Primo Festival della comunicazione sul carcere e sulle pene. A Bologna, il 23 marzo 2017 Ristretti Orizzonti, 8 febbraio 2017 Carcere, misure di Comunità, messa alla prova, mediazione penale. Giornali, siti, libri, blog, cortometraggi, documentari in esposizione. Bologna, 23 marzo 2017, ore 10-18. Biblioteca SalaBorsa del Comune, Piazza Nettuno, 3. Organizzatore: Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia. Partners: FNSI, ODG, CSVnet. Sono ormai molti anni che in tante carceri operano importanti realtà dell’informazione, che vedono lavorare insieme persone detenute e volontari esterni. Una redazione di un giornale non può essere un’attività ricreativa per detenuti autorizzata sotto stretto controllo, l’informazione dal carcere è un bene comune, una risorsa di civiltà utile soprattutto al territorio, che può così conoscere meglio qualcosa che gli appartiene. Un carcere dove volontari e detenuti fanno informazione ha molte più probabilità di diventare un carcere trasparente. La redazione di un giornale o di una attività di informazione in carcere, proiettata verso la società dove si devono inserire-reinserire le persone detenute, è importante e preziosa quanto qualsiasi altro giornale del territorio, e per questo invitiamo gli Ordini dei giornalisti e la Federazione della Stampa a tutelare queste realtà così fragili, ma anche così importanti. Occorre poi chiedere ai rappresentanti del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria di sedersi intorno a un tavolo con le redazioni, riconoscere l’importanza della loro presenza nelle carceri, e stabilire insieme regole chiare, che permettano di lavorare con la serietà e l’onestà che hanno caratterizzato in questi anni l’attività di tanti giornali e realtà dell’informazione dal carcere. Da parte delle redazioni, è importante imparare a lavorare insieme, per dare forza ed efficacia al loro prezioso lavoro di informazione, ma anche di sensibilizzazione di un territorio, che altrimenti vive condizionato dalla paure, indotte spesso da una informazione imprecisa e superficiale. Interverranno: Le redazioni delle realtà dell’informazione sul carcere e dal carcere, con persone detenute, loro famigliari, volontari. Glauco Giostra, Ordinario di Procedura penale presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Roma "La Sapienza", è stato Coordinatore Scientifico Nazionale del programma di ricerca "Processo penale e Informazione". Elisabetta D’Errico, avvocato, Membro dell’Osservatorio sull’informazione giudiziaria delle Camere Penali, presenterà lo studio "L’informazione giudiziaria in Italia. Libro bianco sui rapporti tra mezzi di comunicazione e processo penale". Mario Consani, cronista giudiziario del quotidiano Il Giorno, consigliere dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia e presidente dell’Associazione Walter Tobagi per la formazione al Giornalismo. Sono stati chiesti i crediti per i giornalisti. Abbiamo invitato a intervenire rappresentanti dell’Ordine dei Giornalisti e della Federazione della Stampa. Per informazioni: progetti.ristretti@gmail.com. Tel. 049.654233. Ricevere o spedire libri al 41bis? Decide la Consulta di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 8 febbraio 2017 Il quesito sollevato dal giudice di sorveglianza di Spoleto. La Corte Costituzionale oggi si dovrà esprimere sulla legittimità o meno della norma che vieta ai detenuti reclusi al 41 bis di ricevere o spedire libri. A rivolgersi alla Corte è stato Fabio Gianfilippi, il magistrato di sorveglianza di Spoleto. Con un’ordinanza del 24 aprile 2016 il giudice dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 41 bis comma 2 quater, lettere a e c dell’Ordinamento penitenziario, nella parte in cui consente all’Amministrazione penitenziaria di adottare, tra le misure di elevata sicurezza volte a prevenire contatti del detenuto in regime detentivo differenziato con l’organizzazione di appartenenza o di attuale riferimento, il divieto di ricevere dall’esterno e di spedire all’esterno libri e riviste, in contrasto con diversi articoli della Costituzione come l’articolo 15, il diritto alla libertà e segretezza della corrispondenza, l’articolo 21, il diritto all’informazione e gli articoli 33 e 34 che garantiscono il diritto allo studio. L’occasione è fornita dal reclamo con il quale un detenuto, sottoposto al regime detentivo speciale dell’articolo 41bis, lamenta le limitazioni imposte dalla Casa circondariale presso cui è ristretto a seguito di una circolare del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria in materia di divieto di ricezione di libri dall’esterno. Si tratta, nell’ottica del detenuto che ha predisposto il reclamo, di limitazioni che pregiudicherebbero i diritti costituzionalmente garantiti di corrispondere e informarsi e che si traducono, tra l’altro, nel divieto di ricezione di libri e riviste da parte dei familiari, anche tramite pacco consegnato al colloquio o spedito per posta, nonché nel divieto di invio dello stesso materiale da parte del detenuto ai familiari. Le circolari del Dap- La circolare incriminata del Dap del 16 novembre 2011 (n. 8845) è stata emessa all’indomani della riscontrata elusione dei controlli sulle comunicazioni con l’esterno da parte di alcuni detenuti in regime di 41 bis: voluminosi libri venivano consegnati al momento dei colloqui con i familiari o inviati tramite pacchi postali, e restituiti con analoghe modalità in tempi tali, tuttavia, da non consentire ragionevolmente l’integrale lettura di quanto scambiato. È sorto quindi il sospetto che attraverso lo scambio di materiale stampato stessero avvenendo illecite comunicazioni dei detenuti con l’esterno, sottratte al controllo della "censura", con sostanziale svilimento delle ragioni del regime speciale di detenzione. Per questo, il Dap ha ordinato, fra l’altro, alle direzioni degli istituti che ospitano detenuti 41-bis, di impedire loro di ricevere dall’esterno, e viceversa consegnare, qualsiasi tipo di stampa, sia nel corso dei colloqui sia per posta. In seguito a tale circolare, erano partite varie denunce da parte dei detenuti reclusi al 41-bis. Molti reclami vennero accolti tramite le ordinanze di alcuni giudici di sorveglianza sospendendone i divieti. I pubblici ministeri si opposero a tali ordinanze e i loro ricorso furono confermati in Cassazione. Infine una sentenza della suprema Corte del 16 ottobre 2014 ha dato ragione definitivamente al Dap, rendendo così definitiva questa restrizione. In seguito è intervenuta una nuova circolare Dap dell’ 11 febbraio 2014, che ribadisce i contenuti della precedente sulla scorta della pronuncia della Cassazione del 23 settembre 2013 nei confronti di un altro detenuto in regime differenziato, nella quale la Suprema Corte considera le limitazioni in linea con le finalità preventive del 41bis, non risultandone menomati il diritto all’informazione e allo studio. Per tale motivo l’amministrazione ha imposto che si tornino ad applicare i divieti a tutti i detenuti in regime differenziato. Il "carcere duro". Il regime di 41bis è il punto più rigido della scala del trattamento differenziato che regola il sistema carcerario italiano. È stato introdotto ad opera della "legge Gozzini" n. 663 del 1986, per consentire al ministro della Giustizia di sospendere le ordinarie regole di trattamento dei detenuti in caso di rivolta o di particolari esigenze di sicurezza all’interno dell’istituto penitenziario. È però sulla scorta dell’onda emotiva suscitata dai tragici fatti di Capaci che il decreto legge n. 306 dell’8 giugno 1992 aggiunge il ben più noto secondo comma, che attribuisce al ministro della Giustizia la facoltà di sospendere - quando ricorrano gravi motivi di ordine e sicurezza pubblica - quelle regole di trattamento e quegli istituti che possano porsi in contrasto con esigenze di ordine e sicurezza, nei confronti di detenuti e di internati per delitti che si potrebbero genericamente definire "di mafia", laddove vi siano elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con un’associazione criminale, terroristica ed eversiva. Sebbene avesse originariamente natura temporanea, nell’ottica della "strategia dell’emergenza", il regime è stato prorogato da successive leggi, fino ad essere stabilizzato dalla legge n. 279 del 2002. Nonostante gli sforzi della commissione parlamentare presieduta dal senatore Luigi Manconi, in Parlamento ancora non si è aperto nessun dibattito per migliorare le condizioni del 41 bis. Secondo diversi studi, la frequenza di suicidi tra i detenuti al 41-bis è 3,5 volte maggiore rispetto al resto della popolazione reclusa. Ma si può morire facilmente anche a causa del ritardo nel diagnosticare, nonostante i sintomi, grave patologie. Uno degli ultimi casi riguarda Feliciano Mallardo, condannato in primo grado a 24 anni per estorsione aggravata e associazione camorristica, morto l’anno scorso per un cancro ai polmoni, scoperto quando aveva già raggiunto i sette centimetri di massa, e metastasi al fegato. La moglie e i figli l’avevano visto l’ultima volta venti giorni prima che morisse, ma attraverso un vetro divisore e quindi senza nessuna possibilità di contatto. Il 41 bis è un sistema di carcerazione speciale che prevede un isolamento per 22 ore al giorno, un solo colloquio al mese con i familiari dietro un vetro, divieto assoluto di ricevere libri e quasi nessun rapporto sociale con altri detenuti. Il senatore Luigi Manconi ha più volte spiegato, anche sulle pagine de Il Dubbio, che il 41 bis in realtà non dovrebbe essere un carcere duro. Il suo scopo dovrebbe essere uno solo: quello di impedire i rapporti tra i detenuti e la criminalità esterna. "Tutte le misure finalizzate a impedire il collegamento con l’esterno sono legittime - ha più volte sintetizzato Manconi ma non quelle che rendono insensatamente più intollerabile la pena". Oggi la Corte costituzionale decide su uno dei diritti che vengono negati nel nome della sicurezza. Il relatore del caso è il giudice della Consulta Franco Modugno, il costituzionalista indicato dal Movimento Cinque Stelle. Sarà lui a decidere se verrà nuovamente data la possibilità ai detenuti al 41 bis di ricevere e dare i libri. Un diritto negato che recide soprattutto l’affetto familiare, perché come ha scritto nell’ordinanza il magistrato di sorveglianza di Spoleto con un libro "può evidentemente assolversi la necessità di far conoscere uno stato d’animo, di veicolare un messaggio di vicinanza, di condividere una certa urgenza emotiva, di manlevare in concreto il detenuto delle spese dell’acquisto di un testo manifestandogli così il sostegno familiare" Libri ai detenuti 41-bis? Antigone favorevole, contrario il Sindacato di Polizia penitenziaria Adnkronos, 8 febbraio 2017 "Sì, è un diritto". "No, è un pericolo". Oggi a palazzo della Consulta i giudici della Corte Costituzionale sono chiamati a decidere sulla possibilità per i detenuti sottoposti al regime speciale del 41bis di poter ricevere e spedire libri e riviste, ora disponibili solo attraverso il ricorso alle biblioteche penitenziarie oppure tramite richiesta alla direzione del carcere. La sentenza - legata all’iniziativa di un magistrato di sorveglianza di Spoleto, investito di un reclamo presentato da un detenuto in regime 41bis in riferimento agli articoli 15, 21, 33, 34 e 117 della Costituzione italiana nonché alla Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo - riguarda la possibilità, in base a circolari ministeriali del Dap, il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, di adottare tra le misure di elevata sicurezza interna ed esterna, volta a prevenire contatti del detenuto in regime differenziato con l’organizzazione criminale di appartenenza o di riferimento, il divieto di ricevere dall’esterno e di spedire all’esterno libri e riviste. In attesa del verdetto della Consulta, l’associazione Antigone e il Sindacato di polizia penitenziaria Sappe, sentiti dall’Adnkronos, si schierano su due fronti opposti: la prima per un sì, il secondo per il no. "Questo divieto confligge con il diritto del detenuto, che può trovare limiti solo in presenza di un concreto fondamento basato su esigenze di sicurezza - sostiene Susanna Marietti coordinatrice di Antigone. Un libro può essere benissimo controllato all’ingresso e dunque negarlo sarebbe una indebita forma di pressione. Ci auguriamo che la Corte Costituzionale prenda una decisione aperta alla possibilità di non negare questo diritto e non mancano dei precedenti giuridici in tal senso". Opposta la posizione che esprime Donato Capece segretario del Sappe: "A parte tutte le considerazioni sulla sicurezza, legate alla possibilità di inviare o ricevere messaggi "nascosti" stampati in libri o riviste, un via libera della Consulta aggraverebbe ulteriormente i carichi di lavoro della Polizia penitenziaria, che già lamentano pesanti carenze di organico, lavorando ben al di sotto dei limiti di sicurezza: attenzione a non far implodere il sistema penitenziario italiano", avverte Capece. Il sindacalista del Sappe auspica che "la sentenza della Corte Costituzionale sia negativa: i detenuti già hanno a disposizione libri e riviste, non c’è alcuna necessità che arrivino da fuori, non controllabili nell’interezza dei loro testi. E non scordiamoci che stiamo parlando di detenuti sottoposti al regime del 41bis e cioè ad alta pericolosità sociale, per i delitti efferati e gravi di cui si sono macchiati". Abbandonati o in strutture inadeguate. Il futuro degli internati resta difficile di Paolo Russo La Stampa, 8 febbraio 2017 Molti sindaci si oppongono all’apertura delle residenze speciali. Gli psichiatri: c’è il rischio che diventino luoghi di detenzione. "S’unn a finisci ti mannu a Barcellona". Al manicomio criminale. Ieri ha chiuso l’Ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo Fiorentino. "Tra una decina di giorni trasmigreranno in comunità terapeutica anche gli ultimi 13 internati rimasti", assicura Nunziante Rosania, direttore dell’ex Opg di Barcellona Pozzo di Gotto (Messina). Ignazio Marino, prima di indossare la fascia tricolore a Roma, mostrò all’Italia le immagini di uomini e donne legati in letti di contenzione tra escrementi e sporcizia. Un’interrogazione parlamentare del Ds Michele Anzaldi, chiede conto di una ritardata chiusura giudicata "scandalosa". Tra pochi giorni si chiuderà un’era. Una lunga marcia iniziata nel ‘78 con la legge Basaglia che decretava la fine dei manicomi. Arrivò però solo vent’anni dopo, quando l’allora ministro della sanità, Rosy Bindi, firmò la chiusura degli ultimi rimasti. Mentre per gli Opg bisognò aspettare il 2015. "Missione compiuta", dichiara soddisfatto il commissario di governo per la chiusura degli ex manicomi criminali, Franco Corleone. "In poco più di un anno abbiamo ricollocato 601 internati nelle Rems (Residenze per l’esecuzione della misura di sicurezza sanitaria, ndr), che hanno un massimo 20 letti e abrogano il regime di detenzione ma forniscono assistenza psichiatrica. Hanno lavorato bene: lo dimostrano i 222 pazienti dimessi perché guariti", dichiara anticipando i dati della relazione che presenterà al Parlamento dopo la scadenza del suo mandato, il 16 febbraio. Gli psichiatri la vedono diversamente. "Un po’ per carenza di risorse, un po’ per l’opposizione di tanti sindaci, i posti nelle Rems sono insufficienti. Così tanti ex internati sono finiti abbandonati a loro stessi ai domiciliari o alloggiati in comunità terapeutiche non attrezzate per il disagio mentale, a contatto con persone che hanno magari problemi di tossicodipendenza e che finiscono così per non essere a loro volta seguire come si dovrebbe", spiega Bernardo Carpiniello, Presidente eletto della Società italiana psichiatria. Che però punta l’indice anche contro la magistratura, colpevole "di intendere le Rems come luoghi detentivi alternativi agli Opg anziché di cura, dove il paziente rimane per il periodo stabilito dalla Sanità anziché dalla Giustizia". E che anche questa sia la causa dei 200 ex internati in lista d’attesa per le Rems lo conferma il commissario Corleone, che per risolvere il problema chiede "maggior coordinamento tra Sanità, Giustizia, Regioni e rappresentati di Rems e detenuti". Che le cose non siano andate tutte per il verso giusto lo racconta proprio l’ex Opg di Barcellona, che tra i suoi "ospiti" ha chi nel 2009 prese a martellate due anziani riducendoli in fin di vita. "A parte un caso, qui rimasti sono tutti pazienti che non danno particolari problemi e che possono essere accolti nelle comunità terapeutiche che nella provincia hanno già dato la loro disponibilità", assicura il direttore. Ma un operatore dell’ex Opg che vive ogni giorno a contatto con i 13 superstiti racconta di "ex internati usciti dalla porta e rientrati dalla finestra come detenuti comuni in osservazione psichiatrica dopo aver commesso reati come violenza domestica e in qualche caso carnale". Questo perché chi è uscito non ha trovato l’assistenza di cui aveva bisogno. Anche se ora il direttore Rosania annuncia di aver firmato un protocollo d’intesa con l’Asl di Messina per migliorare l’assistenza psichiatrica dei nuovi detenuti che continueranno ad arrivare in osservazione. Quando lo Stato non paga le sue colpe di Michele Ainis La Repubblica, 8 febbraio 2017 Se non rispetti le leggi, lo Stato ti bastona. E se a delinquere è lo Stato? C’è un castigo di Stato per i crimini di Stato? Dipende. Quando la responsabilità cade su un singolo individuo (dal sindaco d’un paesotto di montagna al presidente della Repubblica italiana), prima o poi dovrà renderne conto. Quando invece la colpa è di un collegio (dall’assemblea municipale al Consiglio dei ministri), liberi tutti, l’illegalità è legale. Da qui un buco del nostro Stato di diritto. Ma negli ultimi tempi il buco è diventato una voragine, che inghiotte il senso stesso delle regole, la loro specifica funzione. Le cronache, d’altronde, ne offrono testimonianza quotidiana. Per esempio rispetto alle nomine su cui è competente il Parlamento. Così, alla Consulta manca un giudice costituzionale da novembre, tanto che quest’ultima ha dovuto pronunziarsi sull’Italicum a ranghi incompleti; campa cavallo, al momento i partiti hanno ben altri pensieri. E poi, che mai saranno tre mesi di ritardo rispetto ai 19 mesi che trascorsero fra il 2014 e il 2015, quando servirono 32 votazioni per ripristinare il Mattarellum? In passato Marco Pannella, per protesta, praticò uno sciopero della sete, arrivando in ultimo a bere le sue urine; ma era un’altra stagione, ormai l’inadempienza delle Camere non scandalizza più nessuno. Ne è prova il silenzio che circonda le inadempienze regionali. Nel 2011 una legge della Regione Abruzzo istituì il Garante dei detenuti, affidando al Consiglio regionale il compito d’eleggerlo "entro novanta giorni". Risultato: 4 anni dopo (giugno 2015) è stato diffuso un avviso pubblico; sono pervenute 17 candidature; tuttavia il posto rimane ancora vuoto. Idem in Sardegna (legge del 2011, nessuna nomina in 6 anni). Che peraltro ha fatto il bis con il Garante per l’infanzia, anch’esso latitante da 6 anni. Altre Regioni si sono invece rivelate (si fa per dire) più solerti: 4 anni di ritardo in Umbria e in Sicilia, 5 anni in Lazio, Basilicata, Puglia. Mentre i bambini del Piemonte hanno dovuto pazientare 7 anni (dal 2009 al 2016) prima di conoscere il faccione del Garante promesso dalla legge regionale. Siccome nel frattempo saranno un po’ cresciuti, questa lunga attesa ha modificato il ruolo dell’incaricato: un post Garante degli ex bambini. E c’è poi il capitolo delle leggi annuali, promesse con uno scatto d’ottimismo dalle stesse assemblee legislative. È il caso della legge annuale di semplificazione, introdotta nel 1997 per sfoltire norme e procedure; però in vent’anni le Camere vi hanno provveduto soltanto quattro volte (nel 1999, nel 2000, nel 2003, nel 2005). È inoltre il caso della legge annuale sulla concorrenza, resa obbligatoria nel 2009. In astratto, uno strumento prezioso, perché mantiene costante l’attenzione verso questo valore, e perché consente di depurare l’ordinamento dalle norme anti-competitive che vi si siano depositate durante l’anno solare. In concreto, l’esperienza suona pressoché fallimentare: il disegno di legge governativo è stato presentato per la prima volta nel 2015, e chissà se verrà mai approvato. Chi paga dazio, ecco il problema. Giacché non serve a nulla stabilire un obbligo, se l’obbligato non rischia nemmeno un buffetto sulla guancia. Un altro esempio: le leggi di delega al governo. Nella seconda Repubblica sono raddoppiate; tuttavia fra il 1996 e il 2013 - calcola uno studio di Davide De Lungo - il 43% è rimasto inattuato. Esempio bis: le norme sulla trasparenza delle amministrazioni pubbliche. Battezzate nel 2013, rafforzate nel 2016, stentano a farsi rispettare in quasi la metà dei Comuni italiani. Esempio tris: lo Statuto del contribuente. Varato da una legge nel 2000 per salvaguardare alcuni principi di civiltà giuridica, come la chiarezza delle disposizioni tributarie o la loro irretroattività; ma già nel 2012 aveva contato 450 violazioni per mano di altrettante leggi. Probabilmente adesso siamo vicini al migliaio. Questi costumi normativi offrono un cattivo esempio ai cittadini. Incrinano il sentimento della legalità, che peraltro alle nostre latitudini non è mai stato troppo vigoroso. Si rivelano infine un po’ vigliacchi, giacché ciascun parlamentare o consigliere annega le proprie responsabilità in quelle del collegio cui appartiene. C’è allora un solo antidoto contro la logica del branco: colpire il branco per colpire gli individui. Come? Con uno scioglimento anticipato, con un licenziamento collettivo. La Costituzione lo prevede (articoli 88 e 126). Basterebbe prenderla sul serio. Anno Giudiziario Ucpi. Separare le carriere per salvare il processo e la democrazia liberale di Beniamino Migliucci e Francesco Petrelli* Il Dubbio, 8 febbraio 2017 Si terrà a Matera, il 10 e l’11 febbraio prossimi, l’Inaugurazione dell’Anno giudiziario dei penalisti italiani. Un evento, ospitato in quest’occasione nella città lucana, che tradizionalmente segue le analoghe inaugurazioni della magistratura e che da queste si distingue per essere non un rituale momento celebrativo ma effettiva occasione di incontro e di confronto con la politica, l’accademia e la magistratura stessa. Un evento che vuole favorire una riflessione sullo stato della Giustizia penale e che quest’anno viene a cadere in un momento particolarmente critico proprio sul piano delle riforme e dei rapporti fra magistratura e politica. Una crisi evidentemente tanto grave da indurre, per la prima volta, l’Anm a disertare l’Inaugurazione dell’Anno giudiziario in polemica con il ministro Orlando, e a sottrarsi di fatto anche a una qualche condivisione di quelle numerose ed estese annotazioni critiche che sono emerse. Per l’Unione Camere penali italiane non si tratta di una inaugurazione come le altre, perché a Matera saranno diffuse le coordinate operative della campagna lanciata dall’Ucpi per raccogliere le firme a sostegno della proposta di legge costituzionale sulla separazione delle carriere. Ed è proprio questa non causale coincidenza fra crisi all’interno della magistratura, nuovi difficili rapporti della magistratura associata con la politica e questa ricerca di nuovi futuri equilibri istituzionali ed ordinamentali, promossa dall’avvocatura, che ci pare interessante sottolineare. A fronte di una consapevolezza sempre più diffusa del problema dell’uso mediatico della giustizia, si assiste, da parte dei vertici di Anm, a un sostanziale rifiuto di ogni possibile vizio, di ogni mancanza, di ogni eventuale nesso fra i modi con i quali la giustizia viene spesso amministrata e gli esiti di quella selvaggia mediatizzazione di ogni iniziativa giudiziaria, fatta di un uso tutt’ora ingiustificato della custodia cautelare, fatta di diffusione di atti di indagine, di personalizzazioni e spettacolarizzazioni, di anticipazione dei giudizi di reità, di mancanza della necessaria sobrietà della intera giurisdizione. Da un simile contesto le figure di giudice e di accusatore ne escono, non solo visibilmente distorte, ma spesso sovrapposte all’interno di una indistinta funzione palingenetica, tanto carica di aspettative popolari, quanto produttiva di risentimento sociale. In questo potentissimo ma confuso mood comunicativo nasce la più deleteria delle distorsioni: il pubblico ministero è sempre il giustiziere che estirpa il male, il giudice che assolve un traditore delle aspettative popolari. Quanto questa confusione abbia contato nella produzione di scompensi sociali, ordinamentali ed istituzionali, appare evidente. La mancanza di un giudice terzo lascia senza i necessari presidi la presunzione di innocenza, la libertà personale, la separazione dei poteri, della funzione legislativa e di quella giurisdizionale, e lascia alla deriva sociale quel pericolosissimo risentimento che serpeggia nella collettività, che vede oramai nel giudice - pubblico ministero solo un salvifico somministratore di penalità, uno strumento repressivo che deve agire al di fuori di regole e di controlli. A Matera ci occuperemo, dunque, di ciò di cui la magistratura non intende occuparsi, perdendo di vista che su questa rifondazione e legittimazione della figura del giudice inevitabilmente si giocano non solo i destini prossimi della rappresentatività sindacale di una delle parti in gioco, ma quelli futuri della nostra intera democrazia liberale. * Presidente e Segretario Ucpi La ricetta dei pm: "pene più severe in appello" di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 8 febbraio 2017 La proposta del Procuratore generale di Torino (e condivisa da Davigo) per aggirare il divieto di "reformatio in pejus". Risolvere il problema della prescrizione del reato disseminando "trappole" durante il processo e "terrorizzando" la difesa. In estrema sintesi sono queste la proposte per risolvere l’eccessiva durata dei processi, una delle principali criticità del sistema giudiziario italiano, emerse durante il Congresso nazionale di Magistratura Indipendente che si è concluso sabato scorso a Torino. Tema sul tappeto quello della disciplina generale del processo penale d’appello, dove si prescriverebbero il 40% dei fascicoli. La soluzione prospettata dalle toghe è quella di mettere in discussione il principio fondamentale in materia di impugnazione della sentenza, prevedendo l’abolizione del divieto di reformatio in pejus. La norma cardine del codice di procedura penale secondo cui, quando appellante è solo l’imputato, il giudice non può irrogare una pena più grave per specie e quantità di quella enunciata nella sentenza revocata. La questione è stata posta da Francesco Saluzzo, procuratore generale di Torino, secondo cui "l’abolizione è una misura che permetterebbe di ridurre il carico di ricorsi: molti di essi, infatti, vengono presentati solo per beneficiare della prescrizione". Lo scopo degli appelli da parte delle difese sarebbe, secondo l’alto magistrato, solo quello di "guadagnare tempo". Per supportare la sua tesi, il procuratore generale di Torino ha cercato un parallelo con l’ordinamento francese. "Una conferma indiretta a questa tesi può essere cercata con un confronto con la vicina Francia, paese affine per caratteristiche storiche e culturali dove però non vige il divieto di reformatio in peius: nel 2009 il numero di appelli alla sentenza di primo grado presentati è stato pari a un quarto di quelli depositati in Italia nello stesso anno", aggiunge Saluzzo secondo il quale "l’abolizione del divieto di reformatio in peius non è un dogma", invitando il legislatore agire per deflazionare i processi di appello penali. Fermamente contrario alla proposta delle toghe è il presidente emerito della Corte costituzionale, Giovanni Maria Flick. "Non si capisce, infatti, per quale motivo l’eccessiva durata dei processi debba essere affrontata limitando i diritti della difesa. Stiamo infatti parlando di sentenze per le quali il pubblico ministero non ha, pur potendolo fare, presentato appello" ha dichiarato Flick. Si "terrorizza" l’imputato ingiustamente condannato. "l nostro sistema tollera assoluzioni erronee ma non condanne erronee: è per questo che esiste l’appello" ha concluso. Pronta la risposta del procuratore Saluzzo: "Abbiamo già tentato di fare qualcosa usando gli strumenti a disposizione per scoraggiare gli appelli presentati dagli imputati che mirano a un effetto dilatorio". "A Torino prosegue si cominciano a fare più appelli incidentali da parte della procura generale. L’appello incidentale spiega Saluzzo paralizza l’effetto dell’appello presentato da parte dell’imputato", cioè del divieto delle reformatio in peius. "Se propongo l’appello incidentale il divieto non c’è più spiega il Pg di Torino quindi un imputato condannato in primo grado a due anni può prenderne anche quattro in secondo grado. E così in qualche caso rinuncerà all’appello. "E questo fa notare Saluzzo alla lunga, mi auguro avrà una efficacia dissuasiva sulla quantità di appelli che vengono presentati e poi un’efficacia deflattiva, nel senso che a quel punto i procedimenti di appello saranno meno". Mafia Capitale, archiviazione per Alemanno e altri 112 indagati di Federica Angeli La Repubblica, 8 febbraio 2017 Sull’ipotesi di 416 bis non sono stati trovati "elementi idonei a sostenere l’accusa". L’ex sindaco è a giudizio per corruzione. Capitolo chiuso per Zingaretti. Prosegue il maxiprocesso per i 46 imputati, da Carminati a Odevaine, da Gramazio a Panzironi. Mentre il processo madre di Mafia Capitale con 46 imputati a processo - per reati che vanno dal 416 bis alla corruzione al falso in atto pubblico - procede ed è alla sua 173esima udienza, il gip Flavia Costantini ha archiviato le posizioni di 113 indagati sulle 116 complessive sollecitate nei mesi scorsi dalla Procura di Roma in relazione a quelle imputazioni legate a Mafia Capitale per le quali, però, non sono stati trovati "elementi idonei a sostenere l’accusa in giudizio". Si tratta di nomi finiti nella lista nera della procura a seguito dell’interrogatorio del giugno 2014 reso ai magistrati del pool Antimafia da Salvatore Buzzi. Il ras delle coop parlò di fatti e circostanze tirando dentro all’affaire mafia capitale politici, pubblici funzionari e imprenditori. Ma, dopo le indagini svolte dalla procura, oggi il gip ha accolto le richieste di archiviazione per 113 sui 116. Chiedendo invece che si approfondisca su tre di loro. Il provvedimento di archiviazione riguarda, tra gli altri, l’ex Nar Massimo Carminati (già sotto processo nell’aula bunker di Rebibbia per il 416 bis) in riferimento al reato di associazione per delinquere finalizzata a rapine e riciclaggio, e poi Ernesto Diotallevi e Giovanni De Carlo, a suo tempo iscritti sul registro degli indagati perché sospettati di essere a Roma i referenti di ‘Cosa Nostrà, circostanza poi non suffragata da alcun riscontro. Carminati resta però l’imputato eccellente del processo che si sta svolgendo nell’aula bunker di Rebibbia e che oggi ha visto alla sbarra interrogati Mario Cola (dipendente del dipartimento Patrimonio, quota Fi della giunta Alemanno), Stefano Bravo (commercialista di Luca Odevaine) e Fabio Stefoni (ex sindaco di centrodestra di Castelnuovo di Porto). Dal reato di associazione di stampo mafioso sono stati scagionati anche l’ex sindaco di Roma, Gianni Alemanno (sotto processo attualmente per corruzione e finanziamento illecito che inizierà a maggio), l’ex esponente di Ente Eur spa Riccardo Mancini, e gli avvocati Michelangelo Curti, Domenico Leto e Pierpaolo Dell’Anno. È finita in archivio, poi, la posizione riguardante il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti (che era indagato per corruzione e turbativa d’asta) e il suo ex braccio destro Maurizio Venafro (corruzione). Per tre posizioni minori, il giudice ha fissato la camera di consiglio e disposto la restituzione degli atti al pubblico ministero. Le motivazioni. "Gli elementi acquisiti nel corso delle indagini non risultano idonei a sostenere l’accusa in giudizio nei confronti di Gianni Alemanno con particolare riguardo all’elemento soggettivo del reato (l’articolo 416 bis cp) in merito al ruolo di partecipe nel reato associativo" spiega il gip Flavia Costantini. Nel provvedimento di archiviazione, il giudice dimostra come fosse evidente dalle "risultanze investigative" che "alla base dell’aggiudicazione degli appalti pubblici alle cooperative riconducibili a Buzzi vi sia stata la diffusa opera corruttiva, elevata a "modus operandi" e che proprio con l’elezione di Alemanno a sindaco di Roma, le stesse avessero moltiplicato il volume d’affari grazie alla "ramificazione" delle "conoscenze" in seno alla pubblica amministrazione". Non solo, ma "molti soggetti collegati a Carminati da una comune militanza politica nella destra sociale ed eversiva ed anche in alcuni casi, da rapporti di amicizia, avevano assunto importanti responsabilità di governo e amministrative nella Capitale". "Ringrazio la magistratura". "Finalmente, dopo 26 mesi di attesa, è stata definitivamente archiviata dal giudice per le indagini preliminari l’accusa nei miei confronti per il reato assurdo e infamante di associazione a delinquere di stampo mafioso. Ho creduto nella giustizia, attendendo pazientemente questo momento e sopportando tonnellate di fango che sono state lanciate sul mio nome da esponenti politici e giornalisti che non sanno distinguere un avviso di garanzia da una condanna". È il commento di Gianni Alemanno. "Analogo danno - aggiunge Alemanno - è stato però evitato al governatore della Regione Lazio, Nicola Zingaretti. Ringrazio la magistratura di cui ho sempre avuto fiducia, che mi ha ridato la mia onorabilità. Ora attendo che lo stesso facciano tutti quegli esponenti politici e giornalisti che hanno strumentalizzato queste indagini solo per utilità politica, dimenticando il danno che facevano non solo a me e alla mia famiglia ma a tutta la città di Roma". La chiusura degli Opg è costituzionale di Michele Passione Il Manifesto, 8 febbraio 2017 La Legge 81 del 2014, che ha disposto ciò che già dal 2008 era previsto - la chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari - ha superato nei giorni scorsi un altro attacco, dopo quello portato, poco dopo la sua entrata in vigore, ad opera del Tribunale di Sorveglianza di Messina. Con sentenza n. 22/2017, depositata il 26 gennaio scorso, la Corte Costituzionale ha dichiarato inammissibile un’altra questione di legittimità costituzionale, questa volta sollevata dal Gip di Napoli, che aveva ritenuto in contrasto con la Costituzione la disposizione che àncora la durata della misura di sicurezza alla pena massima prevista per il reato commesso. Censurando per vari motivi le argomentazioni del Giudice a quo, la Corte ribadisce comunque che "la norma impugnata è diretta ad evitare i cosiddetti ergastoli bianchi, cui può dar luogo la permanenza a tempo indeterminato in strutture detentive per l’esecuzione di misure di sicurezza, e pone così fine a situazioni in cui per l’infermità mentale, anche nel caso di commissione di reati di modesta gravità, persone senza supporti familiari o sociali rimanevano perennemente private della loro libertà in un contesto di natura penale". Parole chiare. La seconda buona notizia è data dal fatto che proprio ieri ha chiuso, finalmente, anche l’Opg di Montelupo; resta dunque aperta ormai la sola struttura siciliana di Barcellona Pozzo di Gotto, ultimo baluardo estremo per la custodia dei folli rei. Sono solo tredici internati, ma sono persone che subiscono una detenzione illegale intollerabile e che si protrae per colpevole distrazione delle istituzioni. Proprio a Barcellona, non a caso, nei prossimi giorni si recherà una delegazione di Stop Opg, per sostenere l’operazione di chiusura, mentre il Tribunale messinese aveva contestato la necessità ed urgenza (!) di introdurre modifiche strutturali di istituti secolari come la pericolosità sociale, indirettamente stravolti dall’intervento riformatore". Ancora. Il 27 e 28 gennaio scorsi centinaia di persone (amministratori, politici, medici, associazioni, giuristi) hanno preso parte a Trieste, provenendo da tutta Italia, ad un confronto su quanto realmente necessario per il definitivo superamento della logica custodiale in materia di salute mentale, e per la sua trasformazione in autentica inclusione sociale. Infine (ed è un’altra buona notizia): con ordinanza del 2 maggio 2016 il Magistrato di Sorveglianza di Padova ha sollevato questione di legittimità costituzionale della disposizione penitenziaria che impedisce agli internati di proporre richiesta risarcitoria per la violazione dell’art. 3 Cedu e per la conseguente riduzione della misura di sicurezza. Non è possibile elencare in questa sede tutto il cammino fatto, e quanto c’è ancora da fare. Dovendo indicare i maggiori resistenti alla riforma, non ci sarebbero dubbi; come già segnalato, una parte della magistratura (anche di legittimità), restia a liberarsi di istanze securitarie e/o paternalistiche, tuttora dispone misure di sicurezza (a centinaia si contano quelle provvisorie non ancora eseguite), in spregio allo spirito della Legge, che eleva a obiettivo la residualità della detenzione. Per mettere davvero in sicurezza una straordinaria riforma è indispensabile la collaborazione di tutti; la formazione di una vera e nuova cultura forense in materia, troppo spesso appannaggio di pochi esperti del settore tra gli avvocati; l’abbandono di ogni forma di giurisprudenza e di medicina difensiva, e un’adeguata informazione dell’opinione pubblica, il cui consenso e sostegno è indispensabile perché si colga il cammino di civiltà sino ad oggi percorso. Droghe, scatta l’aggravante per chi vende spinelli fuori dall’oratorio di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 8 febbraio 2017 Tribunale di Torino - Sezione 4 - Sentenza 2 novembre 2016 n. 5275. Scatta l’aggravante per chi vende delle sostanze stupefacenti in prossimità di un oratorio. Lo ha stabilito il Tribunale di Torino, giudicando sul caso di un uomo di origine nigeriana, domiciliato presso il centro di prima accoglienza di Rovigo, accusato di aver ceduto un grammo di marjuana per cinque euro fuori da una diocesi. Nonché di "avere illecitamente detenuto a fini di cessione altri 10 grammi di marjuana unitamente alla somma di 995 euro in banconote di vario taglio". Secondo il giudice, dunque, "risulta integrata la circostanza aggravante prevista dall’articolo 80 lett. g) Dpr 309/1990", secondo cui la pena va aumentata da un terzo alla metà "se l’offerta o la cessione è effettuata all’interno o in prossimità di scuole di ogni ordine o grado, comunità giovanili, caserme, carceri, ospedali, strutture per la cura e la riabilitazione dei tossicodipendenti". La cessione delle sostanze stupefacenti, infatti, prosegue la sentenza, era stata "posta in essere a ridosso di un oratorio diocesano che al momento della commissione del reato era aperto e frequentato da numerosi ragazzi in età scolare di diversa età che stazionavano sia dentro sia fuori la struttura". E, secondo il più recente insegnamento della Suprema Corte, "ai fini dell’applicazione della aggravante speciale de qua non è necessario che vi sia un nesso funzionale concreto tra il luogo così normativamente identificato e lo spaccio di droga agli studenti, trattandosi evidentemente di una previsione normativa che mira a prevenire, con l’aggravamento della pena, la stessa astratta possibilità che tale spaccio avvenga". Il tribunale tuttavia, "in ragione dell’incensuratezza e dell’ammissione dell’addebito", ha riconosciuto all’imputato le circostanze attenuanti generiche "in giudizio di equivalenza sulla contestata aggravante". E considerata la richiesta dell’applicazione della pena ex articolo 444 del c.p.p.,, tenuto anche conto della modesta quantità di stupefacente detenuto ai fini di spaccio, ha condannato l’imputato a otto mesi di reclusione e 1.600 euro di multa. Inoltre, conclude la sentenza, alla luce della "incensuratezza e assenza di pendenze può essere formulata una prognosi positiva di futura astensione dalla commissione di nuovi reati e, dunque, concedere il beneficio della sospensione condizionale della pena". Il giudice ha però mantenuto il vincolo sulla somma in contanti detenuta al momento del fermo in quanto se è vero che non ne è stata provata la provenienza dalla attività di spaccio, l’imputato però non è stato in grado di fornire la prova di una provenienza alternativa del denaro. Il visto umanitario va concesso anche a profughi "estranei" di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 8 febbraio 2017 Corte di giustizia Ue, conclusioni dell’Avvocato generale nella causa C-638/16. Gli Stati Ue sono obbligati a rilasciare visti umanitari a cittadini di Paesi terzi anche se non c’è un legame tra il Paese membro e il richiedente. Nel segno della tutela di diritti fondamentali e valori umanitari. È l’Avvocato generale della Corte di giustizia Ue, Paolo Mengozzi, a dirlo nelle conclusioni depositate ieri nella causa C-638/16, con cui Lussemburgo, almeno per ora, restringe la discrezionalità degli Stati nel rilascio di visti per ragioni umanitarie. Erano stati due cittadini siriani e i loro tre bimbi, in fuga da Aleppo, a chiedere alle autorità belghe un visto a validità territoriale limitata per ragioni umanitarie. L’istanza era stata respinta dall’ufficio stranieri e, prima di decidere, il Consiglio belga del contenzioso degli stranieri, cui si erano rivolti i siriani, ha chiesto alla Corte di giustizia di chiarire gli obblighi degli Stati in base al diritto Ue per la concessione di visti per ragioni umanitarie. L’Avvocato generale, le cui conclusioni non sono vincolanti per la Corte anche se in genere sono seguite dai suoi giudici, ha ampliato i margini per la concessione dei visti umanitari. Respingendo le posizioni allarmiste di numerosi Governi intervenuti nel procedimento che hanno bollato come "fatale per l’Unione" una decisione che obbliga gli Stati al rilascio dei visti. Per l’Avvocato generale, le norme Ue parlano chiaro: l’articolo 25 del regolamento 810/2009, che istituisce un codice comunitario dei visti, impone agli Stati di concedere un visto, con validità territoriale limitata, a cittadini di Paesi terzi, se ci sono ragioni umanitarie. Quindi, in tutte le situazioni in cui ci siano motivi seri per ritenere che il rifiuto potrebbe esporre i richiedenti a trattamenti disumani e degradanti. D’altra parte, osserva l’Avvocato, nell’applicare il codice, gli Stati devono tener conto della Carta dei diritti fondamentali Ue, divenuta vincolante col Trattato di Lisbona:?l’articolo 4 stabilisce che nessuno può essere sottoposto a trattamenti disumani e degradanti. Di qui la conclusione che il codice non lascia agli Stati margine di discrezionalità sulla concessione dei visti per ragioni umanitarie in linea anche con l’articolo 18 della Carta che riconosce il diritto di asilo. Gli Stati, tra l’altro, hanno obblighi positivi nella concessione della protezione umanitaria, quindi devono adottare ogni misura necessaria a raggiungere l’obiettivo. Così - aggiunge l’Avvocato generale - gli Stati non possono condizionare il visto all’esistenza di un legame tra loro e il richiedente. Valutare l’esistenza di ragioni umanitarie, precisa l’Avvocato generale, compete agli Stati, ma tenendo conto che nel caso siriano il dramma è noto e i civili sono in situazione apocalittica. Quindi il rifiuto del visto e l’assenza di misure adeguate esporrebbe i richiedenti a pericoli e sofferenze, in chiara violazione della Carta dei diritti fondamentali e degli obblighi positivi del diritto Ue. Daspo, annullato il provvedimento del Questore se la convalida arriva troppo presto Il Sole 24 Ore, 8 febbraio 2017 Corte di Cassazione - Sezione III - Sentenza 7 febbraio 2017 n. 5624. Talvolta la velocità della giustizia è un danno. La corte di Cassazione con la sentenza 7 febbraio 2017 della III sezione penale ha annullato l’ordine del questore a un tifoso di presentarsi in commissariato durante le partite del Catania. L’atto è stato annullato perché l’ordinanza di convalida è stata emanato troppo presto e non sono state rispettate le 48 ore che devono trascorrere dalla notifica del decreto perché l’imputato possa esercitare il diritto di difesa. Questa la tempistica: il provvedimento del questore è stato notificato alle 11.35 di sabato 24 ottobre 2015, il Pm ne ha chiesto la condanna domenica 25 e il Gip ha depositato l’ordinanza in un’ora imprecisata di lunedì 26. Ordinanza che poi è stata trasmessa per fax alle 12.22 dello stesso giorno alla Questura di Catania. Per i giudici di legittimità in base a questa ricostruzione "l’orario di deposito del provvedimento di convalida resta oggettivamente incerto e il suo accertamento non è risolvibile in modo univoco e tranquillizzante in base all’orario della sua trasmissione via fax. Non v’è dunque certezza alcuna sul deposito dell’atto". Una pecca insanabile perché si tratta di una "violazione che inficia in radice Perché va cancellata la parola "clandestino". Lettera aperta La Repubblica, 8 febbraio 2017 Caro direttore, nel "Memorandum d’intesa sulla cooperazione nel campo dello sviluppo, del contrasto all’immigrazione illegale, al traffico di esseri umani, al contrabbando e sul rafforzamento della sicurezza delle frontiere" sottoscritto dall’Italia e dal Governo di riconciliazione libico compare più volte - come sinonimo di migrante non regolare - il termine "clandestino". Qui intendiamo sorvolare sui molti punti di quell’intesa che ci lasciano perplessi, per concentrarci sul suo linguaggio. Se, come ci auguriamo, il ricorso al termine "clandestino" è il frutto di una distrazione, è una distrazione grave. Sono passati due anni da quando, su richiesta della Commissione per la tutela dei Diritti umani del Senato, il termine "clandestino" è stato cancellato da molti atti ufficiali italiani e dal sito del ministero dell’Interno dove, fino al 2014, continuava a comparire. Il termine "clandestino" è, in primo luogo, giuridicamente infondato quando viene utilizzato per indicare - anche prima che abbiano potuto presentare domanda d’asilo e che la domanda sia stata valutata dalle commissioni territoriali - i migranti che tentano di raggiungere, o raggiungono, il territorio dell’Unione Europea. Si tratta, inoltre, di un termine che contiene un giudizio negativo aprioristico - suggerendo l’idea che il migrante agisca al buio, come un malfattore - ed è contraddetto dalla realtà dei fatti. Gli immigrati, anche quelli non regolari, non si nascondono al sole. Al contrario, spesso lavorano sotto il sole, dall’alba al tramonto, nei campi e nei cantieri. L’Associazione Carta di Roma - dal 2011 impegnata nel far rispettare il codice deontologico che i giornalisti italiani si sono dati per i servizi su richiedenti asilo, rifugiati, vittime della tratta e migranti - illustra costantemente questo concetto elementare nelle sue attività di formazione. Con un certo successo, considerato che l’uso improprio della parola va diminuendo. E sempre più spesso l’utilizzo non è frutto di distrazione o disinformazione, ma della volontà di affermare un’idea aprioristicamente negativa, e xenofoba, dell’immigrazione. Il ricorso reiterato del termine suggerisce un’immagine dell’immigrato come nemico. Un’insidia per la società, l’incolumità dei cittadini e la sicurezza dei loro beni. Di conseguenza, nel testo dell’intesa tra il governo italiano e il governo libico si accredita - al di là delle intenzioni di quanti l’hanno redatto e sottoscritto - l’idea che gli immigrati non siano persone titolari di diritti, bensì una minaccia sociale da combattere. La parola "clandestino" è uno dei lemmi del discorso d’odio. L’articolo 7 del Memorandum prevede che il testo possa essere "modificato a richiesta di una delle parti". Si tratta di una procedura semplice, che può e deve essere attivata. Quella parola va cancellata subito. Questa lettera è stata inviata al presidente del Consiglio, al presidente della Camera e al presidente del Senato. Firmatari: Ermanno Olmi, Luigi Manconi, Nicola Lagioia, Alessandro Bergonzoni, Giovanni Maria Bellu e Beppe Giulietti. Sicilia: "la situazione della carceri è insostenibile", denuncia di Cordaro e Apprendi lagazzettapalermitana.it, 8 febbraio 2017 "Sono circa 5900 detenuti siciliani di cui circa 1200 extracomunitari. Dal 2012 non c’è più una relazione annuale sullo stato delle carceri dell’Isola e per più di tre anni il presidente della Regione non ha ritenuto necessario procedere a una nuova nomina del Garante, fino al 2016, quando è stato scelto il professore Giovanni Fiandaca. Un vuoto che ha creato un gravissimo danno economico alla Regione, come hanno denunciato i Radicali siciliani presentando un esposto alla Corte dei conti di Palermo il 20 gennaio 2014. Chiediamo al presidente della Regione di intervenire in aula per conoscere lo stato delle carceri siciliane". È quanto chiedono Toto Cordaro, capogruppo del Cantiere popolare all’Ars, e Pino Apprendi, parlamentare regionale del Pd in una conferenza stampa all’Ars dove sono intervenuti anche Rossana Tessitore e Alberto Mangano del comitato "Esistono i diritti". Sovraffollamento, mancanza di acqua calda per lavarsi e acqua potabile, i problemi maggiormente riscontrati: "La situazione nelle carceri di Siracusa, Agrigento e Catania è insostenibile - ha aggiunto Cordaro - ci sono fino a 130 detenuti in più - a questo si aggiunge l’inerzia dovuta alla mancata trasformazione dei vecchi Opg come quello di Barcellona Pozzo di Gotto: sono due le strutture alternative, una a Caltagirone e una a Naso, hanno 20 posti di capienza ciascuno, ma se a Barcellona le utenze erano 100 ci chiediamo che fine abbiano fatto gli altri 60 detenuti". Pino Apprendi ha poi sottolineato come " la maggior parte dei detenuti abbia un’età inferiore ai 40 anni", proponendo poi "un gruppo di lavoro che possa prestare più velocemente soccorso medico, creando una congiunzione tra Asp e i medici delle carceri". In un’interpellanza depositata il 27 novembre scorso, con primo firmatario Cordaro, si fa presente che "Nei tre anni durante i quali non vi è stato il Garante, il suo ufficio ha continuato ad esistere con le sue sedi di Palermo e Catania, con oltre 10 dipendenti obbligati all’inerzia che non potevano neanche aprire la corrispondenza che arrivava dalle carceri, e non hanno potuto neanche visitarle in mancanza dell’unico titolare dell’ufficio che potesse autorizzare". Campania: troppi arresti e pochi agenti, carceri al collasso di Fabio Postiglione Corriere della Sera, 8 febbraio 2017 Poggioreale ospita cinquecento detenuti in più. Secondigliano, non c’è posto per i boss. Troppi arresti e le carceri campane sono al collasso con oltre 1.100 detenuti in esubero, ma soprattutto sono estremamente a rischio. Mancano 700 agenti di polizia penitenziaria, di cui solo 300 nel carcere più affollato d’Italia: Poggioreale. A Secondigliano, nel supercarcere "blindato", non ci sono più posti per i camorristi: l’"alta sorveglianza" è piena da settimane. Nel solo mese di settembre sono arrivati circa 300 detenuti in più, il primo effetto delle maxi-retate della Procura di Napoli. Sono poco meno di 7mila i detenuti reclusi nei penitenziari della nostra regione. Il più affollato è il carcere di Poggioreale che può avere massimo 1.600 persone ma che ad oggi registra oltre 2.100 presenze: 500 in più rispetto a quanto consentito. Nel primo penitenziario partenopeo sono reclusi coloro i quali commettono reati cosiddetti "comuni" o quelli di associazione a delinquere "semplice". Sono quasi sempre pluripregiudicati, molti dei quali extracomunitari, che arrivano in carcere per aver commesso reati legati allo spaccio di sostanze stupefacenti, rapine, scippi, furti. Restano in media detenuti in galera meno di due anni. Ma il "ricambio" è purtroppo continuo per l’escalation di microcriminalità che attanaglia la città. Gli agenti penitenziari in servizio a Poggioreale sono 700, ma ne servirebbero, secondo le piante organiche, almeno mille. Con enorme sacrificio e dispendio di energie, grazie al lavoro del direttore Antonio Fullone e del commissario Gaetano Diglio, la situazione è ancora sotto controllo negli 11 padiglioni. A Secondigliano attualmente ci sono 1.300 detenuti e sono 300 in più rispetto alla capienza consentita, ma il problema principale è rappresentato dal padiglione "alta sorveglianza", ovvero il reparto dove ci sono i detenuti che sono in carcere o hanno precedenti per camorra. Lì i posti sono esauriti, non c’è più spazio da settimane. Che in termini pratici vuol dire che se arrestassero un altro pregiudicato per associazione camorristica non potrebbe essere "ospitato" nel padiglione riservato ai boss e dovrebbe essere collocato in un altro penitenziario fuori regione. Anche a Secondigliano mancano almeno 20 agenti di polizia penitenziaria e il direttore del carcere, Liberato Guerriero, con il commissario Antimo Cicala, lavorano intensamente per garantire che tutto fili per il verso giusto. Non va meglio a Santa Maria Capua Vetere dove a fronte dei 960 detenuti mancano almeno 40 agenti. Peggio a Salerno, dove ci sono 470 detenuti e la carenza di organico è di 80 di unità. Quattrocento i detenuti a Carinola, 430 ad Avellino e 280 ad Ariano. In questi tre penitenziari mancano circa 30 agenti di polizia penitenziaria. "Chiediamo un incontro urgente con il nuovo provveditore Giuseppe Martone per rivedere le piante organiche, non possiamo più aspettare - spiega Ciro Auricchio, ispettore capo e segretario regionale dell’Unione sindacale polizia penitenziaria - Il concorso è bloccato dallo scorso anno ma chiediamo di ridistribuire le risorse che ci sono in base alle esigenze". "Solo quest’anno - dice Auricchio - andranno in pensione in Campania quasi 200 agenti. La sicurezza deve essere una priorità per tutti". Barcellona Pozzo di Gotto (Me): si svuota l’Opg, è diventato una Casa circondariale di Laura Anello La Stampa, 8 febbraio 2017 Anche il capoclan Buscetta riuscì a entrare. L’ex Opg di Barcellona Pozzo di Gotto, a quaranta chilometri da Messina, ospita ora 230 detenuti. Da queste celle con le porte blu sono passati pazzi e finti pazzi, nella Sicilia pirandelliana dove il confine è sottile. Finti pazzi come i super-boss Tommaso Buscetta, Tano Badalamenti, Stefano Bontade, arrivati grazie a giudici compiacenti per ottenere sconti di pena. Ma pure il primo pentito di mafia, Leonardo Vitale, che non fu creduto e finì ricoverato. E pazzi veri. Assassini e ladri di galline, criminali e povere anime perse. Adesso, nell’ex Ospedale psichiatrico giudiziario più grande d’Italia con oltre 600 internati negli anni di pienone, ne sono rimasti 13 Gli ultimi tredici rimasti dalla grande dismissione iniziata qui due anni fa, con il trasferimento progressivo verso le Rems (residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza sanitaria) o verso le Comunità terapeutiche, i due destini disegnati per gli ospiti che hanno finalmente lasciato queste celle. Le prime riservate a chi è considerato socialmente pericoloso, le seconde per persone con maggiore autonomia e libertà di movimento. È stato l’ultimo, questo ospedale psichiatrico, a chiudere i battenti, dopo un lungo passaggio di consegne tra i ministeri della Giustizia e della Salute. Eppure è quello da cui tutto è partito, quando nel 2009 Ignazio Marino, allora presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sul Servizio sanitario nazionale, venne qui e trovò un uomo con le mani e i piedi legati con garze, sopra un letto di ferro arrugginito con un buco per le feci e l’urina. Da quella visita nacque il disegno di legge che prevedeva la chiusura dei sei ospedali psichiatrici giudiziari d’Italia. Chiusura fu la parola d’ordine. E chiusura è stata anche qui. Oggi questo complesso di quasi sessantamila metri quadrati nel cuore di Barcellona Pozzo di Gotto, quaranta chilometri da Messina, è diventata una Casa circondariale - un carcere normale, cioè - dove sono reclusi duecentotrenta detenuti. E dove sopravvive però anche un reparto (per la burocrazia si chiama "articolazione della tutela della salute mentale") in cui sono ricoverati i malati psichiatrici, "gente che si è ammalata durante la detenzione", spiega il direttore Nunziante Rosania, un omone grande e grosso al timone dell’istituto dal lontano 1989: in questo momento ne sono ricoverati settantadue, sessanta uomini e dodici donne tra cui anche i tredici "residui manicomiali", seguiti da due psichiatri e da un pugno di infermieri, nell’attesa che la Regione metta a disposizione operatori socio-sanitari e tecnici della riabilitazione. "I tredici vecchi internati - aggiunge Rosania - avrebbero dovuto essere trasferiti in una Rems a Caltagirone non ancora completata. Ma abbiamo trovato una soluzione, visto che tutti, tranne uno, alla luce di una verifica della loro condizione psichiatrica, sono risultati in condizione di transitare nelle comunità terapeutiche. Tra poco saranno dimessi". Gli altri duecentoquaranta che hanno lasciato queste sbarre, sono distribuiti tra Rems e comunità di tutta Italia, "e da lì mi scrivono, mi mandano gli auguri per il compleanno, chiedono e danno notizie". Qui, in questo enorme complesso costruito nel 1925 come manicomio criminale, dei sei reparti disposti a pettine in mezzo a uno spazio verde dove c’è pure un teatro spesso aperto alla città, ne sono attivi tre, uno per i detenuti in attesa di giudizio, gli altri due per i "definitivi". L’altra metà del carcere è in ristrutturazione, e a lavorarci sono in gran parte proprio i carcerati, "almeno ottanta che vengono regolarmente pagati, alcuni anche del settore psichiatrico", aggiunge Rosania. E per chi vuole c’è anche la band musicale del cappellano. "Non esageriamo, la strada da fare è ancora lunga". Vasto (Ch): la Casa lavoro va chiusa, lo chiede l’Osservatorio carcere delle Camere penali noixvoi24.it, 8 febbraio 2017 Nel corso della visita gli avvocati hanno riscontrato una moltitudine di criticità, dovute alla tipologia degli ospiti della Casa lavoro. L’abolizione della misura di sicurezza detentiva della casa di lavoro: a chiederla, al termine della visita che si è tenuta ieri nella casa di lavoro di Vasto, la più grande d’Italia, sono l’avvocato Cinzia Simonetti, componente dell’Osservatorio Carcere dell’Unione delle Camere Penali Italiane, e l’avvocato Fabiana Gubitoso, referente dello stesso organismo e Silvia Ranalli della Camera Penale di Vasto. Nel corso della visita gli avvocati hanno riscontrato una moltitudine di criticità, dovute alla tipologia degli ospiti della casa lavoro e, a tale proposito, dichiarano che proprio da Vasto partirà, "senza indugio, una battaglia voluta dall’Osservatorio Carcere per l’abolizione della misura di sicurezza detentiva che, in sostanza, è solo una variante nominalistica della pena, riducendosi a strumento per aggirare i principi di garanzia propri delle pene, primo tra tutti quello di una prospettiva concreta di reinserimento". "A Vasto - afferma l’avvocato Simonetti - abbiamo riscontrato una realtà non degna di un Paese civile. La distinzione tra le due tipologie di sanzioni deve fondarsi su una diversità di contenuti che, necessariamente, presuppongono una diversa gestione dei loro destinatari. La misura di sicurezza detentiva deve essere abolita perché è tale solo nel nome, ma è pena nella sostanza". "La questione diventa ancora più grave laddove si consideri che la misura di sicurezza - aggiunge l’avvocato Gubitoso - non è correlata alla colpevolezza ma alla pericolosità sociale, non solo è una pena mascherata ma, addirittura, è una pena a tempo indeterminato, il cosiddetto "ergastolo bianco". "È assolutamente evidente l’irrazionalità del mantenimento di tale stortura nel nostro ordinamento, inoltre conseguente dalla mancanza di lavoro per le persone internate e alla presenza nell’istituto vastese - dichiarano gli avvocati- di una moltitudine di persone malate, invalide con inabilità al lavoro, soggetti con problemi psichici che, anche se il problema lavorativo venisse superato, non vedrebbero in questa struttura la soluzione al loro reinserimento sociale". Gli avvocati sono stati accompagnati in occasione della visita dal direttore della Casa Circondariale di Chieti, in missione a Vasto, Giuseppina Ruggiero, dal Comandante di Reparto Commissario Nicola Pellicciaro e dal Funzionario Giuridico Pedagogico Lucio Di Blasio i quali hanno fatto rilevare anche la carenza di personale specializzato, in particolare educatori, specialisti psichiatri e psicologi. Tutti hanno convenuto sulla necessità di un intervento urgente da parte della politica che non può ignorare oltre quella che si può, senza dubbio, definire una "vergogna nazionale". Firenze: l’ex Opg di Montelupo diventerà un resort di lusso o un polo museale di Flavia Amabile La Stampa, 8 febbraio 2017 Il Sindaco: presenza penalizzante. La Direttrice: ospiti iniziative sociali. L’ultimo paziente internato dell’ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo Fiorentino è andato via alle undici meno un quarto. Sono venuti in auto da Umbertide per portarlo in una comunità. Non era la libertà totale che l’uomo avrebbe voluto ma non è nemmeno più la detenzione nell’edificio dall’architettura austera e un po’ sinistra, schizofrenico anche nella sua storia. È stata la preferita delle ville di campagna di Ferdinando I dei Medici. Ma è stato anche il primo manicomio criminale d’Italia e ha continuato a esserlo anche quando ormai formalmente era stato trasformato in ospedale psichiatrico giudiziario. Tutti sapevano delle condizioni in cui i pazienti detenuti tra le mura dell’antica villa medicea erano costretti a vivere: sette persone in una cella, le urla, la sporcizia, i casi più difficili legati mani e piedi alle sbarre di un letto. Fu la commissione del Senato presieduta da Ignazio Marino a denunciare la situazione nel 2011. Da allora per l’opg di Montelupo Fiorentino è iniziata un’era diversa. Antonella Tuoni, la nuova direttrice, dopo una lunga battaglia è riuscita ad abolire la contenzione dei malati e ha provato anche a portare un lato umano all’interno dell’ospedale con letture, teatro, film, attività di recupero dell’edificio rimesso a posto dai detenuti. Quella che si è lasciato alle spalle con un sorriso l’ultimo internato è una struttura molto diversa da quella raccontata da Marino e dagli altri componenti della commissione. Le celle superaffollate si sono trasformate in stanze dove al massimo convivono in due, mentre i cento e oltre malati presenti ancora fino a due anni fa venivano lentamente trasferiti altrove. I pavimenti, i bagni, le pareti: tutto quello che si poteva rifare è stato rifatto per una spesa di oltre sette milioni di euro. Ieri è stato l’ultimo giorno della reggia di Montelupo Fiorentino come ospedale psichiatrico giudiziario ma la struttura resta in funzione come luogo di detenzione per condannati che mentre erano in carcere hanno sviluppato disagi, problemi mentali e per altri che invece hanno commesso reati contro familiari, contro minori, o che non sono tollerati dagli altri detenuti. In totale a Montelupo sono in nove in queste condizioni. Si stanno cercando delle soluzioni ma nel frattempo la vita va avanti come sempre. Biagio, il detenuto cuoco, prepara ogni giorno pranzo e cena nella cucina e porta le pietanze nelle celle con un carrello. Massimo, un ex pugile, pensa alla figlia di dodici anni e si mantiene in allenamento con le corse e le passeggiate nel giardino. Il paese non vede l’ora di sbarazzarsi anche di loro. Il sindaco ha più volte ripetuto che la presenza di "una struttura carceraria sia incompatibile con il recupero di un pezzo importante di città". Ci sono molti progetti: si parla di un resort di lusso, di un polo museale o per convegni. La direttrice del carcere non è d’accordo e ha espresso il suo dissenso in diverse occasioni: "Non comprendo come mai si debba chiudere un istituto perfettamente ristrutturato che potrebbe da domani accogliere 160 persone decongestionando le altre carceri toscane e migliorandone così le condizioni di vita". Non solo. "Non comprendo - aggiunge - perché non si possa fare la manutenzione della villa medicea e sfruttarne la potenzialità quale polo museale, espositivo e convegnistico impiegando manodopera detenuta". È una vera battaglia fra chi vuole conservare la vocazione sociale dell’edificio e chi vuole renderlo un reddito per il pubblico o il privato. Nel frattempo ieri sera i nove detenuti rimasti hanno mangiato la pasta e fagioli cucinata da Biagio e ai fornitori che arrivavano chiedendo se era finita, in portineria la risposta era una risata: "Finché siamo qui noi tutto va avanti come sempre". Per quanto ancora resisteranno? Bologna: Vincenzo, Ahmed, Umair e Marco produrranno mozzarelle di bufala in carcere Redattore Sociale, 8 febbraio 2017 Dal 13 febbraio al via la produzione di mozzarelle alla Dozza. L’idea è di un’azienda salentina, 4 i detenuti impiegati, guidati da un casaro esterno. A oggi sono 770 le presenze, ma in pochi lavorano. Clementi (direttrice): "Per noi è una bella scommessa, ma crediamo nel nostro lavoro". "Sono felice. Per la prima volta potrò imparare una professione, pensare al futuro e aiutare la mia famiglia". Ahmed, 41 anni originario della Tunisia, una condanna a 9 anni di reclusione che sta scontando alla Dozza, è uno dei 4 detenuti che, a partire dal 13 febbraio, produrranno mozzarelle di bufala in carcere. Insieme a lui ci sono Vincenzo, 48enne napoletano, che da ragazzino ha lavorato nel settore e garantisce che "questa mozzarella è buonissima", Marco, riminese di 26 anni e un fine pena al 2042, "per me è un’emozione grandissima avere questa possibilità" e Umair, 25 anni del Pakistan, "contentissimo di essere stato scelto ma spero che riescano a inserire anche altre persone". A guidarli nell’apprendere l’arte della produzione casearia c’è Luciano Smaldone, casaro professionista di Caserta: "Per fare questo lavoro serve impegno e collaborazione, questi ragazzi sono rispettosi e credo che si creerà una bella squadra". L’idea di portare la produzione di mozzarelle di bufala in carcere è di Rocco Frontera dell’azienda salentina Liberiamo i sapori, "per noi è una sfida e abbiamo pensato a Bologna come cuore commerciale d’Italia", e ha incontrato l’entusiasmo di tutte le persone coinvolte, in primis la direttrice della Dozza, Claudia Clementi, e degli stessi detenuti, scelti per attitudine, percorso comportamentale, eventuali esperienze precedenti nel settore alimentare e un fine pena lungo in modo da consentire loro di avere il tempo di imparare il mestiere. La materia prima, il latte, arriva da Bergamo mentre il prodotto finale, "di alta qualità", come assicura Fabrizio Viva di Liberiamo i sapori, sarà distribuito attraverso l’azienda bolognese I freschi di Cadriano. L’attività casearia va ad aggiungersi alle altre già attive all’interno del penitenziario bolognese: l’officina meccanica, la sartoria, il recupero dei materiali elettronici e la serra. "Al momento abbiamo inserito 4 detenuti in quest’attività, assunti dall’azienda con un contratto part-time, ma vorremmo arrivare a 10-12", ha detto Massimo Ziccone, responsabile dell’area educativa della Dozza. L’obiettivo è che i detenuti diventino casari e possano, a loro volta, insegnare agli altri. "Il lavoro è essenziale per il reinserimento sociale ed è importante che si tratti di un’attività realizzata da imprenditori veri - ha continuato Ziccone. I numeri non sono quelli che vorremmo, stiamo facendo 4 inserimenti e i detenuti presenti sono 770, ma poco alla volta vorremmo coinvolgere più persone". Attualmente, ci sono 14 detenuti al lavoro nell’officina meccanica, 2 nel recupero del materiale elettronico, 4 donne impiegate nella sartoria e 2 persone in tirocinio nella serra, dove si producono erbe aromatiche e insalata. "Siamo un’istituzione pubblica e realizzare iniziative come questa non fa di noi degli imprenditori - ha detto Clementi - ma significa adempiere al nostro mandato e realizzare una detenzione dignitosa, come ci sta chiedendo l’Europa". Il progetto ha richiesto uno sforzo considerevole, ma ha trovato grande collaborazione anche da parte dell’Asl che "ci ha supportato costantemente", continua la direttrice. L’attività casearia si svolgerà all’interno del locale che accoglieva la vecchia tipografia, da tempo in disuso, i cui lavori di adeguamento sono stati svolti dagli stessi detenuti, "sotto questo punto di vista risponde a tutte le caratteristiche che deve avere un’attività in carcere". Gli strumenti e i macchinari appartengono all’amministrazione penitenziaria che li dà in comodato d’uso all’azienda. "Per noi è una bella scommessa - ha concluso Clementi - ma crediamo nel nostro lavoro". Caserta: detenuti al lavoro nel Parco della Reggia. Migliore: modello da esportare campanianotizie.com, 8 febbraio 2017 "L’esperienza lavorativa fatta dai detenuti del carcere di Carinola alla Reggia di Caserta è stata molto positiva e costituisce un modello che riproporremo anche in altre parti d’Italia". Così il sottosegretario alla Giustizia Gennaro Migliore che questa mattina ha visitato la Reggia Vanvitelliana, accompagnato dal direttore Mauro Felicori, per tracciare un bilancio del progetto che ha visto impegnati negli ultimi sei mesi otto detenuti della struttura penitenziaria di Carinola, che si sono occupati della manutenzione dell’enorme Parco Reale del Monumento patrimonio Unesco. Un detenuto spiega di aver "imparato molto sulla storia della Reggia grazie anche alla pazienza dei funzionari che ci accompagnavano"; il giovane ha fatto da "guida" spiegando a Migliore la storia della grande magnolia del Nord America posta nel bosco della Reggia, davanti alla struttura della Castelluccia. "Abbiamo realizzato una rivoluzione culturale - ha detto la direttrice del carcere di Carinola Carmen Campi - e ora il progetto alla Reggia proseguirà con altri otto detenuti, già pronti a prendere servizio. Alcuni detenuti hanno inoltre lavorato nel Casertano nei Comuni di Sparanise e Francolise e al Convento di Casanova di Carinola, altri alla Camera di Commercio di Napoli. Il progetto è davvero importante anche per far cambiare mentalità alle persone, e poi non costa nulla agli enti coinvolti, che devono pagare solo l’assicurazione contro gli infortuni e il trasporto dei detenuti, che vanno presi dal carcere la mattina e riaccompagnati nel pomeriggio". "Hanno fatto un lavoro importante - ha spiegato il funzionario responsabile del Parco, Leonardo Ancona - tagliando le erbacce e rimuovendo i rami e l’enorme quantità di immondizia nei vialetti del Parco che costeggiano via Giannone (trafficata strada del centro di Caserta, ndr); purtroppo tanti casertani gettano i rifiuti, anche dall’esterno, nel Parco Reale, tanto che uno dei detenuti ha anche ripreso un cittadino che aveva appena buttato qualcosa. Dopo la pulizia sono riemerse tra l’altro alcune panchine e statue che erano ormai sommerse dalla vegetazione". Il magistrato di sorveglianza del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere Marco Puglia, che ha approvato il progetto sovrintendendo a tutta la procedura, dice che "è stata un’iniziativa molto importante perché è un segno tangibile di sensibilità dello Stato verso queste persone. Siamo a lavoro per chiudere un altro progetto sulla Reggia di Carditello che dovrebbe coinvolgere detenuti del carcere di Santa Maria Capua Vetere". Aosta: il Comune si affida a detenuti e disagiati per conservare il territorio comunale valledaostaglocal.it, 8 febbraio 2017 "I lavoratori socialmente utili (Lus) hanno contribuito, nel 2016, a rendere più vivibile e sicuro il capoluogo valdostano". È con questa convinzione che l’assessore all’Ambiente del Comune di Aosta, Delio Donzel (nella foto), ha proposto alla Giunta comunale il bando per l’assegnazione a una cooperativa sociale della gestione del nuovo Progetto lavori di utilità sociale-Lus. La delibera è stata approvata ieri, lunedì 6 febbraio. Sotto la guida di Didier Degioz, responsabile dell’Ufficio di protezione civile del Comune di Aosta, i Lus si occuperanno quest’anno di interventi di messa in sicurezza degli impluvi e della risistemazione di aree verdi e urbane della città. Lo scorso anno oltre che in alcuni parchi cittadini, i lavoratori socialmente utili sono stati impiegati per opere di pulizia all’acquedotto, al cimitero e in interventi di Protezione civile, mentre cinque giornate sono state dedicate alla formazione. Incaricata della gestione dei Lus era stata lo scorso anno la cooperativa sociale agricola ‘Mont Fallèrè, con il coordinamento di Ivan Rollandin. Gli operai Lus sono persone disoccupate appartenenti alle categorie previste dal Piano di politica del lavoro e regolarmente iscritte negli elenchi in carico ai servizi sociali, al Sert o alla Casa circondariale di Brissogne, i cui progetti di vita prevedono percorsi di reinserimento lavorativo in ambito protetto. Secondo l’assessore Donzel "Le squadre di lavoratori socialmente utili hanno lavorato come una sorta di pronto intervento sul territorio, motivate e impegnate per ottenere il miglior risultato. Posso affermare che l’impiego dei Lus ha finora permesso un risparmio enorme per le casse comunali. Se i lavori fossero stati appaltati a una ditta specializzata, sarebbero costati almeno cinque volte di più". Ivrea (To): carcere "esplosivo", trasferiti i detenuti autori delle rivolte quotidianocanavese.it, 8 febbraio 2017 Lo ha dichiarato il sottosegretario del Ministero della Giustizia, Cosimo Maria Ferri, rispondendo all’interrogazione in Parlamento. "La situazione della struttura penitenziaria di Ivrea è assolutamente sotto controllo e sono già state intraprese alcune significative iniziative per evitare possano ripetersi eventi come quelli avvenuto lo scorso ottobre". Lo ha dichiarato il sottosegretario del Ministero della Giustizia, Cosimo Maria Ferri, rispondendo all’interrogazione dell’onorevole Rossomando sulla situazione della struttura penitenziaria di Ivrea. "I detenuti protagonisti delle proteste sono già stati trasferiti in altre strutture e il loro comportamento è oggetto di indagine da parte della magistratura che, certamente, verificherà in modo puntuale le eventuali responsabilità personali di questi soggetti. Le condizioni della detenzione all’interno di questa struttura sono in linea con i parametri definiti dalla Cedu e le scoperture di organico potranno trovare una prima risposta con l’assunzione, già autorizzata lo scorso ottobre, di 887 agenti vincitori di concorsi. Il Dipartimento è anche impegnato per continuare a migliorare le condizioni ambientali della struttura e, a breve, provvederà ad investire su alcune opere di ristrutturazione che contribuiranno a porre effettivamente le migliori condizioni per lo sviluppo dei percorsi di reinserimento. Il Ministero, inoltre, ha attivato da tempo un sistema di controllo informatizzato per avere maggiore consapevolezza delle possibili criticità delle varie strutture, per poter intervenire con rapidità in caso di necessità. L’obiettivo è procedere con un attento monitoraggio delle condizioni di vita all’interno delle strutture e continuare ad investire sull’idea di detenzione quale strumento primario di reinserimento". Cuneo: carcere di Saluzzo, non si placa la protesta della Polizia penitenziaria La Stampa, 8 febbraio 2017 Riceviamo dalla Funzione Pubblica Cgil Cuneo la seguente nota: "La "mala sorte" dell’Istituto Penitenziario di Saluzzo, di cui questa sigla sindacale aveva scritto meno di due mesi fa, non è stata ancora debellata, nonostante l’inizio di un nuovo anno. Sembra infatti che le congiunture astrali negative continuino ad abbattersi sull’Istituto saluzzese, tanto che il personale si chiede se sia il caso o meno di interpellare un mago che faccia un qualche rito propiziatorio per togliere il "malocchio", considerato che tutta la serie di episodi negativi, che hanno concluso il 2016 e che continuano ancora nel 2017, non dipendono da "mala gestione". E ancora: "Si moltiplicano le proteste da parte dei detenuti che, il personale, già carente, deve gestire come meglio può. Proteste che sfociano in aggressioni al personale. L’ultima aggressione è quella di un detenuto ai danni di un poliziotto penitenziario, in servizio presso l’infermeria del carcere di Saluzzo, trattenuto poi in osservazione per 24 ore presso il Dea per trauma cranico; e che dire di un altro detenuto, sempre del carcere di Saluzzo, che ha dato sfogo alla sua rabbia contro medici e personale del Pronto Soccorso dell’O.C. di Cuneo, dove era stato portato per la rimozione di corpi estranei che aveva ingoiato per protesta; protesta è stata l’insano gesto di impiccarsi messo in atto da un altro detenuto in piena notte con il conseguente ricovero in ospedale, o l’abuso di sostanze alcoliche che hanno fatto sospettare un infarto e quindi un’altra folle corsa verso l’O.C. di Savigliano in tarda serata". Infine: "Protesta è la parola che si sente ogni giorno, tutti i giorni. Protestano anche i cinquanta "residenti" del nuovo padiglione, che a neanche due mesi dall’apertura manifesta le prime crepe agli impianti di riscaldamento dell’acqua. Proteste dei detenuti che si ripercuotono sul personale di Polizia Penitenziaria costretto ad operare in condizioni di precarietà e incertezza, effettuando turni estenuanti e ricoprendo più posti di servizio contemporaneamente, a discapito della sicurezza personale e dell’intero istituto, senza protestare". Alessandria: la "protesta silenziosa" degli agenti nel carcere di San Michele di Stefano Summa dialessandria.it, 8 febbraio 2017 È servita una "protesta silenziosa" per dare voce alle rimostranze della polizia penitenziaria di stanza nel carcere di San Michele. Dal 22 dicembre alcuni agenti hanno deciso di rinunciare al pasto in mensa per protestare contro la cronica carenza di personale, costretto a fare fino a 80 ore di straordinari al mese e a rinunciare così ai riposi settimanali. Lavorando ben oltre le 9 ore consecutive previste e con turni notturni superiori ai 6 indicati dall’Accordo Quadro Nazionale come soglia massima. Una situazione difficile, aggravata da episodi di cronaca all’interno dell’istituto (per es. l’aggressione ai danni di un detenuto marocchino da parte di tre connazionali a inizio 2017), che gli agenti hanno voluto denunciare con un gesto eclatante ma poco rumoroso, amplificato dall’attività di Salvatore Carbone, Segretario generale dell’Unione italiana lavoratori Pubblica Amministrazione (Uil-Pa). Le richieste degli agenti in protesta, riassunte dal sindacato di categoria, sono in primo luogo l’integrazione di altre unità a una pianta organica in deficit rispetto alle esigenze, una presenza più vicina al personale da parte del comandante, del vicecomandante e del direttore dell’istituto e una migliore e più equa ripartizione dei turni, dei servizi e degli straordinari. Il direttore della Casa di reclusione, Domenico Arena, e il Provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria, Luigi Pagano, hanno formulato alcuni provvedimenti a soddisfare alcune delle loro esigenze: l’arrivo di 10 agenti dall’inattiva Casa Circondariale di Alba, il ritorno al San Michele di 10 unità distaccate fuori regione e l’introduzione di un sistema di videosorveglianza e di automazione di cancelli, l’istituzione di pattuglie di tre unità per un migliore controllo delle sezioni. Niente da fare per il trasferimento di 3 agenti dal Don Soria, bloccato dopo le proteste degli agenti lì impiegati. Pavia: sport per i detenuti, il Coni ora entra nel carcere di Maurizio Scorbati La Provincia Pavese, 8 febbraio 2017 Incontro con i vertici regionali e provinciali del Comitato Si comincia con il tennistavolo, donate le attrezzature. Lo sport entra nel carcere di Pavia. Il presidente del Coni regionale Oreste Perri e il delegato provinciale Luciano Cremonesi ieri si sono recati all’incontro con la direttrice del carcere Stefania D’Agostino portando in dono attrezzature per il tennis da tavolo. "Abbiamo avviato una serie di incontri per portare all’interno della casa circondariale pavese un tavolo da ping pong, secondo quanto ci è stato richiesto - spiega Cremonesi - il Coni non è mai entrato nelle carceri pavesi, le iniziative sono state solo avviate dagli enti di promozione sportiva". L’incontro nasce nell’ambito di un accordo operativo stilato dal Prap (Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria della Lombarda) e il Coni Lombardia. "L’accordo prevede diversi punti - spiega Perri - dalla riqualificazione degli spazi al coinvolgimento dei detenuti, alla presenza di tecnici e allenatori qualificati all’accoglienza degli studenti delle facoltà di scienze motorie all’utilizzo di aree verdi per la disputa di attività sportive, alla promozione della pratica sportiva sia individuale che di gruppo". Cremonesi aggiunge: "L’attività fisica nelle carceri si fa ma non è coordinata. In una fase successiva insieme a un tecnico del Coni si visiteranno le Case circondariali per verificare cosa è possibile allestire così da offrire dei corsi mirati e completi. In una fase successiva l’idea è formare un gruppo di tecnici fra i carcerati in modo che siano loro stessi a insegnare ai propri compagni. Chiaro che non sarà possibile farlo in tutte e tre le carceri della provincia, ma lo si attuerà dove possibile. Vogliamo anche coinvolgere la facoltà di scienze motorie di Pavia per specifici tirocini dei laureandi negli istituti penitenziari che ne faranno richiesta". Perri sottolinea: "Abbiamo iniziato con Cremona, il Beccaria e Opera. Abbiamo fornito consulenza tecnica sulla riqualificazione o l’ammodernamento o la progettazione di impiantistica sportiva negli istituti penitenziari. Non si è trattato di una prima volta in senso assoluto, perché erano state realizzate convenzioni che però non sono mai state attuate. A me questo non va e ho deciso di partire con incontri con un mental coach come Andrea Devincenzi, che ha perso una gamba in un incidente, e prossimamente porterò Meneghin dai ragazzi del Beccaria. Ho voluto allargare l’iniziativa anche ad altre carceri. A Pavia il nostro incontro è di apertura per vedere cosa si può fare, concretamente, per queste persone ma anche per le guardie carcerarie. Lo sport può fare molto, ha dei valori che possono creare una cultura sportiva e aiutare a trovare un posto nella società quando usciranno, perché si imparano le regole e il rispetto dell’avversario, a vincere e a perdere. Ho anche preso accordi perché vengano donati alle carceri abbigliamenti tecnici scartati dalle federazioni". Avellino: "Non me la racconti giusta", la street art finisce in carcere di Johanne Affricot griotmag.com, 8 febbraio 2017 "Non me la racconti giusta!". Quante volte abbiamo pronunciato questa frase o l’abbiamo pensata? Un po’ seriamente, un po’ per gioco, di solito la usiamo perché ne vogliamo sapere di più, perché non crediamo a quanto ci viene detto. "Non me la racconti giusta" è anche il nome del progetto di street art entrato nelle carceri di Ariano Irpino e Sant’Angelo dei Lombardi per raccontarci e mostrarci cosa c’è dall’altra parte del muro. Il carcere è una dimensione fisica e mentale che per abitudine teniamo ben lontano dai nostri pensieri, che non vogliamo conoscere, che associamo alla bruttezza dell’umanità. Eppure il magazine di arte e cultura contemporanea Ziguline, in collaborazione con gli artisti Collettivo Fx, Nemòs e il fotografo e videomaker Antonio Sena hanno deciso di fare per noi quel salto che forse può aiutarci a capire la realtà e l’umanità che si nascondono dietro le sbarre, a capirne le potenzialità e i limiti. Ho fatto quattro chiacchiere con Maria Caro, fondatrice di Ziguline, l’unica donna del team in mezzo a tanti uomini, "buoni e cattivi". Com’è nato il progetto? L’idea è nata perché un amico stava facendo un corso di storia della musica presso il carcere di Ariano, così ho pensato di proporre un corso di disegno o comunque legato all’arte, sempre intesa come mezzo, e ne ho parlato con Collettivo Fx. Qualche mese dopo, in seguito a varie coincidenze, abbiamo messo su il progetto coinvolgendo Nemòs e Antonio Sena. Piano piano sono venute fuori diverse idee e soprattutto i contenuti che volevamo sviluppare, il nome e l’organizzazione materiale dei "laboratori" oltre al tentativo di rendere il progetto itinerante. Ci abbiamo messo così tanto perché dovevamo passare tutti gli step burocratici, essendo le carceri legate al Ministero dell’Interno. Il problema è che tu presenti un progetto del genere ma loro non sanno come approcciarlo. Non sono abituati a questo tipo di attività. Poi però, una volta superata la prima fase, erano molto entusiasti di partire. All’inizio avevo dei dubbi sul farlo perché pensavo che magari la realtà carceraria mi avrebbe spaventata. Più che spaventata, pensavo di non essere all’altezza della situazione. E invece è stato un progetto molto bello, nonostante la relazione umana sia stata molto complessa perché comunque mi sono confrontata con persone che hanno commesso dei crimini. Non mi sono mai sognata di chiedergli di che tipo. Forse per educazione, per tatto. Forse per timore. Comunque lavorando con loro, a livello pratico, attraverso la street art, sono riuscita a entrare in confidenza. Sai, stai lì vicino al muro a sporcarti, a disegnare. Cominci a confrontarti, a scoprire il loro lato umano. Si tratta di un progetto complesso, non messo in piedi così, alla buona. In alcuni momenti devi essere sia un po’ rigido, per evitare che la situazione ti sfugga di mano, e in altri più morbido. Non ti sentivi a disagio? No. A parte un paio di persone che erano un po’ attratte per il fatto che fossi donna, no. Erano tutti molto educati. Era come se avessero una certa riverenza. I carcerati coinvolti erano di diverse nazionalità? Come hanno risposto al progetto? Nel carcere di Sant’Angelo erano tutti napoletani mentre in quello di Ariano, che è stata la prima tappa di questo progetto, abbiamo incontrato tre ucraini. Ti confesso che sono quelli che hanno preso il massimo da questo progetto. All’inizio erano molto chiusi, timidi, ma piano piano si sono rivelati quelli più attivi. Si sono impegnati più di tutti gli altri. Per esempio uno di loro si era preso a cuore il compito di dipingere con l’asta di 3 metri - che è un lavoro molto faticoso - e non riuscivamo più a staccarlo per quanto gli piaceva. Poi c’era quest’altro ragazzo, Jimmy. Era partito dicendo di non sapere disegnare e invece riproduceva alla perfezione i disegni che noi gli davamo, lasciandoci molto impressionati perché alla fine disegnava quello che voleva, senza necessariamente copiare i bozzetti che avevamo stampato. Era inarrestabile. Infatti abbiamo consigliato all’educatrice di iscriverlo al liceo artistico. Anche Alexander, tipo un po’ burbero inizialmente, si è rivelato un buon disegnatore. Sono stati quelli che si sono impegnati di più. Durante il tempo trascorso con loro pensavo chi di loro avrebbe avuto la possibilità, una volta fuori, di recuperare la propria vita. Anche perché non sanno quello che faranno. Se tornare in Ucraina o restare qui. Penso sia difficile, una volta usciti dal carcere, riuscire a rimettersi nella giusta carreggiata. Non tanto perché non vuoi ma perché la società, giustamente o non giustamente, alza delle barriere. Sì, e infatti tutto il discorso è improntato su questa cosa qua. Ora il carcerato ha poche risorse all’interno del carcere che gli permettono di costruirsi una vita. Non solo lavorative - imparare un mestiere - ma anche culturali. Alla fine sta lì dentro senza fare niente perché in molte carceri non viene offerto niente di tutto ciò. C’è il liceo artistico all’interno perché credo sia obbligatorio che nelle carceri siano presenti le scuole - anche se i detenuti non sono obbligati a frequentarle. In quello di Ariano per esempio c’è poco e niente e i corsi sono sempre saltuari e soprattutto, per quanti corsi tu possa fare, non puoi coinvolgere tutti. Noi per esempio abbiamo lavorato con 7 detenuti. Come vengono selezionati? In base alla buona condotta? Sì, in base alla buona condotta e su segnalazione degli psicologi e degli educatori che ci segnalano chi ha bisogno di fare un’attività di quel tipo. È un privilegio per chi viene scelto. Sì e per assurdo anche per chi non vuole fare niente è importante respirare aria nuova. Loro sono sempre nel cortile, mangiano nelle loro celle. Mi hanno detto - "qui non è come nei film americani," anche se hanno la possibilità di cucinarsi da soli. La cosa che mi faceva più impressione è quando vedevo persone anziane. Ovviamente nel cervello mi scattava subito la domanda "Ma questo da quanto sta qua?". Perché la street-art? Questo punto è importante. Non volevamo fare solo un progetto di street-art, disegnare qualche muro all’interno di un carcere. Volevamo dargli dei contenuti più sostanziosi. E quindi abbiamo usato la street art come mezzo per parlare di un’altra cosa. Io stessa fino a un anno fa non sapevo cosa fosse un carcere, non avevo mai visto l’interno di un carcere. La street art ci ha permesso di aprire una finestra su un mondo che fa parte del nostro mondo, di farlo vedere alla gente, alle società, questo buco grigio in cui ci sono persone cattive che devono scontare le loro pene e soffrire per quello che hanno fatto. La cosa è, "Ehi gente, qui ci sono delle persone che stanno pagando per i loro errori". Entrarci ti porta a interrogarti su un sacco di cose, su una marea di preconcetti e ti porta anche a domandarti "Perché questo deve stare là a non fare niente? Perché mettere in piedi un sistema punitivo che non (ri)educa?". Alcuni detenuti ti confessano che entrano, che so, per una rapina, ed escono che sanno fare molto di più. Quindi secondo te il carcere non è un sistema correttivo? Guarda, la mia esperienza è troppo parziale per dirti che non è un sistema correttivo, però per come è stato concepito e per quel che riguarda le carceri che ho conosciuto ti ritrovi i detenuti che passano il loro tempo a non fare niente di utile né per se stessi né per gli altri. Certo, c’è chi si iscrive a scuola e studia, ma quelli che lavorano sono pochi. Magari in un carcere di 250 persone ne lavarono 50. E gli altri? La cosa bella è che da questo progetto è uscito il potenziale di quattro detenuti che da "Io non so disegnare," sono stati gli ultimi a togliere il pennello dal muro. A livello umano è stata un’esperienza molto forte. Comunque stai a contatto con delle persone che hanno commesso crimini, anche a danno tuo, della società, però ho provato ad andare oltre. È qualcosa che sto cercando ancora di capire. Prossime tappe? A Firenze il carcere di Sollicciano. Qui c’è anche la sezione femminile ma non sappiamo con chi lavoreremo. In Campania siamo in contatto con un’associazione che lavora nel carcere di Secondigliano. Stiamo parlando anche con il carcere di Palermo, che è minorile, e ci è arrivata una proposta da un’associazione per portare il progetto in un carcere del Nord Italia. Ci piacerebbe poi ampliarlo. Dalla parte pratica, la produzione di muri all’interno delle carceri, alla realizzazione di talk, libri fotografici, mostre. Ora stiamo ragionando come finanziare le prossime tappe perché fino adesso abbiamo fatto tutto da noi. Speriamo di trovare degli sponsor che credano in questo progetto. "Non me la racconti giusta" è stato permesso grazie alla disponibilità del direttore Gianfranco Marcello, di tutta la direzione e degli assistenti della Casa circondariale di Ariano Irpino, del direttore Massimiliano Forgione, della direzione e degli assistenti della Casa di reclusione di Sant’Angelo dei Lombardi e infine del Ministero della Giustizia. Il progetto non sarebbe stato possibile senza il sostengo degli sponsor tecnici, Eternal Brico e Airlite e dei sostenitori: Damedia, Associazione D.n.a., Pignata in Bellavista e Lamerì PubArt. Il Presidente della Repubblica premia il progetto CO2 di Franco Mussida primapaginanews.it, 8 febbraio 2017 Il Presidente della Repubblica ha insignito il progetto CO2 della Medaglia di Rappresentanza, riconoscimento che viene attribuito a iniziative ritenute di particolare interesse culturale, scientifico, artistico, sportivo o sociale. Franco Mussida e il Cpm ringraziano Siae e il Ministero della Giustizia che hanno permesso la realizzazione di un progetto così importante. Intanto continuano le inaugurazioni delle audioteche nei carceri italiani. Di seguito le prossime tappe: Venerdì 10 Febbraio Firenze, Carcere di Sollicciano Venerdì 24 Febbraio Monza, Carcere di Monza "Oggi (28 Novembre, ndr) si inaugura ufficialmente nel carcere di Ancona la prima Audioteca della rete CO2. Saranno 12 postazioni all’interno delle carceri di altrettante grandi città italiane. Lo faremo con uno spettacolo dedicato alla Musica e alla genialità di tanti musicisti che tramite la Musica hanno raccontato e raccontano il meglio delle emozioni e sentimenti che abbiamo. La Musica portata in luoghi come le carceri, può far dispiegare la speranza, le nostre ali di sogno rattrappite. Chi è costretto alla carcerazione fisica non può perdere senso e valore di cosa sia davvero essere uomini, o di scoprirlo proprio grazie ad un’esperienza di costrizione così traumatica. È per questo che ci stiamo battendo perché la Musica, tutta la Musica, possa arrivare in tanti istituti di pena. I detenuti avranno uno strumento per vincere la "carcerazione interiore". Attraverso co2musicaincarcere.it è possibile far arrivare suggerimenti di musiche da inserire nelle audio-teche". Serie tv: i nuovi eroi sono gli ex detenuti di Eugenio Spagnuolo gqitalia.it, 8 febbraio 2017 Dal ritorno di Prison Break alle nuove serie tv con Giovanni Ribisi e Michelle Doherty, è tutta una galera. Poliziotti e medici ci sono sempre. E anche avvocati e cacciatori di demoni. Ma da un po’ di tempo a questa parte, altre divise stanno conquistando l’audience americana: quelle gialle/arancioni dei detenuti. Colpevoli o innocenti, sono loro i nuovi (anti)eroi delle serie tv, e il motivo si intuisce facilmente: le serie sono made in Usa e gli Usa hanno una popolazione carceraria enorme: 737 persone ogni 100 mila abitanti, che ne fanno il paese col maggior numero di prigionieri al mondo (2,4 milioni), seguiti da Cina (1,5 milioni) e Russia (870 mila). A fronte del 5% della popolazione mondiale, gli Stati Uniti hanno il 25% di quella carceraria. Quello delle prigioni in America è un business non sempre etico, come racconta in modo magistrale la serie di Netflix Orange is the new black, che ha cucito le vicende di un gruppo di donne dietro le sbarre con una radicale critica al sistema carcerario privatizzato americano, come non avrebbe saputo fare neppure Naom Chomsky. Piper Kerman, autrice del libro da cui è nato tutto, recentemente si è anche dilungata sulle storture del sistema in un articolo-saggio pubblicato da Fusion. Ma non è sola in questa battaglia, che passa per l’intrattenimento tv. Anche il nuovo eroe della tv: Saul Goodman (Bob Odenkirk) di Better Call Saul si presenta come un ex galeotto. Redento, ora fa il difensore d’ufficio e sta dalla parte dei deboli (ma il moralismo è stato sostituito dalla feroce ironia degli autori, Vince Gilligan e Peter Gould, gli stessi di Breaking Bad, ndr). Nel 2017 Netflix manderà in streaming la terza stagione, molto probabilmente in coincidenza con altre due serie, reduci da un grande successo negli Usa: Sneaky Pete e Good Behavior. La prima è la serie su cui punta Amazon per farsi largo tra i giganti dello streaming e vede il talentuoso Giovanni Ribisi nei panni di un truffatore, anzi un ingegnere sociale, come si definisce lui, appena uscito dal carcere, alle prese con un vecchio debito da saldare. Tra Edward Bunker e Dostoevskij, se volete. Good Behavior invece è la serie che ha liberato Michelle Doherty da Downton Abbey: tutto comincia con lei, ladra matricolata, che esce dal carcere e prova a cercarsi un lavoro onesto, ma l’unico incontro dignitoso che fa è con un sicario con cui formerà una bella coppia alla Bonnie e Clyde, per mettere alla prova tutte le nostre certezze su ciò che è giusto e sbagliato. Sempre nel 2017, è previsto anche il grande ritorno sugli schermi tv di Prison Break. Nella nuova stagione di 10 episodi ritroviamo i fratelli Scofield. Per resuscitare Michael (Wentworth Miller), morto alla fine dell’ultima stagione nel 2009, gli autori hanno dovuto fare i salti mortali. Ma l’occasione di agganciare il trend degli eroi dietro le sbarre, era troppo ghiotta per rinunciarvi. E così, dopo qualche notte insonne al computer, Michael è rinato. Last but not least, c’è chi dice che potrebbe farsi viva anche la HBO con qualcosa a proposito di OZ, la serie tv ambientata in un carcere maschile di massima sicurezza, che prese il via proprio nel 1997. Ma se 20 anni fa raccontare l’universo dietro le sbarre e la vita dopo il carcere sembrò un azzardo, e fioccarono le polemiche, oggi invece l’America sembra non farci caso più di tanto. Forse ha imparato a guardare con occhi più benevoli chi incappa nelle maglie della legge. Ius soli. La senatrice Lo Moro (Pd): "spero legge in aula entro fine febbraio" di Monica Rubino La Repubblica, 8 febbraio 2017 Sit-in permanente davanti al Pantheon a Roma del movimento #ItalianiSenzaCittadinanza che rivendica i diritti dei figli nati in Italia da genitori stranieri. Il provvedimento, promosso dal Pd e bloccato a Palazzo Madama, aspetta il via libera definitivo da oltre un anno. Un passaporto gigante, a grandezza umana, con sopra l’hashtag #senatorispondi. Al posto della foto c’è un ovale sagomato, dove ogni straniero nato in Italia può metterci simbolicamente la faccia, in attesa di ricevere il documento vero. È il simbolo del sit-in organizzato a piazza del Pantheon a Roma dai ragazzi del movimento "L’Italia sono anch’io" #ItalianiSenzaCittadinanza, nato sui social per protestare contro la mancata approvazione della legge sullo Ius soli, già varata dalla Camera, ma bloccata al Senato da più di un anno. La protesta dei giovani nati o cresciuti in Italia e figli di genitori immigrati, che si battono per il diritto alla cittadinanza, si è unita a quella della campagna "L’Italiasonoanchio", promossa da 22 organizzazioni della società civile (fra cui Arci, Acli, Cgil, Uil, Caritas, Legambiente). La mobilitazione del movimento #ItalianiSenzaCittadinanza - che a fine gennaio ha scritto anche una lettera aperta a Repubblica - sarà permanente: il raduno davanti al monumento più visitato d’Italia sarà ripetuto ogni martedì fino alla fine di febbraio. E cioè fino alla manifestazione nazionale del 28, che coinciderà con il martedì grasso, ultimo giorno di Carnevale: una grande festa alla quale sono invitati anche i bambini, muniti di coriandoli di tutti i colori, tanti quanti sono quelli dell’Italia di oggi. In occasione dell’inizio del Festival di Sanremo, inoltre, è partita sui social anche la campagna #ItalianiVeri dall’iniziativa spontanea di alcuni genitori, che hanno postato sulla pagina Facebook del movimento i video dei loro bimbi che intonano il ritornello de L’Italiano, la celebre canzone di Toto Cutugno. Ieri una delegazione del gruppo è stata ricevuta anche dal presidente del Senato Pietro Grasso, da sempre favorevole alla legge, come dimostra anche un suo tweet postato subito dopo l’incontro: Sul fronte politico il Pd, il partito promotore prima con Bersani poi con Letta e Renzi della riforma che archivia definitivamente lo "ius sanguinis", la cittadinanza italiana per diritto di sangue, viene accusato di fare orecchie da mercante: "I senatori del Pd, dal capogruppo Luigi Zanda alla relatrice della legge Doris Lo Moro, ci spingono a scendere in piazza, ma poi non ci dicono mai quando porteranno il provvedimento in aula", si lamenta Kwanza Musi Dos Santos, 24 anni di origine brasiliana, una delle portavoci di #ItalianiSenzaCittadinanza. "Ci sentiamo presi in giro", aggiunge Paula Vivanco, 40 anni, la "decana" del movimento di origini cilene, che ha ottenuto la cittadinanza italiana solo sette anni fa pur essendo arrivata in Italia da piccola. Sembra che però a Palazzo Madama qualcosa si stia muovendo. "La prossima settimana arriverà in aula la legge sui minori non accompagnati, subito dopo toccherà allo Ius soli. Entro fine mese potremmo farcela", si augura la senatrice Lo Moro. Che commenta anche l’ipotesi di un baratto fra Pd e Lega, ossia l’idea di impaludare la riforma della cittadinanza ai nuovi italiani in cambio di un assist del Carroccio sulla legge elettorale per andare alle elezioni a giugno: "Nessuno nel partito lo ha ammesso. Ma se quell’accordo c’era, di sicuro ora è saltato", dice ancora Lo Moro, che aggiunge: "Non solo perché forse le urne non sono così imminenti, ma anche perché quando gli accordi impresentabili vengono resi pubblici è difficile mantenerli: voi giornalisti avete fatto un buon lavoro". E se lo Ius soli non dovesse farcela a passare al Senato? "È una possibilità che non prendo nemmeno in considerazione", conclude la senatrice. Corruzione nei campi d’accoglienza. Le regole di Cantone per gli appalti di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 8 febbraio 2017 Dal Viminale arrivano misure più stringenti contro il business dei profughi. Il nuovo schema di gara è stato studiato per favorire anche le piccole imprese: pasti, pulizia e fornitura di beni e servizi saranno assegnati attraverso lo spacchettamento in più lotti. Sull’emergenza profughi, il ministero dell’Interno cerca di correre ai ripari. Non solo per affrontare le ondate di sbarchi che non accennano a fermarsi, ma anche per evitare nuovi scandali nella gestione dei Centri di accoglienza. Come quelli emersi con l’indagine su Mafia Capitale e altre inchieste, che hanno alzato il velo su cooperative e enti coinvolti nell’amministrazione delle strutture per migranti. Per impedire le ruberie, o almeno renderle più difficili, il Viminale ha deciso di varare nuove regole dopo essersi rivolto all’Autorità anticorruzione guidata da Raffaele Cantone. L’avvento del ministro Marco Minniti ha dato un’accelerazione alla redazione di uno schema di capitolato di gara d’appalto che, passato al vaglio dell’Anac che ha suggerito alcune correzioni, potrebbe diventare un modello di contratto-tipo in un settore particolarmente delicato della spesa pubblica. Anche per come è stata organizzata ed elargita finora; l’ultimo a parlarne, la scorsa settimana nella sua deposizione al processo romano sul "Mondo di mezzo", è stato l’imputato Luca Odevaine, il quale ha tra l’altro confessato che per il Cara di Mineo lui stesso predispose un bando "confezionato su misura" per far vincere le imprese de La Cascina, legata a Comunione e liberazione, dalla quale riceveva tangenti per circa 10 mila euro al mese. Appalti suddivisi. Nel Centro di accoglienza più grande d’Europa, avevano rilevato gli investigatori, "tutte le aziende coinvolte nella gestione, tranne una, sono in qualche modo riconducibili al colosso aziendale Cascina Global Service". Per evitare situazioni di questo tipo, lo schema predisposto dal Viminale, prevede la suddivisione degli appalti in tre lotti distinti e separati: uno per la fornitura di beni e servizi, un altro per i pasti e il terzo per la pulizia e "l’igiene ambientale". È la novità principale, stimolata proprio dall’Anac che già nel 2015 aveva segnalato come "l’unicità della gestione non può compromettere la necessaria apertura alla concorrenza", nonché il rispetto dei "principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza e proporzionalità". Inoltre la suddivisione in lotti favorisce l’accesso alle gare di imprese "medie, piccole e micro", anche nel rispetto della normativa europea. Gare più aperte. In questa prospettiva l’Anac propone di suddividere ulteriormente il primo lotto, considerato troppo grande e disomogeneo al proprio interno, distinguendo all’interno di esso gli appalti per la fornitura di biancheria, prodotti per l’igiene, materiale scolastico e generi di conforto. Un modo per specificare meglio il ramo d’intervento (separandolo dall’assistenza sanitaria e generica alla persona, e altri servizi) e favorire l’allargamento della base dei partecipanti alle gare. È stata criticata anche la possibilità che, nei centri che ospitano meno di 1.000 persone, i servizi di pulizia vengano ricompresi in quelli del primo lotto, giacché la "consistenza economica" degli appalti in questione sarebbe comunque consistente, specie per le strutture con più di 300 migranti. Indicazione importante, vista l’intenzione del governo di distribuire sul territorio un maggior numero di Centri di identificazione, ma di dimensioni ridotte rispetto al passato. La "clausola sociale". Ulteriore raccomandazione dell’Anticorruzione riguarda l’inserimento nel capitolato e nei bandi di gara della cosiddetta "clausola sociale" che, senza incidere sulla libertà d’impresa, promuova l’assorbimento "per quanto possibile" del personale già impiegato nei centri, anche per salvaguardare la "stabilità dei livelli occupazionali". Per rendere più trasparente il confronto tra le offerte presentate, si consiglia, tra l’altro, l’introduzione di un massimale nei punteggi attribuiti per le singole voci. E l’Anac avverte che le singole forniture appaltate separatamente debbano attivarsi di volta in volta, appena aggiudicati i lavori, senza attendere la conclusione di tutte le gare da cui deriverebbe un’indebita proroga dei contratti precedenti (che semmai andrà concessa, per i singoli lotti, fino alla aggiudicazione definitiva). Infine, sempre in ossequio alla trasparenza, il ministero dell’Interno dovrebbe prevedere limiti e tetti al rialzo dei costi consentiti da eventuali modifiche al contratto iniziale. Per spezzare una delle catene che in passato ha reso possibile gli scandali, le clausole su aumenti e deroghe devono essere "chiare, precise e inequivocabili". Cédric, contadino passeur: "Il carcere? Non importa, non posso vederli morire" di Roberto Scarcella Il Secolo XIX, 8 febbraio 2017 C’è chi lo chiama eroe, chi traditore. C’è chi lo paragona a Robin Hood e chi gli spedisce talmente tante lettere di minacce da intasargli la posta. Lui, Cédric Herrou, contadino di 38 anni, rifiuta etichette roboanti e alzando le spalle dice "i o faccio semplicemente politica. Non quella legata alla necessità di prendere voti, ma quella dell’azione". Fra tre giorni lo attende un processo dove rischia fino a 5 anni di carcere per aver trasportato illegalmente migranti dall’Italia alla Francia. Quanti? "Centinaia. Ufficialmente ne ho aiutati 200" e mentre lo dice, con la voce seria e bassa e l’aria da professore francese, occhiali tondi e barba incolta, fa una smorfia, come dire: sarebbero pure di più, ma non complichiamoci la vita. Oltre ad aiutare i migranti ad attraversare il confine, si prende cura di loro finché non sono pronti a proseguire il viaggio: vitto e alloggio sono gratuiti. C’è chi si ferma pochi giorni, chi un mese nella sua fattoria, poco a valle di Breil sur Roya, il fiume che, curiosamente, non divide Francia e Italia, ma salta da una parte all’altra del confine, facendo quel che non è permesso ai migranti. Uomini e donne in fuga trovano posto in quattro tende e due camper. Spesso si tratta di ragazzi tra i 12 e i 16 anni, in particolare eritrei. "Gente a cui dovrebbe essere permesso di attraversare la frontiera. Esiste il diritto d’asilo, e l’obbligo della presa in custodia per i minori non accompagnati - spiega innervosendosi Herrou mentre scarica dal suo camion pesanti sacchi di mangime. Alla frontiera però non si bada ai diritti e i poliziotti spesso fanno come possono, eseguendo ordini superiori". Eppure ricorda episodi poco edificanti. "Recentemente tre ragazzi in custodia a Nizza sono stati portati alla polizia di confine e da lì gli hanno indicato la strada per Ventimiglia. I poliziotti italiani li hanno riportati indietro, come era giusto che fosse, ma i francesi li hanno rimessi su un treno direzione Italia". E proprio l’Italia, che sta arrivando a un’intesa con la Libia per i reimpatri, è nei pensieri di Herrou: "Quell’accordo rischia di essere la fine per le speranze di queste persone. In più, già da ora, è proibito dar da mangiare al confine, sono 350 e per ora a sostenerli c’è la Croce rossa, che però tra una settimana se ne andrà. Ecco perché della mia sentenza mi interessa poco". Tuttavia, venerdì, al tribunale di Nizza, arriveranno per lui gruppi di supporto dall’Italia e dalla Francia. Amato a sinistra e dai cattolici, Herrou dice di essere sostenuto anche da persone di destra. "Sì, alcuni esponenti locali del Front National mi attaccano. Ma sono pochi. La gente perbene è ovunque". Lui però non si riconosce in nessuno dei candidati alla presidenza. Scarta Marine Le Pen, dà del "ladro" a Fillon. La sinistra? "Un caos". Salva solo l’ex ministra della Giustizia Christiane Taubira, fuori dai giochi. E boccia il "voto contro": "Non ha senso. I partiti si preoccupassero della metà del Paese che non va a votare perché non si riconosce in nessuno. So solo che siamo la quinta potenza mondiale, c’è pieno di ricchi e non si riesce a fare nulla. In più, molti fanno l’equazione migranti uguale terrorismo. Eppure i migranti arrivano dall’Italia, quanti attentati ci sono stati in Italia? E poi, diciamolo, l’Isis perché dovrebbe dare 250 euro a un passeur col rischio di far fermare i propri uomini?". Herrou non fa pagare nulla. E la maggior parte dei viaggi della speranza li ha portati a termine la primavera scorsa. "D’inverno c’è meno gente, e ora è anche più sorvegliato". Aveva iniziato un anno e mezzo fa, "perché non ce la facevo più a vedere gruppi di ragazzini rischiare la vita alle 3-4 di notte camminando sui binari o a bordo strada. Abbiamo iniziato a fare avanti indietro col minibus, era facilissimo". I primi tempi si è arrivati a ospitare 60 persone contemporaneamente. "E mai un incidente", rivendica con orgoglio il pastore che si è trasferito nelle valli dopo un periodo come meccanico a Nizza. Sorride mentre riempie il serbatoio di un muletto e si dirige verso i suoi uliveti. Lì, tra gli alberi, ha fatto calare i due camper direttamente da un elicottero, come in un film di Fellini. Costoso? "No". Fa sembrare tutto facile Herrou, che tra i suoi "sostenitori" vanta persino il procuratore che dovrebbe incastrarlo, Jean-Michel Prêtre, che ha riconosciuto la "nobiltà" delle sue motivazioni, aggiungendo però che la legge "può essere criticata, ma deve essere applicata". Herrou ricorda che se tutte le leggi venissero applicate, le frontiere per i migranti sarebbero aperte. E non ci sarebbe bisogno di lui, né di finire in tribunale. Pestato e violentato dai poliziotti, rivolta nelle banlieue di Parigi di paolo levi La Stampa, 8 febbraio 2017 Il ragazzo aggredito: ora basta alla violenza. Hollande: la giustizia andrà fino in fondo. Massacrato dalla polizia nella Patria dei Diritti umani. La paura di una nuova rivolta nelle banlieue di Francia dopo le violenze di quattro poliziotti ai danni di Théo, il ventiduenne di colore fermato, pestato e, secondo le accuse, sodomizzato con un manganello, irrompe nella campagna presidenziale francese. "La giustizia andrà fino in fondo", garantisce François Hollande, che ieri - nel tentativo di riportare la situazione alla calma dopo tre notti di proteste, con auto incendiate e danneggiamenti nella periferia di Aulnay-sous-Bois - è andato personalmente a trovare il ragazzo nella stanza d’ospedale in cui è ricoverato. Nella visita a sorpresa il capo dello Stato ha reso omaggio al "comportamento esemplare" di Théo, che - sono le sue parole - ha reagito con "dignità e responsabilità" dopo le violenze subite dai quattro agenti indagati, di cui uno per stupro e gli altri tre per violenze di gruppo. Nell’immagine Hollande stringe la mano della vittima divenuta in poche ore il simbolo di quelle periferie dell’emarginazione per le quali l’ex premier Manuel Valls parlò di apartheid. Théo è disteso a letto, con il volto tumefatto, indossa una maglia dell’Inter. Ora la speranza è che quella foto del presidente al suo capezzale possa contribuire a sedare la rabbia delle periferie insieme con l’appello, commovente, rivolto dal ragazzo ai concittadini di Aulnay. "So quello che sta accadendo. Amo la mia città e quando tornerò vorrei ritrovarla come l’ho lasciata. Quindi, ragazzi, stop alla guerra. Pregate per me". "Grazie per questo messaggio - gli ha risposto Hollande - per questa fiducia e per l’amore per la tua città". Poco prima, davanti alle telecamere, il capo dello Stato era stato chiaro: "La giustizia è garante delle libertà e i cittadini devono capire che è la giustizia che li protegge se i loro diritti sono stati violati, se la loro integrità fisica non è stata rispettata, anche se da parte delle forze dell’ordine". Il fermo era avvenuto giovedì, vicino casa sua, dove i quattro agenti lo avrebbero inseguito, picchiato e usato violenza contro di lui durante un controllo di identità degenerato, pare, per un diverbio. Il poliziotto accusato di stupro si è difeso evocando un "incidente". Ma l’aggressione è avvenuta sotto l’occhio di una telecamera, il video diffuso ha suscitato indignazione in tutto il Paese, il primo ministro Bernard Cazeneuve ha chiesto "fermezza", mentre il candidato socialista alle presidenziali del 23 aprile e del 7 maggio, Benoit Hamon, ha denunciato fatti "inammissibili". Diversa la posizione di Marine Le Pen, la leader del Front National che ieri era in commissariato per solidarizzare con le forze dell’ordine. "Il mio principio di base - ha detto - è prima di tutto sostenere polizia e gendarmeria, almeno fino a quando i giudici non avranno dimostrato che è stato perpetrato un crimine o un delitto". La diagnosi dei medici sembra non lasciare dubbi: "Ferita longitudinale del canale anale", "lacerazione del muscolo sfintere". L’altroieri si era svolta a Aulnay una marcia di sostegno al ragazzo e di protesta contro la polizia, ieri le madri del quartiere hanno chiesto che le forze dell’ordine non tengano più d’assedio la zona. "Giustizia per Théo", vittima delle violenze della polizia di Anna Maria Merlo Il Manifesto, 8 febbraio 2017 Hollande visita la vittima in ospedale. Le periferie, finora ignorate, fanno irruzione nella campagna elettorale. All’Assemblée discussione sull’estensione dell’uso delle armi da fuoco da parte degli agenti (come i militari). Il mondo politico, assorbito dalle presidenziali e dalle rivelazioni del Penelopegate, relegando in secondo piano i problemi delle banlieues, ha tardato a reagire al terribile episodio di violenze della polizia avvenuto giovedì scorso a Aulany-sous-Bois, a nord di Parigi. Solo ieri, il primo ministro Bernard Cazeneuve ha chiesto una punizione "esemplare" per i poliziotti colpevoli mentre il presidente François Hollande, nel pomeriggio, si è recato in ospedale dove Théo, 22 anni, è stato operato d’urgenza in seguito alle gravi ferite inflitte da quattro poliziotti durante l’arresto, senza motivo. Gli agenti sono stati incriminati per violenze volontarie, con l’aggravante che ad averle esercitate sono persone depositarie dell’autorità pubblica e che hanno agito in gruppo, facendo uso di un’arma, un manganello. Un poliziotto è accusato di stupro. L’aggressione è avvenuta sotto l’occhio di una telecamera e il video diffuso ha suscitato un’ondata di indignazione in tutto il Paese. I quattro sono stati "sospesi" dal lavoro (ma senza sospensione dello stipendio) e nessuno di loro è stato messo in carcere preventivo, malgrado la gravità dei fatti. "Sarebbe stata la stessa cosa se quattro giovani ne avessero picchiato un quinto, introducendo una mazza da baseball nell’ano?", si chiede Eric Dupont-Moretti, uno dei penalisti più noti di Francia che Théo e la famiglia, che si è costituita parte civile, hanno preso come avvocato. Da qualche giorno le notti di Aulnay-sous-Bois sono agitate. Ci sono state alcune auto bruciate, qualche negozio e qualche ufficio pubblico sono stati presi di mira da gruppi di giovani. E infatti ieri, dopo la terza notte di rivolta, ci sono stati anche i primi fermi, 26 per il momento. Si tratta comunque di episodi circoscritti. Ma tutti hanno in mente quello che successe nell’ottobre 2005, dopo la morte di Zyeb e Bouna, due giovani di Clichy-sous-Bois, fulminati in una centralina elettrica dove si erano rifugiati perché inseguiti dalla polizia. Le banlieues all’epoca esplosero. A Aulnay-sous-Bois, lunedì, c’è stata una marcia per Théo, guidata dalle madri del quartiere della Rose des Vents, dove il giovane vive. Le madri sono anche state ricevute in commissariato. Il sindaco di Aulnay, il républicain Bruno Beschizza, che è un ex poliziotto, ha preso le difese di Théo e criticato la giustizia, che ha tardato a procedere con l’accusa di stupro. Il candidato socialista, Benoît Hamon, ha condannato gli "atti inammissibili" commessi a Aulnay-sous-Bois e ha affermato che c’è "bisogno di ristabilire una relazione di fiducia tra la polizia e la popolazione". Poi, prudente, ha aggiunto che "non si deve confondere il gesto di alcuni con il lavoro quotidiano di migliaia di poliziotti sul territorio". Jean-Luc Mélénchon, candidato della France Insoumise, parla dello "scandalo di troppo", che segue di pochi mesi la morte di Adama Traoré, non si sa ancora se nel commissariato o nell’auto delle polizia, dopo un controllo d’identità finito male. Il 20 febbraio è attesa la sentenza per un altro caso ancora, analogo a quello di Théo, avvenuto a Drancy nell’ottobre 2015 e finito con l’arresto di un poliziotto per stupro. Marine Le Pen ha tagliato corto: "Io sto sempre dalla parte della polizia". Il governo, invece, tace o quasi. Il ministro degli Interni, Bruno Le Roux, ha invitato la famiglia per un incontro, ma i familiari di Théo, su suggerimento di Dupont-Moretti, hanno rifiutato. "La famiglia ha un atteggiamento pacifico - ha specificato l’avvocato - non vuole un’esplosione o scatenare una guerriglia, sarebbe una catastrofe se scattasse la rivolta". Dupont-Moretti insiste sul "caso di estrema gravità": "Come siamo arrivati a questo punto? Perché questa violenza?". Allarmante la coincidenza: mentre dei poliziotti devono rispondere per aver fatto ricorso a una violenza inaudita, l’Assemblée ha cominciato ieri a discutere una nuova legge sulla sicurezza pubblica, già approvata al Senato, che estende alla polizia le regole della gendarmeria sul ricorso all’uso di armi da fuoco. Finora, i poliziotti potevano usare le armi da fuoco solo in caso di legittima difesa. I gendarmi, come i militari, possono invece sparare con maggiore libertà. Il governo, che è debole, ha ceduto alle richieste della polizia, dopo varie manifestazioni di protesta in seguito alla violenta aggressione di quattro agenti a Viry-Châtillon, l’8 ottobre 2016. Siria. Amnesty: "impiccagioni di massa nel carcere di Sednaya, 13mila morti" di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 8 febbraio 2017 Secondo l’ong tra il 2011 e il 2015 gruppi di 50 detenuti venivano impiccati di notte due o tre volte alla settimana. Praticate anche torture come la privazione del cibo e dell’acqua. Il carcere di Sednaya come un campo di sterminio: in quattro anni sarebbero morte più di 13mila persone per mano del regime di Assad. È la denuncia presentata Amnesty International in un rapporto intitolato "Il mattatoio umano: impiccagioni di massa e sterminio nel carcere di Sednaya". Di notte, quando nella prigione regnava il silenzio, gruppi di 50 detenuti venivano impiccati due o tre volte a settimana. Una pratica tenuta segreta e praticata tra settembre 2011 e dicembre 2015 ma che potrebbe essere tuttora in vigore. Molti prigionieri, spiega ancora la ong, sono morti anche per le "politiche di sterminio" delle autorità, che comprendono torture ripetute, privazione del cibo, dell’acqua e delle medicine. Secondo Amnesty le esecuzioni erano state autorizzate dal governo siriano ai più alti livelli. Il luogo - Sednaya è un piccolo villaggio cristiano a nord di Damasco, noto per un antico monastero e le sue reliquie. Ma per i siriani è altro. Negli anni 80 a Sednaya e Palmira il regime degli Assad ha costruito due prigioni speciali per i nemici politici: attivisti, membri delle minoranze represse come quella curda, e in seguito anche i jihadisti. Le testimonianze - Il rapporto si basa sui racconti di 84 testimoni tra ex detenuti, giudici, avvocati e guardie. Generalmente, spiega, le impiccagioni avvenivano lunedì o martedì. I detenuti, prima dell’esecuzione, venivano portati davanti a una Corte militare. Il giudice si limitava a chiedere se l’imputato aveva commesso o no i crimini. Ma qualunque fosse la risposta la persona sotto accusa veniva condannata. Il processo non durava più di uno o due minuti. All’imputato non veniva concessa la possibilità di avere un avvocato né di difendersi da sé. Il rito - I racconti dei testimoni sono tutti uguali nella loro drammaticità. Il giorno deciso per l’esecuzione i detenuti venivano chiamati per nome e veniva loro comunicato che sarebbero stati trasferiti in altre strutture detentive. In realtà venivano portati con gli occhi bendati in una cella di Sednaya, dove venivano picchiati, quindi trasferiti in un altro edificio per essere uccisi. Un ex giudice che assistette alle esecuzioni extragiudiziali ha riferito ad Amnesty che i malcapitati "venivano tenuti impiccati per 10-15 minuti. Alcuni non morivano perché erano magri, come la maggior parte dei giovani, il cui peso non li uccideva. Per cui, gli assistenti dei funzionari li tiravano fino a rompergli il collo". Un ex ufficiale militare recluso a Sednaya ha raccontato: "Di notte se mettevi l’orecchio sul pavimento potevi sentire come dei gorgoglii. Dormivamo con il rumore delle persone che morivano soffocate. Questo per me era normale". I cadaveri venivano poi caricati su dei camion e trasferiti all’ospedale militare di Damasco per la registrazione e la sepoltura in fosse comuni. La richiesta - Per Amnesty queste pratiche equivalgono a crimini di querra e contro l’umanità. "Gli orrori descritti in questa informativa - commenta la vice direttrice di indagine dell’ufficio regionale di Amnesty a Beirut, Lynn Maalouf - rivelano una campagna segreta e mostruosa, autorizzata al più alto livello dal governo siriano, con l’obiettivo di schiacciare qualsiasi forma di dissenso all’interno della popolazione siriana". I colloqui di Ginevra in programma per il 20 febbraio, aggiunge Maalouf, "non possono ignorare queste rivelazioni. Mettere fine a queste atrocità del governo siriano deve essere un punto incluso nell’agenda e l’Onu deve condurre immediatamente un’indagine indipendente". Marocco. Mai più condanna a morte per chi vuole abbandonare l’islam di Claudio Del Frate Corriere della Sera, 8 febbraio 2017 Il consiglio degli Ulema ritiene superata l’esigenza: è la prima volta che accade in uno stato musulmano. La notizia diffusa dal sito ufficiale Morocco world news. In Marocco, chi vuole uscire dall’Islam, non rischia più la condanna a morte. Il Consiglio superiore degli Ulema, massima autorità religiosa del paese, apre alla possibilità di conversione ad altre religioni. Ne dà notizia il sito Morocco world News. Secondo le regole in vigore in tutti i paesi musulmani, l’apostata è condannato a morte. È vietato anche fare proseliti tra i fedeli di Maometto, se si è di altre confessioni. Ma la fatwa degli Ulema marocchini intitolata "La via degli Eruditi" supera uno dei nodi cruciali dell’Islam, in linea con un paese che rispetta da sempre il pluralismo religioso e che, per volere del re Mohammed VI ha deciso di muovere guerra all’estremismo. "Esigenza politica, non religiosa" - Le conversioni religiose sono punite in maniera brutale negli stati islamici: in Arabia Saudita è stata comminata una condanna a morte nel 2015 per un caso di apostasia, mentre addirittura in Afghanistan i familiari del convertito possono eseguire di persona la condanna a morte per vendicare l’onore della famiglia stessa. "Nel 2012 - spiega il sito Morocco world news, l’alto comitato religioso aveva pubblicato un libro dove spiegava la sua articolata posizione ed era arrivato alla conclusione che un musulmano che cambia religione doveva essere punito con la morte, in base a una tradizione e a una giurisprudenza diffuse". Ora la posizione viene rivista alla luce di una analisi degli insegnamenti di Sufyan a Thawri ; in sostanza, è vero che in passato l’abbandono dell’Islam è stato punito con la morte ma questo risale ai tempi delle guerre di religione, quando l’apostasia era l’equivalente di un alto tradimento di natura politica. Oggi questa esigenza, secondo gli Ulema del Marocco, sarebbe venuta meno. Egitto. Nuovo rinvio del processo al foto-giornalista Shawkan di Riccardo Noury Corriere della Sera, 8 febbraio 2017 Questa mattina il processo nei confronti di Mahmoud Abu Zeid, detto Shawkah, 29 anni, è stato nuovamente rinviato al 25 febbraio ma finalmente è stato deciso di prendere in considerazione le sue condizioni di salute in vista di un possibile rilascio. Shawkan è stato arrestato il 14 agosto 2013 mentre stava scattando fotografie per conto dell’agenzia Demotix in uno dei giorni più bui della storia recente dell’Egitto. Quel giorno, le forze di sicurezza dispersero con estrema violenza un sit-in della Fratellanza musulmana in piazza Rabaa al-Adaweya, uccidendo oltre 600 persone. Shawkan, in carcere ormai da tre anni e mezzo e del quale hanno chiesto la liberazione anche i genitori di Giulio Regeni, rischia una condanna all’ergastolo per questo lungo elenco di pretestuose accuse: "adesione a un’organizzazione criminale", "omicidio", "tentato omicidio", "partecipazione a un raduno a scopo di intimidazione, per creare terrore e mettere a rischio vite umane", "ostacolo ai servizi pubblici", "tentativo di rovesciare il governo attraverso l’uso della forza e della violenza, l’esibizione della forza e la minaccia della violenza", "resistenza a pubblico ufficiale", "ostacolo all’applicazione della legge" e "disturbo alla quiete pubblica". Il suo unico "reato" è aver fotografato il primo sanguinoso atto di repressione dopo il colpo di stato di Abdel Fattah al-Sisi. Di rinvio in rinvio, la detenzione preventiva di Shawkan ha superato ampiamente il massimo di due anni consentito dalla legge egiziana. Le sue condizioni fisiche non sono buone e nelle fotografie scattate nel corso delle ultime udienze è apparso emaciato e affaticato. In carcere ha contratto l’epatite C e per almeno 20 volte la richiesta di scarcerazione è stata respinta. Speriamo che adesso almeno i suoi problemi di salute siano presi sul serio. In attesa che lo sia la sua innocenza.