni effettuate con un apparecchio debitamente omologato. Il fatto - Un automobilista propone ricorso avverso la sentenza che ha confermato nei suoi confronti il giudizio di responsabilità e il trattamento sanzionatorio per il reato di cui all’articolo 186, comma secondo, lettera c) del codice della strada. Motivo del ricorso è afferente l’attendibilità degli esiti dell’alcoltest, con il quale veniva rilevato nel corso della seconda misurazione un tasso alcolemico maggiore di quello osservato nella prima. La decisione - Gli Ermellini dichiarano il ricorso inammissibile. Infatti, secondo la Suprema Corte la sentenza è in linea con il consolidato giurisprudenziale: "Ai fini della configurabilità del reato di guida in stato di ebbrezza, l’esito positivo dell’alcoltest costituisce prova della sussistenza dello stato di ebbrezza, ed è onere dell’imputato fornire eventualmente la prova contraria a tale accertamento dimostrando vizi od errori di strumentazione o di metodo nell’esecuzione dell’aspirazione, non essendo sufficiente la mera allegazione della sussistenza di difetti o della mancata omologazione dell’apparecchio". Poiché tale prova di malfunzionamento non è stata fornita dal ricorrente ed il giudicante ha correttamente sottolineato che è un fatto notorio che la curva di assorbimento dell’alcol etilico raggiunga il picco nel giro di un’ora dal momento dell’ultima assunzione di alcool, il ricorso è dichiarato inammissibile: la doglianza afferente asseriti vizi di funzionamento dell’etilometro è improponibile. Il giustizialismo che conquista l’Italia di Claudio Cerasa Il Foglio, 9 febbraio 2017 Da Mani pulite a Mafia Capitale è il trionfo dello scandalismo mediatico. Negli stessi giorni in cui a Roma crollava il castello costruito sui presunti mafiosi che avrebbero conquistato la capitale, a Milano si celebrava tra pochi intimi, in una sala semideserta del tribunale ambrosiano, il venticinquennale di Mani pulite. Se ne potrebbe trarre l’impressione che la scalata dello strapotere giudiziario iniziata nel 1992 sia fallita o, quantomeno, che sia entrata in una fase discendente. Purtroppo si tratta di un’impressione sbagliata. In realtà, la conquista giustizialista dello stato è progredita in questi anni e continua a rappresentare una pesante ipoteca sullo sviluppo di una democrazia politica basata sulla sovranità popolare. Quelli che hanno disertato il convegno milanese di Antonio Di Pietro e Piercamillo Davigo, magistrati e giornalisti, forse erano troppo occupati a scambiarsi informazioni e insinuazioni sui procedimenti in corso, in modo da riempire le prime pagine dei giornali con le gesta attuali della corporazione, più succulenti della rievocazione delle glorie di ieri o dell’altro ieri. Guardando all’altro episodio, quello romano, bisogna sottolineare il fatto che una tattica investigativa spregiudicata, che consente di indagare per mafia decine e decine di persone senza uno straccio di indizio concreto, non ha sollevato scandalo, anzi: è stata presentata come un esempio di garantismo per il fatto che la procura, bontà sua, ha mollato la presa quando è stato evidente che il suo castello accusatorio non aveva il minimo fondamento. Si susseguono archiviazioni e assoluzioni di imputati o indagati che erano stati presentati all’opinione pubblica come malfattori impenitenti, ma queste notizie si trovano a fatica in qualche trafiletto delle pagine interne, mentre quelle delle accuse o delle condanne in primo grado poi riformate erano strillate in prima pagina. È impressionante la giustificazione che viene data di questa vergognosa asimmetria: quando fu accusato, il soggetto politico o imprenditoriale era potente e importante e quindi faceva notizia. Ora, dopo le vicissitudini giudiziarie (subite da innocente, ma non importa) non conta più niente, quindi non merita che la sua assoluzione o archiviazione abbiano rilievo. Insomma, siccome sono stati stritolati dal combinato mediatico-giudiziario, ora sono personaggi trascurabili e, quindi, vanno trascurati. L’effetto dello strapotere giudiziario, oltre che danneggiare e in qualche caso rovinare singole persone, è stato rilevante e probabilmente decisivo nell’impedire che si stabilizzasse un sistema politico in grado di gestire in modo fisiologico la competizione. Non è questione di toghe rosse o di toghe nere, ma di un’azione di erosione costante e tenace di ogni processo di formazione di classi dirigenti politiche autonome. Questa azione distruttiva dello scandalismo e dell’indignazione professionali, ormai elementi permanenti e portanti di quel che resta del sistema politico, non avrebbe potuto svilupparsi fino alle dimensioni attuali, se la volontà dell’ordine giudiziario di trasformarsi in potere dello stato fino a sostituirlo non si fosse incontrato con gli interessi di altri poteri non elettivi, quelli di una debole aristocrazia finanziaria - che egualmente è interessata a impedire che si consolidino soggetti politici in grado di esercitare autonomamente le funzioni di governo e di amministrazione. È così che si spiega l’atteggiamento dell’informazione, che da questi poteri dipende, che ha fatto e continua a fare da cassa di risonanza dello scandalismo. La debolezza istituzionale italiana, l’impossibilità di apportare le necessarie riforme di sistema, le conseguenti instabilità dei governi e friabilità dei partiti, sono anche l’effetto di questa condizione di minorità e di intimidazione permanente. È una spirale dalla quale è assai arduo divincolarsi, almeno finché non se ne identificano le cause e non si uniscono le forze che puntano a restaurare un sistema di potere democratico basato sulla sovranità popolare e non sull’alleanza tra poteri burocratici ed establishment deboli che paralizzano lo sviluppo di una politica autonoma e riformatrice. Chi legittima il potere dei giudici? Non può essere un concorso di Astolfo Di Amato Il Dubbio, 9 febbraio 2017 Come dimostra il caso americano l’invasione di campo della magistratura accomuna tutti i paesi occidentali. Ma negli Usa i giudici hanno una dimensione politica. In tutti i Paesi che si ispirano ai princìpi di uno Stato di diritto, la complessità degli interessi in gioco scarica sulla magistratura il compito di dare risposte oltre il loro ruolo. Ma possono essere affidati ad organismi tecnici, la cui fonte di legittimazione è costituita da un concorso pubblico, compiti di soluzione di conflitti eminentemente politici? Il conflitto tra una parte della magistratura Usa e Trump, circa la legittimità o no del blocco dell’immigrazione da alcuni Paesi musulmani, induce ad alcune riflessioni. Piero Sansonetti, su questo giornale, ha messo in rilievo che il sistema istituzionale americano ha mostrato, in questa circostanza, di garantire un effettivo equilibrio tra i poteri e di salvaguardare l’autonomia della magistratura anche in un conflitto che vede coinvolto l’inquilino della Casa Bianca. La questione ha grande rilievo in quanto il conflitto si svolge su un terreno particolare: quello dei princìpi e delle libertà fondamentali. È, evidentemente, un terreno fortemente intriso di valori e, perciò, rispetto ad esso è assai difficile definire sin dove arrivino gli aspetti propriamente tecnico-giuridici e dove inizi la dimensione prettamente politica. Sta di fatto che su questa frontiera, dai confini evanescenti, la parola dei giudici americani appare essere l’ultima e sovrastare anche quella del Presidente, massima espressione del potere esecutivo. Non a caso, negli Stati Uniti, esponenti della magistratura americana, attraverso l’affermazione che anche il Presidente è soggetto alla legge, hanno in realtà ribadito che l’ultima parola spetta alla magistratura. Il che induce ad una prima riflessione. Il tema delle "invasioni di campo" non riguarda solo l’esperienza italiana. In tutti i Paesi che si ispirano ai princìpi di uno Stato di diritto, la complessità degli interessi in gioco e la difficoltà della politica di trovare punti di equilibrio, scarica sulla magistratura il compito di dare risposte, che sempre più invadono il campo degli assetti fondamentali di una società. In altri termini, vi è una inarrestabile erosione degli spazi propri della politica da parte degli organismi giudiziari. D’altra parte, basta ricordare alcune recenti vicende per rendersi conto che il fenomeno sta investendo tutto il mondo occidentale: in Francia i vari candidati all’Eliseo vengono azzoppati dalle inchieste giudiziarie, in Inghilterra la giurisdizione ha stabilito come dovesse essere gestito l’esito del referendum sulla Brexit, in Germania la Corte Costituzionale è stata chiamata a decidere sulla legittimità del quantitative easing da parte della Bce. L’invasione di campo, dunque, costituisce un tratto che accomuna il ruolo degli organi giudiziari in tutti i Paesi occidentali. Questa circostanza pone, tuttavia, una questione di fondo: possono essere affidati ad organismi meramente tecnici, la cui fonte di legittimazione è costituita da un concorso pubblico, compiti di soluzione di conflitti eminentemente politici? Negli Stati Uniti il problema non si pone perché i giudici, tutti, hanno una legittimazione, in alcuni casi diretta ed in altri indiretta, di natura politica. Nella stessa Italia, la Corte Costituzionale è composta in modo da garantire una legittimazione anche politica dei giudici e ciò, evidentemente, per la consapevolezza da parte del costituente del loro ruolo fortemente politico. Ma, nel momento in cui si deve rilevare che la dimensione politica dell’attività giudiziaria sta crescendo anche con riguardo all’attività delle magistrature diverse dalla Corte Costituzionale, il problema della legittimazione dei magistrati diventa ineludibile. È istituzionalmente corretto che compiti di contenuto fortemente politico siano esercitati da pubblici funzionari arruolati mediante concorso? L’esperienza italiana ha a lungo guardato con un sentimento misto di sufficienza e disprezzo il sistema di nomina dei giudici degli Stati Uniti. Il conflitto di questi giorni tra Trump e parte dei giudici americani costringe a rimeditare su quel sistema di nomina ed a chiedersi se non sia il più adeguato, considerata la natura sostanzialmente politica del conflitto. Più in generale, oggi che il giudice non è più, e non può essere più, la bouche de la loi, avendo ormai assunto un ruolo fondamentale nella creazione delle regole, può continuare ad essere visto come un tecnico che trae la sua legittimazione da un concorso? Hanno assolto un politico: "Silenzio!" di Piero Sansonetti Il Dubbio, 9 febbraio 2017 L’altro ieri è giunta nelle redazioni dei giornali la notizia che Gianni Alemanno, Nicola Zingaretti e un altro bel gruppetto di ex assessori e esponenti di svariati partiti politici erano stati prosciolti dalle accuse relative al processo di "Mafia Capitale". Alcuni di loro erano stati accusati addirittura di concorso in associazione mafiosa; invece erano innocenti. I giornali non hanno dato molto peso a questa notizia. Per esempio il "Corriere della Sera" l’ha messo in fondo a pagina 18. "Il Fatto Quotidiano", che ha molte meno pagine del "Corriere", l’ha messo in fondo alla pagina 5. "Repubblica" ha sistemato una notizietta di poche righe (quelle che in gergo giornalistico si chiamano le "brevi") in fondo in fondo alla pagina 11. Mi chiedo come si sarebbero comportati quegli stessi giornali, e tutti gli altri, se in redazione, anziché giungere una notizia di archiviazione, fosse giunta la notizia di un avviso di reato. Per Zingaretti, per Alemanno. Domanda inutile: basta andare a guardare come il giornali diedero la notizia degli avvisi di garanzia ad Alemanno e a Zingaretti. Prima pagina, con titoli gridati, per diverse settimane. E come anche recentemente questi avvisi nonostante la richiesta di archiviazione fosse stata già avanzata - venivano usati per tenere vive le polemiche. "Il Fatto" addirittura ha più volte attaccato Zingaretti, fino a un paio di giorni fa, per la sua posizione giudiziaria. Sosteneva che dovesse dimettersi da presidente della Regione e di conseguenza che nel Lazio si dovesse tornare al voto. L’archiviazione decisa dal Gip ha riguardato (per questo filone dell’inchiesta, che ormai è divisa in diversi tronconi) la bellezza di 113 imputati su 116. E tra questi 113 i nomi più famosi. Non si può dire che mancasse la notizia, perché la notizia era clamorosa. Vedete bene che il problema dell’uso dell’attività giudiziaria in politica, attraverso il comportamento dei mass- media, esiste, è attuale. Noi possiamo anche stabilire che i magistrati, avendo avuto alcune segnalazioni di reato, abbiano fatto molto bene ad aprire un’indagine, e a vagliare anche le posizioni di Alemanno, di Zingaretti e di tutti gli altri. Il problema è che l’uso politico di queste indagini, in presenza di una classe politica che su questi temi è allo sbando, e di un chiamiamolo così - ceto giornalistico del tutto impreparato, porta a delle vere e proprie deformazioni della realtà, molto forti e anche molto ingiuste. E di conseguenza inquina la battaglia politica. È ragionevole che i giornalisti si facciamo delle domande a questo proposito? Si chiedano se esiste o no un’etica, nella nostra professione, o se invece l’unica etica sia la convenienza, la massima semplificazione del nostro lavoro, oppure le regole del mercato e delle vendite. E dunque se il loro - cioè il nostro - lavoro sia diventato non più una attività intellettuale ma un semplice impegno commerciale. Queste domande tornano sul caso Raggi-5Stelle. L’attacco diretto e personale di Luigi Di Maio ad una decina di giornalisti dei più importanti giornali italiani, ha un sapore fortemente stalinista, o fascista, che non può non inquietare. È chiaro che nelle parole di Di Maio c’è un elemento (e una volontà chiarissima) di intimidazione, che non ha niente a che fare con lo spirito della democrazia e della libertà di stampa. Per la verità, non è una novità assoluta. Anche nella beneducata prima repubblica avvenivano queste cose. C’è una famoso pezzo televisivo nel quale si vede Palmiro Togliatti rivolgersi a un giornalista (mi pare dell’Umanità, che era il giornale del partito socialdemocratico) che si chiamava, se ben mi ricordo, Rocco Mangione, con questa folgorante battuta: "Lei è un mangione di nome e di fatto!". Personalmente mi ricordo anche di una volta, tanti anni fa, quando il capo della Dc, che al tempo era Ciriaco de Mita, vedendomi nel drappello dei cronisti che aspettavano le sue dichiarazioni, siccome qualche giorno prima avevo scritto un articolo contro di lui, disse: finché quello non va via, io non parlo". Ci rimasi molto male. Tuttavia la protesta contro le intimidazioni dei politici non può nascondere il problema di un giornalismo un po’ ignorante e non molto moderno. Voi avrete capito, forse, che a me Virginia Raggi non sta molto simpatica, e che penso che si stia dimostrando una pessima sindaca; però, francamente, non mi pare che sia colpevole di reati capitali. E l’accanimento della stampa contro di lei è un fatto indiscutibile. Anche l’accanimento dei magistrati. Una volta, quando l’accanimento era contro Berlusconi, tutti noi pensavamo che ci fosse dietro un disegno politico. Più difficile credere a una macchinazione giornalistico-giudiziaria contro la Raggi (al massimo ci può esser la spinta di un po’ di costruttori romani), ma questo non tranquillizza nessuno, anzi dimostra che il problema del "giornalismo allo sbando" è in crescita esponenziale. Non è che la libertà di stampa aumenta, se il giornalismo è allo sbando. Io penso che diminuisca. Ieri sono usciti altri casi clamorosi. Sgarbi sostiene che Grillo, in privato, gli abbia confidato le sue critiche alla sindaca (ma pare che fosse invece un imitatore di Grillo). E un giornalista della Stampa ha registrato di nascosto alcune confidenze che un assessore di Roma - Berdini - faceva ad alcuni suoi amici, in privato, contro la Raggi. Siamo sicuri che sia questo il giornalismo moderno? Cioè il giornalismo raggiunga la vetta quando viola la privacy, spesso anche i segreti di ufficio, e considera lo scoop un fatto tecnico, e non il risultato di un lavoro di scavo e di inchiesta? E che il giornalismo politico non debba basarsi sulla descrizione e l’analisi dei problemi sul tappeto, e delle posizioni delle forze politiche, ma sia invece quello che riesce a creare scandali, anche se non ci sono, e che ignora arrogantemente la scomparsa dello scandalo quando questo avviene? E siamo sicuri che interrogarsi sull’immoralità del giornalismo, e sui mezzi illeciti che usa il giornalismo, non sia una ragionevole e utile attività di critica, ma sia un inammissibile attacco alla libertà di stampa? Sicilia: il Comitato StopOpg organizza tre iniziative a favore degli ex detenuti psichiatrici siciliainformazioni.com, 9 febbraio 2017 Per accendere i riflettori sulle condizioni in cui vivono gli ex detenuti psichiatrici in Sicilia dopo l’abolizione degli ospedali psichiatrici giudiziari, il Comitato regionale StopOpg ha organizzato due giorni di iniziative tra Barcellona Pozzo di Gotto, sede dell’ex Opg oggi casa circondariale, e Caltagirone e Naso, dove si trovano due Rems, strutture riabilitative per malati psichiatrici. "L’obiettivo - dice Elvira Morana, del Comitato siciliano StopOpg - è verificare la situazione a un poco più di un anno dal passaggio delle funzioni della sanità penitenziaria al Servizio sanitario regionale e promuovere la cura delle persone e della loro salute mentale dentro e fuori i luoghi di reclusione". Di recente il Comitato ha denunciato la presenza di 13 internati ancora nell’ex Opg siciliano per cui è stata chiesta la presa in carico dai Dipartimenti di salute mentale o il transito nelle Rems già operative. Per Morana "servono programmi di cura e riabilitazione e il potenziamento dei servizi di salute mentale con una dotazione adeguata di personale". Il programma della due giorni prevede venerdì visite all’ex Opg (alle 11) e alla Rems di Naso. Sabato toccherà alla Rems di Caltagirone (alle 10) e alle 15 ci sarà un incontro pubblico presso l’Asp di Caltagirone con gli interventi di rappresentanti delle istituzioni, della Cgil, di associazioni e di operatori del settore. Parteciperà il sottosegretario alla Salute Davide Faraone. Ivrea (To): chiuse la celle punitive. Rossomando (Pd): "presto un nuovo comandante" La Sentinella del Canavese, 9 febbraio 2017 Il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha sospeso nel carcere di Ivrea l’utilizzo della "stanza liscia" e "dell’acquario", le due celle punitive denunciate a fine gennaio dal Garante nazionale dei diritti delle persone detenute definisce. La notizia è stata data ieri mattina alla Camera dei deputati, dove il sottosegretario alla Giustizia, Cosimo Ferri, è intervenuto rispondendo a un’interrogazione della deputata dem Anna Rossomando. "Abbiamo avuto rassicurazioni dalla direttrici che le due celle saranno ristrutturate - ha detto il sottosegretario - e rimesse in funzioni solo dopo che saranno rispettati gli standard minimi europei". Ferri è anche intervenuto sugli episodi di violenza denunciati da alcuni detenuti, relazionando sull’inchiesta contro ignoti avviata dalla procura della Repubblica. "Al momento - ha precisato - non sono emersi elementi di riscontro al pestaggio descritto da un detenuto attraverso il sito Infoout". "Sui fatti accaduti - ha ricordato Anna Rossomando - sarà importante conoscerne gli esiti dell’inchiesta poiché si tratta di più denunce e segnalazioni. Dal rapporto del Garante nazionale dei detenuti risulta confermata una situazione molto critica del carcere di Ivrea, derivante in parte da condizioni comuni a tutti gli istituti di pena, sia pure con i miglioramenti dovuti a recenti atti legislativi e amministrativi, e in parte, però, specifiche di questa struttura, dove c’è troppa concomitanza di situazioni". "Prendo in parola il sottosegretario Ferri - aggiunge la deputata dem - quando afferma che in occasione delle previste nuove assunzioni di personale a livello nazionale si terrà conto delle carenze emerse a Ivrea. Infine - ha concluso Rossomando - è necessario procedere alla nomina di un comandante non precario che possa garantire quella stabilità necessario in una situazione così critica". Firenze: Fns-Cisl scrive a Orlando "nessun riscontro sul destino dell’Opg di Montelupo" gonews.it, 9 febbraio 2017 Abbiamo rivolto più richieste al Ministro della Giustizia Orlando, al Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Consolo, oltre che ai Parlamentari di ogni orientamento politico, di valutare una possibile riconversione delle funzioni prima svolte a Montelupo con un Ospedale Psichiatrico Giudiziario in un Istituto Penitenziario, magari afferente ad un circuito di basso indice di pericolosità (detenuti con fine pena brevi, in semilibertà e con misure di custodia attenuata) senza però ricevere nessun positivo riscontro. Ad oggi, dei 5 ex Opg in Italia, l’unica Struttura che non è dato sapere che futuro utilizzo sarà possibile farne nello stesso ambito penitenziario è quello di Montelupo Fiorentino. Tralasciamo il controsenso di averlo ristrutturato quasi completamente- per ciò che attiene alle Strutture che ospitano le attività detentive - e tralasciamo il controsenso di aver esaltato il valore della Riforma nata con l’obiettivo di creare alternative capaci di gestire meglio Persone prima "ammalate" che recluse, affermando che gli Opg erano carceri camuffati da ospedali, per poi invece oggi vedere nascere in tutta Italia, proprio nei carceri, tanti Reparti per detenuti con problemi psichiatrici. Ma quello che appare ancor più incomprensibile è il silenzio di politici ed Istituzioni ad ogni livello, che nonostante le difficili condizioni delle Strutture in Toscana, con ambienti spesso ben oltre il degrado che era stato invece esaltato per spingere alla riforma degli OPG, non ritengono di buon senso usare ad altro scopo penitenziario almeno gli spazi detentivi ristrutturati con una spesa pubblica di milioni di euro, ed in piena pronta efficienza operativa, a Montelupo. Eppure bastano alcuni numeri per far comprendere la situazione: a Sollicciano 257 detenuti in più dei posti disponibili, Pisa 58 detenuti in più, Prato 78 in più, San Gimignano 90 in più, Massa 26 in più. Certo se qualcuno fornisce il dato complessivo regionale parrebbe che in Toscana non c’è sovraffollamento ma invece così non è. La capienza regolamentare dei posti in regione 3334 (compresi i 175 di Montelupo - vuoto) a fronte di 3287 detenuti presenti. Ma nessuno spiega che il totale dei posti in regione è condizionato da una ridotta disponibilità in regione, per effetto di lavori di ristrutturazioni in corso d’opera e che per almeno un biennio condizioneranno ancora la situazione nei restanti carceri aperti al 100% ed oltre. Infatti ad Arezzo si possono ospitare solo 26 detenuti a fronte di 101 posti, a Pistoia solo 19 a fronte di 59, a Livorno 211 a fronte di 385, a Porto Azzurro 259 a fronte di 363, a Volterra 150 a fronte di 187. Ecco perché di fronte a questa situazione è incomprensibile il silenzio del Ministro Orlando, del Capo del Dap e della Politica ed Istituzioni tutte. Un silenzio che oltretutto riguarda circa 100 appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria (il Personale dell’ex carcere di Empoli e quello di Montelupo) che non troveranno una possibile ricollocazione sul Territorio dove avevano ed hanno costruito la vita delle proprie Famiglie, trattati come se loro per primi non avessero diritto a chiarezza da parte dello Stato che ogni giorno servono al servizio del Paese. Nisida (Na): addio al carcere minorile? in arrivo albergo di lusso e porto turistico di Gaetano Capaldo diariopartenopeo.it, 9 febbraio 2017 L’isolotto di Nisida è fuori dal sito di interesse nazionale previsto dalla legge per Bagnoli, ma potrebbe essere incluso nei piani della cabina di regia. Nisida così vicina, così lontana, cantava Edoardo Bennato nel 1982. L’isolotto a largo di Coroglio, ad un tiro di schioppo dalla terraferma, eppure impenetrabile per la presenza del carcere minorile, è al centro del dibattito politico. Se ne è parlato nell’ultimo incontro in Prefettura tra governo e enti locali. Si parla di inserirlo nel piano per Bagnoli, includendolo di fatto nel Sito di interesse nazionale. Ciò significherebbe, in pratica, lo spostamento del carcere minorile. L’idea è di aprire Nisida al pubblico, rendendola attrattiva dal punto di vista turistico. Da quelle parti dovrebbe sorgere un albergo di lusso, di fronte ad un porticciolo turistico per 700 yacht. La portualità per barche oltre i 12 metri è al centro del programma di Palazzo Chigi. Il Comune di Napoli vorrebbe una struttura meno invasiva ma c’è una disponibilità di massima sulla realizzazione degli attracchi. Nella maggioranza in Comune, nel frattempo, l’idea della dislocazione del carcere minorile fa proseliti. Il consigliere regionale Francesco Emilio Borrelli e i consiglieri comunali Stefano Buono e Marco Gaudini dei Verdi sono d’accordo con il governo. "Tra gli errori commessi negli anni scorsi nell’area di Bagnoli - affermano in una nota - c’è anche quello di aver destinato l’isolotto di Nisida, un patrimonio naturale di ineguagliabile bellezza, a sede di un carcere minorile invece di pensare a come valorizzarlo, magari creando anche occasioni di sviluppo turistico, ma, ora, c’è la possibilità di recuperare coinvolgendo anche Nisida nel progetto di recupero e riqualificazione di quell’area, spostando l’istituto minorile in un’altra zona della città". "Nisida - proseguono - deve essere aperta ai napoletani e ai turisti e bisogna trovare il modo migliore per farla diventare un punto d’eccellenza dell’offerta turistica napoletana e campana in grado anche di creare economia sana e duratura, evitando di commettere l’errore fatto con l’Italsider che ha dato tanto lavoro negli anni scorsi, ma ha poi lasciato un territorio devastato e nessun posto di lavoro". Prato: detenuto a violentato dal compagno di cella, gli agenti avvisati lo fanno trasferire di Luca Serranò La Repubblica, 9 febbraio 2017 Il carcere come un teatro dell’orrore. Un uomo di 35 anni, rinchiuso con la pesantissima accusa di aver abusato della figlia, che finisce nel mirino del compagno di cella. Umiliazioni e soprusi, violenze sessuali: tutti i giorni, per un mese. L’ennesimo caso-limite nelle carceri toscane è stato denunciato nei giorni scorsi da un cittadino cinese, detenuto alla Dogaia di Prato. Raccolta la testimonianza, gli investigatori hanno in breve trovato una lunga serie di conferme e riscontri, culminati con una misura di custodia cautelare nei confronti di un marocchino di 44 anni. Violenza sessuale il reato contestato. Per la vittima è stato invece chiesto lo spostamento a Sollicciano, in modalità di protezione. Secondo quanto ricostruito - gli accertamenti sono stati coordinati dal sostituto procuratore Antonio Sangermano e dal procuratore Giuseppe Nicolosi - gli abusi avvenivano all’ora di cena, momento in cui la fila di celle era sorvegliata da una sola guardia penitenziaria. Ogni volta lo stesso assalto, ogni volta le grida e i disperati tentativi di difendersi. Alla fine, sconvolto dalle continue sopraffazioni, l’uomo ha deciso di sfidare il muro di omertà e si è rivolto alla polizia penitenziaria. Decisivo si è rivelato anche il racconto di un altro detenuto, che ha permesso agli investigatori di trovare i riscontri necessari. Interrogato dal magistrato, il marocchino (dietro le sbarre per un cumulo di pene) ha poi ammesso i rapporti sessuali e per lui è scattata la misura cautelare. "È una circostanza che deve far riflettere su ciò che accade in carcere - ha commentato Nicolosi. Abbiamo avuto la massima collaborazione degli agenti, tuttavia non possiamo che osservare che il carcere dovrebbe essere luogo di rieducazione. Fortunatamente l’omertà, in questa circostanza è stata sorpassata. Siamo riusciti a sfondare il muro del silenzio e alcuni detenuti hanno collaborato aiutandoci a stabilire la verità e ad intervenire". Sul caso interviene anche il garante dei detenuti per la Toscana, Franco Corleone: "Una vicenda drammatica, solo l’ultima di una lunghissima serie. Purtroppo le nostre carceri restano ancora un luogo di potere, e alcuni detenuti continuano a essere esposti a umiliazioni e sopraffazioni. Una nota di speranza comunque esiste, come il comportamento degli altri carcerati che hanno denunciato le violenze e collaborato alle indagini. L’impegno degli ultimi anni di promuovere una cultura dei diritti sta dando i suoi primi frutti, bisogna continuare su questa strada". Padova: la Cisl: "15 infermieri delle carceri non ricevono lo stipendio da tre mesi" di Federica Cappellato Il Gazzettino, 9 febbraio 2017 Non vedono un soldo da tre mesi: quindici infermieri in servizio nella Casa circondariale e nel carcere Due Palazzi - un migliaio gli ospiti complessivi affetti da tossicodipendenze, alcolismo, patologie croniche - avanzano ciascuno 1.400 euro netti al mese. A sostenerlo è il sindacalista della Cisl Fabio Turato: "Dal 2008 la medicina penitenziaria è passata dal ministero di Grazia e giustizia alle Ulss e dal 2011 l’attività infermieristica nei poli di reclusione padovani è gestita da una cooperativa. Il 3 novembre scorso - afferma Turato - c’è stato il cambio di appalto dalla cooperativa uscente, la "Medical Service", all’entrante "Solaris", che a sua volta ha subappaltato tutto alla coop "Cometa". Ebbene, quest’ultima i quindici infermieri non li ha mai pagati. La "Solaris" ha vinto perché evidentemente ha proposto un prezzo bassissimo, e adesso abbiamo capito perché. L’appalto era fatto a regola d’arte, ma questo può succedere con la tecnica vigente del massimo ribasso. Speriamo che si giunga alla risoluzione del contratto per grave inadempienza". La Cisl è pronta a coinvolgere ispettorato del lavoro e prefetto. "Il servizio reso da questi operatori è molto delicato, non solo sotto l’aspetto sanitario, per tutto il sistema carcere: loro sono un saldo punto di riferimento" sottolinea Turato. Spiega un’infermiera: "Siamo allo stremo, è dai primi di novembre che non riceviamo nulla, tredicesima compresa. Solo sei colleghi, scelti a caso, hanno avuto un primo stipendio, poi più nulla anche per loro. C’è chi sta chiedendo aiuto ai genitori per pagare il mutuo o l’assicurazione della macchina. Per tutti noi sta diventando molto dura arrivare a fine mese. Il nostro peraltro è un lavoro molto stressante, con un’utenza particolare che ha parecchie criticità". Anche l’Ulss Euganea si è schierata a favore dei lavoratori e sta cercando una soluzione. Avellino: D’Agostino (Sc) "nel carcere di Ariano Irpino troppi detenuti e pochi agenti" di Gianni Vigoroso ottopagine.it, 9 febbraio 2017 Grave carenza di personale, D’Agostino (Sc) interpella il Ministro della Giustizia, Andrea Orlando. "Sono circa 300 i detenuti presenti nel carcere del Tricolle a fronte di un organico che conta 170 unità della Polizia Penitenziaria". "Il carcere di Ariano Irpino, adeguato a contenere detenuti particolarmente problematici, deve essere messo nelle condizioni di operare nella massima sicurezza. La carenza di personale, in particolare per quanto riguarda i quadri intermedi, rischia di creare difficoltà a chi con abnegazione opera in quella struttura assicurando sempre la massima professionalità." È quanto scrive il deputato di Scelta Civica, Angelo D’Agostino, in una missiva indirizzata al Ministro della Giustizia. "Sono circa 300 i detenuti presenti nel carcere del Tricolle - prosegue il parlamentare - a fronte di un organico che conta 170 unità della Polizia Penitenziaria. Un dato rimasto invariato nonostante ci sia stata l’apertura di un nuovo padiglione. Una forza organica che, come recentemente rilevato dallo stesso direttore del penitenziario, era pensata per 180 detenuti, e non per 300, o addirittura 400, così come si paventa per il prossimo futuro". "La carenza di personale negli istituti di pena - osserva D’Agostino - non è certamente un problema del solo carcere di Ariano Irpino, ma è evidente che le strutture scelte per accogliere detenuti particolarmente problematici devono avere un numero di personale adeguato. L’auspicio - chiude il deputato - è che il Ministero della Giustizia proceda celermente a far espletare i concorsi, in particolare per i quadri intermedi (ispettori e sovrintendenti) la cui carenza è davvero molto preoccupante". Migranti al lavoro, via i Cie arrivano i Cpr. Il ministro Minniti presenta il suo piano di Leo Lancari Il Manifesto, 9 febbraio 2017 Fondi europei per finanziare lavori da far svolgere ai migranti che presentano richiesta di asilo. Lavori "non retribuiti, in modo da non creare duplicazioni con il mercato del lavoro" e quindi destinati a non scatenare inutili polemiche sui migranti che "rubano" il lavoro agli italiani. Parlando di fronte alle commissioni riunite Affari costituzionali di Camera e Senato per il suo illustrare il piano del governo sull’emergenza migranti, il ministro degli Interni Marco Minniti spiega come lo scopo di impiegare i migranti in lavori utili per le collettività che li ospitano sia soprattutto un modo per colmare il "vuoto dell’attesa" che si crea da quando la richiesta di asilo viene presentata al momento in cui la commissione territoriale esprime il suo giudizio. Oggi possono passare anche due anni, troppi per il ministro per il quale "l’accoglienza non può avere tempi indefiniti" sia "per i diritti dei richiedenti asilo che per diritti delle comunità". Per velocizzare le procedure Minniti è tornato proporre di ridurre la procedura per la richiesta di asilo a un solo grado di giudizio, aumentando alle stesso tempo il numero delle commissioni territoriali. Di pari passo, però, per Minniti devono procedere anche i rimpatri: "Dobbiamo accogliere e integrare chi ha diritto, rimpatriare chi non ha diritto e viola le regole", ha detto. Per quanto riguarda l’accoglienza, il piano del Viminale si muove nel solco tracciato quando a sedere sulla poltrona di ministro era Angelino Alfano: distribuzione di piccoli numeri di richiedenti asilo nel maggior numero possibile di Comuni in modo da diminuire il rischio che si creino tensioni con le popolazioni. Una proposta che si accompagna a maggiori controlli e trasparenza per quanto riguarda gli appalti per le gestione dei centri. Per questo martedì il Viminale ha licenziato con l’Anac un documento per la gestione degli appalti per i centri di accoglienza che prevede la fine del gestore unico, la tracciabilità dei servizi e il monitoraggio da parte del ministero. C’è poi la questione Cie, che Minniti ha ribattezzato Centri permanenti per il rimpatrio (Cpr), dove detenere i migranti in attesa che essere rimandati nel paese di origine. "Trascorre un certo periodo di tempo - ha spiegato Minniti - tra l’accertamento della violazione delle regole e il rimpatrio, per cui ho proposto la riapertura dei centri dove tenere nel frattempo persone che possono rappresentare potenzialmente un rischio per la società". Questi centri "non c’entrano nulla con i vecchi Cie" ha aggiunto il ministro, per il quale le nuove strutture - una per ogni regione, per un totale di 1.600 posti - devono essere di dimensioni ridotte e collocate fuori dai centri urbani e vicine agli aeroporti, in modo da facilitare le operazioni di rimpatrio. Ma devono anche garantire il massimo di trasparenza nella governance. "Ecco perché - ha sottolineato Minniti - i Garanti dei detenuti dovranno avere poteri di accesso illimitati a queste strutture". Infine Schengen. Dall’Europa continuano ad arrivare segnali di chiusura non ceto incoraggianti. Martedì il Consiglio europeo ha dato parere favorevole all’estensione per altri tre mesi dei controlli alle frontiere in Austria, Germania, Danimarca, Svezia e Norvegia. "Io sono un sostenitore di Schengen - ha detto Minniti - e tuttavia devo dire che se vogliamo tutelarlo l’Europa deve proteggere i suoi confini, interni ed esterni". Un modo per rivendicare l’accordo con la Libia per fermare i migranti raggiunto dall’Italia ma fatto suo dall’Ue nell’ultimo vertice di Malta. Decisa a difendere i suoi confini, l’Europa lo è però molto meno quando si tratta di farsi carico di quote di richiedenti asilo come deciso nel 2015. In questo caso quasi tutti i gli Stati membri girano la testa dall’altra parte. Il risultato è che delle 40 mila ricollocazioni promesse entro settembre 2017 finora ne sono state fatte appena 3.200. La Ue potrebbe sanzionare i paesi che non rispettano i patti, ha detto ieri il vicepresidente della Commissione Ue Franz Timmermans, aggiungendo però che per ora Bruxelles preferisce trattare ancora. Critiche a Minniti arrivano intanto dal segretario dei Radicali italiani Riccardo Magi, per il quali piano immigrazione "fa leva esclusivamente sul concetto di sicurezza, amplificando così l’equazione migrante uguale clandestino uguale pericolo". La Ue minaccia sanzioni a chi rifiuta i migranti. Piano Libia, no dell’Onu di Alessandra Camilletti Il Messaggero, 9 febbraio 2017 Entro marzo Bruxelles intende vedere progressi sul ricollocamento dei migranti. Altrimenti si comincerà a discutere di sanzioni. Perché "è ingiusto lasciare tutto il peso su Italia e Grecia: devono poter contare sulla solidarietà degli altri Paesi Ue" ha affermato il primo vicepresidente della Commissione europea Frans Timmermans. Ma sul tema immigrazione è intervenuto anche l’Onu. "In questa fase i migranti non possono essere rimpatriati in Libia, per via delle condizioni umanitarie nel paese" ha detto il rappresentante speciale dell’Onu, Martin Kobler Bruxelles fissa la scadenza di un mese per vedere progressi sul ricollocamento dei migranti e, nel caso, per discutere sanzioni. Marzo e non oltre. Sì, perché "è ingiusto lasciare tutto il peso su Italia e Grecia: devono poter contare sulla solidarietà degli altri Paesi Ue" dice il primo vicepresidente della Commissione europea Frans Timmermans. Ma se la giornata di ieri ha segnato una posizione della Ue favorevole ai paesi in prima linea - a partire da Italia e Grecia, ha visto anche l’Onu mettere la Ue sull’avviso. "Capisco le preoccupazioni dell’Europa, ma in questa fase i migranti non possono essere rimpatriati in Libia. Il rimpatrio non è una soluzione praticabile per via delle condizioni umanitarie nel paese" dice il rappresentante speciale dell’Onu, Martin Kobler, a margine della riunione del Consiglio di Sicurezza. "Il vero problema - aggiunge - è affrontare alla radice le cause che spingono la gente a lasciare i paesi di origine". Tanto più che "la Libia è vittima delle migrazioni così come l’Europa". Kobler sarà a giorni a Ginevra, per incontrare l’Alto Commissario Onu per i rifugiati, Filippo Grandi, e l’Alto Commissario per i diritti umani, Zeid Ràad Al Hussein. La settimana scorsa, ha ricordato l’ambasciatore Sebastiano Cardi, il premier Paolo Gentiloni ha firmato a Roma l’accordo con il premier libico Sarraj per una migliore gestione dei flussi migratori. E ieri è stata l’Italia a rivolgere ai partner Onu un appello per "uno sforzo comune a sostegno delle autorità libiche nel contrasto alle organizzazioni criminali del traffico di migranti". In uno scenario di soluzioni da definire, in particolare sui ricollocamenti ancora al palo, c’è però una certezza: mai come in questo inverno sono aumentati gli sbarchi. Tanto da sembrare estate. Gli obiettivi fissati dalla Commissione europea parlano di mille ricollocamenti al mese dall’Italia e duemila dalla Grecia, ma ad oggi - sui 160 mila complessivi ipotizzati - il numero totale raggiunto è di appena 12 mila ricollocamenti effettuati. Secondo gli ultimi dati del ministero dell’Interno, sono poco più di 3.200 i migranti ricollocati dall’Italia nei Paesi europei. Dato che fa pensare, se si considera che in poco più di un mese, in questo 2017, sono sbarcate più di 9.300 persone. E risultati dai piani per frenare i flussi sulla rotta del Mediterraneo centrale ancora non si concretizzano. La Commissione minaccia di passare dalle parole ai fatti a partire da marzo, con l’apertura di procedure di infrazione per chi non rispetta le quote di richiedenti asilo da ricollocare. Nel mirino, soprattutto quei Paesi dell’est Europa come Polonia, Ungheria, Slovacchia e Repubblica Ceca che fin qui non hanno voluto saperne troppo delle richieste di Bruxelles. "I ricollocamenti sono necessari - aggiunge il vicepresidente Frans Timmermans - e serve l’impegno di tutti gli Stati membri, perché il controllo delle frontiere da solo non basta". Così, la scadenza: "Il nostro decimo rapporto uscirà in marzo, è il momento giusto in cui considerare altre opzioni, se necessarie. Esorto gli Stati membri a mostrare la volontà di fare progressi, prima". Alla ricerca delle soluzioni possibili, la commissaria europea alla politica regionale, Corina Cretu, suggerisce di utilizzare i fondi europei di sviluppo regionale anche per l’emergenza migranti, a partire dai fondi Fesr. I ricollocamenti, sottolinea, "non stanno andando molto bene, e Grecia e Italia hanno ragione a chiedere un aiuto aggiuntivo". L’alto rappresentante Federica Mogherini allarga i termini della questione: tenendo conto dell’invecchiamento della popolazione, dice, "penso che gli europei dovranno comprendere che abbiamo bisogno dell’immigrazione per le nostre economie". Sei migranti su dieci chiedono asilo a Berlino. Solo l’8% sceglie l’Italia di Marco Bresolin La Stampa, 9 febbraio 2017 Il maggior numero di richiedenti asilo (26%) sono siriani. Poi afghani e iracheni. La solidarietà tra i Paesi europei resta un concetto vuoto. I (timidi) segnali positivi che erano arrivati negli ultimi due mesi del 2016 sul fronte della redistribuzione dei richiedenti asilo si sono subito interrotti a gennaio. E ora la Commissione, per la prima volta, minaccia sanzioni. A un anno e mezzo dall’inizio del piano, solo 11.966 richiedenti asilo sono stati redistribuiti da Italia (3.200) e Grecia (8.766). Meno di 1.700 nel gennaio 2017, ben lontano dall’obiettivo mensile di 3.000 fissato dalla Commissione. Stesso discorso per i reinsediamenti dei rifugiati che si trovano in Giordania, Libano e Tunisia: solo 13.968 sono stati accolti in Europa. L’obiettivo era di arrivare a 22.504. Il vice-presidente Frans Timmermans, olandese, ha ribadito che in questo momento è necessario continuare a fare una "pressione politica" su chi non rispetta gli impegni (Austria, Ungheria, Polonia e Repubblica Ceca su tutti) anche da parte degli stessi governi. Il tema era finito sul tavolo del Consiglio europeo di dicembre. Non è bastato e se ne riparlerà al summit del 9-10 marzo. Dopodiché, se nulla cambierà, Timmermans ammette che la Commissione potrebbe aprire delle procedure. Un cambio di linea significativo, visto che finora il suo collega Dimitris Avramopoulos aveva rinviato eventuali "punizioni" a settembre, alla scadenza del piano. Ma ogni giorno atteso è un giorno perso, perché - nonostante l’accordo con la Turchia che nel marzo scorso ha chiuso la rotta balcanica - nel 2016 sono state presentate 1.236.325 richieste di asilo nei Paesi Ue. Vero, si tratta di un 9% in meno rispetto al 2015, ma l’onere continua a essere scaricato solo su pochi Stati. Secondo il rapporto annuale dell’Easo, l’Agenzia europea per l’asilo, la stragrande maggioranza delle richieste di protezione internazionale è stata presentata in Germania (60,5%), seguita da Italia (8,4%) e Francia (6,1%). Al primo posto tra i richiedenti asilo ci sono i siriani (26% del totale), seguiti da afghani (14%) e iracheni (10%). Per la maggior parte di loro, la destinazione preferita è proprio la Germania. Idem per chi fugge dal Pakistan, anche se molti scelgono l’Italia. Il nostro Paese è il principale punto d’approdo per i nigeriani: gli arrivi nel 2016 (48.705) sono aumentati del 54%. Gli analisti dell’Easo hanno notato anche un forte incremento di richieste d’asilo da parte di cittadini iraniani (+47%), che puntano principalmente alla Germania e al Regno Unito. Un dato curioso riguarda i flussi di migranti dall’Albania (31.553 quelli che hanno fatto domanda di protezione internazionale): l’Italia non è più la meta preferita, visto che al primo posto ci sono Francia e Germania. Ovviamente non tutte le richieste vanno a buon fine: solo il 57% ottiene lo status di rifugiato o la protezione sussidiaria. Il numero di domande accettate, però, segna un aumento considerevole rispetto agli anni precedenti (nel 2015 era il 49%). Dall’ufficio dell’Easo, che ha sede a Malta, fanno notare che la variazione è legata alla composizione nazionale dei richiedenti asilo: per i siriani va a buon fine il 98% delle richieste, per gli eritrei il 92% e per gli iracheni il 61%. Più difficile ottenere la protezione per gli afghani, nonostante la situazione ancora molto instabile nel Paese: solo il 37% ci riesce, gli altri vengono considerati e trattati come "irregolari". Droghe. "Giro l’Italia, racconto il mio Ema. Ucciso a 16 anni da una pasticca" di Elisabetta Soglio Corriere della Sera, 9 febbraio 2017 Gianpietro Ghidini, dopo la morte del figlio, ha creato una Fondazione che ha 500 soci e una pagina Facebook con oltre 10 milioni di contatti. Ha incontrato gli studenti di 726 scuole. Ora uno spettacolo teatrale. Mercoledì è stato l’incontro numero 726, a Matera. Che siano scuole o discoteche, oratori o campi sportivi: purché ci siano adolescenti e genitori a cui raccontare la storia di Emanuele, che poi è la storia di un padre e di un figlio e del miracolo di come dalla morte possano nascere amore e nuove energie. Emanuele si è buttato nel fiume Chiese, la notte del 23 novembre 2013, al termine di una festa durante la quale alcuni ragazzi maggiorenni gli avevano girato della droga. Una pasticca fatale, il gioco che diventa tragedia, la lampadina che si spegne nel cervello e quell’impulso a buttarsi nelle acque gelate. Emanuele Ghidini viveva a Gavardo vicino a Salò (Bs) con la sua famiglia. Aveva 16 anni. Forse per caso si era buttato più o meno nel punto dove da bambino, insieme al papà Gianpietro, aveva lasciato il suo pesciolino rosso che nello stagno di casa stava morendo. Voleva che vivesse e "Pesciolino rosso" è così diventato il progetto che aiuta Gianpietro Ghidini, la moglie e le due figlie a dare un senso a quanto accaduto: "Non vogliamo insegnare nulla a nessuno. Semplicemente racconto la mia, la nostra storia per evitare che altri giovani commettano lo stesso errore e per ricordare ai genitori l’importanza di tenere sempre aperto un dialogo con i figli, che hanno bisogno di sentirsi accolti, non giudicati, anche quando sbagliano". Ecco il perché di tutti quegli appuntamenti dove scorrono emozione, sorrisi, lacrime e vita. Ecco il perché di una Fondazione, che ha 500 soci e una pagina Facebook con oltre 10 milioni di contatti. Poi ci sono quattro libri, gli incontri e un’opera teatrale che esordirà il 25 febbraio a Gavardo, proseguirà a Montichiari e il 4 marzo andrà in scena a Roma da dove comincerà un giro in Italia. "Ci ha contattati un autore (Mauro Mandolini, regista e coautore di questo atto unico insieme al figlio Riccardo, ndr) che si era appassionato alla storia di Ema e voleva portarla sul palco. Lo abbiamo aiutato perché ho pensato che sarebbe stata una modalità diversa, interessante e utile per far passare il nostro messaggio". Perché alla fine, per Gianpietro Ghidini, conta soltanto quello. Durante uno degli ultimi incontri, al collegio Sant’Antonio di Busnago (Monza e Brianza) ha tenuto incollati alle sedie per due ore genitori e figli. Nella prima parte ha raccontato questa storia di dolore e di amore: "Mi sono sentito un fallito, io che nella vita ero stato un imprenditore di successo, avevo guadagnato tanti soldi, avevo case e macchine. Ma avevo dimenticato i miei valori e non avevo saputo difendere la mia famiglia. Credevo di impazzire di dolore, non mi sono ucciso solo perché ho pensato a mia moglie e alle altre mie due figlie. Due notti dopo ho sognato Emanuele, era in fondo al mare e cercavo di andarlo a prendere. Mi sono svegliato convinto di avere assorbito dentro di me la sua energia, ho scritto una lettera al mio Ema e dieci giorni dopo ho dato vita alla Fondazione pensando che mio figlio e il suo pesciolino sono ora entrambi in un’altra dimensione". Certo, i momenti di vuoto e di dolore restano: "Mi fanno forza gli abbracci di tanti ragazzi che incontro in tutta Italia, mi danno l’idea che Ema non sia morto invano e che il mio dolore possa in qualche modo lenire quello altrui". Con supporti scientifici, parla agli adolescenti delle dipendenze: da alcol e droga soprattutto: "Non dovete sottovalutare né un bicchiere di birra né uno spinello. Non dovete fare cose solo perché temete di non essere accettati dal gruppo, perché potrebbe andarci di mezzo la vostra vita". Poi si passa ai genitori: "Dovremmo imparare a far scattare dentro di noi un semaforo rosso ogni volta che sta per partire una reazione impulsiva con i nostri figli. Dobbiamo saper dire dei no, ma farli crescere nella convinzione che qualunque errore commetteranno noi saremo al loro fianco, perché li amiamo più della nostra stessa vita". Anche uno dei libri pubblicati da Pesciolino Rosso, Lasciami Volare (che sarà poi anche il titolo dell’opera teatrale) ha una sezione per i giovani e una per gli adulti. Due linguaggi diversi per creare un ponte. E trasformare il dolore in amore. Siria: Assad "difendere il paese è più importante di qualsiasi processo davanti alla giustizia" Nova, 9 febbraio 2017 Difendere la Siria in questo momento è più importante di qualsiasi processo davanti ad una corte internazionale. Lo ha detto il presidente siriano, Bashar al Assad, in un’intervista ad un’emittente belga pubblicata dall’agenzia di stampa governativa "Sana" dopo aver ricevuto una delegazione di parlamentari del partito nazionalista fiammingo Vlaams Belang, che già in passato aveva inviato suoi esponenti in Siria. Ad una domanda se sia preoccupato di un eventuale processo presso la Corte di giustizia internazionale dell’Aia, Assad ha risposto che né lui né gli altri esponenti del governo siriano "se ne curano. Per me come presidente, quando sto facendo il mio lavoro, e la stessa cosa vale per il governo e l’esercito, è difendere il nostro paese". Nelle sue dichiarazioni Assad ha anche lanciato delle critiche alle Nazioni Unite, affermando che le istituzioni dell’Onu "sono di parte, perché influenzate soprattutto da americani, francesi e britannici". L’Assemblea generale dell’Onu ha approvato a dicembre scorso un’inchiesta su possibili crimini di guerra commessi dalle forze governative in Siria come primo passo per il perseguimento dei responsabili di fronte alla giustizia internazionale. La misura è stata duramente criticata dall’ambasciatore siriano all’Onu, Bashar Jaafari, il quale l’ha definita "una chiara interferenza negli affari interni di uno stato membro". La Ong Amnesty International, invece, ha pubblicato oggi un rapporto in cui accusa il governo siriano dell’uccisione di migliaia di oppositori politici nel famigerato carcere di Saydnaya. Amnesty International ha accusato le forze siriane di aver ucciso tra i 5 e i 13 mila detenuti, in maggioranza civili, fra il 2011 e il 2015 nella prigione di Saydnaya, 30 chilometri a nord di Damasco, dopo torture e processi sommari. Si tratterebbe in buona parte di oppositori politici e le esecuzioni sarebbero avvenute due volte a settimana. Il rapporto si basa su un’indagine condotta dal dicembre del 2015 al dicembre del 2016 tramite 84 interviste ad altrettanti testimoni tra cui guardie carcerarie, impiegati ed ex detenuti ma anche giudici e avvocati oltre che esperti locali e internazionali. Secondo la Ong, le vittime subivano processi sommari nelle loro celle e venivano poi impiccati. Yemen. Il governo: "basta blitz americani sul nostro territorio" di Giordano Stabile La Stampa, 9 febbraio 2017 Il governo vieta le missioni a terra dopo la strage di civili del 29 gennaio. Lo Yemen ha ritirato agli Stati Uniti l’autorizzazione a compiere raid sul terreno. La decisione arriva dopo le durissime polemiche in seguito alla morte di 16 civili nel blitz del 29 gennaio nella provincia di Al-Bayda. Il commando di Navy Seals, appoggiato da droni ed elicotteri Apache, era sbarcato in un piccolo villaggio dove si sospettava ci fossero i più importanti leader di Al-Qaeda nella Penisola arabica (Aqap). Battaglia durissima - I militari avevano però incontrato una dura resistenza. Un aereo da trasporto Osprey era stato danneggiato, costretto a un atterraggio di emergenza e poi distrutto dagli stessi statunitensi. Un soldato era rimasto ucciso nel conflitto a fuoco. Sul terreno erano rimasti uccisi almeno 14 terroristi ma anche civili che vivevano con loro e di fatto si erano trasformati in scudi umani, compresa la figlia di otto anni di Anwar al-Awlaki, il jihadista americano-yemenita ucciso da un drone nel settembre 2001. La piccola Nawar - Su tutti i media arabi la foto della piccola Nawar è diventata virale e ha causato una sollevazione contro i raid americani. Il governo di Abdrabbuh Mansour Hadi, pur alleato di Washington, è stato così spinto a togliere l’autorizzazione. Hadi deve fronteggiare Al-Qaeda, forte di almeno 4 mila combattenti e in continua espansione nelle province centrali del Paese, ma soprattutto l’insurrezione dei ribelli sciiti Houthi, che nel febbraio del 2015 lo hanno cacciato dalla capitale Sanaa. L’Arabia Saudita e una coalizione di una decina di Paesi sunniti lo sostengono nella guerra civile, anche con bombardamenti indiscriminati, ma le forze governative hanno l’effettivo controllo solo di Aden e della zona circostante. L’Emiro di Aqap - In questo vuoto di potere si sono inseriti i jihadisti, comprese cellule dell’Isis. Le forze Usa conducono frequenti raid con i droni, ma i risultati non sono soddisfacenti. Per questo l’Amministrazione Trump ha optato per una missione di terra. Uno dei leader eleminati nel blitz del 29 gennaio è Abdulrauf al Dhahab, già oggetto di tentativi di uccisione con i droni. Ma, secondo fonti Usa, l’attacco era mirato in realtà all’eliminazione di Qassim al-Raymi, l’Emiro di Aqap. Al-Raymi era già sfuggito a due attacchi aerei, e a due raid di terra da parte dell’esercito yemenita. Anche questa volta sì è salvato e ha sbeffeggiato il presidente americano, "nuovo idiota alla Casa Bianca", in un messaggio. Iran. Ricercatore iraniano rischia la pena di morte: l’appello di Amnesty International di Riccardo Noury Corriere della Sera, 9 febbraio 2017 Amnesty International ha lanciato un appello mondiale in favore di Ahmadreza Djalali, il ricercatore iraniano di 45 anni, esperto di Medicina dei disastri e assistenza umanitaria presso l’Università del Piemonte Orientale di Novara, che è in carcere in Iran dal 25 aprile 2016 e rischia la pena di morte. Ahmadreza Djalali è un medico di 45 anni residente in Svezia, docente e ricercatore in Medicina dei disastri e assistenza umanitaria, che ha insegnato nelle università di Belgio, Italia e Svezia. Lavora nel campo della Medicina dei disastri dal 1999 e ha scritto decine di articoli accademici. Ha lasciato l’Iran nel 2009 per un dottorato di ricerca presso il Karolinska Institute in Svezia, poi presso l’Università degli studi del Piemonte Orientale e la Vrije Universiteit di Bruxelles, in Belgio. Djalali è stato arrestato in Iran il 25 aprile 2016, dove si trovava per prendere parte a dei seminari sulla Medicina dei disastri. Detenuto nella prigione di Evin, nella capitale Teheran, rischia la pena di morte. In due precedenti occasioni si era recato in Iran, senza problemi. Il 31 gennaio 2017 Djalali è comparso davanti alla sezione 15 del Tribunale rivoluzionario di Teheran, senza il suo avvocato. Il presidente del tribunale lo ha informato che è accusato di "spionaggio" e che potrebbe essere condannato a morte. L’avvocato nominato da Djalali ha riferito ad Amnesty International che le autorità giudiziarie non hanno ancora formalizzato un capo d’accusa né hanno stabilito la data del processo. L’ufficio deI procuratore generale si rifiuta di condividere la documentazione con l’avvocato perché lo considera non idoneo a gestire il caso in quanto non compare negli elenchi della procura. Nel dicembre 2016, le autorità iraniane hanno fatto forti pressioni su Djalali affinché firmasse una dichiarazione in cui "confessava" di essere una spia per conto di un "governo ostile". Quando ha rifiutato, gli è stato detto che gliela avrebbero fatta pagare con l’accusa di "atti ostili contro Dio" (moharebeh), che comporta la pena di morte. In segno di protesta, alla fine del mese Djalali ha iniziato uno sciopero della fame che ne ha fiaccato la salute: ha perso 20 chilogrammi di peso, ha avuto due collassi, la pressione sanguinea è diminuita e ha forti dolori ai reni. Quando è stato arrestato dai servizi segreti, senza mandato di cattura, si trovava in Iran per partecipare a una serie di seminari sulla medicina d’emergenza nelle università di Teheran e Shiraz. I suoi familiari non hanno avuto sue notizie per 10 giorni, quando Djalali ha potuto fare una breve telefonata. Dopo una settimana di detenzione segreta, è stato trasferito alla sezione 209 della prigione di Evin, sotto il controllo del ministero dell’Intelligence, dove è rimasto per sette mesi, tre dei quali in isolamento, senza assistenza legale. Djalali ha denunciato che, durante questo periodo, è stato sottoposto a interrogatori intensi ed è stato costretto, sotto grande pressione emotiva e psicologica, a firmare delle dichiarazioni, i cui dettagli non sono noti ad Amnesty International. Ha potuto vedere un avvocato solo quando è stato trasferito nella sezione 7 della prigione di Evin. Poi, il 29 gennaio, è stato nuovamente spostato nella sezione 209. Da lì, è riuscito a fare una breve telefonata ai familiari e il 7 febbraio è stato riportato nella sezione 7. Amnesty International chiede alle autorità iraniane di rilasciare Djalali a meno che non sia incriminato per un reato accertato, effettivo e riconosciuto dal diritto internazionale e che, nel frattempo, egli non sia sottoposto a punizioni per aver intrapreso lo sciopero della fame, sia visitato da medici competenti ed abbia pieno accesso al suo avvocato e ai rappresentanti del consolato di Svezia in Iran.