"Salvate la riforma delle carceri". Rita Bernardini riprende lo sciopero della fame di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 7 febbraio 2017 Le norme sull’Ordinamento penitenziario sono "intrappolate" nel testo sul processo, ma sono le sole a suscitare consensi anche oltre la maggioranza. Dalla mezzanotte di domenica, Rita Bernardini, coordinatrice della presidenza del Partito Radicale, ha ripreso lo sciopero della fame per l’amnistia, l’indulto, la riforma della giustizia, la rimozione di tutto ciò che rende illegale l’esecuzione penale, ivi compresi l’ergastolo ostativo e il 41bis. La finalità principale dello sciopero è quello di chiedere ancora una volta che la discussione e l’approvazione della riforma dell’ordinamento penitenziario sia estrapolata dal ddl penale, di cui il Senato dovrebbe riprendere l’esame tra non meno di dieci giorni. La richiesta dei radicali ha un senso ben preciso: la delega sull’ordinamento penitenziario non è divisiva e trova l’appoggio di gran parte dell’opposizione, mentre la riforma complessiva del processo penale trova ostacoli non solo dall’opposizione ma anche all’interno della stessa maggioranza. Il ddl predisposto or- da tempo dal ministro della Giustizia Andrea Orlando, infatti, ha avuto un percorso così tormentato che quando la settimana scorsa è finalmente tornato nell’agenda di Palazzo Madama alcuni esponenti dell’opposizione hanno dato per scontato che la scelta nascondesse uno stratagemma del Pd per precostituire l’occasione di un incidente in Aula e aprire una crisi di governo. Sospetto avanzato tra gli altri dalla presidente del gruppo Misto Loredana De Petris. Lo sciopero della fame è una battaglia intrapresa dall’esponente radicale che si inserisce in quella più generale sul sistema carcerario. In un anno ci sono stati 2500 detenuti in più e i numeri ci dicono che il sovraffollamento è in ripresa. Secondo gli ultimi dati del Dipartimento di amministrazione penitenziaria ci sono 55.381 detenuti su una capienza massima di 50.174 posti. Solo 42 carceri su 191 risultano non sovraffollate. Il trend è in crescita. Partendo dal 31 dicembre 2013 con 62.536 detenuti, si arriva nel 2014 a 53.623, e si scende ancora ai 52.164 nel 2015. Ma dal 2016 la situazione è cambiata e i numeri riprendono a crescere: dai 52.164 detenuti di fine 2015, si è passati a 54.072 del primo semestre del 2016, fino ai 54.653 del secondo semestre. Il sovraffollamento però, come già si è visto, continua a salire anche con il nuovo anno arrivando a 55.381 detenuti. Anche i dati sulle detenute madri, nel raffronto statistico tra dicembre 2016 e gennaio 2017, indicano un valore in aumento: quello dei bambini in carcere. A fine dicembre le donne recluse erano complessivamente 37 con 33 figli al seguito, mentre alla fine di gennaio del nuovo anno, le donne recluse in totale sono 35 con 40 figli. Altro problema che non si riesce a sanare è la situazione sanitaria. Il 78 per cento dei ristretti è affetto almeno da una condizione patologica, di cui almeno il 40 per cento una patologia psichiatrica. L’aumento di tale patologia è esponenziale anche perché le Rems - strutture nate come alternativa agli ospedali psichiatrici giudiziari non bastano e tanti malati sono in carcere nonostante la loro incompatibilità. Altro dato preoccupante riguarda l’aids. I nostri penitenziari sono delle vere e proprie bombe epidemiologiche. Solo nel corso del 2015, all’interno degli istituti penitenziari italiani, sono transitati quasi centomila detenuti. Sulla base di numerosi studi nazionali, si stima che cinquemila di essi fossero positivi al virus Hiv, 6500 portatori attivi del virus dell’epatite B e ben venticinquemila coloro che erano già venuti a contatto con l’agente che provoca l’epatite C. Altro problema è il mancato funzionamento della magistratura di sorveglianza in molti Istituti. Ciò provoca ritardi delle risposte alle istanze riguardanti la concessione della liberazione anticipata, della detenzione domiciliare, dei rimedi risarcitori e dei permessi premio. Senza dimenticare la carenza di organico presso gli uffici di esecuzione penale esterna (Uepe). Troppo pochi sono gli assistenti sociali e psicologi. Ciò equivale a non conseguire una serie di attività ed interventi, tra cui il controllo, il consiglio e l’assistenza, mirati al reinserimento sociale dell’autore di reato e volti a contribuire alla sicurezza pubblica riducendo la recidiva. Rita Bernardini con il suo sciopero della fame chiede che si affronti questa emergenza che l’indulto e l’amnistia appaiono sempre di più dei provvedimenti indispensabili per ristabilire la legalità all’interno dei penitenziari italiani. Nel frattempo, stasera alle 21, alla trasmissione Radio Carcere condotta da Riccardo Arena, verranno date le informazioni per una mobilitazione generale della comunità penitenziaria, dell’associazionismo, delle istituzioni e dei familiari e amici dei detenuti. In cella rispettando la dignità. I principi previsti dall’articolo 31 del disegno di legge L’articolo 31 della riforma che il Partito Radicale chiede di estrapolare dal ddl sul penale prevede i seguenti principi e criteri direttivi: a) semplificazione delle procedure, anche con la previsione del contraddittorio differito ed eventuale, per le decisioni di competenza del magistrato e del tribunale di sorveglianza, fatta eccezione per quelle relative alla revoca delle misure alternative alla detenzione; b) revisione delle modalità e dei presupposti di accesso alle misure alternative, sia con riferimento ai presupposti soggettivi sia con riferimento ai limiti di pena, al fine di facilitare il ricorso alle stesse, salvo i casi di eccezionale gravità e pericolosità e in particolare per le condanne per i delitti di mafia e terrorismo anche internazionale; c) revisione della disciplina concernente le procedure di accesso alle misure alternative, prevedendo che il limite di pena che impone la sospensione dell’ordine di esecuzione sia fissato in ogni caso a quattro anni e che il procedimento di sorveglianza garantisca il diritto alla presenza dell’interessato e la pubblicità dell’udienza; d) previsione di una necessaria osservazione scientifica della personalità da condurre in libertà, stabilendone tempi, modalità e soggetti chiamati a intervenire; integrazione delle previsioni sugli interventi degli uffici dell’esecuzione penale esterna; previsione di misure per rendere più efficace il sistema dei controlli, anche mediante il coinvolgimento della polizia penitenziaria; e) eliminazione di automatismi e di preclusioni che impediscono o rendono molto difficile, sia per i recidivi sia per gli autori di determinate categorie di reati, l’individualizzazione del trattamento rieducativo e revisione della disciplina di preclusione dei benefìci penitenziari per i condannati alla pena dell’ergastolo, salvo i casi di eccezionale gravità e pericolosità specificatamente individuati e comunque per le condanne per i delitti di mafia e terrorismo anche internazionale; f) previsione di attività di giustizia riparativa e delle relative procedure, quali momenti qualificanti del percorso di recupero sociale sia in ambito intramurario sia nell’esecuzione delle misure alternative; g) maggiore valorizzazione del lavoro, in ogni sua forma intramuraria ed esterna, quale strumento di responsabilizzazione individuale e di reinserimento sociale dei condannati, anche attraverso il potenziamento del ricorso al lavoro domestico e a quello con committenza esterna, aggiornando quanto il detenuto deve a titolo di mantenimento; h) previsione di una maggior valorizzazione del volontariato sia all’interno del carcere, sia in collaborazione con gli uffici di esecuzione penale esterna; i) disciplina dell’utilizzo dei collegamenti audiovisivi sia a fini processuali, con modalità che garantiscano il rispetto del diritto di difesa, sia per favorire le relazioni familiari; l) revisione delle disposizioni dell’ordinamento penitenziario alla luce del riordino della medicina penitenziaria disposto dal decreto legislativo 22 giugno 1999, n. 230; m) riconoscimento del diritto all’affettività delle persone detenute e internate e disciplina delle condizioni generali per il suo esercizio; n) previsione di norme che considerino i diritti e i bisogni sociali, culturali, linguistici, sanitari, affettivi e religiosi specifici delle persone detenute straniere; o) adeguamento delle norme dell’ordinamento penitenziario alle esigenze educative dei detenuti minori di età secondo i seguenti criteri direttivi: 1) giurisdizione specializzata e affidata al tribunale per i minorenni, fatte salve le disposizioni riguardanti l’incompatibilità del giudice di sorveglianza che abbia svolto funzioni giudicanti nella fase di cognizione; 2) previsione di disposizioni riguardanti l’organizzazione penitenziaria degli istituti penali per minorenni nell’ottica della socializzazione, della responsabilizzazione e della promozione della persona; 3) previsione dell’applicabilità della disciplina prevista per i minorenni quantomeno ai detenuti giovani adulti, nel rispetto dei processi educativi in atto; 4) previsione di misure alternative alla detenzione conformi alle istanze educative del condannato minorenne; 5) ampliamento dei criteri per l’accesso alle misure alternative alla detenzione; 6) eliminazione di ogni automatismo e preclusione per la revoca o per la concessione dei benefìci penitenziari, in contrasto con la funzione rieducativa della pena e con il principio dell’individuazione del trattamento; 7) rafforzamento dell’istruzione e della formazione professionale quali elementi centrali del trattamento dei detenuti minorenni; 8) rafforzamento dei contatti con il mondo esterno quale criterio guida nell’attività trattamentale in funzione del reinserimento sociale; p) attuazione, sia pure tendenziale, del principio della riserva di codice nella materia penale, al fine di una migliore conoscenza dei precetti e delle sanzioni e quindi dell’effettiva della funzione rieducativa della pena, presupposto indispensabile perché l’intero ordinamento penitenziario sia pienamente conforme ai principi costituzionali, attraverso l’inserimento nel codice penale di tutte le fattispecie criminose previste da disposizioni di legge in vigore che abbiano a diretto oggetto di tutela beni di rilevanza costituzionale, in particolare i valori della persona umana, e tra questi il principio di uguaglianza, di non discriminazione e di divieto assoluto di ogni forma di sfruttamento a fini di profitto della persona medesima, e i beni della salute, individuale e collettiva, della sicurezza pubblica e dell’ordine pubblico, della salubrità e integrità ambientale, dell’integrità del territorio, della correttezza e trasparenza del sistema economico di mercato La Costituzione passa dalle carceri di Antonino Castorina* L’Unità, 7 febbraio 2017 Le condizioni in cui si trovano le carceri italiane, nonostante i grandi sforzi perpetuati da molti direttori e gli interventi legislativi intervenuti negli ultimi anni che hanno contribuito notevolmente a migliorare la permanenza in carcere dei detenuti, necessita, secondo il mio punto di vista, di maggiore attenzione e valutazioni da parte di esperti di diritto, di specialisti del settore, delle istituzioni locali e del coinvolgimento del mondo del volontariato, al fine di individuare collegialmente soluzioni mirate non solo a recuperare il detenuto al contesto sociale e civile ma anche a fronteggiare il problema del sovraffollamento. La necessità di migliorare le condizioni di vita dei detenuti, garantendo un’assistenza sanitaria adeguata e migliori condizioni igieniche, non deve essere interpretata e valutata come un’intenzione atta a trasformare l’istituto penitenziario in un centro ricreativo di ristorno, ma come una esigenza invece di inquadrare il carcere come una struttura afflittiva e rieducativa al tempo stesso. Creare le condizioni per riuscire a rieducare il carcerato e prepararlo ad un suo positivo inserimento nel contesto sociale e lavorativo una volta scontata la pena, deve rappresentare una prerogativa importante e necessaria cui la struttura penitenziaria deve puntare. È da parecchio tempo che nel nostro paese si discute sulla necessità di apportare miglioramenti alle condizioni di vita dei detenuti, ma su questo aspetto, tranne poche eccezioni, dobbiamo ammettere che nelle strutture carcerarie non c’è molta omogeneità. Tanti ancora i problemi che ogni giorno i direttori delle strutture penitenziarie devono fronteggiare. La presenza, ad esempio, di detenuti tossicodipendenti e sieropositivi, pone inevitabilmente, grossi problemi di gestione poiché le loro condizioni di salute necessitano di interventi sanitari mirati che la sola detenzione non solo non risolve, ma addirittura aggrava. Sappiamo che ogni detenuto, al netto della causa che lo ha portato in galera, presenta problemi ed esigenze che vanno affrontate nell’ottica del recupero personale e del reinserimento sociale, questa è la scommessa che si deve dare lo Stato: più diritti, più Italia. La necessità di individuare percorsi e strategie di intervento in grado di migliorare la loro permanenza dentro una struttura carceraria, unitamente alla esigenza di realizzare interventi e iniziative volte a modificare comportamenti, credenze e abitudini culturali, soprattutto nei giovani detenuti, dove si registrano maggiori potenzialità di recupero, deve configurarsi come una prospettiva su cui condensare grande interesse. È vero che in questi ultimi anni le norme di legge hanno contribuito a migliorare le condizioni dei carcerati, ma i presupposti per giungere ad una applicazione omogenea in tutte le strutture penitenziarie di percorsi e progetti mirati ad associare alla pena da scontare una strategia volta al recupero e al possibile inserimento sociale e lavorativo, trova ancora molte resistenze. Nelle mie funzioni di rappresentante istituzionale ho avuto continuamente modo di visitare diverse strutture carcerarie e dal colloquio con i detenuti le esigenze rappresentate sono sempre le stesse: il problema del sovraffollamento; una maggiore attenzione ai problemi inerenti l’assistenza sanitaria; migliorare le condizioni igieniche dentro le celle e il sostegno a potersi inserire nel contesto sociale e lavorativo una volta scontata la pena. Teorizzare che l’orientamento afflittivo-punitivo della pena debba essere inquadrato in un contesto di relazioni sociali, culturali e lavorative volte a recuperare il detenuto, non vuole significare e tradursi in una manifestazione e/o tendenza da parte dello stato di diventare magnanimo nei confronti di cittadini che hanno commesso reati, ma vuole invece partire dal presupposto che il carcere debba riconsegnare alla società, una volta scontata la pena, cittadini autenticamente recuperati e non delinquenti che continueranno a commettere reati e continueranno a ritornare nuovamente in carcere. Puntare l’attenzione verso la realizzazione di interventi riabilitativi, in modo omogeneo e non occasionale, attraverso il coinvolgimento di personale specializzato in grado di valutare, prima di tutto, la personalità del detenuto e individuare un percorso di recupero attraverso procedure mirate, dovrebbe diventare la base da cui partire per riuscire nei propositi di recupero. Organizzare corsi di formazione professionale all’interno della struttura carceraria in aderenza con lo sviluppo tecnologico della società oppure tirocini formativi all’esterno della medesima struttura, assume sicuramente un importante significato pedagogico e sociale poiché questi percorsi portano i detenuti a poter meglio interagire con un contesto sociale e un sistema di relazioni interpersonali che saranno di grande aiuto e sostegno per un loro positivo inserimento sociale e lavorativo una volta scontata la pena. All’interno delle strutture carcerarie ci sono detenuti che scontano la pena con rassegnazione perché consapevoli di aver violato la legge, altri che trovano nella lettura un’importante alternativa e valvola di sfogo, mentre altri trovano nella fede un valido sostegno. L’esperienza acquisita nel visitare spesso le carceri, mi ha portato a comprendere che la fede, per molti detenuti, assume un’importanza fondamentale, un valore imprescindibile e profondamente intimo che unitamente alla figura del cappellano è nei fatti una forma di "Libertà". Quest’ultima figura non è vista dai detenuti solamente come un confessore, ma è vista come una persona cui spesso vengono confidate segreti, speranze, pentimenti e stati d’animo che magari ad altri non vengono confidati e/o espressi. È con loro che i detenuti stabiliscono un dialogo profondo e diverso rispetto agli operatori sociali messi a disposizione dal carcere forse perché le funzioni di questi ultimi, essendo espressione dell’istituzione carceraria, suscitano diffidenza. Garantire ai detenuti un’assistenza sanitaria adeguata e migliori condizioni igieniche all’interno delle celle, unitamente all’affermazione di iniziative volte ad un loro recupero e reinserimento sociale, oltre ad assumere un grande rilievo civile, rappresenta un agire che si dimostra rispettoso dei principi sanciti dall’articolo 27 della Costituzione Italiana. E attorno a questi propositi e a questi obiettivi che a mio avviso si deve sviluppare un ampio e articolato dibattito tenuto conto che la realtà carceraria, nonostante i positivi interventi legislativi, rimane ancora un realtà disomogenea e con tanti problemi irrisolti. Le istituzioni a vario livello devono essere in prima linea e istituendo ove è possibile la figura del Garante dei Detenuti ma anche interagendo con gli istituti detentivi con la presenza e l’organizzazione di appuntamenti che possano dare dignità e valore al dettame costituzionale che ci offre un indirizzo chiaro su come agire. *Consigliere metropolitano Reggio Calabria Coord. Naz. Anci Giovani Il suono del carcere: un contrappunto cacofonico di Sergio Ucciero bandieragialla.it, 7 febbraio 2017 Quando si pensa al carcere spesso l’idea che si fa chi non c’è mai stato, è quello di un luogo silenzioso, dove i detenuti sono nelle celle a meditare sugli errori commessi, sui famigliari, sugli amici, forse alle vittime dei propri gesti, insomma un lungo dove poter trovare la quiete che spinge al raccoglimento e alla rit1essione. Niente di più lontano dalla realtà. Il carcere è un luogo rumoroso, dove tutti urlano, detenuti e assistenti e le cui grida rimbombano nei corridoi delle sezioni disarredate propagandosi in echi che scuotono il sistema nervoso. Molto è dovuto dalla presenza di un numero di detenuti oltre il limite della normale capienza: solo a Bologna, per portare un esempio, al dicembre 2016 su una capienza di 501 posti c’erano 757 detenuti; altro è dovuto alle diverse abitudini e necessità di cui le varie etnie sono portatrici: per restare sempre a Bologna il 51% circa, è costituito da stranieri in prevalenza maghrebini, albanesi, rumeni. Non c’è momento in cui qualcuno non chiami un amico da una sezione all’altra attraverso le finestre, e se d’inverno le temperature limitano le chiacchiere, in primavera e d’estate i dialoghi si protraggono anche nelle ore notturne. Cosa si dicono? Chi lo sa? Il risultato è che il più delle volte dormire, studiare o semplicemente leggere è impossibile e, inevitabilmente, chi vuole guardare la televisione è costretto ad alzare il volume innestando un meccanismo a cascata che coinvolge tutta la sezione. Ma c’è anche la piacevole usanza di sbattere gli sportelli delle porte blindate per protesta o per salutare un liberante, un battito ritmico che assomiglia a uno sferragliare ferroviario che, tramite i cavedani e le strutture di cemento armato, invade i piani; o, ancora, le urla ossessive dei tossicodipendenti che chiedono le terapie o di rinforzare la dose di metadone. L’apertura delle celle per un certo numero di ore consente ai detenuti di "pascolare" nei corridoi che per la loro conformazione amplificano discussioni, risate, litigi. Per non dire della preparazione del pranzo o della cena dove la sezione si trasforma in una serie di mini-ristoranti dove fritture, bolliture e tutte le abilità culinarie muovono padelle, tegami e quant’altro. Ma l’apertura delle celle ha portato anche a una simpatica variazione gestionale: gli assistenti, non avendo più necessità di venire fino alla tua cella per aprirla, urlano dall’esterno della sezione tutti i nomi dei detenuti per la consegna delle lettere, per quelli che devono andare in infermeria, dall’avvocato, a colloquio o a qualsiasi attività, aggiungendo rumore a rumore. Ogni fracasso si somma al precedente, creando un frastuono di fondo inarrestabile in una cacofonia degna delle migliori avanguardie musicali. E parlando di musica, in questi giorni è stato presentato un interessante progetto dedicato all’ascolto della musica quale momento di evocazione delle emozioni. Si parla del suono come evocatore di stati d’animo. Ma ci sono tanti tipi di suoni e il suono del carcere è ferraglia, schiamazzi, strepiti. Il suono del carcere evoca emozioni negative e violente. Vi chiederete ma allora come si fa a resistere? Semplice: cuffie e tappi! Il resto è affidato al caso … grande regolatore delle cose italiche! Eppure basterebbero poche direttive per trasformare il rumore in suono, quello del silenzio, difficile da ascoltare perché difficile da trovare poiché, prima di essere fuori di te, è dentro di te. Mattarella alle giovani toghe: "non smarrire mai senso del limite" La Repubblica, 7 febbraio 2017 "Anch’io ho svolto il ruolo di giudice costituzionale e ho avuto modo di constatare il valore del confronto e della dialettica. Eppure in quegli anni ho sentito anche la tensione di dover rendere giustizia. Non fatevi condizionare da nulla se non dall’applicazione della legge. Neppure da quel sottile senso di solennità che deriva da questo ambito in cui operiamo. Occorre non smarrire mai il senso dei propri limiti particolarmente di quelli istituzionali". Così, a braccio, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella al Quirinale per la cerimonia con i 610 magistrati ordinari in tirocinio, alla presenza del vicepresidente del Csm Giovanni Legnini e del ministro della Giustizia Andrea Orlando. Mattarella, rivolgendosi alle giovani toghe, ha sottolineato come sia "un’esortazione che rivolgo innanzi tutto a me stesso perché in questo salone così solenne tutto esprime un senso di autorevolezza e, operando in questo ambiente, occorre non smarrire mai il senso dei propri limiti, particolarmente di quelli istituzionali. Nel corso della vostra carriera ogni tanto, se vi è possibile, cercate di rammentare questo mio sommesso suggerimento". "I magistrati hanno un compito molto importante" dice il capo dello Stato ricordando la sua esperienza di giudice costituzionale, "ho apprezzato fortemente la grande, fondamentale utilità del confronto dei punti di vista e della dialettica delle opinioni: fa conseguire un arricchimento progressivo". Il Presidente spiega che "l’equilibrio nell’esercizio della funzione giudiziaria consiste nel sapere evitare il duplice rischio di applicazioni meccanicistiche delle norme o di letture arbitrariamente ‘creativè delle stesse". "Equilibrio, ragionevolezza, misura, riserbo sono virtù che, al pari della preparazione professionale, devono guidare l’agire del magistrato in ogni sua decisione. Lo spirito critico verso le proprie posizioni e "l’arte del dubbio", l’utilità del dubbio, sorreggono sempre una decisione giusta - spiega Mattarella - frutto di un consapevole bilanciamento tra i diversi valori tutelati dalla Costituzione". La magistratura, nella nostra recente storia, sono ancora le sue parole, "ha dimostrato di avere tutti gli strumenti per garantire il riconoscimento dei diritti, senza condizionamenti. È un bene che sia sempre più orgogliosa della sua funzione insostituibile, ma anche consapevole della grande responsabilità che grava sulla sua azione". La giustizia, rileva il capo dello Stato, "è una risorsa fondamentale, ancor più per un Paese integrato nella comunità internazionale. È un servizio che contribuisce a garantire l’ordinato sviluppo civile e sociale". Secondo Mattarella, proprio al fine di assicurare la più efficace tutela dei diritti "al magistrato è garantita autonomia e indipendenza nelle sue decisioni che, per essere credibili, devono essere sorrette da una solida preparazione, frutto di un assiduo impegno professionale". In questo modo, conclude il Presidente, "evitando di correre il rischio dell’arbitrio si tutela al meglio l’autonomia e l’indipendenza della magistratura". Libri e carcere duro, decide la Consulta di Liana Milella La Repubblica, 7 febbraio 2017 Domani i giudici costituzionali si pronunceranno sul diritto dei mafiosi al 41 bis di ricevere pubblicazioni. La norma oggi vieta che siano spediti da amici e parenti. Prevarrà l’esigenza di sicurezza o il principio di libertà? Tocca alla Consulta, domani, scegliere tra le superiori esigenze della sicurezza e i diritti di chi, pur sottoposto all’isolamento e alle restrizioni del carcere duro in quanto mafioso - il famoso 41bis - pur tuttavia rivendica il suo diritto di spedire e ricevere libri e riviste. Che oggi invece, proprio una frase del 41bis, vieta espressamente. C’è un magistrato di sorveglianza di Spoleto - si chiama Fabio Gianfilippi - che il 26 aprile di un anno fa si è rivolto alla Corte costituzionale raccogliendo l’appello di un detenuto al 41bis recluso nel carcere di Terni. Le 19 pagine dell’ordinanza di Gianfilippi contrappongono articoli della Costituzione, possibili diritti del detenuto, poteri effettivi della Direzione delle carceri. Oggi il divieto di spedire, e ricevere, libri e riviste è tassativo. Gianfilippi lo considera una grave violazione del diritto del detenuto "alla libertà e segretezza della corrispondenza" (articolo 15 della Costituzione), una lesione del suo diritto a informarsi (articolo 21) e del suo diritto allo studio (articoli 33 e 34). Il giudice vede colpita e compromessa anche la Convenzione dei diritti dell’uomo che garantisce "a ogni persona il rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio, della propria corrispondenza ". Ma da che parte pende effettivamente la bilancia? Da una parte, in carcere, ci sono mafiosi che hanno commesso gravi delitti e per questo vedono contenuti i loro diritti. Dall’altra ci sono i principi sacrosanti che ovviamente devono valere anche per chi è detenuto. Un equilibrio è possibile se, nello scontro sui diritti, non viene compromessa la garanzia della sicurezza. Come deciderà la Consulta domani in camera di consiglio? Il relatore del caso è Franco Modugno, il costituzionalista indicato da M5S ed entrato alla Corte il 21 dicembre 2015. Le indiscrezioni mettono in luce dubbi e interrogativi soprattutto sulla pertinenza dei riferimenti alla Costituzione. Ci si chiede cioè se davvero si possa invocare il principio della libertà e segretezza delle comunicazioni e quello del diritto all’affettività a proposito di uno scambio di libri e riviste, visto che anche l’invio di biancheria intima potrebbe contenere un valore comunicativo. Libri vietati dalle regole sul carcere duro per la semplice ragione che quei libri e quelle riviste, inviate dal detenuto o all’opposto spedite da amici e parenti, potrebbero contenere messaggi cifrati destinati magari a impartire un ordine di morte. Il giudice Gianfilippi scrive che "un libro può far conoscere uno stato d’animo, veicolare un messaggio di vicinanza, condividere un’urgenza emotiva". Propone che tocchi ai magistrati, di volta in volta, decidere se quel pacco possa proseguire la sua strada o essere bloccato in quanto "inquinato e pericoloso". Un punto fermo sulla questione fino a oggi lo ha già messo più volte la Corte di Cassazione che con varie sentenze del 2013 e 2014 ha dato il via libera al 41bis così com’è perché né il diritto allo studio, né quello all’informazione verrebbero menomati. La Consulta, che più volte si è occupata di 41bis, ha ribadito il diritto alla difesa e quello all’informazione, per cui anche il detenuto per reati gravi può ascoltare il Tg. Ma su libri e riviste potrebbe prevalere l’esigenza della sicurezza. Da analfabeti a laureati, la rivoluzione culturale dei nuovi padrini di Attilio Bolzoni La Repubblica, 7 febbraio 2017 Da Dostoevskij a Pennac, ma anche Dickens, l’Eneide e le suore mistiche. Ecco le opere sui comodini dei capi di Cosa Nostra. È la generazione di mafia più colta. Per forza: sono rinchiusi da anni nella dannazione del 41 bis e tutti soli con Dostoevskij e i fratelli Karamazov, con Tolstoj, Svevo, Pasternak, Pirandello, con i filosofi tedeschi, i teologi protestanti, Virgilio e Kant. In Italia si legge sempre di meno ma "dentro" sempre di più. A parte quello zoticone di Totò Riina che è rimasto come dice lui stesso, "un seconda elementare", gli uomini della Cupola si sono allitterati, hanno studiato, da semi-analfabeti che erano molti hanno preso una e anche due lauree, si sono immersi nella storia e nei misteri della religione, avidi di discipline umanistiche e anche scientifiche. È un altro mito che cade nella Cosa Nostra che non c’è più perché ce n’è una nuova dentro e fuori il carcere. Una volta nei loro covi c’era sempre una Bibbia sul comodino e in qualche cassetto Il Padrino di Mario Puzo, non mancavano mai i Beati Paoli e Coriolano della Floresta di Wiliam Galt, romanzi cult di un’aristocrazia criminale che è sottoterra. La mafia del 41 bis ha imparato a proprie spese e si è emancipata intellettualmente, in compagnia de Il Dottor Zivago o di Todo modo. I divieti del regime speciale carcerario non hanno offerto un’altra scelta. Come ricorda Giuseppe Grassonelli a Carmelo Sardo - nel libro "Malerba" - quando è appena entrato nella fortezza dell’Asinara subito dopo le stragi del 1992. Grassonelli era uno dei boss della "Stidda", si ritrovò nell’isola del Diavolo in un loculo di cemento dove trovò una brandina di ferro e sopra un’edizione di Guerra e Pace. Provò a leggere qualche pagina e non ci riuscì, al tempo sapeva a malapena mettere la sua firma. Riprovò una, due, tre, quattro volte. E quando finalmente finì il libro scoppiò a piangere. Oggi Giuseppe Grassonelli si addentra con sofisticato piacere nel labirinto del periodo rivoluzionario napoletano del 1799, in particolare sulle "insorgenze" che coinvolsero tutte le province del Regno. E che dire allora di Gaspare Spatuzza, quello della strage di Paolo Borsellino e sempre quello - che a sentire un altro pentito - lo descriveva mentre "con una mano mangiava e con un’altra arriminava", con una mano teneva stretto un panino con il prosciutto e con l’altra un mestolo di legno con il quale pestava un cadavere sciolto nell’acido. Spatuzza ha incontrato la sociologa Alessandra Dino in una struttura penitenziaria (lei ne ha poi scritto un formidabile saggio) e l’ha invitata nella sua piccola biblioteca. C’era Delitto e Castigo, c’era La coscienza di Zeno, c’erano tre volumi di filosofia di Reale e Antiseri. Poi le ha regalato una sintesi di un libro di Joe Dispensa, Cambia l’abitudine di essere te stesso, con dedica: "Chi avrebbe mai potuto immaginare che un giorno Gaspare, un semi-analfabeta, fosse in grado di spiegare, anche se con le parole del Dott. Joe Dispensa, qualcosa sulla fisica quantistica?". Ma non sono soltanto i boss del 41 bis che si sono raffinati fra trattati storici e testi ancora più impegnativi che sconfinano nell’aldilà. Anche i latitanti passavano o passano le loro giornate sui libri. Pietro Aglieri per esempio, dietro l’altare dove l’andava a trovare un fratacchione della Kalsa, aveva tutte le opere di Edith Stein, la monaca filosofa tedesca dell’Ordine delle Carmelitane Scalze che morì ad Auschwitz - era di origine ebraica - nel 1942. L’imprendibile Matteo Messina Denaro qualche anno fa dialogava per lettera sotto il falso nome di "Alessio" con l’ex sindaco di Castelvetrano Tonino Vaccarino (che si firmava "Svetonio") confessandogli, suo malgrado, "di essere diventato il Malaussène di tutti e di tutto", immedesimandosi nel personaggio inventato dallo scrittore francese Daniel Pennac. Nelle sue corrispondenze con "Svetonio", Matteo ricordava anche l’Eneide, ragionava su Toni Negri, citava Jorge Amado: "Non c’è cosa più infima della giustizia quando va a braccetto con la politica". Una rivoluzione culturale. E forse a iniziarla è stato il capostipite dei Corleonesi, Luciano Liggio, uno che nonostante le "leggende" create intorno a lui sembrava più un gangster che un mafioso. Disse una volta ai commissari della prima Antimafia: "Ho letto di tutto, storia, filosofia, pedagogia. I classici. Ho letto Dickens e Croce". E sfottendoli, ha concluso: "Ma quello che ammiro di più è Socrate, uno che come me non ha mai scritto niente". Vasto. "Italo ha fatto la fine che meritava". Nel paese che non smette di odiare di Niccolò Zancan La Stampa, 7 febbraio 2017 I genitori del giovane ucciso a Vasto: "Non denunciamo nessuno". Ma in rete la gogna continua. "Un insignificante verme in meno!". "Ha fatto la fine che meritava". "Onore al gladiatore". Come si esce vivi dal paese dell’odio? Forse scomparendo dietro una porta chiusa, al riparo di un po’ di silenzio. Quello che la madre di Italo D’Elisa, linciato sui social network e poi ucciso per vendetta, ora cerca di opporre all’assedio delle televisioni. Al sesto giorno di supplizio, la signora Diana scrive un biglietto e lo affida al cognato Andrea, perché lo legga davanti ai prossimi microfoni puntati: "Desideriamo rimanere nel silenzio del nostro dolore, nella semplicità e nella riservatezza che ha sempre caratterizzato la nostra vita". Era mattina quando i titoli dei giornali locali gridavano dalle prime pagine: "I D’Elisa denunciano gli sciacalli del web!". È pomeriggio quando l’avvocato della famiglia D’Elisa, Pompeo Del Re, dice: "Mi è stato chiesto di frenare. Non denunciamo nessuno. Non ci sono querele da parte della famiglia, ma soltanto grande fiducia nella giustizia". Diluvia. Fa caldo. "Delitto e castigo", lo chiamano alcuni per riassumere il caso. Altri preferiscono: "Il delitto d’amore". Certe televisioni del pomeriggio, rilanciate in tutti i bar di piazza Rossetti, mettono sullo stesso piano un omicidio stradale colposo con un omicidio premeditato a mano armata. Mentre il web continua a vomitare sentenze e insufflare stille d’odio. Il 1° luglio del 2016, Italo D’Elisa, 21 anni, operaio alle presse della Denso con contratto interinale, esce a fine turno e si mette alla guida di una vecchia Fiat Punto. All’incrocio fra via Giulio Cesare e corso Mazzini, la strada principale di Vasto, passa con il semaforo rosso. Sta viaggiando ai 62 chilometri all’ora. Il limite è 50. In quel momento sta arrivando Roberta Smargiassi a bordo di uno scooter Yamaha Sh650: ha 34 anni, è incinta. Lei e il marito Fabio Di Lello avrebbero dato la notizia alle famiglie il giorno successivo. Ma Roberta Smargiassi muore quella notte d’estate. Una telecamera del circuito di sorveglianza riprende nitidamente la scena. Dopo tre giorni quel video è ovunque: Facebook, WhatsApp, anche su Youtube. Tutti vedono la ragazza sbalzata dal sellino. E mentre il marito Fabio Di Lello si ammala e inizia a covare la sua vendetta, è importante concentrarsi su ciò che accade intorno. Alla fiaccolata per Roberta partecipano 300 persone. Tutte chiedono giustizia. Ma cosa significa, esattamente? "Ricordo che sono iniziati ad arrivare i primi messaggi", racconta Michele D’Annunzio cronista del giornale "Zona Locale", uno dei più seguiti a Vasto. "Sotto quell’articolo della fiaccolata sono comparse le prime frasi. Tutti volevano che D’Elisa andasse in galera. Scrivevano: il pirata deve andare in gabbia!". Ma Italo D’Elisa era sobrio, al momento dell’incidente. Non aveva assunto droghe. E non era scappato, anzi. Aveva cercato di prestare i primi soccorsi a Roberta, ed era stato lui stesso a chiamare le forze dell’ordine. "Non c’erano assolutamente, a norma di legge, gli estremi per l’arresto", ribadisce ancora una volta il procuratore capo Giampiero Di Florio. Davanti al panificio della famiglia Di Lello, forse il più importante del paese, compare lo striscione: "Giustizia per Roberta". Iniziano a proliferare gli insulti sul web, le falsità su D’Elisa. Dicono che sia figlio di un avvocato, ecco perché avrebbe scampato l’arresto. Qualcuno manda in frantumi un vetro dell’auto di suo zio. Tutti ancora si scambiano il video dello schianto come prova della sacralità di quella rabbia. Mentre Italo D’Elisa, figlio di due operai, con la madre licenziata per dismissione della fabbrica, è in cura all’ospedale perché non riesce più a dormire. "Quando è tornato a casa, stava tutto il giorno chiuso nella sua stanza con quel caldaccio", racconta lo zio Andrea. "Mai un bagno, mai una sera fuori. Continuava a rivivere nella sua testa la scena dell’incidente. Stava ancora male. Avvertiva l’odio che c’era nei suoi confronti". La famiglia D’Elisa aveva scritto una lettera di vicinanza alla famiglia Di Lello. Avevano tentato di incontrarli, attraverso amicizie comuni, per trovare una strada di pacificazione. Anche Fabio Di Lello era in cura, nel frattempo, seguito da tre diversi specialisti. Ogni giorno e ogni notte passava ore a parlare da solo davanti alla tomba di Roberta. A settembre aveva comprato la pistola, si allenava al poligono. Gli amici di Facebook lo aggiornavano sui movimenti o presunti tali "dell’assassino". Non si erano mai visti. Mai conosciuti. "Non è vero che Italo lo abbia provocato. Non lo avrebbe mai fatto. Italo era un bravissimo ragazzo. Andava in giro in bicicletta, salvava le tartarughe, aveva la passione di lavorare nella protezione civile. Avrebbe voluto andare a scavare per la slavina del Rigopiano". Aveva perso sia il lavoro sia la sua passione, dopo l’incidente. Sospeso fino al processo che stava per essere celebrato. Due persone malate. Una piccola città di 41 mila abitanti. E gli odiatori sul web che continuavano a lavorare ai fianchi entrambi. "Faremo degli accertamenti sull’odio - dice il procuratore Di Florio - ma la responsabilità penale è personale. Dovremo verificare se ci sono stati singoli comportamenti rilevanti, non si può indagare un clima". Mercoledì pomeriggio Italo D’Elisa era andato a fare un giro in bicicletta per le campagne. Aveva messo una sua foto nuova su Facebook, dove compariva senza il suo vero nome. Alle quattro e dieci del 1° febbraio 2017, si è fermato a bere qualcosa nel bar sotto casa. Forse Fabio Di Lello gli ha chiesto se fosse proprio lui. Perché non l’aveva mai visto in faccia, prima di premere il grilletto. Detenzione disumana, il risarcimento danni è valido anche se il detenuto è stato scarcerato di Silvia Marzialetti Il Sole 24 Ore, 7 febbraio 2017 Corte di cassazione - Sentenza 5515/2017. Anche chi è stato già scarcerato può ottenere il risarcimento del danno per il trattamento disumano cui è stato sottoposto in carcere. Non ha dubbi la Cassazione nell’esaminare il caso di un ex detenuto, il cui ricorso è stato rigettato dal Tribunale di Sorveglianza di Roma con la motivazione che, essendo nel frattempo subentrata la scarcerazione, non sussistessero più i requisiti per affrontare l’oggetto del reclamo. Ma la Suprema Corte rilancia: "Compete al magistrato di sorveglianza disporre, a titolo di risarcimento del danno, una riduzione della pena detentiva ancora da espiare pari, nella durata a un giorno per ogni dieci durante il quale il detenuto ha subito pregiudizio, oppure attraverso la liquidazione in denaro di 8 euro giornaliere". Il principio citato dai giudici è racchiuso nel Dl 92/2014 (convertito nella legge 117/2014), che disciplina i rimedi risarcitori in favore dei detenuti che hanno subito un trattamento in violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Perno della norma e della sentenza 5515 depositata ieri (6 febbraio 2017), è la sentenza Torreggiani del 2013, considerata una sentenza pilota in materia di diritti in carcere (ad emanarla è stata la Corte europea dei diritti dell’uomo). Essa fissa, infatti, i criteri di valutazione per le dimensioni minime degli spazi inframurari e chiama in causa il giudice quale garante della verifica delle condizioni concrete in cui si svolge - o si è svolta - la detenzione. In particolare, come già rimarcato dalla Corte Costituzionale nel 2016 (con la sentenza 204), le sollecitazioni rivolte all’Italia nella pronuncia di Strasburgo hanno riguardato l’introduzione di procedure accessibili ed effettive: idonee, cioè, a produrre rapidamente la cessazione della violazione, anche nel caso in cui la situazione lesiva fosse già cessata e ad assicurare con rapidità e concretezza forme di riparazione adeguata. Secondo la Cassazione, dunque, nel respingere la richiesta risarcitoria dell’ex detenuto, il Tribunale di sorveglianza ha interrotto l’iter di un procedimento ritualmente instaurato davanti al giudice competente e riferito alla lamentata pregressa violazione dei suoi diritti. Nessuna argomentazione ragionevole - dunque - è di ostacolo a ritenere che il Tribunale di Sorveglianza sia ancora competente a esaminare il reclamo di un soggetto condannato che, detenuto al momento della presentazione della richiesta, sia poi scarcerato per la scadenza della pena. Omicidio stradale ok al primo test di Guido Camera Il Sole 24 Ore, 7 febbraio 2017 Tribunale di Padova - Ordinanza depositata il 20 gennaio 2017. Il reato di omicidio stradale non è incostituzionale. Lo ha stabilito il Tribunale di Padova nel corso di un processo in cui la difesa dell’imputata aveva chiesto che venisse sollevata una questione di costituzionalità dell’articolo 589-bis del Codice penale (introdotto dalla legge 46/2016), dato che il nuovo reato avrebbe introdotto "un trattamento sanzionatorio ingiusto e irragionevole in relazione, soprattutto, ad altre fattispecie analoghe o anche in ipotesi di reati dolosi percepiti peraltro dalla collettività con connotati di grave disvalore sociale". Naturalmente quello di Padova è solo uno dei primi vagli cui il reato è stato sottoposti. In futuro, la questione potrà anche approdare alla Consulta, perché dubbi ne restano. Infatti, non sono poche le norme che puniscono chi, a vario titolo, cagiona la morte di una persona e le pene sono ben più lievi rispetto all’omicidio stradale aggravato (si veda la scheda sulla destra). I giudici di Padova hanno però ritenuto che la nuova norma non contrasti con la Costituzione: "Il Legislatore, nella sua piena discrezionalità, ha ritenuto di formulare delle pene edittali, soprattutto nel minimo, più alte per l’omicidio stradale in ragione della particolare gravità della condotta stessa ed anche della frequenza con cui essa avviene, soprattutto con le modalità aggravate. Quindi si ritiene che sia un legittimo esercizio del potere discrezionale da parte del legislatore di ritenere maggiormente grave questa condotta rispetto ad altre forme di omicidio colposo". Ciò non convince pienamente: è condivisibile - in un moderno Stato di diritto - il richiamo alla salvaguardia della discrezionalità delle scelte del legislatore, ma la legge 46 per la prima volta ha introdotto pene così alte per reati involontari, decidendo per di più di renderle non mitigabili dal giudice (c’è il blocco delle attenuanti). Ciò può portare alla paradossale situazione in cui un giudice non può riconoscere la prevalenza dell’attenuante del risarcimento a un imputato che ha cagionato un incidente mortale solo perché ha bevuto un bicchiere di troppo. Anche se è incensurato e nella dinamica del fatto non ha effettivamente influito l’assunzione di alcol, ma una violazione generica del Codice della strada. Proprio per evitare epiloghi del genere, in passato la Corte costituzionale ha censurato meccanismi analoghi a questo (previsto dall’articolo 590-quater), nella misura in cui alterano "gli equilibri costituzionalmente imposti nella strutturazione della responsabilità penale" (sentenza 106/2014). Inoltre, la recente sentenza 74/2016 ha dichiarato incostituzionale l’articolo 69, comma 4 del Codice penale, che prevedeva il divieto di prevalenza, rispetto alla più grave forma di recidiva (articolo 99, comma 4), dell’attenuante del ravvedimento (articolo 73, comma 7, del Testo unico sugli stupefacenti) proprio perché non riconosce alcun valore, in termini di mitigazione della pena, alla condotta susseguente al reato: essa "si proietta nel futuro e può segnare una radicale discontinuità negli atteggiamenti della persona e nei suoi rapporti sociali". Altro punto qualificante dell’ordinanza di Padova è il riconoscimento che possono vantare legittime aspettative di risarcimento del danno morale - oltre agli eredi della vittima - anche le associazioni rappresentative di interessi diffusi nel settore della circolazione stradale, i cui scopi statutari sono da ritenersi lesi dalla condotta del responsabile di un incidente mortale. La decisione si richiama a una "pacifica" giurisprudenza, che riconosce alle associazioni rappresentative di interessi diffusi collegati al bene giuridico protetto da una norma penale il ruolo di danneggiato, oltre che quello di persona offesa che gli attribuisce l’articolo 91 del Codice di procedura penale. C’è però da chiedersi quanto una presenza del genere sia di aiuto - nel processo - ai diritti delle vittime di reati stradali. Non solo perché può sottrarre loro risorse patrimoniali (l’associazione ha l’obiettivo di aggredire i beni del colpevole tanto quanto loro), ma anche perché la presenza di una (agguerrita) parte processuale in più - che seguendo la decisione di Padova, avrebbe titolo a costituirsi parte civile in tutti i processi per omicidio o lesioni stradali - può rivelarsi un elemento di aggravio dei tempi e dell’asprezza della dialettica processuale. Stalking, sì al sequestro preventivo della vettura utilizzata per compiere gli atti persecutori di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 7 febbraio 2017 Corte di cassazione - Sezione V penale - Sentenza 16 gennaio 2017 n. 1826. È legittimo il sequestro preventivo dell’automezzo utilizzato per commettere il reato di stalking, in presenza dell’uso reiterato e sistematico di esso, finalizzato a produrre uno degli eventi previsti dalla fattispecie di cui all’articolo 612-bis del codice penale. Ad affermarlo è la Cassazione con la sentenza 1826/2017. Il caso - Il sequestro preventivo, disposto dal Gip e confermato dal Tribunale del Riesame, aveva ad oggetto un autocarro e un’autovettura, utilizzati secondo l’accusa dagli indagati per compiere atti persecutori ai danni della vittima, titolare di un esercizio commerciale. Nello specifico, l’impianto di videosorveglianza aveva mostrato che tali mezzi venivano reiteratamente parcheggiati dagli indagati in prossimità dell’ingresso pedonale dei clienti e nei pressi del cancello di accesso sul retro del negozio, impedendo di fatto l’accesso ai clienti e a qualsiasi altro veicolo. Per i giudici, l’utilizzo sistematico e molesto di tali mezzi aveva procurato un perdurante stato di ansia nella persona offesa, ovvero uno degli eventi previsti dall’articolo 612-bis Cp, e perciò giustificava il provvedimento ablatorio. Gli indagati ricorrevano però in Cassazione sostenendo l’assenza del nesso di pertinenzialità, ovvero l’inidoneità dei mezzi in questione ad impedire l’accesso alla clientela, in quanto non "strutturati e finalizzati esclusivamente a consentire ai ricorrenti di intralciare l’accesso", potendo questo essere impedito anche con altri mezzi. La legittimità del sequestro - La Cassazione conferma la decisione dei giudici di merito sottolineando come nella decisione del Tribunale del Riesame sia stato dimostrato il nesso di pertinenzialità tra l’uso molesto e sistematico degli automezzi e lo stato d’ansia indotto nella vittima. Per la Corte, infatti, a nulla vale l’assunto che si tratta di mezzi non esclusivamente destinati ad ostacolare l’accesso della clientela nell’esercizio commerciale, in quanto ciò che rileva, ai fini della legittimità del sequestro preventivo, è l’utilizzo strumentale di tali mezzi per compiere gli atti persecutori. I giudici di legittimità osservano, infatti, che la giurisprudenza ha sempre ritenuto elemento fondamentale per la legittimità del sequestro preventivo la sussistenza di un "non occasionale e strutturale nesso strumentale tra "res" e "reato"". E nel caso di specie, "ciò che rileva, al fine di ritenere il nesso di pertinenzialità tra gli automezzi utilizzati dagli indagati ed il delitto di stalking perpetrato ai danni della persona offesa, è proprio il costante e reiterato inserimento di tali veicoli nell’organizzazione esecutiva del reato, essendo quindi del tutto ininfluenti in tale tipologia di delitti le caratteristiche strutturali degli stessi automezzi". L’autonomia valutativa anche nella motivazione per relationem dell’ordinanza cautelare Il Sole 24 Ore, 7 febbraio 2017 Misure cautelari personale - Motivazione per relationem - Adeguata esposizione della gravità indiziaria - Conformità ai criteri logico-giuridici - Ammissibilità. L’ordinanza cautelare che si limiti ad incorporare la richiesta in tal senso avanzata dal PM, riprendendone il vaglio degli elementi di fatto decisivi nonché la spiegazione della loro rilevanza ai fini dell’affermazione dell’esistenza dei gravi indizi di colpevolezza, presenta senza dubbio una motivazione "per relationem" (nello specifico: per incorporazione). Tale tecnica redazionale della motivazione delle ordinanza cautelari è di per sé legittima anche alla luce delle novelle relative all’articolo 292, comma 1, lett. c) c.p.p. Pertanto, le censure relative alla presunta genericità delle modalità tecnico-operative con le quali il giudice procedente giunge ad elaborare la motivazione "per relazione" sono da disattendersi qualora ricadano al di fuori del contesto dell’autonomia valutativa del panorama indiziario (esercitata dal giudice) ed insistano, invece, esclusivamente sulla tecnica redazionale utilizzata. • Corte di Cassazione, sezione VI, sentenza 3 febbraio 2017 n. 5206. Misure cautelari personali - Provvedimenti - Ordinanza del giudice - Requisiti - Motivazione - Legge n. 47/2015 - Autonoma valutazione - Motivazione "per relationem" - Ammissibilità. In tema di motivazione delle ordinanze cautelari personali, la previsione dell’autonoma valutazione delle esigenze cautelari e dei gravi indizi di colpevolezza (ad opera dalla Legge 16 aprile 2015, n. 47 che ha novellato l’articolo 292 co.1 lett. c) c.p.p.) non ha carattere innovativo, né mira ad introdurre un mero formalismo che imponga la riscrittura originale di ciascuna circostanza di fatto rilevante, essendo stata solo esplicitata la necessità che, dall’ordinanza, emerga l’effettiva valutazione della vicenda da parte del giudicante. (In motivazione, la S.C. ha precisato che l’aggettivo autonoma è riferito specificamente alla valutazione e non all’esposizione dei presupposti di fatto del provvedimento, sicché, rispetto a quest’ultima, anche dopo la riforma, è consentito il rinvio - "per relationem" o per incorporazione - alla richiesta del pubblico ministero, mentre, dall’atto, dovrà emergere il giudizio critico del giudice sulle ragioni che giustificano l’applicazione della misura cautelare). • Corte di Cassazione, sezione I, sentenza 1 marzo 2016 n. 8323. Misure cautelari personali - Provvedimenti - Ordinanza del giudice - Requisiti - Motivazione - Legge n. 47/2015 - Autonoma valutazione - Requisiti - Motivazione "per relationem" - Ammissibilità - Condizioni. In tema di motivazione delle ordinanze cautelari personali, la prescrizione della necessaria autonoma valutazione delle esigenze cautelari e dei gravi indizi di colpevolezza, contenuta nell’articolo 292, comma 1, lett. c), c.p.p., come modificato dalla Legge 16 aprile 2015, n. 47, è osservata anche quando il giudice riporti nella propria ordinanza le acquisizioni e le considerazioni svolte dagli investigatori e dal pubblico ministero, pure mediante il rinvio "per relationem" al provvedimento di richiesta, purché, per ciascuna contestazione e posizione, svolga un effettivo vaglio degli elementi di fatto ritenuti decisivi, senza il ricorso a formule stereotipate, spiegandone la rilevanza ai fini dell’affermazione dei gravi indizi di colpevolezza e delle esigenze cautelari nel caso concreto. • Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 12 gennaio 2016 n. 840. Misure cautelari personali - Provvedimenti - Ordinanza del giudice - Requisiti - Motivazione per "relationem" - Ammissibilità - Limiti - Fattispecie. In tema di motivazione delle ordinanze cautelari personali, la necessità di autonoma valutazione da parte del giudice procedente è compatibile con un rinvio "per relationem" o per incorporazione della richiesta del PM che non si traduca in un mero recepimento del contenuto del provvedimento privo dell’imprescindibile rielaborazione critica. (Nella specie, in tema di truffa aggravata ed interruzione di pubblico servizio, la S.C. ha ritenuto immune da censure l’ordinanza del GIP che aveva richiamato la richiesta del PM - il quale, per ogni indagato, aveva riassunto gli elementi a carico costituiti da un cospicuo numero di elementi investigativi obiettivi, quali fotografie, pedinamenti, timbrature di cartellini marcatempo e fotogrammi tratti da videoriprese - ed aveva graduato, altresì, le misure cautelari applicate ai ricorrenti, così evidenziando una autonoma valutazione circa la rilevanza delle emergenze investigative e delle esigenze cautelari inerenti ciascun indagato). • Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 26 gennaio 2016 n. 3289. Società - Responsabilità amministrativa degli enti - Misure cautelari - Ordinanza del giudice - Motivazione per relationem all’ordinanza cautelare emessa nei confronti dell’autore del reato presupposto - Legittimità - Limiti. In materia di responsabilità degli enti per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato, ai fini dell’applicazione di una misura cautelare interdittiva, il ricorso alla motivazione per relationem all’ordinanza cautelare emessa nei confronti dell’autore del reato sottostante può ritenersi legittimo e satisfattivo solo con riguardo al compendio indiziario afferente la commissione del reato, mentre per il resto è necessaria un’apposita, esplicita motivazione che si estenda ad apprezzare tutti gli elementi dell’illecito amministrativo da reato. (In particolare, la sussistenza dell’interesse o del vantaggio derivante all’ente; il ruolo ricoperto dai soggetti che hanno agito in nome e per conto dell’ente; la verifica sul fatto che colui che ha commesso il reato non abbia agito nell’interesse esclusivo proprio o di terzi; la ricorrenza delle condizioni legittimanti l’applicazione della sanzione interdittiva). • Corte di Cassazione, sezione VI, sentenza 2 ottobre 2006, n. 32627. Una giornata in carcere mi ha insegnato la pietà di Michele Grotto corriere.it, 7 febbraio 2017 Ho 19 anni. Due anni fa sono stato in carcere a Padova, al Due Palazzi. Un giorno, ed è bastato. Un’iniziativa nata grazie a "Ristretti Orizzonti", il giornale che scrive dal e sul carcere, e a due professoresse del liceo Marco Belli di Portogruaro, la scuola che ho frequentato. Un’esperienza che vale più di tante cose che ho imparato tra i banchi. Faccia a faccia con la vita di cinque detenuti, anzi cinque persone, ancor prima di essere detenuti. Gianluca, Lorenzo, Erion, Biagio e Andrea. Gianluca, un medico chirurgo che non ha saputo chiedere aiuto, e ha ucciso sua moglie. Lorenzo, il rapinatore che ha passato i suoi primi dieci anni di vita senza padre, lui stesso in carcere per rapina. Erion, albanese, arrivato in Italia a sei anni, con un passato di ribellione, armi e droga. Andrea, ex insegnante, stesso reato di Gianluca. Infine Biagio, ergastolano, rinchiuso già da 17 anni. La storia più straziante per me. Aveva perso la parola dopo tanti anni in isolamento, dopo tanto lavoro, l’ha recuperata se così si più dire. Ha pianto raccontandoci della sua condanna a vita. Sono d’accordo con papa Francesco: l’ergastolano è un condannato a una pena di morte mascherata. Come si fa a vivere una vita senza più prospettive? (Articolo pubblicato sul Corriere della Sera di domenica 5 febbraio 2017) Vasto. La vendetta non è mai giustizia Maria Rita Parsi L’Unità, 7 febbraio 2017 In merito al doloroso, recente caso di Vasto, in provincia di Chieti, la vendetta ha sostituito la possibilità di fare giustizia. Ma la vendetta non è giustizia perché la vendetta non consente, né a chi si vendica né a chi ha commesso il reato che ha provocato il desiderio di vendicarsi da parte della vittimi (e/o dei suoi parenti), quella elaborazione del lutto e del danno che solo il tempo e un adeguato costante sostegno umano e terapeutico; solo la solidarietà, la presenza, l’accompagnamento familiare e sociale e, ancora e soprattutto, la possibilità - se c’è - di incontrarsi, di chiedere da parte del colpevole - perdono e di espiare o risarcire il nocumento, possono consentire. Vero è, però, che i tempi della giustizia umana e, poi, di quella del nostro Paese, non sono i tempi dell’immediato e più cocente dolore. Non sono i tempi del riconoscimento della perdita, dell’abuso, della violenza, della ferita mortale che è stata e/o ci è stata inflitta. Così, assai spesso, le vittime e i loro parenti avvertono i tempi e i passaggi "garantisti", necessari a fare giustizia, come troppo lunghi. E più rispettosi dei diritti dei colpevoli che non di quelli delle vittime. In realtà, anche e soprattutto per i colpevoli che sono in attesa della condanna, il tempo necessario per arrivare al risarcimento del danno che hanno procurato alle vittime, diventa un tempo sospeso tra sensi di colpa, paure, rabbie, rimorsi, rimpianti, vergogna. Un tempo che stronca le loro vite, che le tiene in ostaggio, le scarnifica, le consuma, prolungando il tormento che, poi, la condanna- si spera giusta e/o adeguata-andrà a sancire. Infine, nel dramma di Vasto che ha dolorosamente spezzato tre vite: quella di Roberta, morta nell’incidente stradale causato da Italo nell’essere passato con il rosso; quella di Italo, ucciso da Fabio, il marito di Roberta, per vendicarne la morte e quella di Fabio stesso che si è consegnato alla morte civile, uccidendo Italo e, spegnendo così ogni continuità con la vita condotta fino ad allora e con ogni possibile libertà, ha certamente pesato, in modo determinante, la solitudine. Intendo la solitudine dei due protagonisti di questo dramma. Ovvero quella di un ragazzo di 22 anni, com’era Italo, di fronte alla gravità immensa di quanto gli era successo e all’impietosa ferocia con la quale, sui social, venivano condannati l’incidente e la morte di Roberta che la sua trasgressiva sprovvedutezza aveva provocato. E quella di Fabio, straziato dal dolore per l’assenza definitiva della moglie e drogato dalla rabbia e dal bisogno forcaiolo di farsi giustizia, immediatamente e da soli, di cui i social scatenati si sono fatti portatori. Di quella rabbia, allora, va preso atto e delle gravi conseguenze che può avere allorquando un dolore e una immensa pena possono essere irresponsabilmente strumentalizzati, diventando la cartina di tornasole di un malessere e di un insoddisfatto bisogno di giustizia che manca nel macrocosmo sociale e che riguarda tutti. Sardegna: Caligaris (Sdr); dietro le sbarre troppi detenuti, metà degli istituti al collasso sardegnaoggi.it, 7 febbraio 2017 Le carceri sarde sono piene, anzi pienissime. La denuncia arriva da Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo diritti e riforme". Alcuni istituti giudiziari si possono considerare sovraffollati, altri registrano presenze comunque al di sopra della propria capienza massima. Il caso limite riguarda la casa circondariale di Isili con 154 detenuti a fronte di 111 posti disponibili. A Lanusei, nell’istituto circondariale "San Daniele", i reclusi sono 45, ma la capienza massima sarebbe di 33. Problemi non mancano a Tempio Pausania (181 detenuti in alta sicurezza per 167 posti), a Uta dove c’è un surplus di 21 detenuti (588 contro i 567 previsti), a Sassari e a Oristano dove sono ospitati rispettivamente 6 e 3 condannati "di troppo". "Con 5 istituti oltre il limite regolamentare su 10 - spiega Caligaris - in Sardegna si sta configurando una condizione difficile per l’aumento dei detenuti e le carenze di organici e direttori. Attualmente in 5 strutture sono ristrette 1.507 persone su 2.145 e mancano i direttori titolari oltre che a Cagliari, a Oristano, Is Arenas e Tempio-Nuchis. Un’altra eccedenza significativa +108,4% si registra esaminando i dati del Ministero della Giustizia relativi al mese di gennaio 2017. Un quadro così poco edificante non può lasciare indifferenti le istituzioni regionali e locali anche perché una notevole fetta di reclusi ha problematiche psichiche e di dipendenze, talvolta con gravi episodi di autolesionismo e atti aggressivi verso gli operatori" "Ha raggiunto la ragguardevole eccedenza del 136,3% rispetto al numero regolamentare la presenza di detenuti nella Casa Circondariale "San Daniele" di Lanusei (Ogliastra). Sono infatti recluse nella struttura 45 persone, prevalentemente protette, a fronte di 33 posti letto regolamentari. Una situazione - purtroppo non unica - resa ancora più difficile dall’assenza di un Direttore in pianta stabile giacché il titolare Marco Porcu gestisce anche la Casa di Reclusione di Isili (111 detenuti per 154 posti), un incarico nel Provveditorato regionale dell’Amministrazione Penitenziaria e da alcune settimane la Casa Circondariale di Cagliari-Uta". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme", sottolineando che "in Sardegna, con 5 Istituti oltre il limite regolamentare su 10, si sta configurando una condizione particolarmente difficile per l’aumento dei detenuti e le carenze degli organici e dei direttori. Attualmente in 5 strutture sono ristrette 1.507 persone su 2.145 e mancano i direttori titolari oltre che a Cagliari, a Oristano, Is Arenas e Tempio-Nuchis". "Un’altra eccedenza significativa +108,4% si registra - rileva Caligaris esaminando i dati del Ministero della Giustizia relativi al mese di gennaio 2017 - nella Casa di Reclusione "Paolo Pittalis" di Tempio Pausania-Nuchis. Sono infatti presenti 181 detenuti in Alta Sicurezza per 167 posti. Problematiche le presenze nell’Istituto "Ettore Scalas" di Cagliari (+103,7% ; 588 reclusi per 567 posti), nel "Giovanni Bacchiddu" di Sassari-Bancali (+101,4%; 430 per 424) e "Salvatore Soro" di Oristano-Massama (+ 101,1%; 263 per 260)". "Un quadro così poco edificante - conclude la presidente di SDR - non può lasciare indifferenti le Istituzioni regionali e locali anche perché una notevole fetta di reclusi ha problematiche psichiche e di dipendenze, talvolta con gravi episodi di autolesionismo e atti aggressivi verso gli operatori. Si ha l’impressione che molti dei detenuti precedentemente ospiti degli OPG siano stati inseriti nelle carceri con problematiche che gli Istituti non sembra possano affrontare". Umbria: il Garante dei detenuti Anastasia "il carcere Orvieto resti custodia attenuata" Ansa, 7 febbraio 2017 Le altre carceri umbre non possono perseguire questa vocazione. "Quella dell’istituto a custodia attenuata di Orvieto è la scommessa di una pena detentiva pienamente corrispondente al dettato costituzionale. Non ho dubbi che l’Amministrazione penitenziaria vorrà confermare la scelta di quella caratterizzazione per il carcere orvietano, essenziale in un contesto come quello umbro in cui le altre carceri non possono perseguire altrettanto efficacemente una simile vocazione". Lo dichiara Stefano Anastasìa, Garante delle persone private della libertà della Regione Umbria, in occasione della visita al carcere del capo del Dap. Anastasia chiede che "Amministrazione penitenziaria e magistratura di sorveglianza, Regione e Comune, operatori professionali e volontari, cittadinanza attiva e imprenditoria socialmente orientata raccolgano idee e risorse per la piena riuscita del progetto di custodia attenuata a Orvieto". Ancona: mio figlio era malato e lo Stato lo ha lasciato morire in carcere, ora voglio la verità di Stefano Pagliarini anconatoday.it, 7 febbraio 2017 L’ultima volta che la madre aveva visto suo figlio risale a 19 giorni prima che morisse, il 4 luglio, quando Daniele le avrebbe detto: "Mamma se io non esco dal carcere, qui ci muoio". "È inutile che mi dicono che è deceduto per morte naturale, questo già lo sapevo. Io vorrei sapere di chi è la responsabilità perché la morte di mio figlio si poteva evitare dato che per tre volte aveva chiesto di uscire dal carcere, non per evitare la pena, ma per essere ricoverato in una struttura sanitaria. Daniele era invalido, malato e doveva operarsi. Lui in carcere non ci doveva stare. Credo che la Magistratura e lo Stato abbiano abbandonato mio figlio. Ora voglio la verità per cui andrò fino in fondo". Dopo tanti mesi rompe il silenzio Soriana Candiloro, la madre di Daniele Zoppi, l’anconetano di 34 anni morto in carcere il 23 luglio 2015, dopo aver fatto tre volte richiesta per scontare la pena con una misura alternativa per motivi di salute. Già, perché Zoppi, che doveva scontare altri 5 anni per spaccio di sostanze, era obeso, aveva problemi respiratori, la pressione alta e la schiena schiacciata da infiammazioni ed ernie. Pochi mesi prima del decesso, si era operato all’anca destra e, lo dicono i referti delle visite mediche, aveva al più presto bisogno di un’operazione per la riduzione del peso. Troppi quei 140 chili per uno come lui. Condizioni di salute certificate da vari medici e da sempre rimarcate dall’avvocato Luca Bartolini, che si è sempre battuto affinché la Magistratura di Sorveglianza trovasse un’alternativa al carcere. Infatti l’anconetano aveva prima richiesto i domiciliari per l’ozonoterapia, poi la sospensione di pena da riprendere a seguito dell’operazione e infine il ricovero in una struttura sanitaria per detenuti. Tutte rigettate. Per il Tribunale di Sorveglianza di Ancona, come si legge nella risposta (datata 13 luglio 2015) all’ultima istanza del legale, seppur "necessitava di frequenti contatti con i presidi sanitari territoriali, le condizioni di salute dello Zoppi non sono particolarmente gravi da giustificare il rinvio facoltativo della pena". Richiesta negata. "Se non era così grave come dicevano, come mai mio figlio è morto 10 giorni dopo?" domanda la Candiloro, convinta che, se i giudici avessero acconsentito a quella richiesta, suo figlio Daniele oggi sarebbe ancora vivo. "Non serve essere medico per capire che Daniele non poteva stare lì. Ci sono delle responsabilità da parte di chi non ha fatto nulla per mettere mio figlio in condizione di potersi curare. Se Daniele fosse stato trasferito, si sarebbe anche potuto scoprire un problema cardiaco che avrebbe salvato la vita di mio figlio. Invece no. È morto solo in carcere senza che potessi vederlo o sentirlo". Infatti l’ultima volta che la madre lo aveva visto era 19 giorni prima, il 4 luglio, quando Daniele le avrebbe detto: L’inchiesta. Dunque la domanda a cui si deve trovare risposta è: Daniele Zoppi si sarebbe potuto salvare o sarebbe comunque morto di infarto? Anche per questo va avanti l’inchiesta della Procura di Ancona. Sul tavolo del pm Paolo Gubinelli c’è un fascicolo contro ignoti per omicidio colposo. Non un capo di imputazione a caso perché significa che gli inquirenti stanno lavorando per capire se qualcuno non abbia fatto a sufficienza per impedire il decesso del detenuto. Di recente è arrivata la perizia del medico legale che non ha apportato elementi di novità all’inchiesta, stabilendo come il giovane fosse morto per "arresto cardiaco". Il che porterebbe l’indagine verso l’archiviazione. Esito di fronte al quale Soriana Candiloro non si fermerà, pronta a battersi fino alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Bruxelles. "Io voglio che si faccia giustizia perché mio figlio non sarebbe morto se avesse ottenuto quello che per ben tre volte aveva chiesto: non evitare la pena, ma scontarla ed essere curato". Ma mentre si farà luce su eventuali responsabilità penali, resta l’immagine di un uomo che, nella malattia, in carcere, aveva già perso la propria dignità. Senza potersi muovere, sempre più affannato, con problemi di incontinenza e, come avrebbe testimoniato un volontario del carcere, con le caviglie diventate gonfie ed emaciate nell’ultimo periodo. Soffriva Daniele Zoppi, al punto da confidare ad un amico che prima o poi avrebbe simulato un malore pur di uscire di lì e andare anche solo una notte in ospedale. Mai avrebbe pensato che di lì a poco avrebbe avuto un malore vero e fatale. Roma: seminario a Rebibbia, carcere e scuola verso una comune sfida educativa romadaleggere.it, 7 febbraio 2017 Martedì 7 Febbraio 2017, all’Istituto Penitenziario a Custodia attenuata di Rebibbia Terza Casa si parla di integrazione tra carcere e scuola: un incontro per riflettere sulle situazioni e sui contesti in cui si sviluppano comportamenti devianti e per attivare processi e soluzioni alternative ai problemi. Quando il processo educativo diventa un percorso di Prevenzione sociale della devianza e di Educazione alla Legalità? Di questo si discuterà nel corso di un seminario sulla legalità i cui lavori si svolgeranno secondo un approccio di tipo integrato tra carcere e scuola. L’incontro - dal titolo Verso una comune sfida educativa - avrà luogo martedì 7 febbraio 2017, alle ore 11,00, nell’Istituto Penitenziario a Custodia attenuata di Rebibbia Terza Casa, in via Barolo Longo 82 a Roma. All’evento sulla tematica di Educazione e Riparazione parteciperanno detenuti, studenti delle scuole esterne, docenti, educatori, pedagogisti e formatori, Dirigenti e polizia penitenziaria. Nel dettaglio saranno presenti: il Direttore dell’Istituto Penitenziario, Dottoressa Annunziata Passannante; il Comandante di Reparto, Dottoressa Maria De Prisco; la Responsabile dell’Area Educativa, Dottoressa Maria Paola Azara; la referente del progetto di scrittura creativa, Dottoressa Grazia Inciardi; gli studenti dell’Istituto Tecnico Statale "Alessandro Volta" di Tivoli; la Dirigente Scolastica, Avv. Maria Cristina Berardini; la vice Preside, Professoressa Cristina Stefania Leoni; i Docenti Ugo Rocco Mattia, Alessandra Caffari; gli studenti dell’ I.P.S.S.A.R. "Tor Carbone" di Roma; la Dirigente Scolastica, Professoressa Cristina Tonelli; il docente Felice Santodonato; il Pedagogista clinico, referente della Regione Lazio Anpec, Dottoressa Stefania Salvaggio; la docente-formatrice del Laboratorio Pedagogico sulla Legalità, Dottoressa Maria Falcone. Il seminario sulla legalità si svolge in collaborazione con la Direzione, con l’Area Educativa e la Polizia Penitenziaria della III Casa Circondariale Rebibbia. Tali incontri rappresentano un’occasione davvero importante per condividere e riflettere sui vari punti di vista, per attribuire significati alle esperienze di vita, fino ad arrivare ad attivare processi e soluzioni alternative ai problemi. Il tutto nella significativa ottica di integrare carcere e scuola… verso una comune sfida educativa. Foggia: la scuola in carcere, l’esperienza di un’insegnante di Sandro Simone foggiacittaaperta.it, 7 febbraio 2017 L’incontro organizzato dal gruppo di Foggia de "Il Ruolo Terapeutico". Il Ruolo Terapeutico - Gruppo di Foggia organizza un incontro sul tema "Insegnare in carcere: come lo vivo io" con Fausta Minale, docente da più di vent’anni presso la Casa Circondariale Femminile di Pozzuoli. L’incontro. Un occasione per ‘entrarè nel mondo invisibile del carcere con gli occhi sensibili di chi ci lavora con passione e dedizione da anni. Parlare delle difficoltà, delle sfide e delle situazioni complesse che bisogna fronteggiare in un lavoro così difficile ed affascinante. Il Ruolo Terapeutico è da sempre sensibile a temi sociali e ad approfondire tematiche legate in modo particolare alle relazioni di aiuto da tutti i punti di vista anche quelli di un insegnante in un ambiente di frontiera. La relatrice è anche ambasciatrice Erasmus per l’Educazione degli Adulti e la piattaforma Epale per la regione Campania. Info. Il seminario si terrà sabato 11 febbraio alle ore 16 presso la sede della Scuola di Formazione de Il Ruolo Terapeutico in Via Fania 10. La partecipazione è gratuita e aperta a tutti ma per motivi organizzativi si richiede l’iscrizione tramite mail all’indirizzo eventi@ilruoloterapeutico.fg.it o telefonando allo 0881.720215 (segreteria telefonica). Per maggiori informazioni: ilruoloterapeutico.fg.it Paliano (Fr): concluso il progetto "La Porta", realizzato dai detenuti con Poste Italiane di Giancarlo Flavi lanotiziah24.com, 7 febbraio 2017 Si è svolta all’interno del carcere di Massima Sicurezza di Paliano, di Via Garibaldi 6, la parte conclusiva del progetto contributivo di rieducazione nel tessuto sociale dei detenuti denominato "La Porta", facente parte del "progetto filatelia nelle carceri II edizione". Sin dall’ottobre scorso, l’operatrice della filatelia della filiale di Frosinone Sig.ra Tiziana Dentice, che si è letteralmente inventata il progetto, recandosi più volte nel carcere di Paliano ed incontrando i 36 detenuti che hanno partecipato all’iniziativa realizzando parole, cartoline e cortometraggi che questa mattina sono stati proiettati all’interno della sala dell’Unità D’Italia, dove è stato presentato il progetto, alla presenza del Capo Filiale di Frosinone Dott. Stefano Federico, di Orlando Ranaldi arrivato a nome del direttore Pietro La Bruna, di Armando Mendolicchio, Andrea Cesarini, Giulia Santaro accolti dalla direttrice del carcere Dott.ssa Nadia Cersosimo e dal Sindaco Domenico Alfieri. Qui sono stati proiettati i cortometraggi realizzati dall’autunno scorso che riguardavo le poste e la comunicazione i quali hanno realizzato anche una sceneggiata fingendosi impiegati postali. Perché il progetto de "la Porta" è presto detto: in quanto era riferito all’anno Santo della Misericordia voluto da Papa Francesco e si sarebbe dovuto svolgere a Natale. Dagli elaborati grafici realizzati dai detenuti durante il corso sono state create quattro cartoline filateliche nelle quali ricorre come trait d’union il tema delle porte, simbolo di ingresso e di uscita da una realtà divisa tra il bene e il male e nella quale assume un carattere determinante il tema della giusta scelta. Realizzate in 1.000 esemplari, le cartoline sono state timbrate con lo speciale annullo filatelico, anche questo realizzato sulla base di un bozzetto disegnato dai detenuti. Gli ospiti presenti hanno potuto visionare anche altre opere come alcuni francobolli realizzati con sapone e tempera e due cortometraggi sul tema "Comunicazione e Filatelia". L’evento si è concluso con una rappresentazione teatrale dai detenuti. Stranamente quest’anno non sono stati ammessi giornalisti se non accreditati e quindi il topico momento dell’annullo postale in cui la direttrice Nadia Cersosimo annullava le cartoline stampate da Poste Italiane non è stato documentato fotograficamente. Noi siamo riusciti ad ottenere le cartoline annullate acquistate all’Ufficio Postale, dov’era stato aperto uno sportello per l’annullo. Questo progetto è nato non per giudicare, ma per comunicare con l’esterno ed è quello che cercano tutti i detenuti. Peccato per i troppi disguidi che si sono creati e possiamo affermare, quindi, che è stata una festa a metà, anche perché le autorità hanno disdetto tutte all’ultimo secondo lasciando i "postali" da soli e senza fotografo. Se la certezza dell’instabilità genera populismo di Roberto Bertinetti Il Mattino, 7 febbraio 2017 Profonda sfiducia verso i governi in carica, Unione europea e partiti tradizionali. E poi ostilità nei confronti degli immigrati cui si salda l’angoscia per un futuro che si preannuncia assai diverso dal passato e dal presente. Sono questi i principali elementi che accomunano gli elettori della nuova destra nell’intero continente, decisi a manifestare attraverso il voto il disagio che provano in un mondo cambiato con grande velocità a causa dei processi di globalizzazione e della crisi ancora in atto, due fenomeni destinati spesso ad accentuare le disparità economiche e tensioni sociali da tempo latenti. Il successo crescente ottenuto negli ultimi anni dai movimenti xenofobi e nazionalisti nell’intero continente non sorprende la Fabian Society di Londra e il think tank progressista inglese Compass che hanno appena reso nota una ricerca sui motivi all’origine del favore di cui godono Nigel Farage nel Regno Unito, Marine Le Pen in Francia, Geert Wilderst in Olanda o Frauke Petry in Germania. Cui si accompagna il populismo reazionario della Lega e di almeno una parte dei grillini in Italia. Il report sottolinea inoltre il rischio di un’ impennata dei reati a sfondo razziale per le parole d’ordine dei gruppi oltranzisti: i loro slogan intercettano l’insicurezza e la rabbia della working class un tempo orientata in maniera quasi naturale a sinistra. Secondo la Fabian Society e Compass, la proletarizzazione dell’estrema destra costituisce il fenomeno più significativo della scena politica europea contemporanea. Del resto, si afferma nel rapporto, "se i partiti di Nigel Farage e di Marine Le Pen diventano i punti di riferimento degli operai nei rispettivi paesi, vuol dire che sta davvero accadendo qualcosa di epocale". I primi segnali di questa controrivoluzione antropologica dagli esiti potenzialmente dirompenti hanno preso a manifestarsi a partire dalla metà degli anni Ottanta, quando ha iniziato a serpeggiare una silenziosa rivolta contro la Ue, i partiti e le istituzioni. Nazionalismo e xenofobia hanno poi costituito la miccia per appiccare il fuoco a un cumulo assai combustibile di disagio sociale. E ora l’incendio divampa con forza nell’intero continente. Tra uomini e donne con un basso livello di istruzione, che approvano le scelte isolazioniste di Donald Trump e giudicano un pericolo da contenere i lavoratori di origine straniera Tutti gli indicatori mostrano che l’estrema destra cresce dove aumenta il distacco tra cittadini e sistema politico. Si legge nel rapporto: "Il sentimento di esclusione e di marginalità che investe le fasce più deboli trova risposte negli appelli e nelle parole d’ordine dei gruppi antieuropei e anticapitalisti, capaci di proporre una sorta di mondo alternativo rispetto alle tendenze dominanti". Va poi aggiunto che alcuni leader, in particolare Farage e Le Pen, dicono ad alta voce ciò che molta gente pensa in segreto. Con il risultato di offrire una sorta di legittimità culturale a posizioni radicali, in particolare in tema di immigrazione. Cosa ha favorito l’esplodere dell’ostilità e fatto da propellente alla rabbia proletaria degli sconfitti e degli emarginati delle periferie urbane, contribuendo alla crescita dei voti per i partiti della nuova destra? Il populismo, rispondono gli studiosi dei due think tank britannici. Un pensiero politico, aggiungono, che non sempre ha premiato la destra. In passato, infatti, veniva utilizzato dalla sinistra per sottolineare la distanza che separava le masse dalle élites. Oggi, invece, riempie i discorsi dei leader xenofobi e nazionalisti, che lo impiegano per accrescere il risentimento nei confronti dei governi in carica e dei partiti politici tradizionali. Nell’analisi del report si aggiunge che i capi carismatici della nuova destra postmoderna si servono della scorciatoia del populismo per arrivare al potere: identificano i nemici, attribuiscono loro le cause delle difficoltà in cui si trovano milioni di persone e, su questa base, costruiscono un consenso di tipo emotivo. Il populismo, si sottolinea, "non può tuttavia rappresentare una strategia duratura e vincente per formazioni politiche che, una volta conquistato il governo, sono costrette a fare i conti con realtà spesso molto complesse. Il caso del Regno Unito che ancora non ha definito una strategia per Brexit dimostra quanto sia arduo mantenere le promesse fatte durante le campagne elettorali". Quali rischi si corrono, in particolare in Francia, a causa del populismo che soffia nelle vele di Marine Le Pen alle presidenziali della prossima primavera? Alla domanda ha risposto in un articolo su Le Monde Dominique Moisi, politologo parigino docente a Harvard. "Le elezioni di aprile diventano decisive a livello mondiale", ha scritto. Aggiungendo che "dopo Brexit e la vittoria di Trump un trionfo di Marine Le Pen costituirebbe la conferma che il populismo per ora non è arrestabile". Per invertire la tendenza, precisa Moisi, occorrerebbe ristabilire canali di comunicazione tra i cittadini e i governi. Ma è un’impresa difficile, visto che i partiti e i sindacati non giocano più il ruolo decisivo di un tempo. E in un periodo di "masse senza partito" e di "partiti senza masse" la certezza dell’instabilità dell’elettorato accomuna Paesi che pure hanno storie e tradizioni politiche diverse. E dalla stabile instabilità possono scaturire continue sorprese. Migranti. Altri 5 hot spot sulle coste italiane di Marco Ludovico Il Sole 24 Ore, 7 febbraio 2017 Arrivano cinque nuovi hot spot sulle coste italiane. Raddoppiano così le strutture post sbarco destinate al controllo dei migranti soccorsi. Oggi sono già operativi a Lampedusa, Taranto, Trapani e Pozzallo, il primo con 500 posti di capienza, gli altri con 400 posti. Ma al ministero dell’Interno, guidato da Marco Minniti, sono in fase di realizzazione i centri di Crotone, Reggio Calabria, Palermo, Messina e Corigliano Calabro, in provincia di Cosenza. Gli hot spot furono chiesti a più riprese dall’Unione europea all’Italia alla fine del 2015. Roma ha risposto fino a smentire l’accusa di mancati controlli. Secondo l’Unione europea gli immigrati giunti sulle nostre coste non erano sottoposti ai rilievi di impronte digitali e foto-segnalamenti. Oggi a Bruxelles convalidano e apprezzano il dato ufficiale del dipartimento di Pubblica sicurezza, diretto da Franco Gabrielli: il 99% dei migranti è sottoposto ai controlli di rito. Non basta, però. I nuovi hot spot non nascono a caso. In piedi c’è il problema del cosiddetto "sbarco differenziato". Quando la Guardia Costiera deve coordinare il soccorso di un numero ingente di migranti in mare, c’è poco da andare per il sottile:?bisogna salvare vite umane. Le cifre di questi giorni sono un esempio ormai classico, molte e molte centinaia di disperati in arrivo in un giorno o due. D’intesa con il dipartimento delle Libertà civili e immigrazione, guidato da Mario Morcone, va pianifica con la massima urgenza il pos-place of safety, il punto di approdo per tutti gli stranieri in arrivo. Ma non tutti i porti hanno un hot spot. Come Augusta, dove quest’anno sono sbarcati 2.228 stranieri; Catania, 1.476 persone soccorse in porto; Reggio Calabria, 872 migranti; Messina, 632 immigrati. Il ministero dell’Interno, una volta approdati gli immigrati, organizza trasferimenti in autobus per gli hot spot più vicini. E durante il primo soccorso, appena giunti in banchina, non è scontato che proprio tutti i migranti siano poi accompagnati in un centro post sbarco. Spesso le procedure sono concitate, drammatiche, e il lavoro di assistenza delle organizzazioni umanitarie resta essenziale. Nel segnale di costruzione di nuovi hot spot, insomma, c’è soprattutto un valore politico. Ha, intanto, un certo potere di dissuasione. Se, giunto in Italia, un migrante sa di essere sottoposto a tutti i controlli di rito, l’idea di circolare in piena libertà anche verso gli altri stati europei può venir meno. Più forte, come deterrente, il progetto di Minniti di fare centri per il rimpatrio in ogni regione. Sono gli attuali Cie (centri di identificazione ed espulsione), molti in fase di ristrutturazione o allargamento. Nel decreto legge in preparazione - approderà al Consiglio dei ministri nei prossimi giorni - i Cie si chiameranno invece Cpr, appunto centri per il rimpatrio. Con una permanenza breve per gli stranieri, quella sufficiente per l’identificazione e il lasciapassare dello Stato d’origine a riportarli con un volo aereo. I nuovi indirizzi di politica dell’immigrazione saranno spiegati da Minniti domani nell’audizione alle commissione riunite Affari costituzionali di Camera e Senato. I flussi in corso sono drammatici. Dal 1° gennaio fino a lunedì scorso sono arrivati 9.359 migranti, oltre il 50% in più rispetto al 2016 (6.030 persone) e quasi il triplo del 2015 (3.709). In accoglienza sono ospitati 175.220 stranieri. Va aggiunta la maggioranza dei 25.485 "minori non accompagnati" sbarcati l’anno scorso e altri 395 giunti nel 2017. Inevitabile per il ministro dell’Interno sottolineare l’importanza dell’intesa stipulata giovedì scorso a Palazzo Chigi tra il presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, e il presidente del consiglio presidenziale libico, Fayez Mustafa al Serraj, accordo poi condiviso nella riunione dei capi di Stato e di Governo a Malta. La scommessa dell’Italia è di essere considerata il capofila di un’azione strategica per ridurre il flusso dei migranti: il 2016 è stato l’anno record con 181.436 stranieri approdati sulle nostre coste. E quest’anno le cifre potrebbero essere perfino maggiori stando alle tendenze in atto. È difficile un rallentamento immediato delle partenze dalle coste libiche. La speranza si ripone nella capacità - tutta da dimostrare - di Serraj di svolgere un controllo sugli arrivi dei migranti sulla frontiera sud dello stato libico. In questo scenario il confronto tra Italia e Unione si amplia a dismisura nella discussione in atto tra spese per immigrazione e vincoli di bilancio statale. Ma, così come i nuovi Cie, l’ipotesi di nuovi hot spot non è soltanto un segnale coerente con lo slogan di Minniti "sicurezza e integrazione". Diventa soprattutto anche un’azione del Viminale in coerenza con gli obiettivi di Bruxelles. Martedì scorso lo ha sollecitato il commissario per la migrazione, gli affari interni e la cittadinanza, Dimitris Avramopoulos davanti alle commissioni riunite Affari Costituzionali, Esteri e Politiche della Ue di Camera e Senato. E Avramopoulos ha avvertito:?"Ci sono 300mila migranti pronti a partire dalla Libia". L’Ue abbandona i migranti nell’orrore delle prigioni libiche di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 7 febbraio 2017 Chi proviene dall’africa subsahariana viene arrestato e tenuto in detenzione senza processo legale e senza alcun contatto con il mondo esterno. L’Unione Europea ha trovato la soluzione per risolvere il problema delle migrazioni nel Mediterraneo centrale, la risposta è stata facile: basta non far partire i barconi carichi di migranti. È questo il nucleo del memorandum in 10 punti messo a punto dall’Alto rappresentante Federica Mogherini e dal commissario Dimistris Avramopoulos e proposto dal vertice Ue di Malta. "Abbiamo concordato misure immediatamente operative che dovrebbero ridurre il numero di migranti irregolari e nel contempo salvare vite" ha detto a margine del vertice Donald Tusk, presidente del Consiglio Ue. Dunque potenziamento della guardia costiera libica, controlli più stringenti a terra e rimpatri "umanitari". La decisione europea segue quella dell’Italia che ha siglato un accordo con il premier libico Fayez al Serraj; anche in questo caso si prevede il contrasto all’immigrazione illegale, traffico di esseri umani, contrabbando e rafforzamento della sicurezza delle frontiere. Al governo libico (che controlla però solo metà del paese) arriveranno mezzi e assistenza. Quella europea è un’operazione che dovrebbe ammontare a circa 200 milioni di euro, soldi provenienti dal Fondo fiduciario per l’Africa. Dunque le autorità libiche bloccheranno le partenze sia scovando e distruggendo le imbarcazioni, sia attraverso quella che viene chiamata line of protection in mare attraverso la guardia costiera di al Serraj. I migranti, che a quel punto non dovrebbero più partire, andrebbero collocati in dei centri appositi nei quali dovrebbero operare strutture umanitarie internazionali come Unhcr e Iom che, insieme ai libici, si occuperanno anche dei rimpatri. Ed è a cominciare da questo versante che sorgono i primi dubbi. Infatti al Serraj ha detto di non voler trattenere i migranti verso l’Europa ma di poter contribuire nel farli rimpatriare nei paesi di origine. Con quali procedure non è ancora chiaro. Tommaso Fabbri capomissione Italia per il Mediterraneo centrale di Medici senza Frontiere, intervistato sabato scorso dal Manifesto, ha chiaramente fatto intendere che in Libia è difficile per i migranti prendere decisioni autonome senza l’ausilio di commissioni indipendenti, "mediatori culturali, interpreti e informazioni necessarie". Tutto questo mentre, sempre secondo Msf, tre le persone detenute nelle prigioni libiche molto spesso si trovano migranti che vivono in condizioni spaventose. Arjan Hehenkamp, uno dei direttori generali dell’organizzazione umanitaria, ha parlato di un paese dove "la legge e l’ordine sono al collasso, le persone provenienti da paesi dell’Africa subsahariana sono arrestate e tenute in detenzione senza processo legale, senza alcun modo per opporsi o fare ricorso, e senza contatto con il mondo esterno". Eppure a preoccupare i leader europei sembra essere il lavoro di salvataggio di vite umane che numerose organizzazioni compiono nel mediterraneo centrale. Secondo i vertici Ue affinché il piano possa avere completa attuazione si deve verificare, dal punto di vista legale, l’attività delle Ong che si trovano al confine con le acque territoriali libiche. La tesi è che la presenza delle navi umanitarie può rappresentare un vantaggio per i trafficanti che in questo modo possono caricare i migranti su imbarcazioni di fortuna contando sul fatto che saranno raccolti, disinteressandosi di eventuali tragedie. Attualmente operano nel mediterraneo diverse organizzazioni, da Msf a Save the Children (quasi 3.000 naufraghi tratti in salvo nel 2016), Sea Watch o il progetto Moas. Insomma il mediterraneo è solcato anche dalla speranza che però non sembra andare a genio alle burocrazie europee. Lo scorso anno un report dell’agenzia Frontex, accusava senza mezzi termini le Ong di essere colluse direttamente con i trafficanti di esseri umani. Le accuse sono state raccolte dal Financial Times e rese note nel dicembre scorso. Per Frontex i migranti salvati dalle organizzazioni umanitarie "non sono affatto disposti a cooperare", cioè non fornirebbero informazioni sugli scafisti quando sono interrogati perché precedentemente istruiti. Accuse pesanti alle quali naturalmente hanno risposto i diretti interessati, le Ong hanno messo in evidenza come le navi umanitarie operino fin sotto le acque libiche intercettando i barconi prima dell’Sos e dei naufragi che solo nel 2016 hanno visto affogare 5000 persone. Per Enrico Calamai, portavoce del Comitato Nuovi Desaparecidos "l’intervento umanitario delle Ong è l’unico attualmente possibile per tentare di salvare migliaia di vite che le politiche messe in atto da Ue e Nato costringono ad affidarsi alla criminalità organizzata". Il problema per i soccorritori non è la questione di un’ipotetica collusione con i criminali ma l’inesistenza di vie legali per l’immigrazione. Il sospetto che rimane nell’aria è che non si vogliano testimoni su quello che potrebbe succedere in mare o in terra libica. Migranti. Il volontariato contesta l’intesa con la Libia di Umberto De Giovannangeli L’unità, 7 febbraio 2017 "Non prevede specifiche misure di tutela e salvaguardia dei diritti di coloro che fuggono". Sono gli "angeli del Mediterraneo": donne e uomini del volontariato, delle Ong che ogni giorni operano a favore di quanti, centinaia di migliaia, cercano la fuga, sulla rotta del Mediterraneo, dall’inferno di guerre e povertà. Il Governo italiano farebbe bene ad ascoltare queste voci critiche. Perché quelle critiche nascono dall’esperienza quotidiana. "L’accordo raggiunto dall’Italia con la Libia non prevede specifiche misure di tutela e salvaguardia dei diritti umani. In questo modo centinaia di migliaia di uomini donne e bambini, già in fuga da guerra e persecuzioni, correranno il rischio di perdere la vita e subire nuovi abusi e sofferenze", annota il direttore dei programmi in Italia di Oxfam, Alessandro Bechini. "Il fatto che l’Europa abbia accolto con favore questo accordo, senza compiere nessun tentativo di aumentare gli impegni della Libia per la tutela dei migranti dimostra ancora una volta l’ipocrisia del vecchio continente sulla politica migratoria nel Mediterraneo - aggiunge Bechini. Dopo che per una settimana i leader europei si sono dichiarati scandalizzati per le aberranti decisioni prese dall’amministrazione Trump in materia di immigrazione, decidono di fatto di seguire la stessa logica". Moltissimi migranti, anche accolti da Oxfam in Italia, raccontano di aver subito orribili abusi da parte delle autorità libiche durante i drammatici e lunghissimi viaggi dai paesi di origine verso la Sicilia e l’Italia. "Come si fa a non tener conto di una realtà tanto lampante? L’impegno dell’Unione europea a sostenere l’attuazione dell’accordo italiano con la Libia - conclude Bechini - rappresenta un duro colpo" ai suoi valori fondamentali "di democrazia e solidarietà". "Troviamo inaccettabile che dietro la narrazione del salvataggio delle vite umane e della necessità di combattere il traffico di esseri umani, si nascondano politiche attuate con l’interesse prioritario di prevenire in realtà l’arrivo dei migranti e rifugiati nel territorio dell’Unione", rimarca Roberto Zaccaria Presidente del Cir (Centro Italiano Rifugiati). "Il fatto che questi respingimenti, che dovrebbero cominciare già dalla prossima primavera, avverrebbero a opera di autorità libiche in acque libiche non li rende meno gravi o legalmente accettabili". Lo stesso Regolamento dell’Unione relativo alla guardia di frontiera e costiera europea (Frontex) all’Art.34 prevede che "nell’esecuzione dei suoi compiti, la guardia di frontiera e costiera europea provvede affinché nessuno sia sbarcato, obbligato a entrare o condotto in un Paese (...) in violazione del principio di non respingimento, o in un paese nel quale sussista un rischio di espulsione o di rimpatrio verso un altro paese in violazione di detto principio". "La finalità delle attività previste, di formazione, sostegno materiale attraverso mezzi e finanziamenti alle autorità libiche, sarebbe esattamente quella di" sbarcare" i migranti e i rifugiati in Libia dove sarebbero esposti al rischio reale di subire maltrattamenti. La Libia è un Paese in cui diversi analisti e osservatori da anni denunciano l’esistenza di una prassi sistematica di violazione dei diritti umani ai danni dei migranti e rifugiati africani in transito verso l’Europa. Inoltre, la Libia non può ancora offrire ai richiedenti asilo una protezione adeguata contro il rischio di rimpatrio nei Paesi africani di origine dove essi rischierebbero di essere perseguitati o uccisi", continua Roberto Zaccaria. "Si è siglato un accordo con un Paese, la Libia, che e è al di fuori del contesto europeo come in qualche modo poteva essere la Turchia; che non dà garanzie; che potrebbe semplicemente spostare gli sbarchi da Tripoli a Bengasi, territorio che non è sotto il controllo di Al Sarraj", rimarca monsignor Giancarlo Perego, direttore generale di Migrantes. "Questo accordo - prosegue Perego - indebolisce la tutela del diritto d’asilo e scarica ancora una volta la responsabilità nei confronti di persone che sono in fuga da guerre, violenze, fame, povertà e terrorismo". Ma la constatazione più drammatica, sottolinea il direttore di Migrantes, è che "con il nuovo piano legittimato anche dall’accordo Ue, si rischia di contare ancora più morti in mare. Perché con Bengasi, la distanza via mare con l’Italia si allontana. Perego chiede al governo italiano di "ritornare sui suoi passi". "L’intesa - sottolinea - annulla l’accordo sui ricollocamenti per quote nei diversi Paesi Ue, ci fatto già negato o disatteso nel contesto europeo". Anche Caritas italiana punta il cito contro "la politica dello scarica barile". "L’idea di esternalizzare le frontiere europee facendo fare ad alcuni Paesi, prima la Turchia e oggi la Libia, le sentinelle d’Europa è una modalità che non accettiamo perché è la politica dello scarica barile", denuncia Oliviero Forti responsabile immigrazione, in un’intervista al Tg2000. "La Libia si fa fatica a definirlo Paese - spiega Forti -perché attualmente ha un leader che non è riconosciuto internamente dalle varie forze presenti. La Libia ha un riconoscimento internazionale, ma una fragilità e debolezza che rischia di far naufragare il piano ancor prima che venga attuato". La "linea di protezione europea potrebbe trasformarsi in una linea di crudeltà", avverte Human Rights Watch. Quello dell’Europa è un "approccio inumano", incalza Medici Senza Frontiere. L’accordo Italia-Libia è "inefficace e inumano", fanno eco Medici peri Diritti Umani Onlus. "Chiudere la rotta del Mediterraneo centrale vuol dire costringere le persone a rimanere in una Libia non stabile, non sicura e soprattutto non in grado di rispettare i diritti umani e l’incolumità dei migranti", incalza il Centro Astalli, il servizio dei gesuiti per i rifugiati in Italia. "Prima di firmare certi accordi, vorremmo invitare i leader dell’Unione europea a visitare i centri di detenzione dei Paesi che stanno finanziando o a leggere alcune testimonianze di migranti che hanno dovuto subire le cure delle forze di sicurezza locale. Forse ne uscirebbero cambiati", confida Kostas Moschochoritis, segretario generale di Intersos. Ascoltarli farebbe bene. Soprattutto a sinistra. Safer Internet Day, mettiamo in guardia i ragazzi dai pericoli del web di Marcello Gelardini La Repubblica, 7 febbraio 2017 Il 7 febbraio si celebra la giornata della sicurezza in Rete. Un progetto lanciato nel 2004 dall’Unione Europea. In oltre 100 città del mondo - Italia compresa - l’opportunità per accendere i riflettori sulle vecchie e nuove insidie che i più giovani possono incontrare online. Conoscere il nemico è l’unico modo per difendersi. La chiamano "Generazione Z". Sono tutti quei ragazzi nati tra la metà degli anni ‘90 e il primo decennio del nuovo millennio. Alcuni sono maggiorenni, altri poco più che adolescenti. Una cosa li accomuna: sono cresciuti tra smartphone, tablet, Internet e computer e non sanno che prima esisteva un’era in cui questi dispositivi non esistevano o non erano alla portata di tutti. Conoscono alla perfezione come funzionano ma, nonostante questo, non comprendono fino in fondo che insidie si possono nascondere dietro lo schermo. Una generazione sempre connessa. Gli ultimi numeri sul comportamento dei minori italiani sul web invitano alla massima attenzione. Secondo una ricerca commissionata dal Miur (Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca) e realizzata dall’Università di Firenze e Skuola.net, il portale dedicato ai più giovani che da anni ha un focus proprio su queste tematiche, il 19% dei teenager dice di essere connesso tra le 5 e le 10 ore al giorno e quasi 1 su 5 di non poter fare a meno di Internet (neanche a scuola), rimanendo sempre online. In totale, dunque, il 40% passa buona parte della giornata navigando. I social network sono il loro terreno di battaglia preferito: più del 90% del campione analizzato ammette di usare le chat - di cui WhatsApp è la regina incontrastata - ogni giorno; qualcuno lo fa anche di notte (innescando il fenomeno del vamping). "Il fatto che i teenager passino più tempo online che in altri luoghi fisici - commenta il direttore di Skuola.net, Daniele Grassucci - ci dice chiaramente come la virtualità sia per loro più reale di quello che noi siamo abituati a pensare". A mancare è l’educazione online. L’abitudine a dialogare virtualmente però spesso non coincide con la prudenza. Se, infatti, la maggior parte dei nativi digitali pare essere attenta alla privacy, più del 10% ha confessato di condividere online i propri segreti e soprattutto foto intime (il cosiddetto sexting, pericolosa pratica molto in voga soprattutto tra i più piccoli). Circa l’8% degli intervistati, poi, dichiara di aver attuato intenzionalmente comportamenti da bullo online (ma bisogna calcolare che su questo argomento ci potrebbe essere molta reticenza) e un ulteriore 10% banalizza le proprie azioni come semplici scherzi. La conseguenza più evidente è che l’8,5% dei ragazzi tra i 14 e i 19 anni è abitualmente vittima di cyberbullismo. Ancora peggio se ci concentriamo sulla fascia d’età 11-13 anni, dove si stima che due studenti per classe potrebbero essere potenziali vittime. Il Safer Internet Day. Ma questi dati, nonostante risalgano a pochi mesi fa, sono in parte già superati; la presenza online dei minori cresce di giorno in giorno. Per questo è bene intervenire. Così, per sensibilizzare i più giovani ad un uso consapevole del web e per spronare gli adulti ad educare i ragazzi (anche) in questa direzione, è nato il Safer Internet Day (SID), la giornata mondiale per la sicurezza in Rete. Dietro il progetto, coordinato dai Safer Internet Centre (SIC) dei singoli Paesi, ci sono Insafe e Inhope (due network internazionali impegnati proprio nel campo della sicurezza online), supportati dalla Commissione Europea. Uniti per evitare i pericoli della Rete. "Be the change: unite for a better internet", è la frase simbolo pensata per il 2017. Uno slogan finalizzato a far riflettere i ragazzi soprattutto sul ruolo attivo e responsabile che ciascuno può ricoprire nel trasformare Internet in un luogo positivo e sicuro. Per diventare "protagonisti del cambiamento, uniti verso un Internet migliore". Il 7 febbraio, in oltre 100 Paesi del mondo, si svolgeranno eventi di vario genere per richiamare l’attenzione su questi temi, coinvolgendo istituzioni, enti, organizzazioni (pubbliche e private) e società civile. Generazioni Connesse e il SIC italiano. In Italia il coordinamento del SIC è stato affidato a Generazioni Connesse, un consorzio che vede la presenza di partner che da sempre hanno a cuore l’avvenire di bambini, adolescenti e ragazzi: il Ministero dell’Istruzione, quelli dell’Interno e delle Comunicazioni, la Polizia Postale, l’Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza, la stessa Skuola.net, Save the Children Italia, Telefono Azzurro, Università degli Studi di Firenze, Università degli studi di Roma "La Sapienza", la Cooperativa E.D.I., il Movimento Difesa del Cittadino e l’agenzia di stampa Dire. Prima Giornata Nazionale contro bullismo e cyberbullismo. Saranno loro, assieme a circa mille studenti, i protagonisti dell’evento che si terrà presso gli spazi espositivi dell’ex caserma Guido Reni, in Via Guido Reni a Roma. Dibattiti, workshop e laboratori per dire tutti insieme stop a cyberbullismo, pedo-pornografia online, sexting e a tutti quei fenomeni devianti che partono da un computer e una tastiera. Nello stesso giorno, inoltre, il Miur celebrerà la "Prima Giornata Nazionale contro il bullismo e il cyberbullismo a scuola, dal titolo "Un Nodo Blu - le scuole unite contro il bullismo", che invita appunto a indossare un nodo di colore blu in segno di solidarietà alle vittime di questa piaga sociale. Il Vademecum anti-rischi e la centralità delle scuole. Ma l’impegno del Safer Internet Centre italiano non si ferma e prosegue durante tutto l’anno. Tante le iniziative messe a punto dal 2004 (anno in cui L’Unione Europea ha istituito il SID) a oggi, con le scuole al centro del progetto, per trasmettere a più ragazzi possibile l’educazione alla virtualità. E poi c’è il Vademecum, reperibile online: una sorta di guida operativa per conoscere e orientarsi nella gestione di alcune problematiche connesse all’utilizzo delle tecnologie digitali da parte dei più giovani. Un documento strutturato in due parti: da un lato l’approfondimento dei pericoli in agguato quando si naviga in Rete; dall’altro i riferimenti dei servizi a cui è possibile rivolgersi a livello regionale, qualora ci si trovi a dover gestire una situazione problematica. Senza dimenticare le attività rivolte direttamente ai più piccoli, ai bambini, per farli crescere in modo consapevole. Nascono così i 7 ‘super-errori’, personaggi che incarnano le disavventure in cui si può inciampare online. Un modo divertente e moderno per avvicinare all’argomento i principali interessati di domani e metterli in guardia in maniera leggera. I 7 Super-Errori. C’è Chat Woman, colei che chatta dalla mattina alla sera, talmente tanto da non distinguere più tra virtuale, iniziando ad avere difficoltà a socializzare. C’è Silver Selfie, che scatta fotografie a raffica col suo smartphone e le mette sui social network senza neanche stabilire cosa è opportuno pubblicare e cosa no. L’Incredibile Url, invece, apre qualsiasi link gli si presenti davanti e per questo rischia di aprire contenuti non consigliati ai minori o di cadere in qualche trappola informatica. L’Uomo Taggo non è da meno: lui condivide le foto segnalando le altre persone presenti senza neanche chiederglielo, in barba alle più basilari regole sulla privacy. L’errore della Ragazza Visibile è quello di postare su Internet contenuti privati, confidenze, magari foto osé, non calcolando che potrebbero capitare in mani sbagliate e farla pentire amaramente di averli resi pubblici. E allora si potrebbe trasformare in Tempestata, la cyber-bullizzata per definizione, oggetto di commenti offensivi, di attacchi diretti; una vita la sua, che può diventare un inferno. Infine il Postatore Nero, che con i suoi like e le sue condivisioni scriteriate potrebbe essere il complice perfetto dei cyberbulli, una cassa di risonanza involontaria ma pericolosissima. Le "armi segreta" per difendersi al meglio. Per difendersi, però, non basta conoscere la teoria, bisogna sapere cosa fare per reagire. Così il SIC ha anche messo a punto una strategia. Tre "armi segrete" per diventare meno attaccabili: la Super Intelligenza che, prima di aprire un link, di scrivere qualcosa sul web, di giocare online con qualcuno, invita a pensarci bene; Parole a raffica, per non aver paura di condividere con gli altri esperienze spiacevoli vissute in Rete e confidarsi con i genitori o con un adulto di cui ci fidiamo; Schermo Protettivo, il filtro mentale che ci impedisce di comunicare informazioni personali (come le password) o i nostri contatti a chi incontriamo online. "È impensabile - conclude Grassucci - riuscire a garantire ai minori un’esperienza sicura attraverso la repressione (sia legislativa che di policy delle piattaforme). Occorre piuttosto investire sulla formazione, fin dalla scuola". Siria. Amnesty denuncia: "in 5 anni 13mila impiccagioni segrete in prigione" La Repubblica, 7 febbraio 2017 Per la Ong il regime è responsabile di una "politica di sterminio" contro civili percepiti come oppositori del governo del presidente Bashar al Assad. In cinque anni sono state circa 13mila le persone impiccate, in segreto, in un carcere militare siriano. A denunciare la "politica di sterminio" del regime di Assad è Amnesty International, secondo cui tra il 2011 e il 2015, in un istituto del governo vicino Damasco, è stata portata avanti una "campagna mostruosa di atrocità". In un rapporto pubblicato oggi, in cui si riporta l’esito di interviste a 84 testimoni, tra cui guardie, prigionieri e giudici, Amnesty segnala che almeno una volta alla settimana tra il 2011 e il 2015 gruppi fino a 50 persone sono stati presi dalle loro celle per processi arbitrari, picchiati e poi impiccati "nella notte, in totale segretezza." "Durante tutto questo processo, i prigionieri vengono bendati. Non sanno quando e come moriranno fino a quando la corda sarà infilata attorno al loro collo", ha denunciato l’=ng. La maggior parte delle vittime è composta da civili, percepiti come oppositori del governo del presidente Bashar al Assad. "Li lasciano appesi da 10 a 15 minuti", ha testimoniato un ex giudice che ha assistito alle esecuzioni. "Per quanto riguarda i più giovani, quando il loro peso non è sufficiente per farli morire, intervengono gli assistenti del boia che li tirano verso il basso finché non gli si spezza il collo". Per Amnesty si tratta di crimini di guerra e crimini contro l’umanità che, con ogni probabilità, sono ancora attuali. Migliaia di prigionieri sono detenuti nella prigione militare di Saydnaya, una delle prigioni più importanti del Paese, situata a 30 chilometri a nord da Damasco. L’ong accusa il governo siriano di condurre una "politica di sterminio", torturando regolarmente i detenuti e privandoli di acqua, cibo e medicine. I prigionieri, secondo Amnesty, sono stati abusati o costretti a violenze reciproche. Nel carcere, inoltre, sarebbero state applicate delle "regole speciali": ai detenuti non era permesso parlare e dovevano assumere posizioni particolari quando le guardie entravano nella loro cella. Un ex soldato ha raccontato che era possibile sentire il ‘gorgoglio’ dei prigionieri in punto di morte nella camera di esecuzione al piano di sotto. "Se tenevamo le orecchie incollate a terra, sentivamo una specie di gorgoglio", ha confermato Hamid, arrestato nel 2011. "Abbiamo dormito con il rumore delle persone che morivano d’asfissia sullo sfondo. Era normale per me in quel periodo". Iran: appello di "Nessuno tocchi Caino" per la vita del ricercatore Djalali Gentiloni di Sergio D’Elia e Elisabetta Zamparutti* Il Dubbio, 7 febbraio 2017 Caro Presidente del Consiglio Paolo Gentiloni e caro Ministro Angelino Alfano, nel quotidiano impegno di Nessuno tocchi Caino per il superamento della pena di morte ovunque nel mondo vediamo come dall’Iran, pressoché ogni giorno, giungano notizie di violazioni dei diritti umani. Non abbiamo mai mancato, in questi anni di rafforzamento delle relazioni tra il nostro Paese e quel regime, di portare a conoscenza del Governo i dati sul numero delle esecuzioni e le sistematiche violazioni dei diritti umani né di chiedere al nostro Paese, che nel mondo è riconosciuto come il campione della Moratoria universale della pena di morte, di operare affinché sia rafforzata la pressione nei confronti dell’Iran sull’uso della pena di morte al di fuori degli standard minimi di diritto internazionale ed in controtendenza con l’evoluzione verso l’abolizione della pena di morte che si continua a registrare nel mondo. Non ci pare sia stato fatto molto o quantomeno non ci pare di aver sentito parole adeguate alla gravità della situazione che denunciavamo. Oggi c’è un caso preciso su cui chiediamo urgentemente un Vostro intervento, ed è quello di Ahmadreza Djalali, un medico ricercatore 45enne iraniano che è a rischio di imminente esecuzione in Iran, con l’accusa di collaborazione con Paesi nemici. Il ricercatore è legato anche al nostro Paese, essendo stato dal 2012 al 2015, assegnato al "Centro di ricerca interdipartimentale in medicina dei disastri" (Crimedim) dell’Università del Piemonte Orientale. Rientrato in Iran lo scorso 24 aprile, è stato risucchiato nella famigerata prigione di Evin dove pressioni psicologiche, con mesi di isolamento assoluto, non hanno annientato la sua forza di proclamarsi innocente anche attraverso iniziative nonviolente di sciopero della fame. Chi in Italia lo ha conosciuto esclude sia una spia e pensa siano piuttosto le relazioni che ha avuto, nell’ambito del master universitario e del progetto sostenuto dall’Unione europea a cui collaborava per la gestione di emergenze radiologiche, chimiche e nucleari, con altri ricercatori sauditi ed israeliani ad averlo fatto additare dal paranoico regime iraniano come spia. Caro Presidente e caro Ministro, come è possibile che tanto più l’Iran è tenuto in considerazione come autorevole partner politico, oltre che economico e finanziario all’interno della comunità internazionale, tanto più ne disconosce i principi fondanti come sanciti nei trattati internazionali sui diritti umani? È terrificante il ritmo a cui ha ripreso a lavorare, dopo il rallentamento del 2016, il boia in Iran in questo primo mese di gennaio del 2017 con almeno 90 persone giustiziate, minorenni al momento del fatto compresi! Davvero pensiamo di collaborare, a 360° gradi con uno dei regimi più oscurantisti del pianeta su tutto, dal settore economico a quello della giustizia, dall’ambito medico sanitario a quello della difesa militare e addirittura dell’intelligence, restando silenti sulle violazioni dei diritti umani? Davvero pensiamo che il destino che attende Ahmadreza Djalali non ci riguardi? Noi pensiamo, con il Partito Radicale Nonviolento, Transnazionale e Transpartito, impegnato oggi per una comune transizione verso la piena affermazione dello Stato di Diritto, che casi come quello di Ahmadreza Djalali, che non è un caso isolato, sia di grande attualità politica perché riguarda i diritti umani fondamentali, riguarda il diritto alla libertà della e nella cultura, riguarda insomma gli antidoti ai totalitarismi nelle loro forme contemporanee ed i loro continui e sempre più oppressivi tentativi egemonici. *Segretario e Tesoriere di Nessuno tocchi Caino Gran Bretagna. Italiano suicida in carcere, era condannato all’ergastolo Il Fatto Quotidiano, 7 febbraio 2017 Stefano Brizzi, 50enne italiano, si è ucciso domenica mattina nel carcere di Belmarsh, a sud-est di Londra. Lo hanno confermato all’Ansa fonti diplomatiche nella capitale britannica. L’uomo era stato condannato lo scorso dicembre all’ergastolo per aver ucciso il poliziotto Gordon Semple, 59 anni, e averne smembrato il cadavere dopo un incontro gay nella capitale britannica. Le autorità della prigione, che hanno dato la notizia e avviato un’inchiesta interna, non precisano però le cause della morte. Un portavoce della Metropolitan Police ha dichiarato che gli agenti hanno ricevuto una chiamata dal carcere poco prima delle 10.15 di domenica mattina, perché "un prigioniero non rispondeva". Brizzi è stato poi dichiarato morto all’interno del carcere. Brizzi, ex tecnico informatico, viveva a Londra da sei anni. Il poliziotto Semple lo aveva incontrato attraverso l’app per appuntamenti Grindr. Secondo quanto risultato dalle indagini, l’italiano ha attirato l’agente nella sua casa per un incontro a base di sesso e droga, per poi strangolarlo fino a ucciderlo. Quindi ha fatto a pezzi il corpo e ha tentato di scioglierlo nell’acido. Infine ha gettato i resti nel Tamigi. Durante il processo è emerso che il killer ha compiuto anche atti di cannibalismo nei confronti della sua vittima. Non solo, l’italiano ha ammesso di aver cercato di occultare il corpo immergendolo a pezzi nell’acido ispirandosi alla sua serie televisiva preferita: Breaking Bad. Brizzi però allo stesso tempo ha sempre negato d’aver ucciso Semple, sostenendo che questi fosse morto strangolato da un guinzaglio in un gioco erotico finito male. Colf li accusa, coniugi rischiano l’estradizione in Brasile di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 7 febbraio 2017 C’è la semplice denuncia, ma la Cassazione ha dato il via libera per marito e moglie del Veronese. Solo il Guardasigilli può fermare la consegna. Non è solo il protagonista di Kafka ne "La metamorfosi" a svegliarsi scarafaggio: può capitare a tutti - sulla scorta del precedente affermato dalla Corte d’Appello di Venezia e ribadito dalla Cassazione - di alzarsi la mattina e scoprire che si sta per essere estradati dall’Italia in un altro Paese (come il Brasile) non in esecuzione di una sentenza, ma solo perché quel Paese (diverso dall’area del "Mandato d’arresto europeo") ha chiesto all’Italia, sulla base esclusivamente della denuncia di un proprio cittadino, l’arresto del cittadino italiano per fatti in ipotesi commessi anche tutti in Italia. È quello che in provincia di Verona sta succedendo a marito e moglie italiani dei quali il Brasile chiede l’estradizione dopo che una ragazza brasiliana - domestica in casa loro per un paio d’anni, alla quale la coppia aveva rinunciato ritenendo non trattasse bene i loro 4 figli - al rientro in patria li ha denunciati alle autorità brasiliane per aggressioni fisiche anche a scopo sessuale, minacce e violenza psicologica. E mentre il marito affronterà domani a Venezia l’udienza in Corte d’Appello che ha già visto soccombere la moglie, costei (brasiliana di nascita ma italiana con il matrimonio) ha nel frattempo visto autorizzare la propria estradizione anche dalla VI sezione della Cassazione (relatrice Ersilia Calvanese) nonostante il parere contrario del pg di Cassazione, Perla Lori. Il caso Battisti - Sicché adesso a fermare l’estradizione in Brasile (che da anni nega all’Italia la consegna del terrorista Cesare Battisti, condannato all’ergastolo) può in teoria essere solo il ministro della Giustizia Andrea Orlando, esercitando entro 45 giorni (in scadenza per la moglie il 18 febbraio) il discrezionale "rifiuto facoltativo" contemplato come eccezione dall’art.6 del Trattato bilaterale del 1989. Il caso veneto ha quindi un interesse generale perché mostra come chiunque possa rischiare di essere bersaglio di estradizioni richieste esclusivamente sulla base di notizie di reato presentate da stranieri nei loro Paesi di origine per fatti ambientati in Italia. Verifica formale - Infatti, quando i difensori Luana Granozio, Massimo Bertolani e Christian Faccioli hanno eccepito che l’estradizione fosse domandata dal Brasile in forza non di una sentenza, ma solo della patente di veridicità data dal Brasile alle accuse mosse dalla ragazza e dai parenti, la Cassazione ha risposto che il Trattato tra Italia e Brasile non prevede che l’autorità giudiziaria italiana valuti nel merito il concreto valore probatorio degli elementi a sostegno della domanda di estradizione, ma solo che verifichi che il Paese richiedente abbia indicato i motivi e le fonti di prova. Ostativa all’estradizione, però, per i legali è la contemporanea pendenza in Italia di un procedimento penale per gli stessi fatti indagati in Brasile: vero, ma la Cassazione risponde che per procedimento penale vanno intesi l’arresto o la richiesta di processo, e qui invece la coppia di italiani è "solo" indagata dal pm veneziano Fabrizio Celenza, che nel 2016 aprì un fascicolo per i reati ipotizzati dal Brasile e inviò a propria volta in Brasile una rogatoria (persasi qualche mese al ministero) volta ad acquisire gli atti a base dell’estradizione. In effetti nella procedura esistono "punti critici", concede la Suprema Corte, ma su essi è "fatta salva ogni opportuna valutazione politica". Tradotto, vuol dire che, mentre nel mondo delle norme "le doglianze della ricorrente non possono trovare accoglimento stante i circoscritti poteri di controllo affidati all’autorità giudiziaria nella procedura estradizionale", nel mondo della discrezionalità politica "spetterà al ministro della Giustizia stabilire se queste circostanze legittimino il rifiuto facoltativo dell’estradizione da parte del governo italiano". Svizzera. Detenuto in attesa di giudizio si impicca nel carcere di Basilea Corriere del Ticino, 7 febbraio 2017 Un detenuto in attesa di giudizio si è impiccato sabato nel penitenziario di Muttenz (Bl). Il cadavere del rumeno è stato rinvenuto durante un giro d’ispezione, ha reso noto oggi il Dipartimento di sicurezza di Basilea Campagna. Si tratta della secondo decesso di un prigioniero in questo carcere nelle ultime due settimane. Un altro uomo era stato infatti ritrovato senza vita lo scorso 21 gennaio. Le cause della sua morte sono al momento sconosciute, in quanto l’autopsia è ancora in corso. Un portavoce del Dipartimento di sicurezza ha però affermato che non vi sarebbe alcun legame fra i due episodi. I detenuti alloggiavano in ali diverse della prigione.