A Vasto Vendetta e non Giustizia Ristretti Orizzonti, 6 febbraio 2017 Dire che "si è fatto giustizia da sé" riferendosi a Fabio Di Lello, l’uomo che ha ammazzato il ragazzo che aveva travolto e ucciso con la sua auto sua moglie Roberta pochi mesi fa, non ha senso. Non c’è nulla che assomigli alla giustizia nel suo gesto. In carcere ci sono tante persone detenute perché hanno ucciso per vendicarsi di qualcuno che gli aveva a sua volta ucciso il padre, o un fratello, o una persona cara, e la vendetta però non ha NIENTE di giusto, di sano, di coraggioso. Per questo è importante chiamare le cose con il loro nome, e quando si uccide, qualsiasi sia la motivazione, si fa una cosa orrenda che non assomiglia in alcun modo alla Giustizia. Questo lo hanno capito tanti detenuti, che nel confronto con gli studenti delle scuole hanno smesso di giustificarsi e hanno cominciato a parlare della loro responsabilità, ma questo dovrebbero capirlo anche tanti cittadini per bene, che hanno scelto di trasformare in mostro un ragazzo che ha sbagliato, ma era tutt’altro che un mostro. Le carceri sono piene di uomini che hanno vendicato la morte di parenti uccisi Colpisce davvero, come un pugno nello stomaco, la vicenda di due famiglie distrutte in maniera così assurda. Mi riferisco all’ultimo atto di una tragedia che ha sconvolto tutta la comunità di Vasto. Noi detenuti redattori di Ristretti Orizzonti, nelle riunioni quotidiane di redazione e anche durante gli incontri con i giovani studenti delle scuole del Veneto, discutiamo spesso dei reati che riguardano il Codice della strada e raccontiamo le esperienze anche indirette di chi ne è stato coinvolto. Questo lo facciamo per riflettere con i giovani sulle insidie che la vita riserva a coloro che si trovano a sottovalutare i rischi di comportamenti, dai quali ognuno di noi si sente, spesso a torto, lontano. Purtroppo questa è una responsabilità che pesa, oltre che sulle istituzioni, maggiormente sull’informazione. I media, infatti, spesso enfatizzano le tragedie degli incidenti stradali, trasformandoli in argomenti per riempire i contenitori pomeridiani degli studi televisivi, forzando la leva sul dolore che vivono le famiglie colpite da sofferenze incredibili, e per contro non affrontano il tema della prevenzione. L’informazione, in questo modo, si trasforma in spettacolo e business. Il profitto è sempre garantito a spese di chi è travolto da queste tragedie. Credo che sia arrivato il momento di riflettere seriamente sull’opportunità di regolare questi processi televisivi che sembrano una televendita del dolore altrui, che va a stuzzicare la morbosità dello spettatore e garantisce ascolti e profitti eccezionali. D’altro canto le istituzioni sembrano fare ben poco, non so per esempio che fine abbia fatto un progetto per istituire dei centri di ascolto sul territorio, proprio per dare sostegno alle famiglie colpite da queste tragedie e cercare di sensibilizzare gli automobilisti a rispettare le norme di guida, educandoli a non adoperare i cellulari e a non far uso di alcolici o stupefacenti quando si trovano alla guida di auto e scooter. È inutile fare delle leggi che aumentano gli anni di galera per chi viola il Codice della strada. Credo che sia molto più importante pensare a organizzare una seria prevenzione rivolta ai giovani nelle scuole (lo facciamo anche noi detenuti da lungo tempo) e in risposta ai contenitori pomeridiani dei professionisti del dolore, sarebbe opportuno attivare dei programmi formativi per il rispetto delle più elementari norme di civiltà. A Vasto è accaduto quello che spesso si teme, ma di cui si parla con troppa superficialità: la vendetta. Un uomo ha ammazzato l’automobilista che aveva investito la sua giovane moglie, uccidendola. L’investitore non era fuggito, non stava usando il telefonino, non aveva bevuto e neppure fatto uso di stupefacenti, aveva prestato soccorso e affrontato le responsabilità del caso nel rispetto delle norme previste. L’incidente mortale ha distrutto naturalmente la famiglia della giovane donna investita, ma ha distrutto comunque anche la serenità del ragazzo responsabile dell’incidente e della sua famiglia, e di tutti coloro che avevano un legame affettivo con loro, e ha sconcertato una intera cittadina. Lo zampino ce lo ha messo nel rendere la situazione ingestibile l’informazione locale che, invece di cercare in tutti i modi di unire, ha diviso strumentalizzando un dolore grande, tremendo, profondo, e facendolo ingigantire. Ci sono da fare diverse riflessioni su quello che ha causato la reazione di un marito schiacciato da un dolore terribile, e arrivato al punto di uccidere l’assassino della moglie e subito dopo andare al cimitero a posare l’arma della vendetta sulla sua tomba. Io sono convintissimo che questa persona abbia già capito l’enormità dell’errore che ha commesso, il suo gesto non gli restituirà la sua compagna e certamente non farà star meglio nessuno. Io ho girato tante galere e posso garantire che le carceri sono piene di ergastolani che hanno vendicato la morte di parenti o amici uccisi. Qualcuno che si occupa di informazione e parla di queste questioni con superficialità e approssimazione, vada a chiedere a queste persone cosa pensano oggi della loro vendetta. Pubblicate qualche intervista per dare voce ai protagonisti di queste tragedie, sarà un’opera di sana prevenzione. Noi lo facciamo già da tempo, ma abbiamo poca voce, proprio perché l’opinione pubblica è stata educata a un’informazione che non vuole affrontare i problemi che la riguardano davvero, e spesso fa illudere che certi reati siano lontani dalle vite dei cittadini "perbene". C’è da sperare che le due famiglie si incontrino e si uniscano nel dolore per rielaborare i fatti accaduti e riemergere da questo disastro. Per evitare che ci siano altri episodi di vendetta. Per imparare che la vendetta non serve ad altro che ad alimentare il veleno dell’odio, che alla fine annienta unicamente chi lo coltiva. Bruno Turci Come, non volendo, si finisce per istigare al delitto Nella vicenda dell’omicidio del ragazzo di Vasto, molte colpe, secondo me, di ciò che è successo si possono addebitare ai media televisivi e a tanta informazione propagandistica che mandano in onda tutti i giorni, e così facendo contribuiscono a dare spazio a un’Italia giustizialista e incattivita. Si vorrebbe che anche chi compie un atto grave, ma in qualche modo casuale e non voluto, come è successo a questo ragazzo di 22 anni che, passando con il semaforo rosso, ha travolto e ucciso una giovane donna in scooter, sia sbattuto in carcere e vengano buttate le chiavi. Questo fa capire che i processi prima di essere fatti in tribunale si fanno in televisione, e ciò rischia di portare le persone a commettere atti gravi dettati dalla rabbia. Adesso c’è stato il ragazzo morto che è diventato la vittima della vittima, che ora a sua volta è divenuto carnefice perché si è fatto giustizia da solo. Ma questa, sia chiaro, non è giustizia, è solo vendetta e tutto ciò è avvenuto anche grazie a tutte le fiaccolate, i processi mediatici, le interviste spesso incaute di certi avvocati difensori: è come se tante persone avessero dato, con il loro comportamento, il loro consenso perché questa cosa orribile e crudele, l’uccisione di un ragazzo giovanissimo, non di un mostro, avvenisse. È ora che chi si occupa di informazione si assuma le proprie responsabilità e la smetta con le propagande televisive giustizialiste che tutti i giorni siamo quasi obbligati a vedere in TV, è ora di dire basta a queste trasmissioni che trasformano le persone in mostri. Non c’è un mostro dietro a fatti anche orribili, tante volte ci sono ragazzi come quello ucciso a Vasto, il cui unico errore probabilmente è stato quello di essere passato con il rosso per una disattenzione, questa era la sua colpa. Le fiaccolate e le trasmissioni che gridano allo scandalo rischiano di indurre le persone per bene a compiere atti più orribili dei reati che hanno subito. Santo Napoli Con pene più severe gli omicidi non diminuiscono di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 6 febbraio 2017 Gli alti tassi di incarcerazione e il livello di severità delle punizioni sono quasi irrilevanti o addirittura associati a tassi di violenza letale alti e per giunta in aumento. A cosa in concreto servano dosi massicce di carcere, d’ergastoli e pene di morte non é ben chiaro, ma a cosa non servano é statisticamente chiarissimo: non servono a far diminuire gli omicidi, anzi vanno di pari passo con il loro aumento. Adolfo Ceretti e Roberto Cornelli, professori di criminologia all’Università Bicocca di Milano, incrociando per la Rivista italiana di diritto penale uno studio sugli omicidi nel mondo con le ricerche ad esempio di Tapio Lappi-Seppala e Martii Lehti in 235 Paesi tra il 1950 e il 2010, mostrano come gli alti tassi di incarcerazione e il livello di severità delle punizioni siano o quasi irrilevanti o addirittura associati a tassi di violenza letale alti e per giunta in aumento. Stati Uniti e Canada hanno tassi di omicidi molto diversi, ma aumentano o diminuiscono con andamenti analoghi nei medesimi periodi a riprova dell’inesistente effetto della "tolleranza zero" produttrice negli Usa di tassi di incarcerazione enormemente più alti di quelli canadesi. E il Brasile, con 26,3 delitti per 100.000 abitanti (tasso superato da alcuni Paesi dell’America Centrale), ha il primato mondiale di omicidi in numero assoluto (53.240 nel 2014) pur se negli ultimi 25 anni é passato da 90mila a 607mila detenuti. Maggiore "capitale sociale" di relazioni di mutua conoscenza, minori diseguaglianze, l’enfasi sul controllo di sé in quello che Norbert Elias nel 1983 definii "il processo psichico di civilizzazione", più alti livelli di fiducia e solidità nei sistemi politici (democrazie ma anche autocrazie) sembrano, ai vari studi, incidere maggiormente. E spingere la costante convergenza mondiale (dal 1850 e con una sola parentesi tra il 1960 e il 1990) verso quel "declino della violenza" letale intuito nel 2011 dal libro di Steven Pinker. Decrescita però a due velocità: i 437.000 omicidi intenzionali nel mondo nel 2012 (maschi autori al 95% e vittime al 79%) fanno 6,2 delitti per 100.000 abitanti, ma Sudafrica e America Centrale stanno 4 volte sopra la media, Asia orientale e Europa occidentale 5 volte sotto. Beni sequestrati alle mafie, storia di un tesoro abbandonato di Enzo Ciconte (Storico) La Repubblica, 6 febbraio 2017 Con le uccisioni di Pio La Torre e di Carlo Alberto dalla Chiesa Cosa nostra ha commesso un tragico errore. Infatti, all’indomani di quelle morti che scossero l’Italia il Parlamento ha approvato la legge Rognoni-La Torre che ha introdotto nel codice penale l’art. 416 bis: una decisione storica che rivoluzionò la lotta alla mafia. La legge fornì ai magistrati e alle forze dell’ordine un formidabile strumento per scardinare le strutture organizzate delle mafie e introdusse lo strumento per aggredire i loro patrimoni mafiosi. Un tempo non era così. Per comprendere la nuova realtà, basti solo pensare al fatto che i primi sequestri riguardarono immobili intestati ai mafiosi perché nessuno aveva immaginato che lo Stato potesse arrivare un giorno a mettere le mani sui beni accumulati in modo criminale. L’acquisizione dei beni non fu un processo rapido o lineare perché c’erano ritardi, impacci burocratici e incapacità. Mancava persino la cultura necessaria a muoversi diversamente rispetto al passato quando era opinione diffusa che la mafia neanche esistesse in forma organizzata, come assicuravano funzionari dello Stato, cardinali, intellettuali, giornalisti. Fu necessario mobilitare la società civile - e questo è certo un merito di Libera - ed arrivare all’approvazione delle legge 109/96 per far in modo che i beni, una volta che erano stati sottratti ai mafiosi, fossero destinati ad un uso sociale: fu un’altra svolta, concreta e culturale. Destinare i beni a fini sociali indeboliva i mafiosi sottraendo loro capitali, aziende e proprietà immobiliari; apriva spazi e opportunità di lavoro per i giovani del luogo; consentiva di utilizzare gli immobili per la costruzione di sedi delle forze dell’ordine, o culturali come scuole, biblioteche, centri culturali. Da allora ad oggi le cose sono notevolmente cambiate, e guardando a questi anni è possibile cogliere l’evoluzione del contrasto ai beni e quanto questa misura abbia inciso sulla riduzione della potenza delle mafie. Se le prime misure riguardavano immobili di poco valore, oggi i dati ci dicono come e quanto sia stato accumulato, e quanto lo Stato sia riuscito ad incamerare dei beni appartenuti ai mafiosi. Nelle cifre di ieri e di oggi ci sono gli enormi passi avanti compiuti. Da allora ad oggi sono cambiati anche i luoghi. Se le confische una volta erano concentrate nel Mezzogiorno, ora sono diffuse dappertutto, al Centro e al Nord perché i mafiosi non sono rimasti confinati nei luoghi d’origine. I beni sottratti ai mafiosi - immobili ed imprese - sono davvero tanti: cifre inimmaginabili fino a pochi anni fa. Tutto ciò, però, è in profonda contraddizione con la gestione concreta a livello nazionale da parte dell’Agenzia nazionale che non risponde con attenzione, sensibilità e rapidità ai problemi che sorgono quotidianamente nella concreta vicenda dei beni. Se non si interviene in termini rapidi e con proposte innovative il rischio è che tutto il lavoro vada in gran parte perduto e non produca tutti i risultati sperati. Emergenza profughi in tribunale di Marino Longoni Italia Oggi, 6 febbraio 2017 In tre anni i ricorsi sullo status di rifugiato sono aumentati del 600%. L’ondata di arrivi incontrollati che ha messo a dura prova le strutture di accoglienza italiane negli ultimi anni si sta ora abbattendo come uno tsunami anche sulle strutture giudiziarie. I numeri sono impressionanti: in quasi tutti i tribunali italiani l’aumento dei ricorsi in materia di protezione internazionale è stato nel 2016 superiore al 100% rispetto al 2015, in alcuni casi è arrivato al 400%. E la crescita nel 2017 si annuncia ancora più impetuosa. Un solo caso, emblematico: a Milano, due domande su tre di ammissione al gratuito patrocinio riguardano la protezione internazionale. E solo nel 2016 in tribunale sono stati aperti oltre 4 mila fascicoli con una progressione che ha dell’incredibile in Corte d’appello dove stati iscritti, nel primo trimestre 136 fascicoli, 323 nel secondo trimestre, 420 nel terzo e 559 nel quarto. È il sistema stesso della giustizia italiana che, nonostante tutti gli sforzi che si stanno facendo, sembra congegnato in modo tale da garantire che il meccanismo non possa funzionare. Ma partiamo dall’inizio. Il cittadino extracomunitario che arriva in Italia in modo irregolare, una volta identificato, farà domanda per ottenere lo status di rifugiato, l’istanza viene esaminata dalle commissioni territoriali le quali lo concedono in meno del 40% dei casi. Negli ultimi due anni è stato compiuto uno sforzo notevole per efficientare l’azione di queste commissioni. E questo ha ridotto notevolmente i tempi necessari per avere una pronuncia di accoglimento o di rigetto. Ma ha anche prodotto un incremento esponenziale del numero di domande presentate, che sono passate da poco più di 26 mila nel 2013 a 123 mila nel 2016. La maggior parte delle domande viene respinta, quindi lo straniero dovrebbe essere espulso. Ma il ricorso contro questa decisione sospende l’efficacia del provvedimento di diniego e gli consente di restare in Italia fi no alla sentenza definitiva (cioè, fi no al terzo grado di giudizio). Quindi conviene fare ricorso. Anche perché il ricorso, sfruttando il meccanismo del gratuito patrocinio, non costa nulla all’immigrato. Non solo, gli consente di ottenere il permesso di soggiorno, di lavorare, di iscriversi a corsi di formazione e di beneficiare del Servizio sanitario nazionale. Per darsi alla clandestinità c’è sempre tempo. Il migrante, sfruttando il garantismo del sistema giudiziario, può restare in Italia per anni in modo del tutto legale, pur non avendo i requisiti previsti dalle regole internazionali sull’accoglienza, perché nella maggior parte dei casi le motivazioni che l’anno spinto in Itali a sono di ordine economico e non si tratta di perseguitati politici o di altro genere. Ora però questo meccanismo rischia di scardinare il già precario equilibrio dei tribunali italiani. Il crescente numero dei migranti che chiedono ospitalità e, paradossalmente, gli sforzi fatti dalle commissioni territoriali che ricevono per prime le domande per ottenere lo status di rifugiato (prima i tempi erano così lunghi che le decisioni arrivavano quando, nella maggior parte dei casi, il migrante si era già trasformato in clandestino) sta facendo esplodere il numero dei ricorsi con le inevitabili conseguenze anche sull’aumento dei rischi per l’ordine pubblico. Non è un caso se molti operatori del settore chiedono, per questi giudizi, la riduzione da tre a un solo grado di giudizio, con magari l’attribuzione della competenza a un tribunale unico a livello nazionale. Ma non sarà facile cambiare lo stato di cose che, per quanto paradossale, ha aspetti di convenienza o di comodità per molte delle categorie coinvolte; i migranti perché a loro la giustizia non costa nulla e fino a quando non fa il suo corso nessuno può rifiutargli l’ospitalità: i giovani avvocati, che guadagnano 900 euro per ciascun grado di giudizio; infine per alcuni dei soggetti coinvolti nella gestione dell’assistenza ai migranti, un settore che ha dimostrato di non essere estraneo a malversazione, corruzione, perfino criminalità. Giustizia, è allarme organici di Maria Chiara Furlò Italia Oggi, 6 febbraio 2017 Avvocati solo in parte soddisfatti dello stato della giustizia. Come spesso accade, anche quest’anno, l’inaugurazione dell’anno giudiziario è stata occasione sia di riflessione che di polemiche sui temi relativi alla giustizia. Un rituale che si ripete costante e che soprattutto al Sud si caratterizza per svariate e spesso anche "colorite" manifestazioni di protesta da parte degli operatori della giustizia, specialmente avvocati e magistrati. È il caso questa volta dell’Ordine degli avvocati di Messina e della Giunta distrettuale dell’Associazione nazionale magistrati che hanno deciso di abbandonare l’aula per tutta la durata dell’intervento del delegato del ministero della Giustizia per protestare contro il taglio all’organico del tribunale. Anche a Napoli, il funzionamento degli uffici giudiziari "è difficile e non possiamo non prenderne atto. Molti uffici, come il Tiap, non riescono a far fronte alle richieste e c’è il rischio di paralisi del sistema". Ha commentato il presidente dell’Ordine degli avvocati di Napoli, Armando Rossi, intervenendo all’inaugurazione dell’anno giudiziario del distretto e sottolineando che il servizio di liquidazione del Tribunale "continua ad essere una spina nel fi anco". Ma nella città partenopea c’è anche chi porta avanti un presidio permanente con tanto di sciopero della fame. Si tratta dei rappresentanti di Nuova Avvocatura Democratica, associazione forense nata a ottobre 2016 e presieduta dal segretario nazionale, Salvatore Lucignano. "Digiuniamo perché vogliamo giustizia, dignità, ragionevolezza ed onore" si legge nel documento elaborato dagli avvocati che protestano contro quelli che definiscono i privilegi della "casta forense", contro i vertici delle istituzioni nazionali di categoria e l’aumento dei costi della cassa previdenziale in un periodo in cui molti professionisti stentano ad arrivare a fine mese. Proprio all’Avvocatura e al momento di crisi che ormai vive da troppo tempo, il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, ha dedicato un passaggio importante del suo intervento d’inaugurazione dell’anno giudiziario. "La crisi dell’avvocatura, l’ho detto più volte, è inevitabilmente crisi della giurisdizione e quindi crisi della democrazia. Ho più volte richiamato l’attenzione, su alcuni aspetti del dibattito pubblico che dobbiamo provare a superare. Mi riferisco non agli scambi di vedute tra forze politiche - che considero anzi essenziali alla vita democratica, e spesso fruttuosi - ma ad accenti populistici e demagogici che attraversano un’opinione pubblica spesso disorientata e impaurita", ha dichiarato Orlando, sottolineando in particolare di voler onorare l’impegno a presentare un disegno di legge sull’equo compenso. Ed è anche su quest’ultimo aspetto che secondo il Consiglio Nazionale Forense, "le cose stanno cambiando, l’avvocatura istituzionale in questi ultimi periodi ha trovato un ascolto sereno da parte della politica". Ne è convinto il presidente del Cnf, Andrea Mascherin, secondo il quale in tale direzione "dobbiamo rimarcare l’impegno del ministro della Giustizia per l’attuazione definitiva della legge professionale, per la centralità data al tema del carcere e per il disegno di legge sull’equo compenso che ridà dignità anche economica alla alta funzione del difensore", ha detto nel suo discorso citando anche il tavolo costituito sul tema del sostegno alle donne avvocato e alle altre operatrici del diritto in maternità, e ancora, "il dovuto riconoscimento del ruolo degli avvocati nei consigli giudiziari, la centralità data alla giurisdizione forense con la negoziazione assistita, strumento deflattivo che pone al centro la professionalità e l’affidabilità dell’avvocato, ovvero l’avvocatura come risorsa su cui investire, piuttosto che come problema da eliminare con forme di decimazione economica". Seguendo la parte centrale del discorso di Mascherin, si ha la netta percezione che per il Consiglio Nazionale le cose stiano cambiando davvero, "che i protagonisti necessari alla tutela dei diritti si siano resi conto di dover procedere assieme per un unico sentiero, un sentiero faticoso, un cammino in salita, stretto tra gli interessi di una finanza creativa globale, di un mercato senza regole, di un efficientismo economico spietato, di un linguaggio populista, di una ricerca del consenso che si nutre di paure, di rifiuto delle diversità, di delegittimazione". Ha continuato infatti il presidente del Cnf, che nel suo discorso non ha sviluppato osservazioni di natura tecnica ad altri provvedimenti normativi in itinere, ma ha solo richiamato l’attenzione sulla necessità che il processo civile rimanga "un processo di parte, senza essere sacrificato a percorsi eccessivamente sommari" e che quello penale, "nella necessaria sintesi tra le diverse istanze, resti luogo di accertamento della responsabilità dell’imputato, nel rispetto dei gradi di giudizio e della necessaria dialettica, a garanzia di un procedimento che deve essere prima di tutto giusto". Riguardo al futuro del processo civile, "sicuramente, come ho più volte sottolineato, dobbiamo insistere perché non sia ridotto, come ora, a un lusso per pochi, perché il costo per accedere alla giustizia fa sì che ormai si tratti di una giustizia per ricchi". Lo ha detto ad Affari Legali la presidente dell’Unione Nazionale Camere Civili, Laura Jannotta, sottolineando che le garanzie del processo "devono sempre essere garantite, non possono essere considerate ostacoli per arrivare a una giustizia celere a tutti i costi. Dobbiamo tutti impegnarci per un recupero dei valori fondamentali che sono alla base della nostra professione attraverso una formazione di qualità dell’avvocatura". Inoltre, ha aggiunto Jannotta, bisogna insistere "per essere ascoltati prima che vengano emanati decreti legge di riforma su cui poi occorre rincorrere nella presentazione di emendamenti. Infine, credo che se esistesse più condivisione ed unitarietà nelle voci dell’avvocatura, sicuramente si riuscirebbe a portare avanti obiettivi comuni con maggiore incisività ed efficacia". Mentre rispetto al processo penale, il presidente dell’Unione Camere Penali, Beniamino Migliucci ha condiviso le critiche al giustizialismo mediatico - presenti anche nel discorso di Mascherin - e il richiamo a rafforzare il giusto processo "come luogo dove accertare le responsabilità", così come ha ritenuto pure condivisibile "che venga posto un freno al populismo" come riportato dal ministro Orlando. In questo senso, quello che ha evidenziato Migliucci è anche "l’insofferenza per le sentenze di assoluzione o le condanne troppo miti, un malcostume aumentato negli ultimi anni". Mentre per quanto riguarda il controllo giurisdizionale sulle indagini, proposto dal primo presidente della Corte di cassazione Giovanni Canzio, sarebbe opportuno - secondo il presidente dell’Unione Camere Penale - fare un passo in più, ossia quello della separazione delle carriere per terzietà del giudice. Sinistri stradali, pedone corresponsabile se camminava sul ciglio della provinciale di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 6 febbraio 2017 Tribunale di Torino - Sezione 4 - Sentenza 24 novembre 2016 n. 5667. Il pedone deceduto a seguito di un investimento stradale è considerato corresponsabile se il sinistro è avvenuto mentre camminava sul ciglio di una strada provinciale, sprovvista di spazi destinati al transito a piedi, nello stesso senso di marcia dei veicoli e senza indossare indumenti riflettenti. Lo ha stabilito il Tribunale di Torino, con la sentenza 24 novembre 2016 n. 5667, accogliendo (solo) in parte la domanda di risarcimento del danno per perdita parentale presentato dal fratello della vittima. La norma generale, ricorda il giudice, è dettata dall'articolo 2054, 1 comma, del c.c. secondo cui: "Il conducente di un veicolo senza guida di rotaie è obbligato a risarcire il danno prodotto a persone o a cose dalla circolazione del veicolo, se non prova di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno", indicando dunque una presunzione juris tantum di responsabilità. In particolare, prosegue la sentenza, essa è stata ritenuta superata (in tutto o in parte) nel caso di "comportamenti assolutamente improvvisi ed imprevedibili del pedone". La Cassazione ha infatti affermato che: "(a) il pedone può essere ritenuto responsabile esclusivo del sinistro soltanto quando si pari improvvisamente ed imprevedibilmente dinanzi a traiettoria del veicolo; (b) la violazione di una regola di condotta da parte del pedone non è di per sé sufficiente a ritenere la colpa esclusiva di quest'ultimo; (c) la violazione di una regola di condotta da parte del pedone è però sufficiente a ritenere un concorso di colpa del pedone stesso nella causazione del sinistro (n. 24472/14)". In particolare, la responsabilità del conducente è esclusa "quando risulti provato che non vi era, da parte di quest'ultimo, alcuna possibilità di prevenire l'evento". Tanto si verifica quando il pedone "appare all'improvviso sulla traiettoria del veicolo che procede regolarmente sulla strada, rispettando tutte le norme della circolazione stradale (Cass. n. 3964/14)". Tuttavia, prosegue la sentenza, la circostanza che il conducente non abbia fornito la prova idonea a vincere la presunzione a suo carico "non preclude l'indagine in ordine all'eventuale concorso di colpa del pedone investito (Cass. n. 24204/14). Ora, nel caso affrontato, è accertato che la vittima percorresse il lato destro della carreggiata mentre il codice della strada prescrive che: "Fuori dei centri abitati i pedoni hanno l'obbligo di circolare in senso opposto a quello di marcia dei veicoli sulle carreggiate a due sensi di marcia". Tuttavia, considerate "le caratteristiche della strada, l'ora serale, l'assenza di illuminazione eccezion fatta per i fari anabbaglianti", è anche vero che il conducente "avrebbe dovuto tenere una condotta idonea ad evitare ogni pericolo per la sicurezza delle persone" e soprattutto tale da consentirgli "tutte le manovre necessarie in condizione di sicurezza, specialmente l'arresto tempestivo del veicolo". Tali elementi, conclude sul punto il giudice, "conducono a ritenere una concorrente responsabilità del pedone, da quantificarsi nella misura del 25%". Riguardo al quantum del risarcimento, poi, il Tribunale afferma che la giurisprudenza di legittimità e di merito "è costante nel ricomprendere il fratello nella categoria dei parenti stretti e quindi nel nucleo familiare sconvolto dalla perdita del congiunto". Nel corso procedimento però non è stata allegata alcuna prova per dimostrare "una particolare intensità del rapporto", per cui "tenuto conto della non convivenza dei fratelli, dell'esistenza di autonomi nuclei familiari (quello dell'attore in Piemonte, quello della vittima in Sardegna), dell'età della vittima e del fratello superstite", il Tribunale ha fissato come congrua la liquidazione minima prevista dalle tabelle milanesi, e cioè 25.000 euro, da ridurre a 18.750 alla luce del concorso di colpa. Sequestro penale: legittima la vendita dell’automobile per evitarne il deprezzamento di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 6 febbraio 2017 Corte di cassazione - Sezione II penale - Sentenza 16 gennaio 2017 n. 1916. Ai fini della alienazione di cose in sequestro che possono alterarsi assume rilievo la loro "deperibilità", rientrando in tale nozione tutte le cose che sono suscettibili di modificazione sostanziale e/o strutturale, nonché quelle che per la loro natura possono risultare dannose, o anche solo fastidiose per la salute pubblica (ad esempio, le merci che possono "andare a male", quindi alterarsi o che possono determinare l'emissione di esalazioni nauseabonde). Lo ha stabilito la Cassazione con la sentenza n. 1916 del 2017. Il concetto di deperibilità o di deterioramento, per i giudici della sezione seconda penale, non deve essere inteso solo in un'accezione prettamente fisica, ben potendo in tale nozione essere compreso anche il "deprezzamento", cioè la perdita del valore intrinseco della cosa sequestrata. Ne consegue che è legittima la vendita di una autovettura, oggetto di sequestro (nella specie per equivalente ex articolo 12-sexies della legge n. 356 del 1992), per evitarne il deprezzamento, in quanto la vendita immediata, con la conseguente acquisizione del prezzo, risulta funzionale alla ottimizzazione della fruttuosità della misura ablatoria. La nozione di deterioramento - La Corte, nell'adottare una convincente lettura estensiva della nozione di "deterioramento" (o di "deperibilità", secondo la dizione utilizzata dall'articolo 260 del Cpp), ritiene utilmente argomentabile, a supporto, la giurisprudenza in tema di danneggiamento, ove si è evidenziato che nel concetto di deterioramento rientra anche la modificazione della cosa che ne diminuisce in modo apprezzabile il valore o ne impedisce anche parzialmente l'uso, così dando luogo alla necessità di un intervento ripristinatorio dell'essenza e della funzionalità della cosa stessa (sezione II, 16 giugno 2005, Cazzulo). Mentre, a supporto del potere anche di vendita, si evidenzia che il sequestro attribuisce all'autorità giudiziaria (a seconda dei casi, pubblico ministero o giudice) il potere di determinare una conseguenza che va oltre a quella connessa naturalmente all'imposizione del vincolo coercitivo, perché si trasferisce, in capo al pubblico ministero o al giudice, uno dei contenuti tipici del diritto di proprietà: la facoltà di disporre definitivamente di un bene, da esercitare, evidentemente, in presenza di cose deperibili, apprezzandone l'alienabilità o la distruzione a seconda che la cosa possa avere o no un valore economico (salvo poi verificare se, pur avendolo, abbia natura intrinsecamente criminosa o pericolosa che preclude all'autorità giudiziaria la possibilità di rimetterla in circolazione). Danno patrimoniale: sull’aggravante decisiva è l’entità oggettiva di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 6 febbraio 2017 Corte di cassazione - Sezione II penale - Sentenza 21 dicembre 2016 n. 54281. Ai fini della configurabilità della circostanza aggravante del danno patrimoniale di rilevante gravità, l'entità oggettiva assume valore preminente, mentre la capacità economica del danneggiato costituisce parametro sussidiario di valutazione cui è possibile ricorrere soltanto nei casi in cui il danno sia di entità tale da rendere dubbia la sua oggettiva rilevanza. Si sono espressi così i giudici penali della Suprema corte con la sentenza n. 54281 del 21 dicembre 2016. L’aggravante del danno patrimoniale di rilevante gravità - La giurisprudenza è costante nel ritenere che, ai fini della sussistenza della circostanza aggravante del danno patrimoniale di rilevante gravità (articolo 61, numero 7, del Cp), preliminare e decisivo è l'esame dell'oggettiva rilevanza economica del danno, desunta essenzialmente dal livello economico medio della comunità sociale nel momento storico, in cui il reato viene commesso, indipendentemente dalla consistenza patrimoniale del danneggiato: principio che vale a fortiori in presenza di un valore economico di auto evidente oggettiva rilevanza (tra le tante, sezione IV, 23 giugno 2011, Delfino e altro). Due importanti principi - Sempre relativamente alla medesima aggravante, la Corte ha qui colto anche l'occasione per ribadire due importanti principi. Il primo, in forza del quale, in caso di reato continuato, valendo, in mancanza di tassative esclusioni, il principio della unitarietà, la valutazione in ordine alla sussistenza o meno dell'aggravante del danno di rilevante gravità deve essere operata con riferimento non al danno cagionato da ogni singola violazione, ma a quello complessivo causato dalla somma delle violazioni (cfr. in termini Sezione III, 27 ottobre 2015, Dessì). L'altro, secondo cui agli effetti della circostanza aggravante de qua, l'entità del danno patrimoniale deve essere valutata con riferimento al momento in cui il reato è stato commesso, e, pertanto, la sua diminuzione conseguente a fatti successivi (in ipotesi, il risarcimento parziale o totale successivo) risulta irrilevante (cfr. Sezione II, 18 dicembre 2012, Carfagna). Cassino (Fr): detenuto si sente male in carcere, muore poco dopo in ospedale fanpage.it, 6 febbraio 2017 Un uomo di 47 anni, detenuto nel carcere di Cassino, è morto ieri dopo essere stato trasportato in ospedale. Il 47enne, di nazionalità polacca, ha accusato un malore mentre era all'interno della sua cella. Portato in ospedale in ambulanza, è deceduto poco dopo. Ancora ignote le cause della morte. Il sindacato Fns Cisl denuncia: "Carceri sovraffollate nel Lazio". Un uomo di 47 anni, detenuto nel carcere di Cassino (Frosinone) è morto ieri dopo essere stato trasportato in ospedale. Il 47enne, di nazionalità polacca, ha accusato un malore mentre era all'interno della sua cella. Il personale di polizia penitenziaria e quello medico del carcere sono intervenuti prontamente, ma le condizioni del 47enne hanno richiesto l'intervento di un ambulanza. Il mezzo di soccorso ha trasportato l'uomo in ospedale, dove poco dopo il suo arrivo il 47enne è purtroppo deceduto. Il caso è stato segnalato dal sindacato Fns Cisl, che ha sottolineato il problema del sovraffollamento carcerario nei 14 istituti del Lazio, dove sono 976 i detenuti in più rispetto ai posti regolamentari: 6.211 contro 5.235 persone. A Cassino, come riferisce il sindacato penitenziario, attualmente vi sono 90 detenuti in più rispetto al previsto. Non sarebbe emerso però alcun collegamento diretto tra il malore accusato dal detenuto e il sovraffollamento: le cause della morte non sono state rese note. Nuoro: il carcere di Badu e Carros promosso "non è una cayenna" La Nuova Sardegna, 6 febbraio 2017 Tappa nel penitenziario del sottosegretario alla Giustizia Gennaro Migliore: "Questa è un’eccellenza anche se restano i problemi legati alle strutture". "Qui la situazione generale è a livelli di eccellenza. Restano i problemi di carattere strutturale". È l’opinione a caldo che si è fatto il sottosegretario di Stato per la Giustizia Gennaro Migliore alla chiusura della sua visita lampo al carcere di Badu ’e Carros, ieri mattina. Accompagnato dal senatore nuorese Giuseppe Luigi Cucca, membro della 2ª Commissione parlamentare permanente (Giustizia), Migliore ha incontrato la direttrice del penitenziario Silvia Pesante, il personale in servizio e diversi detenuti delle varie sezioni. "Qui è necessaria una maggiore attenzione sulle strutture - spiega il sottosegretario -. È urgente l’apertura del nuovo padiglione e la riapertura della vecchia prima sezione, chiusa del 2012" ricorda, pronto a portare le istanze barbaricine sul tavolo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. "Tutto sommato il carcere di Nuoro è un’oasi felice" aggiunge Cucca, a conferma della panoramica che fa Gennaro Migliore. La capienza è regolamentare, l’organigramma soffre ("è carente" dicono sia l’uno, sia l’altro) come nel resto d’Italia, "ma qui c’è una grandissima professionalità, c’è una grande capacità di collaborazione, qui lavorano benissimo, il personale tutto lavora con dedizione e abnegazione". Il clima a Badu e Carros, insomma, è sereno e tutto è sotto controllo. Tant’è vero che non esiste alcun allarme per la presenza di otto detenuti presunti estremisti islamici. "Nuoro la Cayenna d’Italia? Ma no!" chiude corto il sottosegretario di Stato per la Giustizia. "La sicurezza nazionale è una cosa seria" aggiunge liquidando le uscite "infondate di qualche collega parlamentare". "C’è un’attenzione particolare per tutti i regimi" sottolinea ancora. "Qui in carcere non c’è alcun rischio di radicalizzazione. Piuttosto dobbiamo pensare alla qualificazione professionale, ai tipi di attività da mettere in atto". In Sardegna per l’inaugurazione di un Centro di ascolto per minori a Tempio Pausania (ieri pomeriggio), Gennaro Migliore ha voluto fare tappa a Nuoro per continuare il suo tour nelle carceri dell’isola, dove è già stato diverse volte, e che segue anche a distanza, passo passo. Il ciclo delle sue visite nei penitenziari riguarda ovviamente tutta l’Italia, ma un’attenzione particolare la riserva all’evoluzione del sistema carcerario sardo. "L’area trattamentale qui a Nuoro è molto avanti, le iniziative sono innumerevoli, davvero tanti gli eventi che vengono organizzati" ribadisce davanti al senatore Giuseppe Luigi Cucca. E non è certo un caso se a Badu e Carros "gli eventi critici e di autolesionismo sono praticamente pari a zero", chiude il sottosegretario di Stato per la Giustizia Migliore. Napoli: i Radicali "il carcere di Poggioreale è sovraffollato, ma non è più un lager" internapoli.it, 6 febbraio 2017 Non ha dubbi Luigi Mazzetta, il presidente dell'associazione Radicali per la Grande Napoli. Numeri alla mano ci sono circa 400 unità di troppo, ma il metodo adottato dal direttore della casa circondariale, Antonio Fullone, sta funzionando. Si vive meglio e in condizioni di umanità che, in passato, apparivano come una chimera. D'altronde si tratta di una struttura antica e, per sillogismo, dovrebbe andare meglio nell'altro carcere napoletano. "A Secondigliano - continua Mazzetta - ci sono celle singole, ma in quelle celle abitano due detenuti". "Il problema è la droga - aggiunge. La stessa situazione emergenziale legata agli immigrati non si discosta da questa sfora. Quelli che vanno in carcere, per gran parte, spaccia in centro per conto delle organizzazioni che non sono state ancora smantellate del tutto. I clan si affidano agli irregolari per smerciare droghe leggere, e la maggior parte di questi irregolari non ha neppure una residenza. Quando vengono arrestati - spiega Mazzotta - non possono usufruire delle misure alternative alla detenzione perché non hanno neppure una casa". Dati alla mano "il 40% per cento dei detenuti è in attesa di giudizio, il 20% di questo 40 risulterà innocente al terzo grado di giudizio continua ancora il presidente e un detenuto costa allo stato duecento euro al giorno". Ma se parliamo di umanità, di recupero e riabilitazione, "quando un giovane uscirà da un carcere, dopo aver frequentato solo criminali, sarà inevitabilmente uno di loro, in violazione dell'articolo 27 della costituzione oltre che in violazione della Corte europea per i diritti umani". "In una situazione di sovraffollamento non possono bastare agenti - conclude Mazzotta - Compiono notevoli sforzi per contenere i disagi che vivono in carcere. È vero che c'è sicuramente un ridimensionamento di poliziotti rispetto alle cifre, ma noi non vinceremo mai una battaglia di democrazia e di ripristino di legalità, fino a quando non riusciremo a chiuderlo qualche carcere". In merito alle visite negli istituti di pena che i Radicali effettuano periodicamente, in tempi brevi pare non se ne prevedano. "Sono in stretto contatto con il direttore di Poggioreale, una persona dalla spiccata umanità e preparazione. Ha ampliato moto gli spazi, fa circolare i detenuti, ha aperto una palestra. È una fortuna che ci sia una persona illuminata come Antonio Fullone " Nuoro: raccolta di medicinali per i detenuti, da Banco farmaceutico 2.500 confezioni La Nuova Sardegna, 6 febbraio 2017 "Per noi servire i poveri significa, semplicemente, praticare le sette opere di misericordia corporale. Quindi, anche visitare i carcerati" spiega Mario Tola Grixoni, delegato gran priorale della Sardegna dei Cavalieri del sovrano militare ordine di Malta. È con questo spirito che il Banco farmaceutico e il Smom corrono in soccorso dei detenuti consegnando 2.500 confezioni di medicinali alla Casa circondariale di Nuoro e alla Colonia penale di Mamone. "Ci siamo affidati al vescovo - continua Tola Grixoni, che ci ha chiesto di occuparci delle persone in carcere. Ci siamo, quindi, messi a disposizione del direttore e degli educatori per capire come avremmo potuto essere maggiormente di aiuto". Sono nate così quattro iniziative: "Stiamo provvedendo a fornire il carcere di Badu e Carros della strumentazione necessaria per il rinnovo o la revisione della patente che molte volte chi è detenuto per anni è tenuto a fare. Se non esistesse questa possibilità all’interno della struttura, chi ha scontato la pena, senza la possibilità di guidare - si troverebbe tagliato fuori dalla società; accogliamo nelle nostre abitazioni le persone detenute che godono di permessi speciali, per dar loro la possibilità di passare alcune ore in un ambiente sereno; ospitiamo i familiari che vengono da lontano per trovarli e che non possono pagarsi un albergo; raccogliamo, infine, i farmaci di cui c’è bisogno. Oltre il 30% delle richieste del medico dell’infermeria riguarda medicinali da banco che il servizio sanitario nazionale non passa. Le persone detenute non solo hanno sovente problemi economici, ma ovviamente non possono nemmeno uscire dalla struttura per acquistare i farmaci". "Grazie a Banco farmaceutico, abbiamo potuto provvedere a parte del loro bisogno. A gennaio, infatti, ci sono stati consegnati 2.500 confezioni di medicinali, dopo che ne avevamo espresso specificamente l'esigenza in base alle istruzioni dell'infermeria. Ma il bisogno dei carcerati non si esaurisce qui. Per questo, invitiamo a partecipare alla Giornata di raccolta del farmaco del prossimo 11 febbraio". Novara: tre candidati per diventare Garante "finalmente una voce per i detenuti" di Elisabetta Fagnola La Stampa, 6 febbraio 2017 Era l’unica delle 12 città piemontesi sedi di istituti di pena a non averne uno. L’associazione Antigone: "Tra le difficoltà c’è il recapito dei pacchi, bene l’avvio dei colloqui via Skype". Anche Novara avrà il suo garante dei detenuti. È l’unica delle dodici città piemontesi sedi di un carcere che ne è ancora sprovvista: così si potrà completare la rete e la nostra regione sarà tra le poche ad avere coperto tutto il territorio. La figura del garante era stata istituita dal Consiglio comunale un anno fa. Ma l’avviso pubblico, scaduto a maggio, era andato a vuoto: era arrivato un solo curriculum, da un candidato risultato però inidoneo. L’avviso è stato riproposto ed è scaduto il 31 gennaio scorso, data entro la quale le domande arrivate sono state tre e dunque quasi certamente stavolta la nomina andrà a buon fine. Ora le candidature sono state trasmesse alla conferenza dei capigruppo per un primo vaglio, poi la scelta spetterà al Consiglio comunale. "È importante che venga nominato un garante dei detenuti anche a Novara soprattutto perché quello cittadino è un carcere complesso, non tanto per problemi di sovraffollamento, quanto perché si tratta di un istituto con norme di sicurezza particolari, per la presenza del regime del 41 bis" spiega Perla Allegri dell’associazione Antigone. L’ultimo sopralluogo dell’associazione che si occupa dei diritti dei detenuti (dal 1998 è autorizzata a farlo dal ministero della Giustizia negli oltre 200 istituti di pena italiani, tranne nei reparti di 41 bis) risale a novembre. I dati forniti all’associazione parlano di 181 detenuti presenti (contro i 158 registrati all’ottobre 2015). "La capienza regolamentare è di 161, la soglia tollerabile invece è di 186, ma per noi - spiega Allegri - fa sempre testo la capienza ufficiale". Dei detenuti, la maggioranza sono italiani (132 su 181), 67 sottoposti al regime del 41bis, il "carcere duro" che si applica in caso di condanne per mafia, terrorismo e riduzione in schiavitù. "Le criticità che abbiamo rilevato - segnala Allegri - non sono legate tanto al sovraffollamento o alla manutenzione delle strutture, quanto alle difficoltà segnalate ultimamente dalle famiglie nel recapitare pacchi all’interno del carcere". La procedura è regolamentata da un decreto presidenziale, declinato poi in base ai regolamenti dei singoli istituti penitenziari: "Il decreto presidenziale - precisa - dice che per ogni detenuto possono essere recapitati quattro pacchi al mese, per un totale di 20 chili, in indumenti e alimenti. Nel carcere di Novara questa norma è stata interpretata in un modo particolarmente complicato: per ogni pacco, i familiari devono portare un peso equivalente in cibo e vestiti, anche se magari i vestiti non servono, perché più spesso si porta cibo. Sembra una sciocchezza ma non lo è, le difficoltà per le famiglie sono già tante, legate a ciò che possono portare e come dev’essere portato. Per questo abbiamo chiesto chiarimenti alla direzione". Di contro, il carcere di Novara può vantare un servizio di comunicazione all’avanguardia: "È uno dei primi istituti di pena del Nord Italia - aggiunge la referente di Antigone - ad aver introdotto i colloqui familiari via Skype. Sono partiti nella seconda metà del 2016, allestendo un sistema ad hoc per permettere ai detenuti, nell’ora di colloquio, di avere un contatto video, utile quando le famiglie sono lontane, in Italia o all’estero". Napoli: impegnata per i diritti dei detenuti, Rosa Criscuolo eletta tesoriere dei Radicali di Vincenzo Iurillo Il Fatto Quotidiano, 6 febbraio 2017 In fondo il filo conduttore di pensieri, parole e azioni di Rosa Criscuolo è il carcere. L’impegno civile per i diritti dei detenuti, quelli sconosciuti e quelli ultra-noti come Nicola Cosentino, per il quale si batté come una leonessa, ritenendo scandalosa la sua lunga detenzione preventiva. Ma anche quell’alone di portasfortuna che la associa a un suo celebre appuntamento a cena in una stanza d’albergo di Roma con Claudio Scajola, che il giorno dopo si ritrovò con un ordine di traduzione a Regina Coeli in mano. La nuova vita della bionda napoletana laureata in giurisprudenza e a lungo gravitante intorno a Forza Italia, amica di ex ministri ed ex sottosegretari berlusconiani, inframmezzata da una sfortunata candidatura alle regionali del 2015 in una lista a sostegno di Vincenzo De Luca, ricomincia con l’elezione a tesoriere dell’associazione Radicale "Per la Grande Napoli". Ricomincia grazie a una vittoria ottenuta con una mozione che mette al centro, per l’appunto, i problemi delle case circondariali e di chi ci soffre dentro, e rilancia una vecchia battaglia dei Radicali, l’istituzione della "stanza dell’amore" nei penitenziari. Infiammata dalla sua passione per la tutela dei diritti dei gay e trans e "preoccupata sullo stato di permanenza dei cittadini transessuali e intersessuali nel carcere maschile di Poggioreale", Criscuolo è stata eletta la sera di venerdì 3 febbraio al termine dell’undicesimo congresso dell’associazione, che si è svolto all’Hotel Ambassador. Ha prevalso con 22 consensi su 37, in ticket con il segretario Roberto Gaudioso. L’associazione "Per la Grande Napoli" è la più prestigiosa dei Radicali a Napoli. Fu fondata da Marco Pannella che del capoluogo partenopeo fu anche consigliere comunale, veniva spesso da queste parti, e poco prima di morire rivelò di essere padre di un napoletano "concepito con una universitaria napoletana dal cognome francese". "Pannella - ricorda Criscuolo - mise il corpo al centro delle sue attività e più di ogni altro seppe far sua la rivoluzionaria affermazione del filosofo francese Merlau-Ponty: Io sono il mio corpo, non lo abito, né lo possiedo". "Per questo - prosegue - credo sia fondamentale mettere al centro della nostra azione politica il corpo come fondamento della comprensione, e per questo voglio continuare a occuparmi dei cittadini ristretti in carcere e dei diversamente abili. Per questi ultimi - conclude Criscuolo - la nostra associazione agirà di concerto con la Cellula Luca Coscioni di Napoli che lavora per l’eliminazione delle barriere architettoniche nel Comune e monitora il rispetto della legge relativa all’interruzione di gravidanza". Torino: la protesta dei giudici onorari "no ai tagli di orario" di Ottavia Giustetti La Repubblica, 6 febbraio 2017 Non proprio una serrata, ma un’anticipazione di quel che significherebbe, per il sistema giustizia torinese, applicare fedelmente la riforma che riguarda i giudici onorari, i vice procuratori onorari e i giudici di pace. Ritrovarsi nei processi con "pubblici ministeri "di pietra", che si limitano a comparire in aula senza conoscere gli atti e a chiedere solo condanne, con l’unico scrupolo di osservare i limiti edittali previsti dalla legge". Come risultato dell’applicazione della riduzione dell’impegno lavorativo a un giorno alla settimana ("con l’intento presumibile di renderci tutti collaboratori occasionali, per giustificare l’assenza di tutele sociali"). Prospettano un futuro di questo tipo i vice procuratori onorari di Torino al capo dell’ufficio, Armando Spataro, cui hanno inviato una lettera che vuole essere la risposta alle dichiarazioni del ministro della Giustizia, Andrea Orlando, al congresso nazionale di Magistratura indipendente. Le esternazioni del Ministro hanno destato in noi massima preoccupazione - scrive Paola Bellone a nome di tutti i vice procuratori onorari. Nella relazione sullo stato della giustizia per l’anno 2016 il Ministro ha anticipato che i decreti attuativi in corso di approvazione prevedono la riduzione dell’impegno lavorativo dei magistrati onorari a un giorno a settimana. E nel corso del convegno nazionale di Magistratura Indipendente il Ministro ha dichiarato, in sostanza, che è necessaria un’ulteriore "precarizzazione" dei magistrati onorari, perché la Commissione Europea ha contestato l’uso dei magistrati onorari "come magistrati stabili". Dopo gli stipendi in forme analoghe a quelle dei voucher quindi, adesso arriva anche la riduzione dell’impegno lavorativo a un giorno a settimana. Ma come può sopravvivere il sistema giudiziario a un simile taglio di risorse dopo che già mal sopporta le croniche carenze di organico? I magistrati onorari (comprendendo sotto questa definizione tutto il personale che sostituisce i magistrati nelle diverse funzioni) sono 284 in tutto il Piemonte, in alcuni tribunali sono addirittura più numerosi dei magistrati di carriera, e fanno le veci dei giudici in una parte molto rilevante del lavoro. Sono selezionati sulla base di un concorso e sono sottoposti a valutazione periodica. Ma non godono di alcuna forma previdenziale né di tutele sociali. "Una nostra collega, in servizio presso questo ufficio dal 2000 - scrivono i vpo, è stata assente dal lavoro per tutto il mese di gennaio per motivi di salute senza poter contare su alcuna indennità di malattia". Da anni questo nutrito gruppo di "magistratini" chiede che siano invece introdotte nel loro contratto più garanzie e l’assistenza. Ma, per tutta risposta, il governo ha approvato una riforma che li rende ancor più precari. Senza tener conto dell’impatto che avrebbe sul sistema l’applicazione delle nuove regole, e prendendo come pretesto il fatto che la Commissione Europea e il Comitato Europeo dei diritti sociali hanno rimproverato all’Italia la violazione dei diritti dei magistrati onorari, utilizzati come personale stabile ma senza garanzie. La soluzione del governo è stata quella di renderli, adesso sì, collaboratori occasionali. Ma l’impatto reale sulla macchina della giustizia non è stata calcolata e i vpo fanno appello al procuratore capo di Torino affinché eserciti la sua influenza per cambiare il destino di questi lavoratori. Il movimento 6 luglio, per la riforma della magistratura onoraria, ha indetto riunioni distrettuali in diverse città d’Italia. A Torino sarà il 9 febbraio. Roma: "Vite sospese", percorso di conoscenza tra detenzione e libertà ilfaroonline.it, 6 febbraio 2017 Il progetto è promosso da "Alternativa Onlus" e il "Movimento Nonviolento - Centro territoriale del Litorale romano", in collaborazione con il Garante per i diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza di Fiumicino. Cosa sappiamo di uomini e donne che, reclusi tra i muri delle carceri, conducono una vita sospesa? O meglio: sappiamo abbastanza? "L’Alternativa Onlus" e il "Movimento Nonviolento - Centro territoriale del Litorale romano", in collaborazione con l’Autorità Garante per i diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza del Comune di Fiumicino, Vincenzo Taurino propongono un ciclo di seminari, per rispondere a questi e ad altri interrogativi, aperto a tutte e tutti alla scoperta di un mondo poco conosciuto: quello delle carceri e delle persone che vi sono detenute. Sei incontri che si terranno all’Oasi Lipu di Ostia (Via dell’Idroscalo) a partire dal 9 febbraio nei quali si alterneranno figure istituzionali, esperti e associazioni che operano sul campo. "Vite Sospese" tra la libertà e la detenzione, tra il perdono e l’esclusione. Sospese in un limbo che è insieme temporale, fisico, psicologico. Attraversate le sbarre, la libertà, prima negata, non viene poi sempre riconquistata: il peso della detenzione può divenire un fardello troppo opprimente: c’è chi sceglie la morte in prigione, chi cade in depressione fuori. Inoltre, più di due terzi delle persone che escono dal carcere commettono nuovi reati. Tutti fattori che denunciano nella maniera più evidente il fallimento dell’istituzione carcere. Si può trovare un’alternativa? Cosa sappiamo delle vite sospese? Cosa avviene all’interno delle carceri e quali sono i diritti dei detenuti? Può la società stipulare con loro un patto di reciproca responsabilità? Domande impegnative, ma riteniamo che qualsiasi risposta debba partire da un principio comune: "L’essere umano è degno perché tale, e non per quel che fa o ha fatto". "Dare voce alla dignità di queste vite sospese. Di donne e uomini, detenute e detenuti, costretti alla reclusione tra muri delle carceri; isolati e alienati, ma soprattutto colpevolmente dimenticati, dalla società fino all’espiazione del proprio reato. Iniziare a conoscere e far conoscere il significato di una "vita sospesa" nel momento in cui, riconquistata la sua libertà, essa fa nuovamente ingresso in una società con la quale erano stati abbattuti ogni ponte, ogni possibilità di contatto. Questi sono i principali motivi che ci hanno reso persuasi della necessità di dar vita al ciclo di seminari che qui presentiamo, nei quali saranno nostri ospiti diverse personalità, figure istituzionali e realtà associative che operano nel campo. Per non poter dire, un giorno: Noi non sapevamo. Per immaginare coralmente metodi e iniziative per ricostruire ponti e legami tra detenzione e libertà" - si legge in un comunicato dei promotori. Al primo seminario, interverrà il Prof. Stefano Anastasia, Garante regionale dei diritti dei detenuti. Nel corso dell’incontro, il Prof. Anastasia dialogherà con Angelo Perfetti, giornalista e direttore de Il Faro online e Daniele Taurino, filosofo e attivista. Al termine degli interventi è previsto un momento per il dibattito aperto tra gli ospiti: un’occasione di confronto sulle importanti tematiche che verranno affrontate nel corso del seminario. Per informazioni e iscrizioni: Tel: 3249096919. Mail: nonviolenzaroma@gmail.com Torino: il Sottosegretario Ferri in visita alle Vallette "grandi eccellenze e criticità" Ansa, 6 febbraio 2017 Il carcere delle Vallette, a Torino, presenta "grandi eccellenze" accompagnate da "criticità". Lo ha detto il Sottosegretario alla giustizia Cosimo Ferri che ieri mattina ha visitato la Casa circondariale alla periferia del capoluogo piemontese. Fra gli elementi positivi Ferri ha citato l'Icam, l'istituto "a custodia attenuata" per le madri, dove oggi sono presenti undici bambini e nove detenute. "Esistono però - ha sottolineato - dei problemi di cui ci occuperemo. Nel Centro sanitario, che peraltro è una delle eccellenze di questo carcere, ci sono delle infiltrazioni. C'è poi la questione della eccessiva visibilità dei servizi igienici. Dobbiamo intervenire assolutamente e non soltanto perché lo chiede l'Unione Europea: lo vuole la dignità umana". Roma: arte al carcere di Regina Coeli, con tre artiste, fotografe e videomaker di Laura Federici artribune.com, 6 febbraio 2017 I risultati si presentano alla Casa Circondariale, ma sono solo la punta dell’iceberg di un percorso che è durato circa un anno. Laboratori, corsi di storia dell’arte, interventi artistici. Tre artiste, fotografe e videomaker, a confronto con i detenuti del carcere di Regina Coeli di Roma. Un laboratorio creativo avviato circa un anno fa, a partire da marzo 2016, presso la Casa Circondariale a ridosso del Gianicolo. Sono le romane Laura Federici e Pax Paloscia e la rumena Camelia Mirescu le conduttrici di questa prima edizione del progetto outside/inside/out, i cui risultati sono stati presentati nel centro di detenzione: hanno lavorato con i carcerati per abbellire le pareti interne della struttura, ma anche negli spazi comuni, con interventi artistici che hanno ragionato sul concetto di "interno" e "esterno", binomio al centro dell’esperienza che i destinatari del progetto stanno vivendo. Le artiste hanno messo a disposizione la propria esperienza e le tecniche di cui fanno uso nella loro pratica: pittura, collage e murale sono state le modalità privilegiate. Se la Paloscia ha lavorato sulle icone del pop, Laura Federici ha lavorato sul paesaggio, rifacendosi alle memorie dei carcerati. Camelia Mirescu ha infine riproposto le opere della grande storia dell’arte del ‘500 come punto di partenza del suo intervento. Dall’esperienza è nato un video, Muri socchiusi, presentato in occasione del Fotografia Festival e in mostra fino al 26 marzo al Macro, insieme alle opere grafiche e fotografiche legate all’iniziativa. Il mondo del carcere del resto è sempre stato di grande ispirazione per l’arte: già nel 2010 per esempio l’edizione di Manifesta, la biennale itinerante europea, svoltasi a Murcia e Cartagena, apriva le porte di un ex centro di detenzione, presentando le opere degli artisti, ma anche i segni della vita tra le mura, dagli affreschi realizzati dai detenuti agli ambienti comuni, con le mille stratificazioni delle vite che vi si sono avvicendate. Tornando a Roma, il progetto L’Arte Dentro è un programma educativo promosso da Roma Capitale con Zétema progetto cultura, che cerca di rieducare i carcerati attraverso l’arte, offrendo nuove chiavi di lettura della realtà. A beneficiarne sono stati anche gli ospiti di Rebibbia, che la scorsa estate avevano avuto l’opportunità di visitare Piazza Navona e il Museo di Roma o di frequentare corsi di storia dell’arte. Qui tutte le immagini dell’iniziativa artistica. Augusta (Sr): carcere di Brucoli, il teatro per educare alla legalità blogsicilia.it, 6 febbraio 2017 Detenuti sul palco e attori in platea. Si chiude con un pubblico d’eccezione il progetto di educazione alla legalità portato avanti dal carcere di Augusta. I portoni della casa di reclusione di Brucoli si sono aperti per due giorni per ospitare i cast dell’Edipo Re e dell’Antigone in scena al Teatro Greco di Siracusa per il 49° ciclo di rappresentazioni classiche, il più importante evento al mondo dedicato al teatro antico. Da Daniele Pecci a Ugo Pagliai, da Laura Marinoni a Isa Danieli e tutti gli interpreti delle due tragedie hanno assistito alla rappresentazione della commedia di Peppino De Filippo, "Quel bandito sono io", messa in scena da una compagnia teatrale inedita: 10 detenuti di alta sicurezza, due dei quali condannati all’ergastolo, e alcuni studenti della scuola Arangio Ruiz di Augusta, che hanno recitato insieme all’interno dell’istituto di sicurezza. La rappresentazione fa parte di un progetto di educazione alla legalità, ormai giunto al terzo anno, volto a creare una fruttuosa interazione tra carcere e società civile per trasformare la casa di reclusione di Augusta in un laboratorio di idee e cultura. Da ottobre a maggio, ogni settimana, gli studenti dell’Arangio Ruiz sono entrati nel carcere e hanno portato avanti una collaborazione con i detenuti. Il risultato è stato un prodotto artistico di qualità, una commedia di Peppino De Filippo rappresentata da un gruppo teatrale messo in piedi per l’occasione. Tra gli spettatori, non solo il pubblico che da sempre segue il progetto, ma anche alcuni dei più affermati artisti del panorama teatrale italiano. In occasione della prima e dell’ultima replica dello spettacolo, in questi giorni, il carcere ha accolto, infatti, i protagonisti del 49esimo ciclo di rappresentazioni classiche, in programma fino al 23 giugno al Teatro Greco di Siracusa a cura dell’Istituto Nazionale del Dramma Antico (Fondazione Inda Onlus). Presenti alla prima di "Quel bandito sono io" tutto il cast dell’Antigone di Sofocle, mentre in occasione dell’ultima replica è stato il turno degli attori dell’altra rappresentazione di punta della rassegna siracusana, l’Edipo Re. Daniele Pecci, Ugo Pagliai, il regista Daniele Salvo, insieme con tutto il cast hanno applaudito gli attori sul palco e gli studenti che hanno messo in piedi l’iniziativa, e infine dispensato alcuni consigli sulla recitazione. La partecipazione dell’Inda vuole sottolineare, ancora una volta, l’importanza e l’utilità sociale della cultura teatrale, capace al tempo stesso di divertire, far riflettere, crescere e unire. Questa iniziativa, come la scelta degli spettacoli L’Antigone, L’Edipo Re e Le Donne al Parlamento mostrano quanto il teatro sia capace di affrontare temi universali e da sempre attuali come ad esempio le donne o la politica, confermando la missione dell’Inda che vuole da sempre oltrepassare il palcoscenico e mantenere sempre vivi i valori del mondo classico fondanti della nostra società. Novi Ligure (Al): "Visti da dentro", al pub si discute del carcere con Bellotti e Libera di Elio Defrani ilnovese.info, 6 febbraio 2017 Prenderanno il via tra un paio di settimane gli appuntamenti di "Cento passi verso il 21 marzo", organizzati da Libera, l’associazione contro le mafie. Primo incontro al Saint George Pub con la presentazione di "Visti da dentro", il romanzo dell’alessandrino Paolo Bellotti. Prenderanno il via tra un paio di settimane gli appuntamenti di "Cento passi verso il 21 marzo", organizzati dal presidio novese di Libera, l’associazione contro le mafie. Mercoledì 22 febbraio, alle 18.00, presso il Saint George Pub di via Gramsci 23 a Novi Ligure, si terrà la presentazione di "Visti da dentro", il romanzo dell’alessandrino Paolo Bellotti, che parteciperà all’incontro. La presentazione del libro di Bellotti sarà l’occasione per riflettere sulla realtà penitenziaria partendo da un inedito punto di vista, quello delle storie di vita dei detenuti. L’autore infatti svolge l’attività lavorativa di funzionario pedagogico al carcere di Alessandria, ed è proprio dalla sua esperienza sul campo che ha tratto gli spunti per il romanzo. Un vecchio contadino fratricida, uno straniero che ha ucciso per gelosia, un agente segreto e un camorrista: sono questi i protagonisti delle quattro storie narrate dall’autore che serviranno come spunto per confrontarsi sulla realtà penitenziaria italiana e per entrare, con gli occhi dei protagonisti del romanzo, in un mondo ancora poco conosciuto ai più. Napoli: torneo di calcetto con i detenuti nel carcere di Secondigliano cronachedellacampania.it, 6 febbraio 2017 L'associazione La Mansarda, presieduta da Samuele Ciambriello, è presente nel carcere napoletano di Secondigliano con diverse esperienze. Ha promosso una iniziativa: "Diamo un calcio all'indifferenza", torneo di calcetto a cui parteciperanno 8 squadre di detenuti del reparto Mediterraneo, una squadra capitanata da Antonio Insigne, due squadre del liceo Mazzini di Napoli e la squadra dell'Ordine dei giornalisti della Campania. Il torneo inizierà oggi, alle 13,30, presso il carcere di Secondigliano. Altri appuntamenti il 10, il 14 e il 17 febbraio. I vincitori delle singole giornate accederanno alle semifinali. Alla squadra vincitrice magliette del Napoli offerte dallo Store di Robe di Kappa di Napoli, presente a via Chiaia, a via Merliani e corso Garibaldi. Per Samuele Ciambriello "La disponibilità di tanti amici ad entrare in carcere per giocare a pallone, per socializzare con i reclusi non è un atto formale, ma un gesto per rimuovere pregiudizi, per aiutare i reclusi a ritrovarsi, a recuperarsi. Alla persona che sbaglia deve essere tolto il diritto alla libertà, ma non il diritto alla dignità. Così si va oltre il muro dell'indifferenza sui temi della giustizia". Migranti. Addio empatia, per i profughi torna la paura per la sicurezza di Luigi Ceccarini La Repubblica, 6 febbraio 2017 Sondaggio Demos. Cresce la diffidenza: per il 40 per cento degli italiani gli immigrati sono un pericolo. La questione dell’immigrazione continua ad essere al centro del dibattito politico. Non potrebbe essere diversamente. Il tema intreccia aspetti importanti della vita pubblica. Rimanda alla problematica della sicurezza e dell’accoglienza. Al significato dei diritti di cittadinanza. Alla coesione sociale. A complicare la questione viene la situazione in aree da sempre problematiche, come il Medio Oriente e l’Africa. Il contesto italiano non sfugge a questa complessa dinamica. Così, il dibattito politico si surriscalda quando si parla di rifugiati o di abolizione del reato di immigrazione clandestina. E la legge di riforma della cittadinanza, ius soli (temperato) e ius culturae, resta bloccata in Parlamento, nonostante l’apertura da parte dell’opinione pubblica (il 70% si dice favorevole). Le basi dei vari partiti hanno orientamenti diversi. I più diffidenti sono gli elettori della Lega e di Forza Italia. Nell’area di sinistra si registra una maggiore apertura. Tali divisioni rendono difficile la decisione politica. Lo scenario, infatti, si caratterizza per la presenza di crisi sul piano identitario, politico ed economico: 1) il cittadino della società liquida vive una realtà segnata da una perdita di riferimenti tradizionali; 2) sul fronte politico-istituzionale, sfiducia e orientamenti anti-politici aprono spazi a formazioni neo-populiste e spinte sovraniste, venate di orientamenti xenofobi; 3) la lunga crisi economica-finanziaria globale ha prodotto politiche austeritarie. Il grado di benessere, anche dei ceti medi, è declinato nel tempo. La questione immigrazione viene vista con maggior sospetto, specie dai forgotten. Questo si riflette sull’opinione pubblica e sugli attori della politica. Quando si parla di immigrazione un aspetto fondamentale è quello relativo alla percezione della in-sicurezza. I dati rilevati da Demos dal 1999 ad oggi offrono un trend interessante. Si osserva un andamento oscillatorio: a cavallo del nuovo millennio, dopo una fase di rientro della preoccupazione (che scende al 33%) riparte l’ansia sociale da in-sicurezza. Tocca il suo culmine tra il 2007 e il 2008, quando un italiano su due (51%) condivideva questo timore. Si tratta di una fase nella quale il nesso tra immigrazione e sicurezza è al centro del dibattito pubblico. Alcuni episodi di violenza, con protagoniste persone straniere, ottengono grande risalto sui mezzi di informazione, pur in assenza di significative variazioni nel numero complessivo di reati. Poi la paura sembra rientrare, lentamente, fino al dato più basso rilevato: 26% a fine 2012. Passata l’emozione, suscitata dalla foto di Aylan, il bambino siriano adagiato senza vita sulla spiaggia turca, la paura riprende la sua corsa. Nelle indagini dell’ultimo anno resta stabile sul 40%. Gli sbarchi e il susseguirsi di attacchi terroristici nel contesto europeo sollecitano la diffusione del clima di paura. Muri e referendum anti-immigrazione danno consistenza a questo timore latente. Lo legittimano agli occhi dei cittadini. Da Trump a Orban, passando per i sovranisti europei e italiani, è esplicito e continuo (tra tweet e dichiarazioni) il riferimento a questa problematica, reale ma decisamente più complessa delle soluzioni proposte. L’attenzione al popolo, elemento fondamentale della democrazia, necessita però di un’etica collettiva di responsabilità anzitutto da parte della classe dirigente: media, politica e leader. E non di follower delle debolezze della società. Migranti. Ventimiglia, la piccola Calais dove parte la tratta dei profughi di Marco Imarisio Corriere della Sera, 6 febbraio 2017 I tentativi di superare il blocco francese. L’ultima vittima travolta dal treno regionale lungo la ferrovia che da Ventimiglia porta in Francia. Era insieme ad altri stranieri che cercavano di oltrepassare il confine. È il secondo migrante in tre mesi morto investito. I gendarmi francesi la chiamano route de la mort. Ma sono tante strade diverse, ognuna ormai con la sua lapide. La A10 è controllata dai passeur maghrebini. Si parte solo con il loro permesso, ma a Mentone è come se avessero rimesso la frontiera, ormai non passa nessuno. Poi ci sono i sentieri, dove ci provano gli afghani, guidati dalla cieca fiducia nella propria capacità di camminare su rocce a strapiombo. Al commissariato dicono che negli anni passati soprattutto sul Col de mort ne sono caduti tanti. Venivano trovati dai turisti, magari dopo giorni. Altri sono stati inghiottiti dalle gole di granito. I binari della ferrovia e la sua massicciata sono diventati l’unica possibilità, quasi per esclusione. Chi non ha i soldi per pagare i trafficanti, chi ha paura del buio e dell’altezza, non ha altra scelta che seguire le traversine di acciaio, entrando nelle gallerie che sbucano finalmente in Francia. Dal 2014 i conduttori dei convogli hanno l’obbligo della cosiddetta "marcia a vista". L’ultima vittima di questa tragedia a bassa intensità non ha ancora un nome. Era un migrante, forse proveniva dall’Africa centrale, forse aveva tra i 25 e i trent’anni. Non aveva alcun documento con sé, al centro di accoglienza nel Parco Roja non lo aveva visto nessuno. È morto ieri mattina nella galleria Dogana, l’ultima dopo Latte. A pochi metri dal confine francese, investito dal treno transfrontaliero partito da Cannes alle 5.18. Alla vigilia di Natale quello stesso tratto fu fatale a un ragazzo algerino di 23 anni. Per mesi in attesa - La strada della morte non è un’unica strada. Con questa definizione i gendarmi francesi indicano una specie di imbuto malefico creato dalle loro autorità. Adesso sono i treni, ieri era l’autostrada. Il 7 ottobre 2016 un camion aveva travolto e ucciso una minorenne eritrea, due settimane dopo un suo coetaneo sudanese aveva subito la stessa sorte pochi chilometri più in là, appena entrato in Francia. Ventimiglia è il collo di questa strettoia. A parole, la conoscono tutti, è quel posto lassù dove finisce l’Italia. Ma questa estrema periferia è diventata ormai il nostro confine più sofferto. È la porta per la Francia, l’ingresso per un Paese che non vuole i migranti giunti soprattutto da Sudan, Eritrea ed Etiopia. A loro l’Italia non gli interessa, l’Italia è un effetto collaterale, uno strumento. Si fermano qui, e aspettano. Per mesi. Ventimiglia è diventata una piccola capitale del traffico di esseri umani, come ha dimostrato una recente inchiesta dell’Antimafia milanese. Da qui partono almeno venti spedizioni al giorno, furgoni stipati all’inverosimile, colonne di poveracci in marcia lungo le rotaie, che pagano centinaia di euro per fare gli ultimi chilometri del loro viaggio. Come per tutte le periferie, da quassù arrivano notizie scarse e frammentate, quasi sempre in occasione di queste disgrazie. "La distanza e l’isolamento hanno un ruolo in questa situazione" dice Enrico Ioculano, il giovane sindaco del Pd. "Non possiamo gridare ogni giorno che da soli siamo impotenti. E così proviamo a tappare la falla con le mani. Ma senza accordi che riducano gli arrivi continueremo a essere spettatori impotenti di queste disgrazie. Con il rischio di diventare prima o poi una piccola Calais italiana". Il paragone con la città francese dove sorgeva l’accampamento perpetuo dei migranti diretti in Inghilterra non è campato in aria. Neppure nella stagione più tranquilla dell’anno. Oggi il centro nel Parco Roja ospita solo 270 persone, l’estate scorsa era arrivato a 1.230. Sul greto del fiume si vedono alcune tende, destinate ad aumentare con i primi caldi. La chiesa di Sant’Antonio, quasi un secondo punto di accoglienza, è sempre piena. I cittadini divisi - Ma l’inverno non ha raffreddato gli animi. Le dinamiche sono le stesse di Calais. La popolazione è sempre più divisa tra chi dà una mano oppure tollera e chi invece è esasperato per la presenza dei profughi nelle vie. "La situazione è ingestibile già adesso" sostiene Enzo Ambesi, presidente del comitato di quartiere che ha raccolto qualche migliaio di firme per "testimoniare lo stato di malessere in cui vive la nostra gente", come si legge dal testo della petizione popolare. "Figurarsi quando ricominceranno ad attraversare il Mediterraneo". Il centro del Parco Roja ha sospeso l’accoglienza dei richiedenti asilo. La versione ufficiale è che la struttura necessita di manutenzione. "Quella di ieri è una tragedia annunciata" dice Maurizio Marmo, direttore della Caritas diocesana. "Il blocco francese alla frontiera rende il viaggio più pericoloso. Non abbiamo strutture per le donne e i bambini. Le istituzioni italiane devono aiutarci a dare una risposta umana a chi è in viaggio". Anche a Calais cominciò così. E l’inverno prima o poi finisce. Attenti a Ventimiglia. Droghe. La legge sulla cannabis è già finita nel cassetto di Susanna Turco L'Espresso, 6 febbraio 2017 Il provvedimento sulla legalizzazione si è affacciato alla Camera ma è stato immediatamente rispedito in Commissione. E non ci si è lavorato un minuto di più. Il relatore Farina: "C’è un problema centrale, che si chiama Pd". Mentre in Parlamento impazza la cabala persino sul giorno esatto nel quale finirà la legislatura, tra i progetti di legge pronti a salire sul podio del "ritenta, sarai più fortunato" c’è senz’altro quello che riguarda la legalizzazione della cannabis. Il provvedimento che voleva introdurla, firmato da 200 deputati, si è appena affacciato in Aula alla Camera - prima volta nella storia - per essere subito rispedito in commissione, come un somaro dietro la lavagna. Proponeva fra l’altro armonizzazione della legislazione sull’uso terapeutico (che non è uguale in tutte le regioni), il regime di monopolio statale e la possibilità (a certe condizioni) di coltivazione anche per "uso ludico". Una proposta da più parti definita moderata, ma sulla quale da allora non si è più lavorato un minuto, neanche per ulteriori compromessi. Si moltiplicano in questi giorni, dai radicali a Si-Sel, gli appelli per il rilancio. Il deputato Daniele Farina, relatore, non si illude: "C’è un problema centrale, che si chiama Pd: in molti hanno firmato, ma il partito finora non si è attivato. Io ci spero ancora, ma finora lo schema è quello di tutti i temi sensibili: continuiamo a navigare in un altro mondo". Pena di morte. Nello Sri Lanka si commuta in ergastolo, in Iran e Usa no La Repubblica, 6 febbraio 2017 La nota periodica di Nessuno Tocchi Caino. Otto prigionieri, inclusi due minorenni, sono stati impiccati in pubblico in una città iraniana. Nel Missouri (Usa) è stato mandato a morte un trentasettenne ritardato mentale. La nota periodica di Nessuno Tocchi Caino si apre stavolta con una notizia positiva, sebbene poi se ne aggiungano altre che confermano come la pena capitale sia ancora assai diffusa nel mondo: il presidente dello Sri Lanka, Maithripala Sirisena, ha deciso di commutare in ergastolo le condanne di 60 prigionieri del braccio della morte, in occasione del 69° Giorno dell’Indipendenza del 4 febbraio. Il presidente Sirisena ha preso la decisione di risparmiare la vita dei prigionieri sulla base delle raccomandazioni formulate da un Comitato nominato dal Ministero della Giustizia e guidato dal giudice della Corte Suprema in pensione Nimal Dissanayake. Il Comitato era stato nominato per valutare se le condanne a morte dei prigionieri potessero essere commutate in ergastolo. Di conseguenza, il Comitato ha raccomandato la commutazione per 60 prigionieri del braccio della morte, con effetto dal 4 febbraio. In libertà condizionata sono dopo 20 anni di prigione. I condannati potranno godere della libertà condizionale solo dopo aver scontato una pena minima di 20 anni dopodiché le loro richieste per qualsiasi beneficio saranno inviate al board una volta ogni quattro anni. Nonostante i tribunali dello Sri Lanka emettano condanne a morte per reati gravi come l'omicidio, lo stupro e il traffico di droga, l’ultima esecuzione nel Paese risale al 1976. Iran - Impiccati otto prigionieri, compresi due minorenni. Otto prigionieri, inclusi due minorenni, sono stati impiccati in Iran negli ultimi giorni, ha riportato l’agenzia Iran Human Rights. Un giovane è stato impiccato il 15 gennaio nel carcere Shahab di Kerman per un omicidio commesso a 16 anni. Si tratta di Arman Bahr Asemani, nato il 10 febbraio 1997 e riconosciuto colpevole nel novembre 2012 dell’omicidio di suo cugino, ha riportato Iran Human Rights. "Bahr Asemani, che è stato impiccato a 20 anni, era stato condannato anche a 20 frustate per consumo di alcolici. Il suo avvocato aveva inutilmente sostenuto che il giovane non potesse essere accusato di omicidio di primo grado, in quanto ubriaco al momento del crimine", ha detto una fonte a Iran Human Rights. Un omicidio compiuto quando aveva 15 anni. Il 18 gennaio, un prigioniero è stato impiccato in carcere a Tabriz per un omicidio che avrebbe commesso a 15 anni. Lo ha riportato la HRANA, aggiungendo che Hassan Hassanzadeh è stato in carcere due anni e mezzo prima di essere impiccato, all’età di 18 anni. Due prigionieri sono stati impiccati il 28 gennaio per droga nel carcere Lakan di Rasht. L’agenzia di stampa statale IRIB ha identificato i giustiziati come "R.Z.", 26 anni, e "M.A.", 39 anni. R.Z. era stato condannato a morte per il traffico di 1 kg di metanfetamine tipo crystal, mentre M.A era stato riconosciuto colpevole dell’acquisto e vendita di 3kg di eroina. Giustiziati in pubblico. Il 29 gennaio, quattro prigionieri sono stati impiccati in pubblico a Mashhad e Bandar Abbas. I primi due, di 22 e 26 anni, sono stati giustiziati a Bandar Abbas dopo essere stati riconosciuti colpevoli di stupri, sequestro e aggressione, ha riportato l’agenzia Irib. L’agenzia Mizan, legata alla magistratura, ha riportato l’impiccagione in pubblico di due prigionieri a Mashhad. Erano stati condannati per Moharebeh (guerra contro Dio), avendo commesso nel 2014 una rapina nel corso della quale avevano sparato causando feriti. Usa - Missouri, a morte un ritardato mentale. Mark Christeson, 37 anni, bianco, è stato giustiziato. Era accusato di aver violentato e ucciso, il 1° febbraio 1998, Susan Brouk, 36 anni, bianca, e di aver ucciso anche i due figli della donna, Adria e Kyle, di 12 e 9 anni. Venne condannato a morte il 14 ottobre 1999. Christeson, che all’epoca aveva 18 anni, fu arrestato 8 giorni dopo i fatti in California assieme al cugino Jessie Carter, che aveva 17 anni, che testimoniò contro di lui e in cambio ottenne una condanna all’ergastolo senza condizionale per il suo ruolo nei fatti. Contro Christeson comunque le prove erano abbondanti, compreso il riscontro del Dna sul liquido seminale trovato nella vittima. Un nuovo pool di avvocati negli anni recenti aveva insistito per ripetere il processo. La loro tesi principale era che Christeson, che ha un quoziente intellettivo di poco superiore ai 70 punti (il limite sotto il quale è vietato compiere esecuzioni) era stato pessimamente assistito dagli avvocati d’ufficio, che addirittura avevano presentato con quattro mesi di ritardo il ricorso al giudice federale, ricorso che fu quindi dichiarato inammissibile. All’esterno del penitenziario di Bonne Terre circa una dozzina di persone hanno manifestato pacificamente contro la pena di morte. L’esecuzione è durata circa 7 minuti ed apparentemente non ha presentato problemi. Egitto - Due condanne a morte per terrorismo. Il 1° febbraio scorso il Tribunale penale di Giza ha condannato a morte due imputati appartenenti ad una cellula terroristica di Al-Warraq. Altri due membri sono stati condannati a cinque anni di carcere e un altro imputato è stato assolto da tutte le accuse. Secondo il quotidiano statale Al-Ahram, le accuse comprendevano il possesso di armi, l’uccisione di civili e agenti di polizia e il collegamento ad un gruppo terrorista fuorilegge. L'operazione di arresto della cellula terroristica di Al-Warraq risale al 2014, quando le forze di sicurezza arrestarono quattro persone che cercavano di far saltare in aria un veicolo della polizia in piazza del Libano, nel governatorato di Giza. In base alle indagini, la cellula eseguì numerose operazioni di sequestro di armi della polizia oltre alla fabbricazione di ordigni esplosivi. Inoltre, Al-Ahram scrive che avrebbero confessato di aver monitorato stazioni delle forze di sicurezza per lanciare attacchi e di aver partecipato all’organizzazione di marce della Fratellanza Musulmana. Nigeria - Il governatore di Lagos approva condanne a morte per sequestratori. Il governatore dello Stato nigeriano di Lagos, Akinwunmi Ambode, ha approvato la legge anti-sequestri recentemente votata dal parlamento statale. La Legge per la Proibizione del Sequestro stabilisce l’ergastolo per il sequestro a scopo di riscatto, tuttavia nel caso in cui la vittima muoia nel corso della prigionia, i sequestratori possono essere condannati a morte. Il governatore Ambode ha detto che la nuova legge si è resa necessaria considerato l’incremento dei rapimenti nello Stato, aggiungendo che il governo sta attuando nelle scuole e in altri luoghi vulnerabili misure di prevenzione contro i sequestri. Stati Uniti. Stop agli immigrati, nuovo "no" dei giudici a Donald Trump di Flavio Pompetti Il Messaggero, 6 febbraio 2017 La sospensione del bando resiste al vaglio dell’appello. La nona sezione della corte d’Appello di San Francisco ha convalidato sabato sera la sentenza che un giudice federale di Seattle aveva comminato il giorno prima. Il decreto presidenziale che voleva bloccare migliaia di cittadini stranieri in partenza per gli Stati Uniti è non valido almeno per un altro giorno, fino a quando il dipartimento di Giustizia di Donald Trump avrà finito a depositare le prove necessarie a completare il caso. L’intera America assiste a questa lotta titanica tra il potere esecutivo e quello giudiziario come se si trattasse di un incontro di football americano, in perfetta concomitanza con la partita del Super Bowl, che si è disputata ieri sera a Houston. Da una parte un presidente impaziente e frettoloso che vuole tradurre le promesse elettorali in azioni di governo, dall’altra i tribunali che insorgono davanti alle regole violate, e che chiedono il rispetto delle procedure. Donald Trump ha colto a pieno il senso della sfida. "Vinceremo - ha detto sabato sera durante il ballo per la raccolta di fondi a favore della Croce Rossa che si svolgeva nella sua tenuta in Florida, lo faremo per la salvezza della patria". Il suo appello è stato raccolto almeno da un altro giudice federale a Boston, il quale ha rifiutato di accettare la sospensione del bando decisa a Seattle. Trump ha immediatamente dato risalto alla sentenza su Twitter, sottolineando il conflitto tra la decisione di Boston e la "ridicola" sentenza di Seattle. E poi ha aggiunto, sempre su Twitter: "Se succede qualcosa prendetevela con i giudici, mettono in pericolo il nostro Paese". L’insulto che il presidente ha lanciato al "cosiddetto" giudice James Robert di San Francisco ancora una volta ha sollevato le voci critiche di una porzione del partito repubblicano poco disposta a vedere rappresentata una tale scena di conflitto istituzionale. Ma la frase è stata difesa nelle interviste domenicali dal vice presidente Mike Pence, più disposto a condonare le "parola franche e dirette" alle quali Trump sta abituando l’America. Come andrà a finire? La questione è avviata ad un dibattito di fronte alla corte suprema dal risultato incerto. Ma i risvolti politici superano ormai i confini di una semplice disputa legale, e il confronto riserverà ancora molte sorprese prima che una soluzione possa essere trovata. Gli aeroporti di tutta l’America stanno registrando lo stato di tensione che regna sovrano. Una folla di manifestanti si assembra ogni giorno negli scali aeroportuali delle maggiori città, pronta a gridare la protesta contro il bando. Negli ultimi due giorni durante il regime di sospensione, la folla si è tramutata in un comitato di benvenuto dei visitatori che filtrano attraverso le maglie della sicurezza e guadagnano l’uscita, dove li attendono familiari trepidanti. Cartelli con le scritte "I cristiani costruiscono ponti, non muri" e "La mia casa è la tua casa" accolgono i passeggeri in arrivo a Boston, la città sulla quale sono stati convogliati molti dei voli destinati ad altre città americane, ma sui quali viaggiano passeggeri interessati alla disputa in corso. A scongiurare il rischio che la festività domenicale e la partita di football facessero scemare l’attenzione intorno alla sua persona, Trump ha lanciato ieri un’altra frecciata mediatica, con un’intervista alla Fox che è andata in onda nel pre-partita dell’incontro più spettacolare e più seguito dagli spettatori dell’anno. Alla domanda del giornalista amico Bill ÒReilly - "Pensi che Putin sia un criminale?". Trump ha risposto con un sibillino: "Cosa pensi, che l’America sia senza criminali? Pensi che noi siamo innocenti?". Dietro le affermazioni roboanti in pubblico, cominciano però ad apparire i primi segnali di una normalizzazione in corso all’interno della squadra di governo. Giovedì scorso lo stesso Trump ha detto all’ex primo ministro ucraino Yulia Timoshenko che non abbandonerà il suo appoggio al paese, e nello stesso tempo all’Onu l’ambasciatrice americana Nikki Haley ha ammonito Putin contro la tentazione di fomentare una nuova ondata di violenza separatista al confine con il paese. Lo stesso giorno il portavoce della Casa Bianca ha rettificato la posizione sui nuovi insediamenti israeliani nei territori occupati, riportandola in linea con le posizioni dell’amministrazione Obama. Afghanistan. L’Onu: il 2016 è stato l’anno più sanguinoso di giordano stabile La Stampa, 6 febbraio 2017 Oltre 11 mila morti e feriti fra i civili, un terzo sono bambini. Il 2016 è stato in Afghanistan è stato l’anno più sanguinoso dal 2009 e probabilmente il peggiore per le vittime civili da quando è iniziata l’ultima fase della guerra civile, nel 2001. L’ultimo rapporto dell’Onu parla di circa 11.500 civili uccisi o feriti nel 2016 e un terzo di queste vittime di violenze è costituito da bambini. I dati sono stati diffusi dalla Missione di assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan (Unama) e rivelano il peggiore bilancio dal 2009, quando è stato avviato questo conteggio annuale. L’aumento delle violenze riguarda soprattutto i bambini: oltre 3.500 minori sono stati uccisi o feriti lo scorso anno, in gran parte a margine dei combattimenti tra forze governative e gruppi ribelli, Taleban in testa, ma anche a causa di mine e munizioni rimaste inesplose e deflagrate poi in loro presenza. Si tratta di un aumento del 24 per cento. Somalia. La fuga di un popolo stremato di Daniele Bellocchio L'Espresso, 6 febbraio 2017 Attentati, bombe, una guerra civile senza fine. Eppure il Paese è stato incluso nel "muslim ban" di Trump. Che colpisce un popolo stremato. Insieme ai profughi in arrivo a Mogadiscio dallo Yemen. Anche lo Yemen, dove da due anni infuria una guerra atroce, è stato incluso nel "muslim ban" deciso dal presidente degli Stati Uniti, Donald Trump. L’America di oggi non vuole saperne di accogliere rifugiati che scappano dalle bombe sganciate dal miglior alleato di Washington nella regione, l’Arabia Saudita, i cui cittadini invece sono stati esclusi dall’ordine di Trump. E così J ami Abdul, profugo di quel conflitto, oggi si affida ad Allah: è scavato in volto, vestito di una camicia che lo avvolge come un sudario della dannazione terrena e, all’ora del tramonto, inginocchiato, solo, difronte all’Oceano Indiano, leva preghiere che corrono ad Oriente. Jami è uno degli oltre 400 accampati al Lido di Mogadiscio, capitale della Somalia, anch’essa colpita dal rifiuto di Trump. Poco distante da lui, tra baracche e tende di stracci, una moltitudine eterogenea alza invocazioni di aiuto, che abbattono coordinate prestabilite e corrono in ogni direzione. Questuano cibo, medicine e pietà i rifugiati che vivono sul lungo mare della capitale somala, ai piedi dell’Arco di trionfo che gli italiani fecero erigere per la visita di Vittorio Emanuele III nel 1934. Ci sono ammalati e feriti, anziani e bambini, famiglie e orfani ma, ad accomunare tutti, l’esigenza del sopravvivere. Sono tutti yemeniti, in fuga dalla guerra civile esplosa nel loro Paese e approdati in una terra in balia di un altro ventennale conflitto. Hanno attraversato a bordo di barconi il golfo di Aden e sono sbarcati sulle coste somale, devastate da venticinque anni di scontri. Le mosche sciamano nel campo rifugiati che accoglie le famiglie yemenite e il calore rende l’aria, già satura di incertezze e miseria, ancora più irrespirabile; gli uomini e le donne, privati del proprio presente, si trascinano come ombre sospese in un limbo del contingente, tra polvere e piccoli bracieri su cui vengono scaldate poche manciate di riso. "Io sono un rifugiato e non so quale sarà la mia vita", spiega Abdel Fatih Ahmed Mahmud, di venticinque anni. "Non ho più nulla, la mia casa è stata distrutta e i miei parenti uccisi; sono scappato, ma qua non c’è niente. Mancano cibo e assistenza medica. E poi c’è la guerra. Io voglio raggiungere l’Europa; non ho paura né del mare né del deserto: farò di tutto per arrivare in Germania". Il ragazzo mostra le ferite provocate dalle schegge durante un bombardamento e racconta anche di aver perso l’udito all’orecchio sinistro. La sua storia è gemella di quella di Ahmed Said, anche lui ventenne: "Ho attraversato il mare e adesso voglio partire per arrivare in Gran Bretagna, dove vive mio cugino. Sapevamo, quando siamo salpati, che in Somalia c’è la guerra, ma era la sola possibilità che avevamo per non morire subito". Il miraggio dell’Occidente accomuna tutti i rifugiati, e il loro confidare ad alta voce il desiderio di raggiungerlo un messaggio d’aiuto racchiuso in bottiglia e lanciato in un mare di utopica fiducia nel mondo. Lo stesso mondo che oggi li rifiuta, ne ha paura e li etichetta come terroristi. La Somalia oggi è allo stesso tempo terra di sbarchi e di fughe. Oltre ai civili in arrivo dallo Yemen, ci sono un milione di cittadini somali che hanno abbandonato il Paese e un altro milione sono i rifugiati interni. Lasciato alle spalle il campo che accoglie le famiglie yemenite, percorso il quartiere di Abdel Aziz, puntellato dalle case sventrate dai colpi di Rpg, superati i check point delle truppe governative e quelli delle milizie che imperversano nelle strade della capitale, compare la tendopoli Onat, dove vivono più di 700 famiglie somale. Hassan Omar Ahmet è un maestro coranico, che ha creato una madrassa tra le lamiere, dove insegna i precetti dell’Islam a decine di bambini perché, come spiega lui stesso, "in un Paese dove tutto è stato distrutto, anche la fede deve essere insegnata, partendo dalle fondamenta, alle nuove generazioni". È scappato da un villaggio del nord, quando sono arrivati gli jihadisti di Al Shabaab e oggi non ha niente, se non una stuoia su cui dormire e un Corano con cui educare i bambini ai veri valori della religione. "Conosco alcuni ragazzi che sono scappati prima in Kenya e poi, da lì, fino alla Libia. C’è chi dice che servono più di 3.000 dollari per compiere tutto il viaggio. Non li ho e quindi non penso più ad andarmene, ma ad aiutare i giovani del campo". Testimone del ventennale conflitto somalo è anche Alima, che da venticinque anni vive ad Onat; è stata tra i primi ad arrivare quando la città venne travolta dallo scontro tra i signori della guerra. "Ho vissuto tutte le fasi del conflitto ma il periodo peggiore è subentrato con l’arrivo di Al Shabaab. Mi ricordo le incursioni nel campo, i bambini rapiti, le donne abusate e la violenza in ogni dove". Le parole dell’anziana donna, pronunciate da sotto un niqab arancione, anticipano l’eco di una raffica di kalashnikov. E poi, ancora, spari a rincorrersi poco distanti dal suo alloggio. I ragazzi e gli uomini scappano nei vicoli del campo cercando un rifugio, mentre la guerra con prepotenza conferma la sua presenza. In Somalia oggi perdura lo scontro tra Al Shabaab e il contingente dell’Unione Africana, appoggiato dalle truppe dell’esercito somalo. Se è evidente che il conflitto rispetto al passato ha calato d’ intensità, allo stesso tempo però continua a incendiare la nazione e a destabilizzarla. I jihadisti infatti stanno affrontando una crisi interna e numerose sono le perdite subite negli ultimi anni, oltre alle continue ritirate nell’entroterra del Paese. L’organizzazione terrorista sebbene appaia in procinto di essere sconfitta, non viene tuttavia mai decapitata e così, come una professionista della resurrezione, riesce continuamente a riorganizzarsi e a colpire. Oggi la tattica degli Shabaab è cambiata e i guerriglieri islamisti si sono specializzati in attacchi mirati contro obiettivi politici, militari e governativi: la loro strategia e il successo delle loro azioni è visibile nei loro continui agguati. Tra gli ultimi, quelli di venerdì 27 gennaio, quando un commando qaedista ha attaccato una base militare nel sud del Paese, dopo che solo due giorni prima un gruppo armato aveva ucciso 28 civili all’hotel Dayah di Mogadiscio, noto come punto di riferimento di molti imprenditori e politici. Gli attentati si sono fatti più frequenti con l’avvicinarsi alla data in cui dovrebbe essere eletto il nuovo presidente, l’8 febbraio, che potrebbe essere un passo verso la stabilizzazione del Paese. Una speranza, insomma. Anche perché, nonostante la prosecuzione del conflitto e gli esodi umani, nella società somala ha incominciato ad affermarsi anche una voglia di cambiamento, un desiderio di spezzare l’assedio della paura e di mettere in scena, seppur in punta di piedi, il ritorno alla vita. È così che sul lungo mare di Mogadiscio alcune famiglie passeggiano e donne tingono l’acqua del mare con i loro i niqab colorati; nello stadio riprendono le partite di pallamano femminile e gli spalti, con ancora impressi i segni dei colpi di Ak47, vedono sedersi, gli uni accanto agli altri, giovani con magliette di calcio e ragazze velate che lasciano però intravvedere gli occhi truccati col kohl. E pure la notte ci sono quartieri dove i cittadini della capitale si ritrovano per fumare i narghilè, ascoltare musica locale e giocare a biliardo: come al Posh Treats, il centro benessere che Manara Moalin, una donna di 33 anni, cresciuta tra Napoli, Londra e Dubai, ha inaugurato sfidando le minacce di morte "La gioventù somala deve vivere, godere dei piaceri della vita che una guerra infinita le ha proibito. Io sono cresciuta lontano dalla mia terra, ma ora sono voluta tornare per dare il mio contributo al futuro del mio popolo", dice. Da un lato zone rosse e spari, dall’altro risate e concerti. Un futuro di rinascita e un passato di dannazione si contendono il presente somalo, in bilico tra la speranza negata, che oggi diviene tangibile e l’eterna guerra che, come un morbo, ha intaccato l’identità del Paese.