La fine e il fine della pena di Marcello Matté settimananews.it, 5 febbraio 2017 "Chi sbaglia è giusto che paghi, ma paghi per una pena dignitosa e umana": sono le parole di Gaetano, detenuto presso il carcere di Padova. È uno dei 1.687 "uomini ombra" che riportano scritto sul proprio fascicolo "Fine pena: mai". Partecipa alla redazione di Ristretti Orizzonti, il periodico del carcere Due Palazzi, che ha organizzato il convegno "Contro la pena di morte viva per il diritto a una fine pena che non uccida la vita". Una giornata di dialogo con ergastolani, detenuti con lunghe pene e con i loro familiari, dichiarava il volantino. (Fin troppo) numerosi gli invitati a prender la parola, in rappresentanza soprattutto delle istituzioni (politica, magistratura, amministrazione penitenziaria) e della società civile.[1] A rappresentare il volontariato Ornella Favero, direttrice di Ristretti orizzonti e presidente della Conferenza nazionale volontariato e giustizia. Oblio della funzione della pena - Partendo dall’ergastolo il tema si è allargato in fretta alle finalità della pena in generale. Ciò che l’ergastolo mette in discussione è appunto la "polifunzionalità" della pena. La Costituzione attribuisce ad essa una finalità "rieducativa", interpretata come ravvedimento finalizzato al reinserimento. "La pena si comincia a scontare fuori dal carcere, quando ti incontri con gli altri" diceva Carmelo Musumeci, ergastolano ora in semilibertà. L’opinione pubblica è molto lontana dall’interpretazione costituzionale e invoca la funzione "retributiva" della pena: a chi ha fatto del male venga restituito del male. Cavalca l’onda di questa interpretazione - fuorviante e sostanzialmente inutile, anzi dannosa - la ricerca del consenso elettorale. Asservimento della politica alla piazza - alimentata da un’informazione poco informata - che sta impedendo di mettere mano alla riforma dell’Ordinamento penitenziario quando basterebbe uno stralcio dal disegno di legge sulla riforma del Codice penale e del Codice di procedura penale. Di riflesso, e di rinforzo, ancora più lontana è l’interpretazione della pena data dalla sua esecuzione in carcere, cioè per più della metà delle sentenze. Il ricorso alle misure alternative al carcere è più ampio dopo la Sentenza Torreggiani della Corte europea dei diritti dell’uomo (8.1.2013), che intimava il risarcimento per le condizioni di detenzione in violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.[2] Lo spettro del risarcimento ha portato - almeno - a una drastica riduzione del sovraffollamento, ma non ha modificato l’ossatura, la cultura del sistema penale. Il carcere resta la pena più diffusa e quella invocata dall’opinione pubblica. Mentre la funzione "rieducativa" della pena non è accessoria e dovrebbe essere tenuta in conto al momento della sentenza, non solo dell’esecuzione penale. Abbiamo una delle costituzioni migliori del mondo, eppure è Strasburgo a ricordarcela. Il carcere, nato come strumento legale per sottrarre il colpevole alla vendetta privata, diventa strumento della vendetta pubblica. Organizzato per risolvere problemi - che dovrebbero essere affrontati e risolti in altra maniera - finisce per essere un problema da risolvere. Ergastolo purché non sia ergastolo - La pena dell’ergastolo, confermata con referendum nel 1981, porta all’evidenza le aporie della pena intesa e applicata in senso retributivo. Non è un’estensione temporale della pena, ma una sua diversa ristrutturazione, allo scopo di eliminare il reo dal contesto civile. Ha come oggetto specifico l’esclusione di ogni futuro di reinserimento e ignora il ravvedimento, sottraendosi così a quella che dovrebbe essere la funzione primaria della pena. L’ergastolo è giustificato soltanto dalla sua valenza quale deterrente (peraltro molto discutibile). La pena perpetua, infatti, non è rivolta al condannato, non si propone di portarlo a un ravvedimento al quale è indifferente; vuole essere una monito alla società, un messaggio nel quale il condannato svolge il ruolo di strumento per un fine diverso da lui. Nella pena dell’ergastolo il condannato è strumento e non fine. Non è costituzionalmente né razionalmente accettabile. Tant’è che la Corte costituzionale riconosce legittimità alla pena dell’ergastolo solo quando … non sia ergastolo, cioè solo quando preveda di riconoscere il possibile ravvedimento del condannato e un suo reinserimento nella società. La Corte europea dei diritti dell’uomo si è pronunciata a favore della doverosità di escludere il "mai" dal fine pena, anche se i pronunciamenti potenzialmente avversi al Regno Unito sono stati attenuati, probabilmente per non prestare argomenti ai sostenitori della hard-brexit.[3] Se l’ergastolo ordinario può prevedere un’esecuzione che tenga conto del percorso del condannato dopo la sentenza (e non solo del suo comportamento alla commissione del delitto) e consideri la possibilità di una forma di reinserimento, la contraddizione del diritto è palese e insolubile nel caso dell’ergastolo "ostativo", quello cioè che esclude la cessazione della reclusione e impone al condannato di morire in carcere. A meno che non collabori positivamente alle indagini sul caso che lo coinvolge insieme ad altri. È una situazione che riguarda la grande maggioranza degli ergastolani in Italia (il 72%). L’ergastolo ostativo, oltre ad essere in palese contraddizione col dettato costituzionale, introduce un elemento pernicioso nel diritto perché baratta una possibile commutazione della pena con la collaborazione alle indagini, conferendo così alla pena una finalità investigativa e raddoppiando la strumentalizzazione del detenuto. "L’assassino dei sogni" - Al di là delle considerazioni giuridiche, politiche, amministrative grava la condizione esistenziale. Voluto perché la pena porti al ravvedimento, il carcere minaccia di soffocare la speranza e l’ergastolo è "l’assassino dei sogni". Il "dovere" della necessità della speranza da coltivare e da restituire è un ritornello nelle parole di papa Francesco,[4] inviate anche ai partecipanti al convegno in una Lettera al cappellano don Marco Pozza: "Vorrei incoraggiarvi, quando vi guardate dentro, a non soffocare mai questa luce della speranza. Tenerla accesa è anche nostro dovere, un dovere di coloro che hanno la responsabilità e la possibilità di aiutarvi, perché il vostro essere persone prevalga sul trovarvi detenuti. Siete persone detenute: sempre il sostantivo deve prevalere sull’aggettivo, sempre la dignità umana deve precedere e illuminare le misure detentive. […] In questo senso, mi pare urgente una conversione culturale, dove non ci si rassegni a pensare che la pena possa scrivere la parola fine sulla vita; dove si respinga la via cieca di una giustizia punitiva e non ci si accontenti di una giustizia solo retributiva; dove ci si apra a una giustizia riconciliativa e a prospettive concrete di reinserimento, dove l’ergastolo non sia una soluzione ai problemi, ma un problema da risolvere. Perché, se la dignità viene definitivamente incamerata, non c’è più spazio, nella società, per ricominciare e per credere nella forza rinnovatrice del perdono". C’è chi invoca la sua abolizione,[5] ma è anzitutto necessario "liberarsi dalla necessità del carcere". Una conversione di mentalità che richiede di ritrovare il senso della parola giustizia: un valore più che un apparato amministrativo. Siamo tutti consapevoli dei problemi, ma non riusciamo a produrre il cambiamento che invochiamo. Un interrogativo che rimbalzava, al termine del convegno di Padova, sui molti protagonisti della vita pubblica intervenuti a dichiararne la necessità. È comunque incoraggiante la consapevolezza che saper leggere l’errore della norma è speranza politica. [1] Interventi di Ottavio Casarano, Sabina Rosa, Gaetano Fiandaca, Linda Arata, Lorenzo Sciacca, Mauro Palma, Davide Galliani, Enrico Sbriglia, Giovanni Maria Flick, Sergio Staino, Diego Olivieri, Tommaso e Francesca Romeo, Francesco Cascini, Gessica Rostellato, Piero Ichino, sr. Consuelo, Reanto Borzone, Gherardo Colombo, Gennaro Migliore, Rita Bernardini, Fabio Gianfilippi, Luigi Manconi, Marcello Bortolato, Maria Brucale, Alessandro Zan, Pasquale Zagari, Alessandra Naldi, Sabina Rossi, Roberto Piscitello. Il contenuto dei loro interventi viene riportato in sintesi, senza virgolettato. [2] "Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti". [3] Vedi le vicende delle sentenze nei casi Vinter e Hutchinson [4] Particolarmente lucide - e più volte citate - quelle indirizzate all’Associazione internazionale di diritto penale, il 30 maggio 2014 e il 23 ottobre 2014. [5] Luigi Manconi, Stefano Anastasia, Valentina Calderone, Federica Resta, Abolire il carcere. Una ragionevole proposta per la sicurezza dei cittadini, Chiarelettere, Milano 2015, pp. 122. Sovraffollamento delle carceri: in crescita numero dei detenuti, un terzo sono stranieri ilfogliettone.it, 5 febbraio 2017 Nonostante le misure deflattive dell’affollamento carcerario adottate dai governi che si sono succeduti in questi ultimi anni, sta riprendendo a crescere il numero dei detenuti in un contesto che lo stesso ministro della giustizia Andrea Orlando - nel suo intervento del 26 gennaio per l’inaugurazione dell’anno giudiziario in Cassazione - ha definito "non roseo", anche se la fase emergenziale è alle spalle. Ultime statistiche del ministero pubblicate in questi giorni rilevano infatti che, alla fine dello scorso mese di gennaio, sono 55.381 le persone recluse nei penitenziari. Erano 54.653 alla fine di dicembre 2016, dunque i nuovi ingressi - nel primo mese del 2017 - sono stati 728. Guardando i dati più recenti sul sovraffollamento delle celle, partendo dal 31 dicembre 2013 con 62.536 detenuti, si arriva nel 2014 a 53.623, e si scende ancora ai 52.164 nel 2015. Ma nel 2016 la situazione è cambiata e i dati del primo e del secondo semestre hanno entrambi il segno più: dai 52.164 detenuti di fine 2015, si è passati a 54.072 del primo semestre del 2016, fino ai 54.653 del secondo semestre. E il trend di crescita, come si è visto, continua anche nel nuovo anno. Per quanto riguarda il genere e la provenienza, dei 55.381 detenuti rilevati al 31 gennaio 2017, a fronte di una capienza regolamentare di 50.174 posti letto nelle 191 carceri italiane, 2338 sono donne, 18.825 sono stranieri. Le persone che usufruiscono della semilibertà sono 803, tra loro gli stranieri sono solo 88. Anche i dati sulle detenute madri, nel raffronto statistico tra dicembre 2016 e gennaio 2017, indicano un valore in aumento. A fine dicembre, le donne recluse erano complessivamente 37 con 33 figli al seguito, nel dettaglio dieci erano italiane con 11 figli, mentre 23 avevano cittadinanza straniera con 26 figli. Alla fine di gennaio del nuovo anno, le donne recluse in totale sono 35 con 40 figli, 13 sono italiane con 15 figli, mentre 22 sono le mamme straniere con 25 figli al seguito. Donne assassinate: "no" delle femministe al carcere a vita di Maria Novella De Luca e Cristina Nadotti La Repubblica, 5 febbraio 2017 Può la paura dell’ergastolo fermare i maschi che uccidono le donne? Serve davvero prevedere il "fine pena mai" contro killer che bruciano e mutilano fidanzate, mogli, ex, compagne di vita, amanti? La risposta dei movimenti femministi, riuniti da tutta Italia a Bologna per scrivere il nuovo piano antiviolenza, è un "no" secco, che traccia un solco ancora più profondo di distanza tra i collettivi e il Parlamento. A far riaccendere la discussione sulle misure più efficaci per combattere la strage delle donne è stata una proposta della deputata Pd Fabrizia Giuliani: una modifica all’articolo 577 del codice penale (da inserire nella legge contro il femminicidio del 2013) che estende l’ergastolo a chi "uccide il coniuge, o la persona cui è legato con unione civile o da rapporto affettivo o stabilmente convivente". Una misura forte, che colpisce emotivamente, e sarà discussa in aula il 27 febbraio prossimo. Quel bisogno di dire "buttate via la chiave" per punire i colpevoli di reati così atroci. E invece, come è già accaduto in passato, le critiche più forti arrivano da chi difende ogni giorno in prima linea le donne e spesso le salva. Quasi un paradosso. Titti Carrano, avvocata, presidente dell’Associazione Nazionale dei Centri Antiviolenza "Dire", definisce l’ipotesi dell’ergastolo "inutile e dannosa". "Non serve un inasprimento delle pene, serve la certezza della pena. Serve una giustizia che non abbandoni le donne alla mercé dei loro aguzzini dopo la denuncia, tribunali che non parlino di conflitti ma riconoscano la violenza, c’è bisogno di case rifugio. A cosa è utile la minaccia dell’ergastolo se poi si scopre che almeno una donna su quattro è stata uccisa dopo aver denunciato il suo persecutore, e assai prima di arrivare a un processo?". I movimenti femministi, che oggi hanno ripreso voce e piazze e annunciano lo sciopero delle donne per l’8 marzo, avevano già bocciato senza appello il piano antiviolenza del governo Renzi e i famosi "codici rosa" nei pronto soccorso per le vittime di stupri e stalking. Quello che i collettivi denunciano è "la spinta della politica a un contrasto del femminicidio puramente repressivo, o puramente sanitario". "Perché le donne che sono in Parlamento non si confrontano con noi, non attingono alla nostra enorme esperienza e passione", chiede Titti Carrano, "non sostengono i nostri centri sempre più assediati dai tagli, centri che sono invece gli ultimi approdi per le donne perseguitate?". La legge del 2013 aveva inasprito le pene e con le norme in vigore, chiarisce Carrano, "è comunque già possibile condannare all’ergastolo i colpevoli. Ma non è servito, anzi la violenza è diventata ancora più efferata, pensiamo alle donne sfigurate con l’acido". È invece del tutto convinta sostenitrice dell’ergastolo per chi compie un femminicidio Giulia Bongiorno, avvocata che di donne perseguitate ne ha difese molte, e fondatrice dell’associazione "Doppia difesa". "È ormai accertato che quando un uomo uccide la sua compagna, la moglie, la ex, il reato ha connotazioni più gravi, perché si agisce in base alla convinzione che la donna sia inferiore. Dunque c’è una aggravante a monte, e per questo è importante chiedere il massimo della pena". "Oggi le aggravanti contenute nel codice penale sono discrezionali", aggiunge Bongiorno "invece devono essere previste dalla legge, non possiamo più affidarci alla decisione di questo o quel giudice". Non solo. Secondo Bongiorno il "fine pena mai" per chi compie un femminicidio porterebbe finalmente alla certezza della pena. "Se prevediamo il massimo, riusciremo ad avere condanne congrue ed evitare al colpevole scappatoie legali". Posizioni distanti, mentre la strage continua. Il Ministro Costa: "in carcere mille innocenti l’anno. Ecco come punire i giudici colpevoli" di Cristiana Lodi Libero, 5 febbraio 2017 È una pagina a righe, manoscritta. La bella grafia ingiallita dallo scorrere degli anni. Enrico Costa, avvocato e ministro degli Affari Regionali e della Famiglia (viceministro della Giustizia nel passato governo Renzi), la tiene come memorandum sopra la scrivania del suo studio a Cuneo. Si legge: "…ciò che mi indigna, a parte la stregonesca, medievale iniquità del rito, è questa Giustizia in ferie come una rivendita di gelati, e questa spazzatura umana (tale è la considerazione del cittadino per certi giudici) lasciata a fermentare, nei bidoni di ferro delle carceri: piene di disperati, di non interrogati, di sventurati, e di, come me, innocenti. Fate qualcosa, ve ne prego". Firmato: Enzo Tortora, 30 agosto 1983. Ministro, Tortora spedì questa lettera a suo padre Raffaele, anch’egli all’epoca uomo di governo e politico del Partito liberale italiano. Perché quell’appello disperato e inascoltato continua a investire tanti innocenti in galera e tutti noi? Cos’è stato fatto in 34 anni per correggere quella che lei chiama la "giustizia ingiusta?". "Di recente, affrontando questo tema con un alto magistrato, mi sono sentito dire che gli errori della giustizia sono un "fatto fisiologico" ad essa stessa connaturato, e pertanto "fatti inevitabili". Le può bastare per inquadrare il fenomeno?". No, ma sarebbe interessante sentire lei. Cosa ne dice? "Che il nostro sistema giustizia è al contrario affetto da una patologia gravissima, che all’interno del processo sono contenute criticità fortissime, le quali non possono essere tenute nascoste o restare inascoltate, dato che è della nostra libertà, ossia della civiltà giuridica di uno Stato che stiamo parlando. E io su questo sistema malato, intendo accendere un faro. Voglio arrivare a capirne le cause, le responsabilità e le possibili soluzioni". Esempi ministro, faccia degli esempi. "I numeri. Partiamo da quelli, che sono paurosi. Oltre 42 milioni di euro pagati soltanto nel 2016 per risarcire un migliaio di casi tra ingiuste detenzioni ed errori giudiziari". Cosa s’intende, scusi, per "ingiusta detenzione" e cosa per "errore giudiziario?". "L’ingiusta detenzione riguarda quei cittadini che subiscono il carcere preventivo (la custodia cautelare) durante la fase delle indagini preliminari e che poi vengono liberati dagli appositi Tribunali perché l’arresto non andava fatto, oppure prosciolti senza arrivare nemmeno a processo. L’errore giudiziario invece coinvolge il soggetto incriminato e poi riconosciuto innocente con una sentenza di revisione del processo che lo aveva portato alla condanna, ingiustamente. Soltanto nel 2016 questi cittadini, sommati, sono stati circa un migliaio. Tanti, troppi per considerare tutto questo un fatto "fisiologico". E non è finita". Cos’altro c’è? "Dall’anno di Mani Pulite (il 1992) quando sono state fatte le prime liquidazioni a oggi, le persone private della libertà personale e poi indennizzate dallo Stato per ingiusta detenzione sono state25mila.E la spesa complessiva, per il contribuente (ovvio), è arrivata a 648 milioni di euro. E se a questi sommiamo le vittime degli errori giudiziari arriviamo addirittura a 700 milioni. Immagini di vedere uno stadio di calcio (coi posti esauriti) che ha chiesto e ottenuto l’indennizzo. E aggiungo: fuori dallo stadio ci sono anche gli altri, che sono un’infinità". Chi? "Coloro che per una serie di ragioni non hanno fatto o non possono fare richiesta di revisione pur considerandosi innocenti". Eppure il presidente dell’Anm (Associazione nazionale magistrati) Piercamillo Davigo, recentemente a dibattito con lei a Porta a Porta, ha sostenuto che non esistono gli innocenti ma soltanto gli assolti da sentenze di condanna pronunciate da giudici che in precedenza sono stati ingannati. Da chi ha fatto le indagini, dai testimoni eccetera. "Mi fa rabbrividire che non possa definirsi innocente una persona riconosciuta tale (ripeto "innocente") da una sentenza di assoluzione pronunciata dagli stessi magistrati giudicanti, perché questo svilisce non soltanto l’innocente riconosciuto tale, ma anche il lavoro di chi lo ha assolto. Mi domando se questi magistrati, se questi giudici, si sentano rappresentati da queste parole di Davigo. Vorrei conoscere anche il parere di quei giudici (tanti) abituati a svolgere il proprio lavoro silenziosamente, senza clamore e a decidere con tanto scrupolo della libertà di un soggetto. E al presidente dell’Anm andrebbe chiesto molto altro". Cosa vorrebbe domandare a Davigo? "Per quale motivo proprio il suo sindacato, con tutti gli aderenti, si oppone a qualsiasi iniziativa che possa vagliare (valutare) provvedimenti disciplinari nei confronti dei membri stessi? Perché opporsi se si è convinti della legittimità del proprio operato? C’è una enorme disomogeneità sul territorio italiano nei cosiddetti arresti sbagliati, e il fenomeno andrebbe studiato. Esempio: la Corte d’Appello di Bologna conta 28 casi, Torino 23. Taranto 4. Trento 2. Milano 46. Lecce 59". Tante ingiuste detenzioni. Ritiene che in Italia la custodia cautelare sia applicata in modo rigoroso? "Il sistema giustizia registra un enorme deficit: la certezza della pena. In Italia, in pratica, questa non esiste. E tutto ciò viene ingiustamente colmato con l’abuso del carcere preventivo perché, si sa, la prigione fa notizia, esercita pressioni sull’indagato (non dimentichiamo il tintinnare delle manette di Tangentopoli) e questo abusare, inevitabilmente, genera i numeri che abbiamo riportato. Almeno mille all’anno ingiustamente arrestati. E in totale 700 milioni sborsati dallo Stato e dal contribuente in 25 anni". Gli indennizzi sono stati riconosciuti, almeno. "Respingo la tesi che siccome la somma è stata riconosciuta, si è ristabilita la giustizia. L’indennizzo non è nulla rispetto alle sofferenze patite da un innocente che ha subito il carcere (anche un solo giorno) o un processo ingiustamente. Pensiamo al trauma delle famiglie. Senza contare che il sospetto, per chi è finito dietro le sbarre seppur per errore, è lo spettro destinato a restare". E il tempo? Per quanto - in media - una persona, vittima di un errore delle toghe deve aspettare per vedere riparato il danno? "Almeno 10 anni prima che il fatto venga accertato e l’indennizzo riconosciuto. Liquidato. E ripetiamolo: a pagare è lo Stato. Soltanto lo Stato". I tempi del processo? "Vanno ridotti. Il 60 per cento delle prescrizioni si determina in fase di indagini preliminari. Senza che un potenziale innocente possa essere dichiarato tale. L’eccessiva durata del processo a carico di imputati o indagati detenuti, aumenta in modo intollerabile la sofferenza di chi, ad onta della presunzione di innocenza, è costretto ad aspettare, dimenticato e da recluso, un verdetto che ne accerti le responsabilità. E che troppo spesso fa seguire alla carcerazione un’assoluzione". I magistrati "colpevoli" invece? Pagano? "La responsabilità disciplinare dei magistrati, di fronte a questi macroscopici errori, non scatta mai. Infatti, a differenza di quanto previsto dalla Legge Pinto, il provvedimento di indennizzo non viene trasmesso al titolare dell’azione disciplinare per le valutazioni di competenza. Per gli errori commessi finora ha pagato solo lo Stato (non finirò di ripeterlo); il magistrato che sbaglia non ne risponde. Sto lavorando su questo. E la Camera ha dato voto unanime alla norma, inserita nel Ddl sul Processo Penale, che prevede una relazione annuale al Parlamento che contenga i dati relativi alle sentenze di riparazione per ingiusta detenzione (con specificate le ragioni di accoglimento e dell’entità delle riparazioni) e al numero di procedimenti disciplinari iniziati nei confronti di magistrati per le ingiuste detenzioni accertate". Non è poco. "È qualcosa, ma non basta. Finché assisteremo anche a un solo caso di carcerazione ingiusta, illegittima o ingiustificata". Il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, è sensibile al tema? "Non soltanto ha mostrato sensibilità, anzi. Il Guardasigilli sta anche lavorando sul sistema carcere, sulla necessità di accorciare le distanze fra l’indagato e il magistrato inquirente o giudicante, e sull’importanza di abbattere il muro che spesso si crea fra i soggetti coinvolti. L’obiettivo, apprezzabile, del ministro è dare un’anima al processo. Impedendo, come spesso accade, di dimenticare (subito dopo la formalità dell’interrogatorio di garanzia) il perseguito in cella. In quei bidoni di ferro di cui ha scritto Enzo Tortora". Corruzione fra privati, il decreto non piace ai pm di Davide Milosa Il Fatto Quotidiano, 5 febbraio 2017 Greco: "Mancano gli strumenti investigativi". Roberti: "Servono regole antimafia". Corruzione tra privati. Il tema è tanto fondamentale quanto delicato. Molto spesso, infatti, i soggetti coinvolti solo formalmente hanno un vestito privato, perché nella sostanza indossano un abito pubblico e strategico. Si pensi a società come l’Eni, come Fiera Spa e tutte le partecipate. Qui la corruzione dilaga, quasi sempre però ricade nell’ambito privato. Il reato è già previsto nel codice civile. Oggi, però, il governo ha deciso di recepire una direttiva europea centrata proprio su questo tema. Naturalmente la storia è tutta italiana. Sì perché il nuovo decreto legislativo, che pochi giorni fa è passato in commissione Giustizia alla Camera, arriva ben 14 anni dopo la decisione quadro del Consiglio europeo del 2003 che già all’epoca chiedeva "di garantire che sia la corruzione attiva sia quella passiva nel settore privato siano considerate illeciti penali in tutti gli Stati membri". Meglio tardi che mai verrebbe da dire. In realtà, la nuova riforma non aggiunge né sana il ritardo. Va detto, poi, che già nel 2012 la corruzione tra privati è stata in parte riscritta. Ora il nuovo documento, ritornato al governo due giorni fa, modifica, ma solo in parte, l’articolo 2635 del codice civile. In sostanza viene aggiunto il reato di istigazione alla corruzione che però resta procedibile solo a querela di parte. La procedibilità d’ufficio è mantenuta solo per la corruzione. Viene poi allargato il campo dei soggetti perseguibili. Non più solo le società, ma anche gli enti (fondazioni o associazioni) che non hanno fini di lucro. Restano, però, invariate le sanzioni che non superano i tre anni. Si tratta, come è facilmente intuibile, di condanne ridicole, soprattutto se si pensa alle grandi società che pur pubblicamente rilevanti sono di diritto privato. Il punto è fondamentale, soprattutto in un’epoca in cui il pubblico viene progressivamente svuotato. L’allarme è stato sollevato dal procuratore di Milano Francesco Greco nella sua recente audizione davanti alla Commissione parlamentare antimafia. La prospettiva, è stato in sostanza il suo ragionamento, è quella di arrivare a parificare nel reato di corruzione l’ambito privato (soprattutto per le società ambigue come le partecipate) a quello pubblico. Se si resta, infatti, confinati all’interno dello schema attuale vengono a mancare gli strumenti investigativi. Le intercettazioni prima di tutto. Certo tutto si può aggirare se al solo reato di corruzione tra privati si aggiungono altre ipotesi d’accusa. L’esempio più recente è quello dell’inchiesta su Fiera Milano. La società resta privata, nonostante, ad esempio, l’ad sia scelto dalla Fondazione Fiera, i cui componenti del consiglio vengono a loro volta nominati dalla giunta regionale. Dove stia il privato appare difficile capirlo. E nonostante questo, tutte le ipotesi corruttive ipotizzate dall’antimafia dentro Fiera Spa restano confinate all’interno della corruzione tra privati. In generale poi, oggi, davanti a un’ipotesi di corruzione tra privati le Procure quasi mai aprono fascicoli d’ufficio, ma attendono la querela, che spesso non arriva, perché le parti si mettono d’accordo prima. È chiaro, dunque, che anche il nuovo decreto legislativo del governo appare deficitario davanti a un tale scenario. "La questione di una equiparazione oggi è decisiva". Non ha dubbi, in questo senso, il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti. "Oggi la corruzione dilaga al di là delle cifre". Insomma, il termometro delle mazzette nell’ambito pubblico fornisce numeri inevitabilmente approssimati per difetto. L’Italia, secondo il rapporto 2016 di Transparency International, si piazza al 60° posto su 176 Paesi. "È necessario superare la dicotomia tra pubblico e privato", prosegue Roberti. Il procuratore antimafia, poi, sugli strumenti appare ancor più netto di Greco. "La corruzione pubblica e quella privata legata alle grandi società come l’Eni deve essere combattuta con gli strumenti dell’antimafia, su questo non vi sono dubbi". Quindi le intercettazioni, ma anche l’uso di agenti sotto copertura. Si tratta, però, di strumenti investigativi che possono intervenire solo quando il reato ipotizzato viene punito con pene severe. Non superare la soglia dei tre anni, appare dunque ridicolo. "Anche perché - spiega sempre Roberti - attualmente la corruzione è uno strumento fondamentale per la criminalità organizzata". Un dato, ripreso anche nella relazione riservata della Prefettura di Milano, che definisce la corruzione "la chiave d’accesso" dei boss nel ricco mondo dei grandi appalti pubblici o privati che siano. È vera giustizia? Lettera aperta al ministro Orlando di Valter Vecellio L’Unità, 5 febbraio 2017 Caro Ministro Andrea Orlando, era il 2 marzo del 2016: la vengo a trovare al Ministero, per un’intervista al Tg2. Mi indica la scrivania che di Togliatti, molto piccola, quand’era Guardasigilli; e risponde a tutte le domande, solo una volta ne ripetiamo una, ma sono io che mi sono impappinato. Le chiedo delle migliaia di processi che vanno in fumo per la prescrizione. Lei mi assicura: il 2016 sarà l’anno dell’informatizzazione: siamo sulla giusta strada per superare, o almeno contenere, il problema. Mi anticipa, poi, quello che le sento dire al congresso del Partito Radicale di settembre, nel carcere romano di Rebibbia: "Il carcere di per sé non garantisce sicurezza. Il carcere funziona se riesce a far cambiare almeno una parte di coloro che sono chiamati ad assumersi la propria responsabilità". Poi quello che forse Marco Pannella avrebbe valutato il più riconoscimento: che dai "matti" radicali ha imparato che diritti sociali e diritti civili sono un tutt’uno, Bene: perché le scrivo? Perché apprendo oggi di una storia, pubblicata su Il Messaggero di un padre accusato di aver abusato i suoi figli di otto (la femminuccia) e quattro anni (il maschietto). Succede, purtroppo. Solo che il presunto abuso risale nientemeno che a 16 anni fa; e dopo 16 anni i giudici stabiliscono che quel padre è innocente. L’uomo, alla lettura del verdetto, si piega in due, scoppia in un pianto liberato/lo, si sente male per un principio di ischemia cerebrale, viene ricoverato d’urgenza. Sedici anni con quell’accusa tremenda sul capo, mezz’ora di camera dì consiglio, e l’assoluzione. Giustizia in cui devo credere, mi spiega, ci fa capire come sia possibile, come sia potuto accadere, che quell’uomo abbia dovuto attendere sedici anni? Non prova anche lei, come me, rabbia, sgomento, inquietudine? Leonardo Sciascia diceva che l’Italia è sì "la culla del diritto", ma anche la sua bara; lo si accusava di pessimismo. Però in occasione delle inaugurazioni dell’anno giudiziario il grido di dolore è stato identico: la prescrizione falcidia i processi. A Bologna, in fumo un processo ogni cinque. A Roma il 38% dei giudizi. Il procuratore generale parla di "vanificazione della sanzione penale e della sua stessa minaccia, proprio nelle aree di maggior interesse per il cittadino". A Venezia prescritto il 49% dei procedimenti definiti. A Napoli si parla apertamente di "amnistia strisciante". Il presidente della Corte d’Appello dice che è più facile andare in galera da innocenti che da colpevoli. A Palermo "saltati" ben 3.541 procedimenti. I procuratori generali dicono che quello che accade "finisce per diventare una amnistia strisciante, perenne che opera peraltro in modo casuale". A fronte di ciò, si propone di allungare i termini della prescrizione: si tradurrà, fatalmente, in un allungamento dei tempi per avere giustizia, non in uno snellimento dei processi. Lo dicono, unanimi, tutti i giuristi. È un pannicello caldo. Molto meglio sarebbe una amnistia mirata e "governata"; una radicale delegificazione (quante sono le leggi in Italia?); e che giudici e magistrati facciano i giudici e i magistrati, senza essere "distratti" da mille e uno incarichi extra-giudiziari... Per tornare al caso che le ho citato: quand’anche quel padre fosse stato condannato e non assolto, dopo 16 anni, che giustizia sarebbe comunque stata? Beccarla insegna: la giustizia deve essere giusta, equa, ragionevolmente rapida... Buon lavoro, signor Ministro. "Non condannate a morte il colpevole del mio omicidio" di Don Marco Pozza Il Mattino di Padova, 5 febbraio 2017 C’è una cosa che accomuna tutti: l’impossibilità che ci è data di decidere se morire o non-morire. È vero che qualcuno decide da sé di morire anzitempo, altri s’accaniscono nella vita di quaggiù: tutti, però, dovranno confrontarsi con lo scacco-matto della fine. Non ci è dato scegliere tra la finitezza e l’immortalità: ci è però concesso, qualora lo desideriamo, scegliere "come" morire. Padre René Wayne Robert, francescano che lavorava nelle carceri della Florida dal 1980, volle diventare anzitempo protagonista della sua morte: "Non condannate a morte il colpevole del mio omicidio" fu il testamento consegnato vent’anni prima della morte a un notaio. Della strada - abitata di gente assassina, sradicata, violenta - aveva fatto il suo salotto. Lo animava la grande sete che brucia nel cuore dell’avventuriere: incidere nella carne della realtà. Fu profeta anzitempo del perdono: "Chiedo che la persona trovata colpevole del mio omicidio non sia condannata a morte". Altri scelsero per lui la data della sua morte: lui, da parte sua, scelse come morire. Da protagonista, fino in fondo. A lavorare col fango capita che prima o poi ci si infanghi: è una legge che chi educa nei bassifondi calcola ogni primo mattino. Assieme all’altra, la prima-conseguenza: nessun educatore sarà mai tale se prima non si sarà lasciato ferire. Guaritori-feriti li chiama sottotraccia il vangelo: peccatori- perdonati è ciò che gli evangelisti mai disdegnano di annotare a chiare lettere. Il padre Robert venne trovato morto alcuni giorni dopo la scomparsa. Ad ammazzarlo è stato Steven Murray, 28 anni, uno di quelli che erano appena usciti dalla prigione: "Avevo problemi mentali, ho perso il controllo" dirà. Proprio come previsto da Robert: i santi, al pari dei geni, divengono tali perché riescono ad intravedere quello che accadrà prima che diventi di dominio pubblico, alla portata di tutti. Ciò che resta, perduta la vita, è il fascino dell’amore: l’esatto contrario del caos. Chi riesce nel tentativo di lasciarsi segregare da esso, racconta che dopo il suo passaggio la storia non sarà più quella di prima: esisterà solamente un prima e un dopo. È la storia di chi ama gli altri fino a mandare in oblio la propria storia: "Un umile e generoso servo del Signore, che ha condiviso i suoi molti doni con i poveri, la comunità dei sordi, i carcerati - ha detto nell’omelia il vescovo. Sarà ricordato per la sua bontà e il suo amore senza fine per loro". Mica una cosa da poco per chi ha scelto da sé "come" morire: padrone fino all’ultimo della libertà. Il paese dei disadattati è sempre in bilico tra grandezza e miseria, stizza e simpatia. O è un letamaio o è un giardino, inselvatichito. A saperci fare, sotto ad entrambi c’è sempre terra-buona: occorre scavare, vangare, sopportare. Metter in conto pure di sporcarsi. Il guadagno pare immane a sentire coloro che vanno a bersaglio: alzarsi la mattina mettendo in conto di poter sbagliare rende liberi di viversi da protagonisti. D’intravedere un qualcosa di fronte al quale anche la propria vita assume un valore minore: la capacità di annullarsi per vedere l’altro crescere, rialzarsi, rimettersi in gioco. È la storia della bontà, quella che non è solo proprietà-privata dei cristiani ma il cuore pulsante di chi scrive la storia: "La bontà senza tanti discorsi, senza dottrine, senza sistema, il semplice gesto di un essere a favore di un altro essere, al di là e al di qua delle generalizzazioni e delle astrazioni: la bontà immune dall’ideologia del bene sociale" racconta Ikonnikov nel celebre romanzo "Vita e destino di Vasilij Grossman". Una bontà che non è mai un fatto sociale, un’utopia collettiva, una sommossa popolare: è il bene piccolo, il più delle volte incomprensibile, di chi ha intuito che fare il bene è prima di tutto il modo più svelto per stare-bene. E, stando bene, fare star bene gli altri. Quelli che qualcuno è capace di perdonare ancor prima che sbaglino. Campania: celle sovraffollate ma più vivibili di Gennaro Scala Cronache di Caserta, 5 febbraio 2017 Migliorano le condizioni dei detenuti anche se i numeri registrano un nuovo incremento di accessi. Mese nuovo, vecchi problemi. Anzi, problemi aumentali. Con i dati diffusi dal ministero della Giustizia relativi alla situazione del sovraffollamento nelle carceri italiane aggiornati al 31 gennaio. si nota che in Campania si e sfora la capienza massima di oltre 1.300 unità. I parametri di accoglienza, ovvero i posti di capienza massima sono calcolati sulla base del criterio di 9 metri quadrati per singolo detenuto più 5 metri quadrali per gli altri, la stessa metratura per cui in Italia viene concessa l’abitabilità agli alloggi. più favorevole rispetto ai 6 metri quadrati più quattro oltre ai servizi sanitari. Un focus sulle principali strutture campane ci porta a sterzare decisamente e a rivalutare la casa circondariale di Poggioreale, molto migliorata rispetto alle condizioni da lager in cui versava fino a pochi anni fa, Sono state ristrutturate le cucine, è previsto il restyling del campo di calcetto che presto potrebbe avere la nuova erba sintetica. Ci sono più spazi, due celle per reparto sono state già trasformate in palestre. Diversa la condizione di Secondigliano che, soprattutto in questi ultimi giorni in cui sono state eseguite vere e proprie retale contro la criminalità, vive un surplus di circa duecento unità. Si tratta di una struttura più moderna, con celle singole, ma molte di esse accolgono due detenuti. Spostandoci nel Casertano. Carinola rappresenta una sorta di eccellenza con 389 presenze a fronte di 581 posti di capienza. Qui i detenuti possono girare liberamente e per alcuni di loro sono siate previste delle attività da svolgere all’esterno della struttura, naturalmente sotto stretta supervisione. Santa Maria Capua Vetere ospita un carcere moderno che. tuttavia, a causa dell’eccessivo afflusso di reclusi, comincia ad arrancare. I 937 recinsi (a fronte degli 833 posti) si lamentano spesso dei miasmi che provengono da una discarica vicina alla casa circondariale. Ma al di là delle note positive, per lo più isolate, quello che stride a livello nazionale sono i numeri. Se i posti disponibili sono poco più di 49mila e i detenuti presenti sono 54mila. siamo ancora lontani da cuna condizione di vivibilità accettabile. La Campania ha comincialo a marciare in una direzione in cui si respira aria di rinnovamento. con un’organizzazione della detenzione che è passata dal tipo tradizionale a quello aperto, con sorveglianza dinamica persino nell’alta sicurezza. Certo c’è da valutare che le somme di denaro dilapidate negli anni per la manutenzione ordinaria e straordinaria di vecchie prigioni (alcune delle quali all’avanguardia nel Medioevo, altre costruite tra il Seicento e l’Ottocento) raggiunge vette impensabili. Solo una percentuale bassissima di strutture rispetta le norme dello Stato, cosi come previsto dal nuovo ordinamento penitenziario che impartisce regole ferree sul trattamento dei detenuti e sui locali che li ospitano. Soldi investiti per metà delle galere italiane che essendo antiquate, fatiscenti, sovraffollate, igienicamente a rischio, non andrebbero più utilizzate. Ma se l’organizzazione di queste strutture cambia, se l’attenzione per i detenuti segue la via dell’umanità, allora si intravede la luce in fondo al tunnel. Salerno: morto in carcere a causa di un infarto. Il perito: "poteva essere salvato" di Francesco Bove salernotoday.it, 5 febbraio 2017 Il medico legale Giovanni Zotti spiega nella relazione relativa alla morte di Ivan Gentile che si sarebbero potuti identificare i malesseri che l’uomo aveva avuto alcuni giorni prima della sua morte come sintomi dell’attacco cardiaco che lo ha ucciso. Ivan Gentile poteva essere salvato attraverso un’assistenza sanitaria più attenta: questa è la tesi della consulenza medica depositata in Procura relativa al caso del 43enne trovato morto nella sua cella nel carcere di Fuorni lo scorso novembre. Il medico legale Giovanni Zotti spiega, nella relazione preparata per la Procura, che alcuni semplici esami clinici avrebbero potuto identificare i malesseri che l’uomo aveva avuto alcuni giorni prima della sua morte come sintomi dell’attacco cardiaco che lo ha ucciso. Adesso sta ad Elena Cosentino, Sostituto Procuratore titolare del fascicolo valutare sulla necessità o meno di ulteriori approfondimenti sul caso. Sembra aggravarsi, quindi, la posizione della cardiologa dell’Asl in servizio presso la Casa Circondariale di Fuorni, al momento unica indagata nella vicenda. Modena: nel carcere Sant’Anna di casi di radicalizzazione islamica non segnalati Ansa, 5 febbraio 2017 Un documento interno - finora riservato - che circola da ottobre ha fatto emergere l’ipotesi dell’esistenza di alcuni casi di radicalizzazione islamica registrati nel carcere Sant’Anna di Modena, ma non segnalati a Digos e Ros. "La Casa circondariale - si legge nel documento - avrebbe omesso in alcuni casi di uniformarsi alle procedure più volte ribadite dagli organi dell’amministrazione penitenziaria: dare alla Digos e ai Ros le dovute informazioni (anche in presenza di scarcerazione di soggetti attenzionati)". A quanto risulta, dopo la denuncia interna sarebbero stati avviati accertamenti al Sant’Anna. Il documento, nel frattempo, è stato inviato a Roma: al capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Santi Consolo, al vice capo Massimo De Pascalis, al direttore generale del personale e delle risorse del Dap e al provveditore regionale. "Qualora ciò trovi riscontro nei fatti e corrisponda a verità - ha commentato una fonte dell’amministrazione penitenziaria - si tratterebbe di una circostanza di assoluta gravità, data l’elevata attenzione che il fenomeno terrorismo di matrice islamica riveste". Barcellona Pozzo di Gotto (Me): l’Ugl "carcere inadeguato, andrebbe chiuso" Agenpress, 5 febbraio 2017 Ieri mattina, Sebastiano Bongiovanni e Antonio Solano, dirigenti sindacali della Federazione Nazionale Ugl Polizia Penitenziaria, hanno visitato la Casa Circondariale di Barcellona Pozzo di Gotto (Me). I suddetti sindacalisti dell’Ugl, durante la visita, sono stati accompagnati dal Direttore del Carcere e dal Comandante della polizia penitenziaria. "Il Carcere di Barcellona Pozzo di Gotto non funziona, andrebbe ristrutturato per favorire la sicurezza delle donne e degli uomini della polizia penitenziaria nei vari posti di servizio. Se dovesse rimanere in queste condizioni, andrebbe immediatamente chiuso". Non usano mezzi termini i due esponenti del sindacato che denunciano l’esistenza di una situazione drammatica che l’Ugl Polizia Penitenziaria, nell’interesse dei lavoratori, non può tollerare. Secondo il sindacato, i reparti che ospitano i detenuti sono pressoché vetusti, non ci sono le docce all’interno delle celle ed i poliziotti sono costretti ad effettuare ore di straordinario per la mancanza di personale, ed operare in condizioni disumane e sotto il livello minimo di sicurezza. I segretari Bongiovanni e Solano chiedono di trasferire i detenuti all’interno del terzo reparto che risulterebbe vuoto e ristrutturato, così da favorire la sicurezza che, a quanto pare, sarebbe pregiudicata dalle assurde condizioni strutturali del carcere. Secondo Antonio Solano, il Carcere di Messina, con tutti i suoi noti problemi, risulterebbe comunque in condizioni migliori rispetto al vicino carcere di Barcellona Pozzo di Gotto. L’Ugl, in occasione della visita, ha quindi chiesto al Direttore del penitenziario Nunziante Rosania di porre in essere tutte le misure tassativamente prescritte dalla legge per tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei poliziotti del carcere di Barcellona Pozzo di Gotto. Il Segretario Nazionale dell’Ugl Polizia Penitenziaria Alessandro De Pasquale presenterà una nota al Capo del Dipartimento sulle condizioni del carcere, chiedendo un intervento immediato a tutela della sicurezza del personale e del carcere stesso. Orvieto (Pg): Comitato cittadino a difesa del carcere a custodia attenuata orvietosi.it, 5 febbraio 2017 Come annunciato, martedì 7 febbraio, il capo del Dap Santi Consolo (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) s’incontrerà in Comune con il Sindaco di Orvieto. L’iniziativa è stata assunta per chiarire gli aspetti della tensione e della polemica sorti intorno al destino e alle funzioni dell’Istituto Carcerario Orvietano. La vasta mobilitazione cittadina e delle rappresentanze sindacali che ha largamente condiviso l’azione dell’Amministrazione Comunale in difesa dell’ICA e del carcere stesso, è sorta dalla preoccupazione che su iniziativa del Direttore del carcere possa concludersi l’originale e importante esperienza di Custodia Attenuata, la cui istituzione aveva sollevato la speranza che Orvieto potesse rappresentare per l’intero mondo carcerario un modello di recupero morale e civile dei cittadini impegnati ad espiare colpe giudiziarie. Questo declassamento vanificherebbe gli sforzi e gli investimenti effettuati per la valorizzazione del laboratori e delle strutture che si sono dimostrati idonei allo sviluppo delle attività formative o produttive. A tale riguardo si è costituito un Comitato Cittadino a sostegno della permanenza di una struttura con funzioni ICA. Il Comitato si è rivolto al sindaco e successivamente al Ministro della Giustizia, convinto che il Progetto ICA rappresenti una straordinaria possibilità di reinserimento di cittadini che si trovano ad espiare colpe spesso dovute a difficoltà di integrazione nel tessuto sociale, per mancanza di risorse e strumenti di vita. A tale ragione è stato redatto un documento che illustra l’impegno a favore dell’ICA e soprattutto la sua funzione non solo in un’azione di solidarietà, ma nello spirito della Costituzione che al secondo comma dell’articolo 27 stabilisce la finalità rieducativa della pena. Il progetto ICA rappresenta anche una risposta concreta all’obiettivo della riforma penitenziaria del 1975, non sempre applicata. In conclusione, si ritiene opportuno affermare che le motivazioni addotte nella richiesta di ri-trasformazione dell’Istituto Penitenziario di Orvieto sono del tutto strumentali e ingiustificabili, non solo per l’interruzione di un progetto impegnato sul piano morale e civile, ma per lo spreco delle risorse pubbliche fin qui utilizzate. Riponendo tutte le aspettative del caso nell’incontro di martedì 7 febbraio, si ribadisce che l’organizzazione sperimentata dall’ICA ha assunto un’importante risorsa progettuale per l’intero sistema carcerario nazione, la cui realtà rappresenta non pochi esempi che assumono aspetti di drammaticità. Potenza: Sappe "carcere fra muffe crepe e fatiscenza, urgenti interventi di ristrutturazione" controsensobasilicata.com, 5 febbraio 2017 L’istituto penitenziario di Potenza risale a una costruzione del 1958 ed è stata dichiarata una struttura inadeguata alla vigente normativa in materia di edilizia penitenziaria, tanto che risulta essere nella lente di ingrandimento del Provveditorato Interregionale alle Opere Pubbliche per la Puglia e Basilicata per una probabile imponente ristrutturazione, in quanto non soddisfa gli standard previsti dalla vigente normativa. A darne notizia è Saverio Brienza, Segretario Regionale della Basilicata del Sappe (Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria), che in qualità di maggiore rappresentatività sindacale dei "baschi azzurri" non nega di essere molto preoccupato sulle conseguenze che le carenze strutturali possono generare sia rispetto alle condizioni lavorative dei poliziotti penitenziari che per quanto riguarda l’intera sicurezza statica degli edifici del Carcere di Potenza, anche in previsione di eventuali attività sismiche che potrebbero interessare proprio un territorio a rischio come quello della Basilicata. "Si tratta di un carcere, quello di Potenza -afferma Brienza - che è stato recentemente oggetto di verifiche igienico - sanitarie sia da parte dell’ASP Potenza - Dipartimento di prevenzione collettiva della salute umana - U.O.C. di igiene e sanità pubblica - e precedentemente anche dai N.A.S. dei Carabinieri, dove con molta probabilità sono state riscontrate delle carenze igienico sanitarie prevalentemente dovute alle vetuste condizioni strutturali del penitenziario, praticamente le stesse che il Sappe denuncia da anni. La Casa Circondariale di Potenza, oltre a non rispettare il D.P.R. 230/2000 nonostante siano trascorsi ben 16 anni dalla sua emanazione, gli ambienti di essa sono invasi da pareti con condensa e diffusa muffa dovuta alla continua risalita di umidità proveniente dal terreno, molte sono le crepe e spesso è poca l’illuminazione naturale; al piano terra del reparto giudiziario sono presenti addirittura dei tombini delle fognature dove confluiscono tutti gli scarichi di tutta la sezione utilizzata da oltre 100 detenuti, praticamente nello stesso ambiente dove i poliziotti penitenziari provvedono alla sorveglianza dei detenuti e chissà a quali conseguenze per la salute potrebbero essere sottoposti. Anche la Sezione femminile è invasa da una abbondante umidità, tanto che si è reso necessario dichiararne l’inagibilità di un intero piano, così come è toccata la stessa sorte anche al Reparto Osservazione, per non parlare di un impianto di riscaldamento che è come un colabrodo, tanto che per riscaldare sia tutti gli ambienti, sia l’acqua necessaria per le docce durante il recente periodo di intenso freddo che ha colpito il territorio, si è reso necessario tenere l’impianto termico attivo 24 ore su 24 per evitare proteste da parte dei reclusi. Anche il personale di Polizia Penitenziaria, prosegue Brienza, non sta nelle migliori dei modi, infatti oltre al fatto che gli ambienti destinati alla detenzione sono gli stessi dove gli operatori di Polizia effettivamente vi lavorano e quindi costretti a sopportare le medesime difficoltà dei detenuti, il personale in servizio presso la Casa Circondariale fruisce di una mensa di servizio assolutamente fatiscente, priva della necessaria dotazione strumentale e materiale così come è generalmente prevista nelle normali mense aziendali o di comunità e dove anche l’aspetto igienico è opinabile". Proprio per questo il segretario regionale Sappe qualche giorno fa ha inviato una nota scritta sia al Provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria per la Puglia e Basilicata - Dott. Carmelo Cantone - che al Direttore della Casa Circondariale di Potenza - Dr.ssa Maria Rosaria Petraccone - chiedendo loro quali intenzioni hanno in merito alle verifiche effettuate e quali interventi vogliono porre in atto per rimuovere le carenze accertate e consentire una condizione di vivibilità non solo per la popolazione detenuta ma anche per ripristinare le migliori condizioni lavorative del personale di Polizia Penitenziaria, visto che i lavori di ristrutturazione annunciati dalle Opere Pubbliche non sono ancora iniziate e non si conoscono realmente i termini di inizio. Trento: detenuto devasta la cella e ferisce quattro agenti Il Trentino, 5 febbraio 2017 Un detenuto con problemi psichici che brandisce una mazza di ferro auto-costruita. E che, dopo aver demolito (letteralmente) la cella, si è scagliato contro quattro agenti della polizia penitenziaria, ferendoli, prima di essere immobilizzato. Sembra una trama da film horror, con particolari (vedremo poi in stile "Silenzio degli Innocenti") ma è invece quanto accaduto ieri nella casa circondariale di Spini di Gardolo. Per qualche oscura ragione, qualche tempo fa è stato fatto tornare in città un detenuto di origine maghrebina che a Trento non ci sarebbe dovuto tornare. Durante la sua passata detenzione, un anno e mezzo fa, aveva tenuto un costante atteggiamento di sfida e di minaccia nei confronti degli operatori che lo aveva reso praticamente intrattabile: era conosciuto per essere un soggetto altamente instabile e si rapportava agli agenti con sputi e offese. Già un anno e mezzo fa aveva picchiato degli operatori, motivo per cui aveva collezionato ben 8 denunce in Procura. A seguito delle segnalazioni di quello che aveva combinato si era visto trasferire, allungare la pena e, per colmare la misura, era stato anche sottoposto ad un regime di isolamento molto duro per sei mesi. Con queste premesse, un detenuto con un simile passato, sarebbe dovuto tornare a Trento? Incredibilmente è successo: non appena è ritornato l’uomo ha subito fatto capire di volersi rivalere sugli agenti di Spini e ieri, intorno a mezzogiorno, il nordafricano ha cominciato a demolire in modo sistematico la propria cella. Dotato di una forza evidentemente non comune è riuscito a strappare la gamba del tavolo, dopo aver divelto la maniglia della finestra l’ha applicata in cima al pezzo di tavolo, fabbricandosi una rudimentale mazza ferrata. Ah, poi ha staccato il termosifone dal muro. A quel punto gli operatori (disarmati come prevede la legge) sono entrati nella cella per cercare di evitare altri guai: hanno dovuto affrontare l’energumeno e, prima di riuscire ad immobilizzarlo, quattro di loro hanno riportato ferite e contusioni per cui si sono fatti medicare al Santa Chiara. Morale: qualche cosa non ha funzionato ed un uomo che non doveva tornare in questo carcere ci è tornato. Ma quando scoppia un’emergenza tornano a fare impressione le cifre che parlano di una popolazione carceraria quasi doppia rispetto alla capienza e di un corpo di polizia penitenziaria cui mancano 80 operatori. Non serve una tragedia per correre ai ripari. Cremona: il Giubileo continua, "adozioni di misericordia" per i detenuti poveri di Laura Badaracchi Avvenire, 5 febbraio 2017 L’invito del vescovo a essere accanto agli ultimi. La risposta di associazioni e famiglie. Il Giubileo non è finito. Nella diocesi di Cremona guidata dal vescovo Antonio Napolioni continua con le "adozioni di misericordia" nei confronti dei detenuti poveri reclusi nel carcere cittadino, promosse dalla Caritas diocesana. L’iniziativa, lanciata al termine dell’Anno Santo, registra già adesioni e altre ne stanno arrivando; l’impegno è quello di donare 20 euro al mese per le necessità essenziali di chi è indigente e vive dietro le sbarre: circa un centinaio di uomini (un quarto del totale), per lo più giovani, spesso stranieri e soli in Italia. Vestiario e medicinali, ciabatte e scarpe, biancheria e prodotti per lavarsi, francobolli per spedire le lettere e qualche euro per pagare le telefonate internazionali alle famiglie rimaste all’estero. "Chi è che adotta? Donne nella maggioranza dei casi, più sensibili a queste problematiche. Un’insegnante, un’aderente all’Azione cattolica, altre persone fra i 40 e i 50 anni. A tutti verrà comunicato, tramite il nostro sito, un aggiornamento periodico sulla destinazione effettiva dei soldi: in pratica, una rendicontazione trasparente. Non si tratta di "adozioni" individuali, ma di un supporto a vari detenuti in difficoltà, con pene definitive e non", riferisce Marco Ruggeri, dal novembre 2013 diacono permanente. Sposato con Claudia, cinque figlie dagli 8 ai 18 anni, lavora da 13 anni nel penitenziario come educatore professionale ed è coordinatore del progetto. "Purtroppo riguardo ai detenuti notiamo ancora molte resistenze alla solidarietà - riflette. In passato abbiamo registrato diversi fallimenti, sentendoci dire da chi voleva fare una donazione che preferiva bambini e anziani, ma i detenuti hanno sbagliato e non meritano aiuti. Noi operatori e volontari facciamo tanta fatica per far capire che un sistema penitenziario così concepito è soltanto punitivo, costoso, ma non funziona, non garantisce sicurezza né giustizia riparativa. Mentre i dati ci dicono che i detenuti hanno un bassissimo tasso di recidiva se vengono messi di fronte a esperienze alternative, come il lavoro interno e altre attività". Per capire il dramma di tanti reclusi bisogna far cadere i pregiudizi e conoscere da vicino le loro situazioni: "In molti casi non hanno un grande profilo criminale, ma tante problematiche sociali, psichiatriche o di tossicodipendenza", racconta il diacono permanente, che sovrappone lavoro e ministero. Assicurando che non mancano relazioni conflittuali con i condannati. "Nei colloqui cerchiamo di avere un rapporto vero, autentico; non andiamo a dare una pacca sulla spalla, provare a smuovere qualcosa in loro. Ma è difficile farlo se d’inverno la persona che hai di fronte non ha neppure una giacca da indossare". Mentre spera che le "adozioni di misericordia" si moltiplichino, Marco coltiva un sogno: avviare la pet-therapy con gli asini fra le mura del penitenziario. "La relazione con un animale fa diminuire l’aggressività e il consumo di psicofarmaci. Sono certo che avremmo risultati straordinari avviando l’esperienza con un gruppo di detenuti". Taranto: Polizia penitenziaria, avvocati, magistrati e detenuti in "campo" di Elena Ricci Corriere di Taranto, 5 febbraio 2017 Rieducare attraverso una sana competizione sportiva. È questa la finalità principale del progetto "Fuori Gioco", ideato dall’avvocato Giulio Destratis e dalla dottoressa Loredana Mastrorilli. Si tratta di un progetto formativo riconosciuto istituzionalmente negli ambiti della rieducazione dei detenuti. Si fa leva sullo sport quindi, in questo caso il calcio, proprio per trasmettere ai detenuti un sano valore competitivo basato sul rispetto delle regole e sul rispetto reciproco. Lo sport unisce, ma in questo caso rieduca. Il progetto, giunto alla quarta edizione, è stato presentato questa mattina presso la Casa Circondariale di Taranto alla presenza della direttrice Stefania Baldassari, promotrice del progetto insieme al Comandante di Reparto, il commissario Elena Vetrano. Il progetto, di tipo riabilitativo, ed importante dunque per le finalità educative di inclusione sociale, è stato molto ampio e ha visto l’alternarsi di momenti pratici e teorici. Per quanto riguarda la parte teorica, se ne sono occupati Magistrati e avvocati che hanno spiegato ai detenuti le linee guida del calcio, con relativi aspetti civili e penali, in dodici lezioni. Presenti in conferenza stampa anche il magistrato del Tribunale di Taranto Martino Rosati; il centrocampista della nazionale magistrati Filippo Di Benedetto e il campione del mondo Claudio Gentile. Il progetto termina oggi con una partita di calcio presso lo Stadio "Erasmo Iacovone", tra le tre squadre di rappresentanza: detenuti, Polizia Penitenziaria, Magistrati e avvocati. Napoli: stazione di Gianturco, apre il centro per anziani e ragazzi ex detenuti di Gaetano Capaldo diariopartenopeo.it, 5 febbraio 2017 Ha aperto ieri mattina nella stazione di Napoli Gianturco il Centro Polifunzionale Sociale destinato a offrire assistenza ad anziani e organizzare attività di formazione e reinserimento per ragazzi ex detenuti. Alla cerimonia inaugurale erano presenti Luca Cascone, Presidente IV Commissione Consiliare Regione Campania, Adriano Giannola, Presidente Fondazione di Comunità del Centro Storico, Carlo Borgomeo, Presidente Fondazione con il Sud, Claudia Cattani, Presidente Rete Ferroviaria Italiana. I locali, rinnovati e arredati anche grazie al sostegno della Fondazione Bnl, della Fondazione Terzo Pilastro e di Fondazione con il Sud, comprendono un centro diurno per anziani gestito con il gruppo di imprese sociali Gesco, un’aula informatica, una zona formazione destinata all’inserimento lavorativo, un’ala interamente riservata alla creatività e alla cultura, e un luogo per la consulenza a famiglie e associazioni. La creazione del centro, sorto nel cuore della zona industriale di Napoli ma dedicato all’intera comunità, è avvenuta anche grazie alla collaborazione della Regione Campania. "Siamo orgogliosi di aver contribuito concretamente alla nascita del centro" - ha dichiarato Claudia Cattani, Presidente di Rfi - "e vorrei ricordare l’impegno in questo campo non solo di Rfi, che ha messo a disposizione l’intero primo piano con la formula del comodato d’uso gratuito, ma di tutte le società del Gruppo Fs Italiane sempre pronte a incoraggiare iniziative rivolte al sostegno delle categorie più deboli in ottica di shared value". "Vista mare. In fuga verso una nuova vita", di Andrea Castoldi recensione di Antonio Capellupo cinemaitaliano.info, 5 febbraio 2017 Il film di Andrea Castoldi con protagonista Arturo Di Tullio, racconta la storia di un ex detenuto in un’Italia in piena crisi economica. È più dura trascorrere i propri giorni dietro alle sbarre di una cella con solo un muro bianco davanti agli occhi, o fuori, tra le strade di un mondo a cui non senti più di appartenere? Stilitano è un detenuto finito dentro a causa di una condanna per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, che uscito per buona condotta si ritrova senza un soldo in una situazione di estrema crisi. Da ogni parte d’Italia i cittadini cercano di raggiungere la Puglia, regione militarizzata, per scappare illegalmente verso l’Albania, terra che sembra poter garantire un domani. È un futuro distopico non troppo distante quello immaginato da Andrea Castoldi nel suo "Vista Mare", che ribalta quanto storicamente accaduto nei primi anni 90, con le ondate di immigrati che dal porto di Durazzo sbarcavano a Brindisi, e si mischia alle tragedie delle morti in mare dei giorni nostri. La scelta narrativa di una vicinanza temporale, se da un lato permette di giocare su temi contemporanei come la crisi e l’immigrazione, dall’altro tende a rendere complicata la contestualizzazione politica e sociale, affidata, forse un po’ troppo semplicisticamente, ad espedienti come una trasmissione radiofonica o incontri fortuiti con amici di vecchia data. Lo Stilitano immaginato da Castoldi, e interpretato con equilibrio da un bravo Arturo Di Tullio, è dunque il protagonista del "romanzo di formazione" di un uomo di mezza età che una serie di scelte, giuste o sbagliate, legali o non, porteranno a far rinascere una seconda volta, proprio quando la vita sembrava essere finita per sempre. Papa Francesco: "Cambiare sistema", non basta il "buon samaritano" di Luca Kocci Il Manifesto, 5 febbraio 2017 Il Pontefice propone un riformismo radicale in un’ottica interna al sistema capitalistico. Papa Francesco ha incontrato ieri in Vaticano un migliaio di partecipanti all’incontro "Economia di comunione" (movimento nato all’interno dell’esperienza dei Focolari di Chiara Lubich, fondato in Brasile nel 1991) in corso fino ad oggi a Castel Gandolfo e ha colto l’occasione per parlare di nuovo dei mali del capitalismo. Senza suggerirne un suo superamento - del resto tutta la dottrina sociale della Chiesa si muove in un’ottica interna al sistema capitalistico -, ma denunciandone le disfunzioni e proponendo un riformismo radicale, perché "quando il capitalismo fa della ricerca del profitto l’unico suo scopo, rischia di diventare una struttura idolatrica, una forma di culto". "Non a caso - ha ricordato il papa - la prima azione pubblica di Gesù, nel Vangelo di Giovanni, è la cacciata dei mercanti dal tempio". I "mercanti" di oggi sono più astuti e cinici. "Il capitalismo continua a produrre gli scarti che poi vorrebbe curare, il principale problema etico di questo capitalismo è la creazione di scarti per poi cercare di nasconderli o curarli per non farli più vedere", ha detto Francesco. "Gli aerei inquinano l’atmosfera, ma con una piccola parte dei soldi del biglietto pianteranno alberi, per compensare parte del danno creato. Le società dell’azzardo finanziano campagne per curare i giocatori patologici che esse creano. E il giorno in cui le imprese di armi finanzieranno ospedali per curare i bambini mutilati dalle loro bombe, il sistema avrà raggiunto il suo culmine. Questa è l’ipocrisia!". Non è uno scenario futuribile quello delineato dal papa, ma già in atto da tempo. Fino a pochi anni, per esempio, Finmeccanica, la principale industria armiera italiana, finanziava il progetto Dream della Comunità di Sant’Egidio, un programma contro la fame e per la prevenzione e cura dell’Aids in Africa, dove finisce una discreta quota di armi italiane. E non c’è nemmeno bisogno di allontanarsi dal colonnato di San Pietro dal momento che Deutsche Bank, al primo posto nella classifica delle "banche armate" che fanno affari con le industrie armiere italiane, è una delle banche di appoggio del Vaticano. Non si tratta, secondo Francesco, di "curare le vittime", ma di "costruire un sistema dove le vittime siano sempre di meno, dove possibilmente esse non ci siano più". Come? Puntando a "cambiare le regole del gioco del sistema economico-sociale", perché "imitare il buon samaritano del Vangelo non è sufficiente". Certo, ha aggiunto il papa, "quando l’imprenditore o una qualsiasi persona si imbatte in una vittima, è chiamato a prendersene cura, e magari, come il buon samaritano, associare anche il mercato (l’albergatore) alla sua azione", ma "occorre agire soprattutto prima che l’uomo si imbatta nei briganti, combattendo le strutture di peccato che producono briganti e vittime". Il sistema è riformabile? Qualche dubbio pare averlo lo stesso Francesco: "Il capitalismo conosce la filantropia, non la comunione. È semplice donare una parte dei profitti, senza abbracciare e toccare le persone che ricevono quelle "briciole"", ha detto alla fine del suo discorso, indirizzato più ai singoli credenti che alle istituzioni economiche e politiche: "Il modo migliore e più concreto per non fare del denaro un idolo è condividerlo, condividerlo con altri, soprattutto con i poveri, o per far studiare e lavorare i giovani, vincendo la tentazione idolatrica", ha detto rivolgendosi agli aderenti ad Economia di comunione. Una cosa però si può fare subito, questa anche a livello politico: combattere l’evasione fiscale. La solidarietà, ha affermato il papa, "viene negata dall’evasione ed elusione fiscale, che, prima di essere atti illegali sono atti che negano la legge basilare della vita: il reciproco soccorso". Poche ore prima dell’udienza, nel centro di Roma erano comparsi decine di manifesti di contestazione a papa Francesco. Un primo piano di Bergoglio particolarmente accigliato, sotto una scritta in romanesco: "A Francè, hai commissariato Congregazioni, rimosso sacerdoti, decapitato l’Ordine di Malta e i Francescani dell’Immacolata, ignorato Cardinali… ma n’do sta la tua misericordia?". Anonimi come la pasquinate di antica memoria, la firma sembra evidente: settori ecclesiali conservatori e gruppi integralisti critici nei confronti della linea pastorale del papa. La crisi dei profughi nel 2016 è costata all’Italia 8,4 miliardi di Mario Sensini Corriere della Sera, 5 febbraio 2017 Il ministero dell’Economia replica alla Ue che contesta il debito elevato. Dopo i 3,8 miliardi del 2016, quest’anno si rischia di salire ala cifra record di 4,2 miliardi. Ieri le motovedette della Guardia Costiera ne hanno sbarcati 623: 251 a Porto Empedocle e 372 a Lampedusa. Stamattina è attesa ad Augusta la Nave Acquarius, con a bordo altri 783 migranti. Negli ultimi due giorni ne sono stati soccorsi nel mare del Canale di Sicilia, e accolti in Italia, circa 1.600. Ieri la Marina libica ne ha bloccati altri 400 a poche miglia da Sabrata, e nonostante gli accordi tra Tripoli ed il governo italiano, criticati anche dalla Cei, e i nuovi impegni presi dai leader europei al vertice di Malta, il flusso dei disperati dalle coste libiche verso il nostro Paese non si arresta. Verso il nuovo record - Dall’inizio dell’anno sono oltre 7 mila i profughi sbarcati in Italia, e di questo passo si batterà ogni record. Quello dei migranti accolti (176 mila nel 2016), ma anche quello della spesa pubblica necessaria per il soccorso e l’accoglienza, che secondo il governo contribuisce in modo determinante, insieme all’emergenza dovuta al terremoto, a mandare fuori linea il debito pubblico. Fino al punto da spingere Bruxelles a valutare una procedura d’infrazione alle regole sui conti pubblici. Il che sarebbe una doppia beffa per l’Italia, che da anni lamenta lo scarso impegno degli altri Paesi nel fronteggiare i flussi migratori. Nel 2017, 4,2 miliardi - In un rapporto appena inviato alla Commissione Europea sui "fattori rilevanti" che influenzano l’andamento del debito pubblico, il ministero dell’Economia sottolinea che quest’anno la spesa per l’immigrazione rischia di arrivare al record storico di 4,2 miliardi di euro. Nel 2016, al netto dei contributi della Ue (che sono stati pari ad appena 120 milioni) sono stati spesi 3,3 miliardi. Per il 2017 ne sono stati stanziati 3,8 e senza tener conto dei 200 milioni del "Fondo per l’Africa" per investire nei Paesi da cui partono i flussi di immigrazione più importanti. Ma quella prevista in bilancio è una cifra che "se il trend degli ultimi mesi dovesse continuare", si legge nel Rapporto, potrebbe crescere di altri quattrocento milioni. Spesa "eccezionale" - Si spenderà il triplo rispetto alla media degli anni tra il 2011 e il 2013, prima dell’esplosione della crisi migratoria: tra 2,9 e 3,2 miliardi in più. Se poi si considera la maggior spesa in termini cumulati la dimensione dei costi sostenuti dall’Italia per l’emergenza assume proporzioni gigantesche. Secondo il ministero dell’Economia, dal 2014 al 2017 lo Stato avrà speso tra 8 e 8,4 miliardi di euro in più rispetto al periodo 2011-2013. L’Italia pretende che questa spesa sia considerata "eccezionale" e dunque non conteggiata nel calcolo del disavanzo annuale monitorato per verificare il rispetto degli impegni di bilancio. La Commissione, però, è disposta a riconoscere come "eccezionale" non tutta, ma solo la spesa eccedente rispetto all’anno prima. In ogni caso, che pesi o meno sul deficit pubblico, la spesa si scarica sul debito. Nel 2017, sottolinea il rapporto, la spesa per l’accoglienza è stimata in 2,3 miliardi di euro (1,9 l’anno scorso), quella per il soccorso in mare e i trasporti sarà pari a 860 milioni di euro (nel 2016 furono 913). L’assistenza sanitaria costerà 250 milioni, l’educazione (nel 2016 sono arrivati anche 26 mila minori non accompagnati) 310 milioni. Stati Uniti. Il dipartimento di Giustizia presenta ricorso contro lo stop del bando ai migranti La Stampa, 5 febbraio 2017 Il dipartimento della Giustizia degli Stati Uniti ha presentato un ricorso contro la decisione del giudice federale di Seattle James Robart, al fine di ripristinare l’ordine esecutivo che Donald Trump aveva firmato il 27 gennaio, cioè il cosiddetto "travel ban" che vietava l’ingresso negli Usa ai rifugiati e ai cittadini provenienti da sette Paesi a maggioranza musulmana (Iran, Siria, Iraq, Somalia, Sudan, Yemen e Libia). Il giudice di Seattle aveva sospeso quel decreto ma il dipartimento di Giustizia, nel presentare il ricorso, sostiene che quella decisione costituisca un pericolo immediato per il pubblico. Il ricorso passa adesso al vaglio di un panel di tre giudici, che potrà intervenire in ogni momento per confermare l’ordine esecutivo o sospenderlo in attesa della valutazione complessiva. La decisione non ha una tempistica stabilita. I tre giudici membri del panel sono stati nominati dall’ex presidente repubblicano George W. Bush e dai due ex presidenti democratici Jimmy Carter e Barack Obama. Ieri Trump aveva criticato su Twitter la decisione del giudice Robart: "L’opinione di questo cosiddetto giudice, che essenzialmente porta via dal nostro Paese l’applicazione della legge, è ridicola e sarà ribaltata", aveva scritto. Poi, parlando con i giornalisti in Florida dove si trova per il fine settimana, aveva detto ancora: "Vinceremo. Per la sicurezza del nostro Paese, vinceremo". In un’intervista all’emittente Abc che dovrebbe andare in onda oggi, il vice presidente Usa Mike Pence ha detto che non pensa che le critiche di Trump al giudice di Seattle indeboliscano la separazione dei poteri. Il pronunciamento del giudice di Seattle è giunto a seguito di un’azione legale intentata dallo Stato di Washington, in cui Seattle si trova, e sostenuta da Amazon.com ed Expedia Inc. Si tratta di una delle tante azioni legali avviate contro il "travel ban" di Trump in tutti gli Stati Uniti, ma è il primo caso che ha portato a una decisione di validità su scala nazionale. Armi da Londra all’Arabia Saudita: in arrivo la pronuncia dell’Alta corte di Riccardo Noury Corriere della Sera, 5 febbraio 2017 La prossima settimana l’Alta corte del Regno Unito stabilità se il governo di Londra ha agito legalmente o meno inviando armi all’Arabia Saudita, paese pesantemente coinvolto nel conflitto dello Yemen, in corso dal marzo 2015, e responsabile di ripetuti crimini di guerra e contro l’umanità. Valore dei trasferimenti: 3,3 miliardi di sterline. L’azione giudiziaria è stata promossa dalla Campagna contro il commercio di armi. Amnesty International, Human Rights Watch, Right Watch Uk e Oxfam presenteranno alla Corte prove sulle violazioni del diritto internazionale umanitario commesse dall’Arabia Saudita nella guerra dello Yemen. Le organizzazioni non governative ricorderanno all’Alta corte, semmai ce ne fosse bisogno, che le leggi britanniche, il Trattato internazionale sul commercio delle armi e il diritto consuetudinario obbligano il governo di Londra ad assicurare che i suoi trasferimenti di armi non contribuiscano alla commissione di crimini di guerra. Contro lo Yemen, l’Arabia Saudita ha impiegato persino armi vietate di per sé dal diritto internazionale, a prescindere dal destinatario e dall’uso. Come è noto, all’Arabia Saudita ha inviato armi anche l’Italia - per l’esattezza tonnellate di bombe - dalla fabbrica italiana dell’azienda tedesca RWM. Su questi trasferimenti sta indagando la procura di Brescia. La situazione nello Yemen è sempre più tragica. Il numero dei civili uccisi nei bombardamenti ha da tempo superato i 10.000, un’ampia parte dei quali erano bambini. Nelle ultime settimane, ha denunciato l’inviato speciale Onu per lo Yemen Ismail Ould Cheikh Ahmed, c’è stata una "pericolosa escalation" delle operazioni militari con pesanti conseguenze per la popolazione yemenita. Brasile. La laurea che ti salva dal carcere di Daniele Mastrogiacomo La Repubblica, 5 febbraio 2017 In Brasile non tutti sono uguali davanti alla legge. Soprattutto per quel che riguarda le carceri. Ci sono detenuti comuni: banditi, assassini, trafficanti, corrotti, violentatori. E poi ci sono i detenuti laureati: quelli in possesso di un titolo di studio universitario. La differenza non si basa sui privilegi che un giudice concede a sua discrezione. È stabilita da una precisa norma, inserita nel Codice di procedura penale, che risale al 1941. Fa parte di quelle misure che hanno da sempre diviso il paese in ricchi e poveri, primi e ultimi, padroni e schiavi. I requisiti sono stati poi estesi a professioni, categorie, ruoli, funzioni in una sorta di Cabala dove la tua detenzione è decisa dal destino. Se hai potuto studiare, sei in possesso di una laurea, magari di un master, o sei semplicemente un avvocato, un poliziotto, un giudice, un pm, un membro di una Chiesa evangelica, un ambasciatore, un parlamentare, un assessore, un sindaco, un governatore o hai fatto anche solo una volta parte di una giuria popolare, allora hai diritto ad una cella confortevole, da dividere con un compagno. Hai acqua tutti i giorni, un bagno privato, una tv; puoi usare il cellulare, 12 ore di aria, cella aperta; ricevere visite di avvocati e familiari, pacchi speciali, avere a disposizione un pc e l’accesso alla rete. Se invece sei uno dei tanti, senza titolo di studio e senza un mestiere alle spalle, allora ti ritrovi in celle di cinque metri per cinque con altri 30 compagni. Letti a castello, su tre piani, materassini di gomma da buttare sul pavimento nello spazio che ti riesci a conquistare. Eike Batista, l’ex miliardario brasiliano arrestato la scorsa settimana per aver pagato una tangente milionaria all’ex governatore di Rio Sergio Cabral, ha rischiato fino all’ultimo di finire in uno di quegli inferni che sono le carceri del paese. Appena rientrato da New York dove era andato a chiudere i suoi affari e dove era stato raggiunto da un ordine di cattura internazionale, si è tagliato i capelli a zero, ha indossato una maglietta bianca e a testa bassa, le manette strette dietro la schiena, si è preparato al peggio. Perché non aveva finito l’università e non aveva mai preso la laurea in ingegneria. I suoi due avvocati hanno dovuto faticare per convincere il giudice ad una deroga. Ma gli sforzi sono serviti a poco. La legge è legge e va rispettata. Niente laurea, niente cella speciale. Solo la sua posizione di imputato eccellente, testimone decisivo nell’inchiesta Lava Jato, e il rischio di essere aggredito da altri detenuti senza arte né parte, gli ha evitato il peggio. Un’eccezione che ha sollevato molte polemiche. Perché altri, anche loro senza titolo di studio superiore, sono stati buttati nella mischia del carcere comune. Come la moglie dell’ambasciatore greco ucciso dal suo amante. Françoise Amiridis aveva solo la licenza liceale. Il giudice è stato irremovibile e adesso la donna deve guardarsi tutti i giorni le spalle per non essere accoltellata da qualche altra detenuta. Negli anni qualcuno ha tentato di inserire nella lista dei privilegiati anche altre professioni. Come sindacalisti, insegnanti, infermieri. Ma le proposte sono state bocciate. Nel 2015 il procuratore generale Rodrigo Janot ha depositato presso il Tribunale Superiore Federale una proposta per abolire i requisiti giudicando la legge incostituzionale. Il caso era stato affidato nell’ottobre del 2016 al giudice Teori Zavascki. È morto in un incidente aereo due settimane fa. Romania. Il governo ritira il decreto salva-corrotti ma continua la protesta Corriere della Sera, 5 febbraio 2017 Dopo la decisione di depenalizzare il reato di abuso d’ufficio e altri legati alla corruzione, migliaia di cittadini sono scesi in piazza a Bucarest e in altre città. Dopo cinque giorni di manifestazione - circa 250mila i partecipanti ogni notte - il governo ha deciso di revocare il decreto d’urgenza cosiddetto "salva-corrotti". Una legge che prevedeva la depenalizzazione di alcuni reati di corruzione, tra cui l’abuso d’ufficio. Lo ha annunciato Kalin Tariceanu, leader di Alde, partner di coalizione del partito socialdemocratico al potere. E lo ha poi confermato il premier Sorin Grindeanu. "I contenuti non sono stati trasmessi in modo corretto, ciò ha creato confusione, quindi il ministero e il ministro della Giustizia si assumono la responsabilità delle conseguenze", ha detto. Ma le proteste non si placano: nonostante l’annuncio sono scese in piazza, per il quinto giorno consecutivo, circa 300mila persone. Di cui 200mila si sono radunate davanti alla sede del parlamento, continuando a urlare "ladri" e "traditori". Si chiedono le dimissioni e nuove elezioni, nonostante il partito socialdemocratico sia al potere da appena un mese, dopo il voto di dicembre. Le più grandi proteste dal 1989 - La decisione di non eliminare dal penale alcuni reati di corruzione ha scatenato le più grandi proteste sin dalla fine del comunismo in Romania, nel 1989. Proteste che hanno ottenuto l’effetto voluto: il decreto d’urgenza sarà ritirato. Ma il presidente Grindeanu vuole comunque portare avanti una consultazione per trovare una soluzione condivisa con l’opinione pubblica sulla riforma della giustizia. "Non voglio dividere la Romania - ha detto - un Paese che oggi sembra spaccato in due". Per metà febbraio era atteso il giudizio sulle legalità della legge della Corte Costituzionale. Il decreto era stato approvato a sorpresa nella notte del 31 gennaio e depenalizzava i casi di corruzione se causano perdite allo Stato inferiori di 44mila euro. Un indulto correlato inoltre riguarda 2.700 detenuti per reati minori, anche per corruzione, motivato dal governo con l’esigenza di svuotare le carceri sovraffollate. Tibet. Trascorre quattro anni in carcere per aver scritto canzoni patriottiche Asia News, 5 febbraio 2017 La breve latitanza e l’arresto nel 2012. La gioia dei tibetani per il rilascio del cantante, autore di canzoni in onore del Dalai Lama. Rilasciato anche un monaco. Le autorità del Sichuan, provincia sud-occidentale della Cina, hanno disposto la scarcerazione di un cantante tibetano, detenuto quattro anni per aver scritto canzoni che lodavano il Dalai Lama e sottolineavano la durezza della vita sotto la legge di Pechino. Amchok Phuljung, la cui produzione musicale era molto popolare, prima dell’arresto, nelle aree tibetane della Cina, è stato rilasciato il 2 febbraio dalla prigione di Mianyang dopo aver scontato in carcere l’intera pena. Lo riferisce una fonte che vive nella regione e che ha informato sull’accaduto la RFA’s Tibetan Service. Parlando in condizioni di anonimato, la fonte ha dichiarato: "Le autorità cinesi hanno informato la sua famiglia della liberazione alcuni giorni prima, e hanno avvertito che nessuno si sarebbe dovuto recare in carcere per accoglierlo". "Ma quando Amchok Phuljung è arrivato nel suo villaggio di origine, nella contea di Marthang [Hongyuan, in cinese], ha ricevuto una calorosa accoglienza e ad attenderlo c’erano molte persone, sciarpe cerimoniali e canti in suo onore". L’informatore afferma che Phuljung fu preso in custodia dalle autorità cinesi il 3 agosto 2012, dopo un breve periodo di latitanza. L’arresto avvenne in una sala da thè della contea di Barkham (Màerkang in cinese, nel Sichuan), e all’inizio fu tenuto segreto fino alla sentenza e al trasferimento alla prigione di Mianyang, dove ha scontato la sua pena. "Prima della sua detenzione, Amchok Phuljung aveva pubblicato cinque album di musica che comprendeva canti patriottici tibetani, cosa che ha accrebbe la sua popolarità tra i fan". Un amico del cantante aveva raccontato a Rfa che, tra le 13 canzoni rilasciate nel quinto DVD di Phuljung, ve ne erano alcune di lode al leader spirituale in esilio, il Dalai Lama, e il primo ministro Lobsang Sangay, anch’egli in esilio. Le autorità cinesi considerano il Dalai Lama e Lobsang Sangay pericolosi separatisti e puniscono con durezza ogni espressione di sostegno ad entrambi da parte dei tibetani che vivono sotto il governo di Pechino. Un’altra fonte ha riferito che nel frattempo le autorità hanno liberato anche un monaco tibetano imprigionato nel 2013 dopo essere stato coinvolto in una protesta di auto-immolazione contro il dominio cinese nelle regioni tibetane. La fonte di Rfa, anch’essa in condizioni di anonimato, ha raccontato che il rilascio è avvenuto il 31 gennaio. Yonten, monaco 37enne del monastero di Thangkor Soktsang, nella contea di Dzoege (Ruo’ergai), nel Sichuan, è stato scarcerato dopo aver scontato la sua intera condanna di tre anni e sei mesi di carcere. "È tornato alla casa della sua famiglia ed è in buona salute", prosegue la fonte: "In questo momento si sta riposando e presto tornerà al suo monastero per riprendere i suoi studi". Yonten era uno dei cinque tibetani presi in custodia a seguito della protesta di auto-immolazione del monaco 18enne Konchok Sonam, che si diede alle fiamme il 20 luglio 2013 in nome della libertà del Tibet. La madre di Sonam e il suo insegnante del monastero erano tra I cinque arrestati, ma furono rilasciati il 22 luglio dopo un interrogatorio della polizia.