Camere paralizzate, riforme al palo di Giovanna Casadio La Repubblica, 4 febbraio 2017 Le divisioni tra le forze di maggioranza e l’incertezza politica stanno frenando l’attività dei parlamentari. In stand by diversi provvedimenti che rischiano di perdere pezzi o, peggio, di non arrivare mai al traguardo. Funziona così, dopo le 14 di giovedì, di ogni giovedì, scatta il liberi tutti in Parlamento. Non è quindi una sorpresa se giovedì scorso la legge delega di riordino della Protezione civile, questione cruciale dopo le tragedie del sisma, sia rimasta al palo perché al Senato mancava il numero legale, cioè il numero indispensabile di senatori per votare. Un concorso di colpe, che va dall’abitudine del trolley e della settimana corta, alla rivincita dei verdiniani ("Il nostro gruppo è determinante"), all’incertezza politica. "Navighiamo a vista". Ammettono deputati e senatori del Pd. Il partito di maggioranza è in fibrillazione tra l’accelerazione per andare alle urne a giugno e i frenatori pro governo Gentiloni. Morale della favola: l’incertezza genera paralisi. Dopo la figuraccia del flop del numero legale di giovedì scorso - in cui ciliegina sulla torta è stata l’aula deserta con soli 13 senatori ad ascoltare il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan - è arrivato ieri ai senatori dem un sms dal gruppo: allarme rosso, obbligatoria la presenza da martedì (quando si ricomincia il lavoro parlamentare) "senza eccezione alcuna, anche governo, annullate tutte le missioni e i congedi". Nell’aula di Palazzo Madama ci sono Protezione civile e poi decreto banche e il Mille Proroghe nella prossima settimana, che devono completare il passaggio nelle commissioni. E quella Affari costituzionali è da quasi due mesi senza presidente, condizione non ideale per affrontare i provvedimenti più delicati. Un esempio. La legge sullo ius soli, la cittadinanza ai figli di immigrati, è sempre più lontana, nonostante sia attesa da 15 anni e nel 2015 abbia avuto l’ok della Camera. Bloccata la legge sull’omofobia; cantiere mai ultimato per la legge sul doppio cognome per i figli. Ma è sul pacchetto "processo penale" che la strada si fa stretta e scivolosa per una maggioranza divisa. Al palo la legge sulla povertà. E passiamo alla Camera. Qui la prova regina è rappresentata dalla legge elettorale. Se non si sblocca la trattativa, il rischio è di tenere in ostaggio l’intero calendario dei provvedimenti. Ma, assicura il deputato dem Emanuele Fiano, giovedì si incardinano le varie proposte in commissione per andare in aula il 27 o poco dopo. Montecitorio deve accelerare sui decreti, a partire da quello sul Mezzogiorno. Deve affrontare subito la Responsabilità professionale dei medici, in ballo da tre legislature. Non può più fare melina sul testamento biologico, slittato ancora di qualche settimana ma formalmente il 20 febbraio in aula. Nell’incertezza, alcuni punti fermi. Della legge sulla cannabis non se ne farà più nulla. Gli stessi dem hanno chiesto che la proposta sia derubricata solo all’uso terapeutico. "Comunque, se si evitano le urne anticipate, si riesce a portare a casa riforme", sostiene Pino Pisicchio (Gruppo Misto). Lo scontro Pd-alfaniani congela il piano giustizia di Liana Milella La Repubblica, 4 febbraio 2017 Tortura, diffamazione, codice antimafia, le riforme del processo penale, del civile, del fallimentare. Cantieri aperti che rischiano, per le frizioni tra Pd e alfaniani, di restare tali. Il reato di tortura? Una chimera da anni. Il Senato ne vota una versione il 5 marzo 2014. Sì della Camera il 9 aprile 2015. Poi lettera morta. Idem per la diffamazione che cancella la vergogna delle manette per i giornalisti. Il 29 ottobre 2014 l’ok del Senato, il 25 maggio 2015 della Camera. Poi la diffamazione si "perde" a palazzo Madama. Stessa sorte per la riforma del processo penale: il 24 marzo 2015 la Camera licenzia la prescrizione doppia per la corruzione tra i fulmini di Ncd. Il 9 settembre via libera di Montecitorio alla riforma del penale con la stretta sulle intercettazioni. Al Senato i due testi vengono unificati, mentre viene sacrificato il ddl sul rito abbreviato che lo vieta per i reati gravi. Dopo le pressioni del Guardasigilli Orlando è in aula dal 21 febbraio. In sonno il nuovo codice Antimafia. La Camera lo licenzia l’11 novembre 2015. Giace al Senato. Idem (sì della Camera il 10 marzo 2016) per il nuovo processo civile frutto della commissione Berruti. Nessuna speranza per la riforma del Fallimentare, licenziata a Montecitorio una settimana fa. "Ius soli" fermo al Senato sotto il peso di 7mila emendamenti di Vladimiro Polchi La Repubblica, 4 febbraio 2017 La legge sullo ius soli è ferma al Senato da 15 mesi. Oggi chi nasce in Italia da genitori stranieri resta straniero fino alla maggiore età. Di una riforma della cittadinanza (la legge è ferma al 1992) si parla da anni. Il 13 ottobre 2015 la Camera ha approvato lo ius soli temperato, che consente ai figli di immigrati nati o cresciuti qui di diventare italiani. Da allora però il testo è rimasto chiuso nei cassetti della commissione Affari costituzionali del Senato, sotto il peso di 7mila emendamenti presentati in gran parte dalla Lega Nord. Mercoledì scorso la conferenza dei capigruppo ha deciso che i senatori dovrebbero iniziarne l’esame a partire dal 14 febbraio, ma solo dopo il termine dei lavori in commissione. Insomma tempi lunghi, tanto che l’associazione degli "Italiani senza cittadinanza" si prepara a tornare in piazza il 28 febbraio a Roma per protesta. E ancora: per i minori stranieri non accompagnati le cose vanno solo un pò meglio. Nel 2016 sono arrivati via mare in Italia ben 25.800 ragazzi soli, più del doppio rispetto al 2015. La legge che cambia le regole per la loro accoglienza, approvata dalla Camera il 27 ottobre 2016, è oggi in discussione proprio presso la commissione Affari costituzionali del Senato. Luca Ponz (Vicepresidente Anm): "sul ddl penale il governo ascolti noi magistrati" di Errico Novi Il Dubbio, 4 febbraio 2017 L’Associazione magistrati a un certo punto si è vista travolta da un’incombenza importante ma certo non esclusiva: esprimere pareri sulle scelte del legislatore. È per questo che poco meno di un anno fa il "sindacato" dei giudici ha deciso di dotarsi di commissioni di studio, istituite anche per valutare le proposte di nuove leggi. Da uno di questi organismi arriverà a breve "un parere articolato sul ddl di riforma del processo penale", spiega il vicepresidente dell’Anm Luca Poniz. Giusto in tempo per la ripresa dei lavori al Senato e per chiarire una volta per tutte "la critica molto forte sulla norma che prevede l’avocazione obbligatoria da parte della Procura generale nei casi in cui la Procura ordinaria non eserciti l’azione penale entro tre mesi: una previsione sbagliata. Lo abbiamo già detto, lo ribadiremo nell’auspicio di essere ascoltati". Poniz, che al vertice dell’Anm rappresenta la magistratura progressista di "Area" e che è sostituto procuratore a Milano, ne parla con tono nello stesso tempo pacato e deciso. Avete trovato difficoltà nell’interlocuzione con il governo e il ministro della Giustizia? I governi sono stati due, anche se c’è continuità nella figura del ministro della Giustizia. E anche all’inaugurazione dell’Anno giudiziario a Milano il presidente dell’Anm ha riconosciuto al guardasigilli la capacità di volare alto. Aggiungo che i magistrati hanno condiviso diverse sue iniziative: l’attenzione ai diritti, i provvedimenti necessari e giusti per i detenuti, il lavoro compiuto sui circondari e nella ricerca di soluzioni che favorissero l’efficienza. E proprio alla luce di tutto questo che altre cose, assai meno condivisibili, sono sorprendenti. Facciamo l’elenco... No, prendiamo in considerazione un fatto ben preciso: il decreto dell’agosto scorso che è intervenuto tra l’altro sul trattenimento in servizio di alcuni magistrati. Una provvedimento che nessuno ha difeso, se non d’ufficio, e che, mi consenta di aggiungere, contiene un uso sorprendente di atti normativi tutt’altro che connotati nel senso della generalità e dell’astrattezza, come dovrebbe essere, ma in modo così specifico da sembrare provvedimenti amministrativi. A un certo punto era sembrato che a quel decreto si potesse porre rimedio... Siamo stati convocati a Palazzo Chigi dopo che il decreto era già stato convertito in legge con la fiducia. Noi non ci siamo posti in modo pregiudizialmente ostile, premier e ministro hanno preso degli impegni che poi, ci ha detto Orlando, non è stato possibile mantenere per il cambio al vertice dell’esecutivo. Ecco, non mi piacciono le generalizzazioni ma questo è altri aspetti hanno reso difficile il dialogo. Al punto che il comitato direttivo dell’Anm convocato per il 18 febbraio potrebbe decidere per uno sciopero bianco? Non posso e non voglio rispondere: come giunta esercitiamo una funzione di rappresentanza e non possiamo anticipare gli orientamenti che dovranno essere espressi dagli altri colleghi nel comitato direttivo centrale. Ritengo che abbiamo scritto una pagina importante con la linea assunta all’inaugurazione dell’Anno giudiziario, una scelta simbolica e nello stesso tempo commisurata a quanto era accaduto. E il 18 potreste trovarvi a trarre le conclusioni anche dalla mancata modifica della norma sull’avocazione obbligatoria, contenuta nel ddl penale e attesa in Senato proprio in quei giorni... Noi a breve consegneremo a governo e Parlamento il parere della nostra commissione. Una mancata attenzione ai nostri rilievi sarebbe forse il dato più sorprendente. O ci convincono che quella norma è miracolosa, ma dubito possano riuscirci, o consegneremo la nostra ferma risposta. Deciderà la nostra associazione. Offriamo sempre in anticipo le osservazioni sui provvedimenti. E non credo che le nostre reazioni possano essere considerate scomposte. Giudica inadeguata, nel suo complesso, la riforma penale? Abbiamo già chiarito una valutazione che aveva suscitato sorpresa nel governo, in particolare quella frase con cui il presidente Davigo aveva parlato di una riforma ‘ inutile se non dannosà. Il disegno di legge è molto ampio e contiene anche parti a nostro giudizio condivisibili. Il giudizio negativo riguardava alcuni aspetti, in particolare la ricordata norma sull’avocazione obbligatoria. La consideriamo sbagliata perché introduce un controllo gerarchico della Procura generale da tempo scomparso e soprattutto perché va nel senso opposto a quello, dichiarato, di voler rafforzare l’effettività dell’azione penale: la Procura generale ha un organico inferiore, non dispone di una polizia giudiziaria propria e a mala pena riesce a svolgere le funzioni che le sono proprie. Il giudice di Milano Guido Salvini ha detto in un’intervista al "Dubbio" che i problemi di organico si risolvono eliminando gli incarichi fuori ruolo dei magistrati: è d’accordo? Non ho letto l’intervista e in ogni caso su un tema simile rispondo in base a un’opinione personale, non da vicepresidente dell’Anm. Da tempo molte componenti dell’Associazione ritengono si debba rivedere la disciplina dei fuori ruolo, personalmente credo che gli incarichi dovrebbero limitarsi a quelli strettamente collegati con la giurisdizione, con organi di rilievo costituzionale o sovranazionale. Soprattutto perché quando si è collocati fuori ruolo ci si può allontanare dall’abitudine al ragionamento che ha il magistrato impegnato nella giurisdizione, e avvicinarsi a un approccio più politico. Da ultimo, il rafforzarsi di "Area" come vero e proprio gruppo associativo porterà davvero a uno scioglimento di Magistratura democratica, da cui lei proviene? La segretaria generale ha già ben risposto. Md ha fatto un congresso a novembre e ha escluso di volersi sciogliere: ha stabilito così non in conflitto con "Area" ma nella logica di un suo rafforzamento. Certo, è mutato il mondo ed è mutata la magistratura, e oggi più che su un superamento di Md si deve riflettere su un ripensamento dell’Anm. Soprattutto sulla priorità dell’attenzione ai diritti, alla giurisdizione come servizio. Tutte ragioni che rendono necessaria l’idea di una magistratura progressista. Il congresso di "Area" che si terrà a Napoli costituirà una verifica importante. Certo è che a me non interessa sapere se Md esisterà ma che le ragioni per cui è esistita ed esiste vengano trasferite e restino patrimonio dei gruppi in cui mi riconoscerò. Giovanni Fiandaca: "il populismo giudiziario non è diritto e i magistrati non sono tribuni" di Giulia Merlo Il Dubbio, 4 febbraio 2017 "Sentenza populista" è solo l’ultima esternazione - pronunciata da un difensore per definire l’esito di un procedimento penale - che associa il populismo alla giustizia. Un legame complesso, che affonda le radici nella storia del nostro Paese e nell’indissolubile connubio tra politica e diritto. "Una tendenza - quella del populismo penale - che porta, sul versante politico, alla strumentalizzazione del diritto penale, con l’impiego della punizione come medicina per ogni malattia sociale; su quello giudiziario alla pretesa del magistrato di assumere il ruolo di autentico interprete delle aspettative di giustizia del popolo" è la tesi di Giovanni Fiandaca, professore ordinario di diritto penale presso l’Università di Palermo e autore del saggio Populismo politico e populismo giudiziario. Cominciamo dalla locuzione "populismo penale". Lei lo considera un concetto improprio? Il concetto di populismo si presta, nella sua potenziale estensione, a ricomprendere fenomeni molto diversi e può, perciò, essere piegato anche ad usi impropri. In un mio saggio del 2013 ho provato a mettere insieme alcuni spunti di riflessione sul populismo penale, distinguendone due possibili forme che peraltro non sono necessariamente destinate a manifestarsi in forma congiunta, nel senso che l’una può mantenere una certa autonomia rispetto all’altra: alludo da un lato al populismo penale "politico-legislativo" e, dall’altro, al populismo penale "giudiziario". Il primo sottintende l’idea di un diritto penale utilizzato come risorsa politico-simbolica per lucrare facile consenso elettorale in chiave di rassicurazione collettiva rispetto a paure e ansie prodotte dal rischio- criminalità, specie quando la fonte di tale rischio viene identificata nel "diverso", nello straniero, in quell’ immigrato extracomunitario che finisce con l’assumere il ruolo di nuovo nemico della società da controllare, punire e bandire: insomma, inasprire la risposta punitiva nei confronti del presunto nemico significa farsi populisticamente carico del bisogno di sicurezza del popolo sano, a difesa di una sorta di "ideologia del guscio" e di una supposta identità culturale (e perfino razziale!) che rischierebbe di essere inquinata dai nuovi barbari. In questo che lei chiama "farsi carico populisticamente del bisogno di sicurezza" rientra anche la creazione di nuove fattispecie di reato? Sì, in generale può parlarsi di populismo penale in tutti i casi, in cui i politici assecondano la tentazione di creare nuovi reati o inasprire reati preesistenti allo scopo di dimostrare alla gente di volere combattere sul serio e in modo drastico i diversi mali che affiggono la società. Insomma, la risposta punitiva rappresenta uno strumento non solo apparentemente risolutore proprio perché energico, ma anche molto comunicativo perché semplice, facilmente comprensibile da tutti nella sua elementare simbologia; inoltre, essa canalizza pulsioni vendicative e sentimenti di indignazione morale diffusi a livello popolare e, ancora, esime la politica dalla ricerca di strategie di intervento più costose e tecnicamente più appropriate. Questa ricorrente tendenza alla strumentalizzazione politica del diritto penale, e all’impiego della punizione come medicina quasi per ogni malattia sociale è stata, non a caso, esplicitamente criticata anche da Papa Francesco. E veniamo ora alla seconda forma di populismo penale, il populismo giudiziario... Il "populismo giudiziario", quale specifica forma di manifestazione del populismo penale sul versante della giurisdizione, è un fenomeno che ricorre tutte le volte in cui il magistrato pretende di assumere il ruolo di autentico rappresentante o interprete dei veri interessi e delle aspettative di giustizia del popolo (o della cosiddetta gente), e ciò in una logica di concorrenza- supplenza, e in alcuni casi di aperto conflitto con il potere politico ufficiale. Questa sorta di magistrato-tribuno, che pretende di entrare in rapporto diretto con i cittadini, finisce col far derivare la principale fonte di legittimazione del proprio operato, piuttosto che dal vincolo alle leggi scritte così come prodotte dalla politica, dal consenso e dall’appoggio popolare. Viene automatico chiederle: possiamo fare qualche esempio, più o meno recente? Esemplificazioni concrete d’un tale populismo giudiziario non è difficile rinvenirne, ieri come oggi. È fin troppo facile individuarne un modello prototipico nell’Antonio Di Pietro protagonista di "Mani pulite". Anzi, direi che proprio Di Pietro ha acceso la miccia di un populismo destinato, successivamente, a proliferare in forme anche più direttamente politiche. Aggiungo, incidentalmente, che sarebbe anche maturato il tempo per effettuare un autentico bilancio critico degli effetti politici ad ampio raggio - alcuni dei quali, a mio giudizio, del tutto negativi - prodotti dalla cosiddetta rivoluzione giudiziaria milanese. Personalmente, temo che una giustizia penale che si auto-investe di missioni palingenetiche, alla fine, causi più danni che vantaggi. "Mani pulite" come modello di populismo giudiziario, dunque. Di quale missione palingenetica si sa- rebbero investiti i magistrati milanesi? La cosiddetta rivoluzione giudiziaria realizzata dal pool milanese non avrebbe potuto vedere la luce se i pubblici ministeri non si fossero accollati la missione di ripulire la vita pubblica e moralizzare la politica, credendo di assolvere così una sorta di mandato popolare neppure tanto tacito. Altra cosa è che un obiettivo "sistemico" così ambizioso fosse veramente alla portata dell’azione giudiziaria di contrasto della corruzione. A riconsiderare quell’esperienza a venticinque anni di distanza, sembra più che lecito dubitarne. Ecco il punto: è possibile associare il termine populismo alla giustizia, quindi? Si può associare se utilizziamo il termine "giustizia" per indicare i bisogni, le aspettative di tutela e le aspirazioni di giustizia della popolazione secondo la chiave interpretativa che pretendono di fornirne le forze politiche o i magistrati di vocazione populista. Se guardiamo al concetto di giustizia sotto un’angolazione diversa e più generale, invece, tra populismo e giustizia può esservi conflitto. Proviamo ora a ricercare le origini del fenomeno. Secondo lei dove affondano? Il discorso è complesso. Direi una miscela di fattori oggettivi o di contesto, e soggettivi come il protagonismo di una parte della magistratura. Tra i fattori di contesto, annovererei - in sintesi - la crisi della politica ufficiale e la sfiducia verso i politici, l’emergere di tendenze antipolitiche (o, meglio, antipartitiche), la tentazione politica di delegare alla magistratura il compito di affrontare e risolvere grosse questioni sociali, criminali e non. Tra i fattori soggettivi, porrei l’accento sulla vocazione lato sensu politica di una parte della magistratura, sul diffondersi di una cultura giudiziaria di tipo attivistico-combattente e sulla tendenza - appunto - di alcuni magistrati a impersonare il ruolo di giustizieri, angeli del bene o tribuni del popolo. Questi fattori oggettivi e soggettivi interagiscono secondo dinamiche complesse e non univoche. Provando a spostare l’analisi sull’attuale sistema politico, si può dire che il diritto penale è stato strumentalizzato in chiave populista? Questo fenomeno di strumentalizzazione è esistita e continua ad esistere, peraltro sia a destra che a sinistra. Concretamente, possiamo citare qualche caso? Faccio due esempi, entrambi emblematici: la circostanza aggravante della clandestinità introdotta in epoca berlusconiana, e poi bocciata dalla Corte costituzionale; il nuovo reato di omicidio stradale fortemente voluto da Matteo Renzi, in una prospettiva sinergica populista- vittimaria: nel senso che la motivazione politica di fondo sottostante all’omicidio stradale (come reato autonomo) è stata non solo quella di dare un segnale anche simbolico di grande rigore nel contrastare la criminalità stradale con pene draconiane, ma anche di indirizzare un messaggio di attenzione e vicinanza nei confronti dei familiari delle vittime della strada e delle loro associazioni. Al di là di questo discutibilissimo populismo vittimario, quel che rimane da dimostrare con criteri empirici è - beninteso - che l’omicidio stradale serva davvero a prevenire più efficacemente gli incidenti mortali. Secondo lei la politica sta tendendo ad avvicinarsi al lessico tipicamente "accusatorio" della magistratura requirente? Ritengo che vi siano esempi di questo avvicinamento anche in Italia. Alludo, com’ è intuibile, al fenomeno di esponenti politici a vari livelli che pongono al centro della loro azione politica o del loro programma di governo la lotta alla criminalità o la difesa della legalità: una sorta di professionismo politico specificamente anti-criminale o anti-mafioso. Con una tendenziale differenza, peraltro, a seconda che questo tipo di politico militi sul fronte conservatore o progressista: nel primo caso, egli muoverà guerra soprattutto alla criminalità comune e alla criminalità da strada; nel secondo caso, alle mafie e alla criminalità dei "colletti bianchi". In entrambi i casi, comunque, il politico di turno tenderà a vestire i panni del pubblico ministero più che del giudice: porrà infatti l’accento, con parecchia enfasi, sulla necessità di denunciare, indagare, accertare, impiegare tutti i mezzi di contrasto possibili e immaginabili per sradicare la mala pianta del crimine e fare terra bruciata intorno ad esso, applicare pene draconiane, controllare e neutralizzare gli individui pericolosi o sospettabili tali. Tornando al populismo penale, il termine viene utilizzato in accezione negativa. Eppure lei ha scritto che il diritto penale è, in qualche modo o misura, populistico. È una provocazione? Sì è una provocazione intellettuale, nel senso che tento di chiarire. Tradizionalmente, ogni codice penale è stato considerato una specie di marcatore simbolico dell’identità culturale e valoriale di un determinato popolo: in questo senso, ogni codice nazionale rifletterebbe la storia, i valori, gli usi sociali, i sentimenti collettivi della nazione in questione. Con formula efficace, si è anche detto che un codice penale rispecchia il "minimo etico" della popolazione. Ciò premesso, io avanzerei in realtà riserve rispetto alla tendenza a caricare il dritto penale di valenze fortemente identitarie, a maggior ragione nelle società in cui viviamo caratterizzate da un accentuato pluralismo: incombe, infatti, il rischio di voler autoritariamente attribuire alla punizione il compito illusorio di riaffermare o rinsaldare identità "comunitarie" ormai inesistenti o indebolite contro criminali percepiti come nemici estranei e inquinanti. Un simile atteggiamento sarebbe non solo incostituzionale, ma sostanzialmente fascistico- razzistico. Nel suo saggio sul populismo penale, lei cita il criminologo Jonathan Simon, che attribuisce un ruolo politico decisivo alla paura per la criminalità. Che funzione esercita, secondo lei, la paura nell’affermarsi del populismo? Un ruolo certo non piccolo, non solo in Italia. Come ha appunto messo in evidenza Simon riguardo ad esempio agli Stati uniti, si può verosimilmente diagnosticare uno specifico paradigma di governance politica incentrato sulle strategie di repressione e prevenzione della criminalità quali essenziali elementi costitutivi dell’azione di governo. Ma il fenomeno è da tempo registrabile in molti paesi. Per concludere, le richiamo una citazione di Leonardo Sciascia che lei usa come incipit del suo saggio: "Quando un uomo sceglie la professione di giudicare i propri simili, deve rassegnarsi al paradosso doloroso per quanto sia - che non si può essere giudice tenendo conto dell’opinione pubblica, ma nemmeno non tenendone conto". Lei condivide? Ma come può chi giudica tenere conto dell’opinione pubblica? Condivido il senso profondo del paradosso sciasciano, che lascia trasparire la difficoltà oggettiva ma, al tempo stesso, la necessità di conciliare in qualche misura due esigenze opposte. Cioè il giudice dovrebbe in teoria, per un verso, essere sempre capace di prendere criticamente le distanze dal clima ambientale, dalle pressioni esterne e dalle aspettative di punizione delle stesse vittime del reato e, aggiungerei, anche dai propri pregiudizi e dai sentimenti personali, e di emettere decisioni basate soprattutto sulle norme, sul ragionamento rigoroso e sul senso di equilibrio, in modo da contemperare tutti i valori in campo: il che, passando dalla teoria alla realtà, può peraltro avverarsi soltanto fino a un certo punto. Anche i giudici sono esseri umani! E però rimane il fardello dell’opinione pubblica... Infatti. Per altro verso, chi giudica neppure dovrebbe pronunciare sentenze così difformi dalle aspettative della società esterna e delle vittime da risultare poco comprensibili e, perciò, inaccettabili. Ma la grande difficoltà, il dramma stanno proprio in questo: non di rado, le aspettative popolari di giustizia sono molto emotive, poco filtrate razionalmente e perciò, come tali, irricevibili da una giustizia che aspiri a condannare e punire sulla base di motivazioni razionali e in misura proporzionata alla gravità dei reati e delle colpe accertate. Viene da chiederle, se mai esiste una risposta: è possibile trovare la "misura" nel giudicare? Che cosa sia davvero "proporzionato" in campo penale, è una questione a sua volta intrinsecamente controvertibile: in proposito, non c’è verità scientifica, né si può esigere la precisione del farmacista. Si ripropone, dunque, il paradosso "doloroso" di Sciascia: un paradosso che non consente facili vie di uscita, né tollera risposte capaci di tranquillizzare - appunto - la coscienza di chi ha scelto la professione di giudicare Vasto. Ormai chi fa un incidente è trattato come un mafioso di Tiziana Maiolo Il Dubbio, 4 febbraio 2017 Omicidio premeditato. Era prevedibile e ci siamo arrivati. Italo passa con il rosso e uccide Roberta, cinque mesi dopo, Fabio marito di Roberta lo cerca lo trova e lo ammazza. Non sopportava di vederlo libero, lo voleva in galera. Se non in galera, allora meglio morto. E così in galera ci è finito lui, Fabio, quello che voleva vendicare la morte della moglie. Ecco come una morte casuale e non voluta, ma conseguenza di un incidente d’auto, è diventata la miccia che ha prodotto la catena di violenze e carcere, quasi una faida tra famiglie. Se negli Stati Uniti uno dice all’amico "guidi come un italiano", non intende fare un complimento. Il problema culturale della sicurezza quando ci si mette al volante, soprattutto tra i giovani, nel nostro paese c’è. E c’è anche quello dell’eccessivo numero di incidenti stradali, spesso determinati da persone che guidano dopo aver assunto alcol o sostanze psicotrope. Ma la rispo- sta data un anno fa dal Parlamento con una legge speciale sull’omicidio stradale ha avuto effetti solo negativi. Il primo è che neppure la paura del carcere ha prodotto una diminuzione degli incidenti mortali. Il secondo è che sono invece caduti nella tenaglia del diritto penale molti automobilisti coinvolti in incidenti "minori". Ma la conseguenza forse più grave è di tipo culturale. In un momento reso già difficile da un clima di "dagli all’untore" nei confronti di chiunque (sia esso un politico piuttosto che un medico o un avvocato) non sia dotato di bacchetta magica per risolvere all’istante qualunque problema, ci mancava solo l’istigazione alla violenza contro i responsabili degli incidenti stradali. Fabio è devastato da un grande dolore. Ha perso improvvisamente la giovane moglie e nutre odio nei confronti di chi gliel’ha tolta. L’odio è un sentimento che nulla ha a che fare con miserie umane quali l’invidia o lo sprezzo. È un sentimento di tutto rispetto. Ma non è detto che sia stato solo questo sentimento a trasformare Fabio da vittima in carnefice. Sono passati sette mesi da quando ci fu il famoso incidente, nel quale Italo passò con il rosso, travolse Roberta con il suo motorino e la uccise. Ma, spiegano oggi i magistrati, l’automobilista si fermò, prestò soccorso e chiamò subito l’ambulanza. Così non fu arrestato, ma indagato a piede libero. Il 21 febbraio era prevista l’udienza davanti al giudice dell’udienza preliminare. Sono tanti mesi di attesa? Per chi chiede giustizia, sicuramente sì. Per i tempi ordinari delle inchieste sono anche pochi. E la giustizia con i suoi tempi nel frattempo aveva lasciato sul campo non solo il corpo inanime di Roberta, ma anche Italo sconvolto per aver ucciso e Fabio con il suo odio e voglia di vendetta. Con tutto il contorno di pubblica esecrazione, fiaccolate e giustizialisti sempre pronti a soffiare sul fuoco. Non era mai accaduto, prima della campagna di stampa e la conseguente approvazione della legge, che l’omicidio colposo (quindi non voluto) fosse trattato, sul piano sociale e culturale, al pari quasi del delitto mafioso. Disperato e frastornato, Fabio era arrivato all’esasperazione perché non sopportava di vedere Italo libero. Voleva le manette. Questa voglia di galera la respiriamo ogni giorno, come non mai. Sappiamo tutti che il carcere serve a poco, anzi peggiora le persone. Pure sembra diventata l’unica sanzione, nella mente dei più. La pena non interessa, men che meno le assoluzioni. L’aula del tribunale viene trasformata - come nel processo per la strage del treno - in un grande sacrario con le magliette che rappresentano i morti, stese sulle sedie a rimproverare, a istigare, a colpevolizzare: guai se non condannate. E poi, l’applauso per la sentenza "giusta". E poi la speranza che i condannati vengano licenziati da qualunque posto di lavoro, emarginati e sbattuti in galera. È qualcosa di più dell’odio e del desiderio di vendetta quello cui stiamo assistendo. È voglia di distruggere. Un desiderio che il povero Fabio ha manifestato trasformandosi in assassino e finendo in quella galera dove Italo non andrà più. Vasto. Il tifo in Rete per il killer "onore a Fabio Di Lello, sei un vero gladiatore" di Elvira Serra Corriere della Sera, 4 febbraio 2017 Volevano giustizia e non si sono accorti di averla scambiata con la vendetta, tra le foto dei concerti, delle partite di calcetto o di beach soccer organizzate per non dimenticare Roberta. "1.300 persone che chiedono giustizia per te!!! Combatteremo per avere una condanna esemplare per chi ha spezzato i tuoi sogni e molti dei sorrisi di noi che siamo rimasti!!!". Così scriveva il 7 settembre uno degli amministratori del gruppo "Giustizia per Roberta", creato a luglio su Facebook dopo l’incidente nel quale aveva perso la vita la moglie del panettiere Fabio Di Lello. Dopo un mese il Tribunale popolare aveva già emesso la sentenza: "Perché tutti vanno in carcere e questo deficiente no?", chiedeva Anna. Mentre Pasquale prometteva: "Qui se ne fregano di come sono andate le cose. Ma noi faremo più rumore". La giustizia divina - A settembre i toni non si smorzano. Il 13 Ottavio scrive: "La vera giustizia esiste, basta aspettarla...". Il 27 Rolando: "Spero proprio che il colpevole paghi il massimo". E Sara: "Ora ci possiamo rimettere solo alla giustizia divina!!!". Di lì un crescendo. Cristina, il 6 ottobre, chiede "esami psichiatrici prima di dare la patente a cani e porci". Francesco, il 10 ottobre: "Non posso che provare rabbia per chi interpreta le strade di Vasto come se guidasse nell’autodromo di Monza". Italo D’Elisa quando ha travolto in auto lo scooter di Roberta stava andando a 62 chilometri orari, 12 oltre il limite. E sì, aveva bruciato il rosso. Ma non scappò. Anche questo è un punto di demerito: "Si è fermato perché ha sbattuto contro una macchina ferma al parcheggio". La deflagrazione - Il 4 novembre Annarita, appena accettata dal gruppo, annuncia che "in un Paese civile non è possibile che chi ha sbagliato non paghi". Il 19 Biagio: "Ci sono leggi, giudici e magistrati che se funzionassero non cercheremmo Giustizia". La deflagrazione, però, è a dicembre, dopo il botta e risposta a mezzo stampa tra i legali di Italo e Roberta sul sito Histonium.net. Il 21 viene pubblicata la nota di Pompeo Del Re, che elenca i motivi per i quali Italo D’Elisa non può essere considerato un pirata della strada. Rosa sbotta: "Che schifo, vergognatevi". Piera aggiunge: "Io mi chiedo come ca..o fanno a dormire la notte con un peso simile sulla coscienza...". Alfonso al legale: "Pur se di parte, ma che razza di uomo sei?". E Alessandro: "Non mi meraviglio tanto dell’indagato, ma della maschera oscena di chi sostiene certe nefandezze difensive". Il video su WhatsApp - Il 22 dicembre i commenti sono degli appelli all’avvocato della famiglia di Roberta, Giovanni Cerella: "La giustizia è nelle sue mani. Lo faccia per la famiglia e la comunità Vastese, ma soprattutto per una degna e rispettosa giustizia per Roberta". Su WhatsApp, intanto, circola il video dell’incidente. "Ma l’avete visto?", incalza Ferruccio. "Avvocà, l’hai visto o no ‘sto video? Ma come ca..o vi viene in mente di arrivare a dire queste schifezze?". Quando Italo viene ucciso dal vedovo Di Lello vengono scritti, ma poi cancellati, altri commenti. Ne chiede conto Valentina, che del ventenne era amica. Un’amica di Roberta, invece, a noi dice: "Non meritava neanche lui la morte, ma doveva essere processato. Se la giustizia italiana fosse stata più celere, questo non sarebbe successo". I gruppi contro Italo - Ma la morte di Italo evidentemente non basta. Ieri sono nati su Facebook due gruppi con il suo nome. Su "Italo D’Elisa - La giusta fine", l’anonimo gestore ne traccia un personalissimo ritratto: "Italo D’Elisa: un assassino, o per meglio dire un verme che ha stroncato la vita di una donna e l’esistenza di suo marito. Ha fatto la giusta fine. Quella che si meritava sin dal giorno dell’omicidio. Onore al Gladiatore Fabio Di Lello". In molti, però, sono intervenuti: "Siete dei codardi a scagliarvi contro un ragazzo che è morto per l’errore che ha fatto". C’era un altro gruppo, ieri, con 44 membri, che dopo qualche ora ha chiuso. Gli avevano dato il nome: "Italo D’Elisa uno di meno". Guido, il creatore, ha condiviso messaggi del tenore: "Marcisci all’inferno, cos’è non acceleri più?". E ancora: "Grande Fabio, hai fatto poco, io lo avrei ammazzato e stritolato sotto le ruote". Il rischio dei social - Lo psichiatra del Fatebenefratelli di Milano Gianni Migliarese dice che sui social si perde il contatto con la realtà: "Butti fuori tutto come se stessi parlando davanti a persone in carne e ossa. Ma quando scrivi "ti ammazzerei", quello resta. Le parole attecchiscono là dove c’è un suolo già fertile". Il terreno della vendetta. Vasto. Il killer vendicatore ora è difeso sui social di Flavia Amabile La Stampa, 4 febbraio 2017 Fabio Di Lello ha ucciso Italo D’Elisa, il giovane che sette mesi fa in un incidente stradale aveva provocato la morte di sua moglie. Per molti l’assassinio è stato un gesto eroico. La panchina del rancore è lì, accanto alla tomba del cimitero di Vasto dove da luglio è sepolta Roberta Smargiassi. L’aveva fatta sistemare Fabio Di Lello, 35 anni, il marito e da due giorni anche l’assassino di Italo D’Elisa, l’uomo che aveva ucciso sette mesi prima la moglie in un incidente stradale. Ad un certo punto ha capito di non riuscire a vivere lontano da lei, veniva al cimitero ogni giorno, accarezzava la foto in cui Roberta lo guardava con il suo sorriso radioso. Le parlava, le giurava che l’avrebbe vendicata. A volte arrivavano dei conoscenti, persone che condividevano la sua stessa tristezza, i parenti di altri due giovani di Vasto, suoi amici, morti poco dopo Roberta. Dolore che si aggiungeva al dolore, impotenza all’impotenza, giorno dopo giorno finché, qualche giorno prima di Natale, aveva letto un comunicato del difensore Italo D’Elisa in cui si cercava di rendere meno pesante la responsabilità del giovane nell’incidente. È stato allora che Fabio ha avuto l’impressione di non poter mantenere fede alla promessa fatta alla moglie, che seguendo la giustizia non avrebbe ottenuto quello che stava cercando, una punizione senza alibi né giustificazioni. Mentre tutti ancora erano immersi nell’atmosfera di pace delle vacanze di Natale, Fabio aveva già deciso di fare da sé. A gennaio, mentre gli amici parlavano delle scosse che non volevano lasciare tranquilla la loro regione e di un freddo che non si vedeva da anni, lui si era procurato una pistola calibro 9 e stava decidendo come agire. Il momento è arrivato due giorni fa. All’ora di pranzo Fabio è andato a trovare Roberta, ha mangiato qualcosa davanti alla sua tomba, poi è andato incontro al suo destino, davanti a un bar della città. Poche parole con l’uomo che odiava. Quindi tre colpi, uno all’addome, uno alla gamba e uno al collo, secondo la prima ricostruzione. Per Italo D’Elisa non c’è stato nulla da fare. Fabio si è allontanato, ma solo per tornare dalla sua Roberta, per lasciarle in dono la pistola come avrebbe fatto con la sua arma il gladiatore di cui aveva postato la foto sul profilo Facebook. Si è consegnato senza opporre alcuna resistenza ai carabinieri che sono andati ad arrestarlo. Ormai aveva finito di covare il suo buio, aveva ottenuto la sua giustizia. È finito in carcere ma quando si è diffusa la notizia del suo gesto per tanti è diventato un eroe, il giustiziere di un pomeriggio. Era il personaggio che - consciamente o no - aveva costruito in questi mesi di solitudine e risentimento dominati da una campagna per chiedere giustizia che ha pochi eguali: una fiaccolata, gli striscioni, la foto postata su Facebook da condividere, i commenti dei suoi fan. Un clima di odio senza precedenti, è l’accusa del difensore e della famiglia del giovane ucciso due giorni fa. "C’è stata una disgrazia che ha colpito più famiglie - spiega Alessandro D’Elisa, zio del giovane freddato per vendetta - Abbiamo portato avanti il dolore con dignità. Non potete capire, un ragazzo di 21 anni che ha perso il lavoro, ha perso tutto. C’è stata una campagna di odio verso questo ragazzo, che vi assicuro era un ragazzo per bene, sensibile. Un ragazzo d’oro che ha subito una pressione mediatica. Una vittima anche l’altro ragazzo. Andava aiutato e non bisognava mettergli uno striscione davanti al locale dove lavorava e si recava ogni mattina. Abbiamo chiesto di avvicinarci alle famiglie ma ci hanno detto che era troppo presto, abbiamo aspettato con dolore e riservatezza". Una versione diversa dalle accuse della famiglia e dei difensori di Fabio di un atteggiamento "strafottente" da parte di Italo. Ma il veleno sparso era troppo per riuscire a capirsi. E la sete di vendetta un desiderio troppo forte. Ne parla anche l’arcivescovo di Chieti-Vasto, Bruno Forte. Per condannare la vendetta, certamente, ma anche per chiedere una giustizia diversa, "più sollecita. Una giustizia lenta non è più giustizia e produce anche effetti come questi tragici a cui si è assistito a Vasto". L’odio diventa un’onda che dilaga sui social. Sono donne, uomini, giovani, meno giovani, forse i più restii a parlare in queste ore sono proprio gli abitanti di Vasto. Gli altri sono un fiume in piena. Pietro Paolo Perrotta: "Visto che lo Stato fa come c... gli pare, la giustizia è opinionabile e non dà certezze delle pene, allora non si può non tollerare il gesto di un marito che si vendica...". Luca Patavino: "Da quanto tempo dico che la non-Giustizia italiana, lenta inefficace e fine a se stessa, è il primo problema italiano? Poi accade che uno si fa "Giustizia" da solo, a modo suo, dando una propria interpretazione di "Giustizia"". Antonella Racanicchi: "Fabio ha tutta la mia comprensione. In un Paese dove non esiste giustizia questo è quello che ti spingono a fare. Istigazione all’omicidio, questo deve denunciare il tuo avvocato contro lo Stato". Sara Ferrario: "Non lo farei mai ma capisco e condivido. La giustizia in Italia è scandalosa. Dopo sette mesi senza avere alcuna prospettiva il suo gesto è comprensibile". Accuse respinte dal Procuratore di Vasto, Giampiero Di Florio: "Nessuna lentezza, anzi, al contrario, questo procedimento evidenzia la celerità di un tribunale come quello di Vasto nella trattazione dei processi: le indagini sono durate 110 giorni dalla data dell’incidente. Direi che ci sono stati tutti i tempi rapidi per arrivare a una sentenza in meno di 8 mesi. Cagliari: la comunità "La Collina" deve vivere, lì i carcerati affidati sono realmente rieducati di Paolo Farinella Il Fatto Quotidiano, 4 febbraio 2017 Lo sapevamo anche prima del 4 dicembre 2016 che la prima parte della Carta Costituzionale del 1948 sarebbe stata lo spartiacque tra due mondi: di chi vede nella Carta, garante di diritti e del lavoro, un impedimento al mercato e di chi vede nella Carta un baluardo di civiltà invalicabile, pena il ritorno alla preistoria e al sopruso del più forte. In Italia, nell’estremo sud della Regione Sardegna, nel Comune cagliaritano di Serdiana, conosco un posto che da 22 anni attua l’articolo 27 della Carta costituzionale - la responsabilità penale è personale. L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato, ndr) come risultato dello spirito e della lettera di tutti i primi 52 articoli della prima parte dove il lavoro e i diritti personali sono non solo proclamati, ma anche definiti e difesi. È questa Costituzione che abbiamo difeso con il referendum costituzionale del 4 dicembre 2016. È anche avendo negli occhi e nel cuore La Collina di don Ettore Cannavera e la loro esperienza pluridecennale che siamo stati "costretti" a difendere l’orizzonte di civiltà contenuto per l’appunto nell’art. 27 quando, con parole semplici e solenni, si legge che "le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato". La Collina è un luogo alternativo al carcere, dove minori che incidentalmente sono stati coinvolti da adulti in delitti e atti delinquenziali, vittime essi stessi, hanno la possibilità di passare il tempo della pena non nell’ozio che li educa a delinquere sempre di più, ma a guadagnarsi la vita con le loro mani e la condivisione di una esperienza comunitaria con educatori specializzati per imparare a lavorare, a vivere in società e ad assumersi le responsabilità della convivenza civile. La Collina è divisa in Tre Colline, in base ai delitti e alle pene comminate da un tribunale italiano con sette ospiti per ogni unità. Nessuno vive in ozio, ma tutti lavorano i 10 ettari di vigneti e uliveti, eredità che don Ettore e i suoi fratelli hanno donato alla Comunità per realizzare il mandato costituzionale di rieducare chi è rimasto coinvolto in delitti anche gravi. Oltre al lavoro, a turno gli ospiti gestiscono la quotidianità della casa (mangiare, pulire, lavanderia, ecc.), accompagnati 24 ore su 24 da adulti specialisti che condividono la loro stessa vita, gli stessi orari e le stesse incombenze. Se questi ragazzi oziassero nelle carceri costerebbero allo Stato due milioni di euro, mentre alla Collina costano appena 200mila euro: lo Stato, cioè, risparmia l’80% dei costi. Su 100 ragazzi che escono dal carcere, 70 vi ritornano e qualcuno, appena girato l’angolo, perché il carcere genera al delinquenza, mentre dalla Collina solo quattro. Qui sta la prova che se lo Stato vuole vincere la delinquenza deve moltiplicare il modello de La Collina ed esportarla in tutta Italia. Ipotizzando 50mila carcerati, lo Stato risparmierebbe 800 milioni. Poiché questo denaro provengono dalla fiscalità generale, la rieducazione civile dei carcerati, specialmente minori, conviene ai cittadini perché pagherebbero meno tasse. Per 21 anni la Regione Sardegna ha sostenuto economicamente La Collina di don Ettore Cannavera con un contributo che ultimamente era di € 200mila, quanto basta per pagare lo stipendio dei sette educatori specializzati con uno stipendio di € 1.200/1.300 mensili più gli oneri fiscali e contributivi. Per tutto il resto La Collina si mantiene con il proprio lavoro e la vendita dei prodotti, vino e olio (che possono anche essere ordinati online). Dal 2016, non solo la Regione è in ritardo nell’approvazione del proprio bilancio, ma è in ritardo paradossale nei pagamenti, per altro già impegnati, costringendo di fatto La Collina a chiudere, smarrendo un patrimonio acquisito e costato denaro pubblico. Da oltre 9 mesi non ricevono lo stipendio educatori ed educatrici, padri e madri di famiglia, sono stati messi in cassa integrazione, ma ricevono offerte di lavoro da altre comunità in ragione della loro alta specializzazione. Per La Collina sarebbe la fine. Sembra impossibile che la regione Sardegna non sia capace di fare una delibera urgente, dichiarandosi garante per iscritto presso la Banca al fine permettere la normale vita della Comunità e salvare un patrimonio di persone, di cultura, di specializzazioni e di civiltà che sta per essere seppellito ignominiosamente. Invito coloro che hanno difeso la Costituzione ad ascoltare/vedere i 29 minuti di video su Youtube postato dall’instancabile amico Dino Biggio, in cui don Ettore Cannavera fa una magistrale lezione di civiltà costituzionale che dovrebbe essere insegnata nei parlamenti del mondo, nelle sacrestie di tutte le chiese e nelle scuole di ogni ordine e grado: una perla. Non dovrebbe essere difficile per il Presidente della Regione Sardegna, Francesco Pigliaru, e all’assessore Luigi Arru capire il tesoro che hanno nella loro terra e l’importanza di realizzare un piano non solo di salvataggio momentaneo sull’onda dell’indignazione popolare che sale da ogni parte d’Italia, ma un programma futuro per la vita serena della Comunità, magari coinvolgendo il ministero della Giustizia, attualmente guidato dal democratico Andrea Orlando, che dovrebbe essere interessato per dovere politico e per il ruolo suo proprio. Noi continueremo a vegliare e non permetteremo che La Collina muoia. La struttura di don Ettore Cannavera, che prende sul serio la Costituzione italiana salvata dal referendum del 4 dicembre 2016, deve vivere oggi e domani. Per la Sardegna, per l’Italia, per la civiltà garantita dalla nostra Costituzione. Trento: allarme per il carcere, sovraffollato e con pochi agenti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 4 febbraio 2017 la struttura ospita 360 detenuti a fronte di un limite di 240 e manca il 35% del personale. La galera è sotto osservazione per la radicalizzazione islamica e in dicembre un ragazzo si è suicidato in cella. Sovraffollamento e carenza di personale. Da una settimana gli agenti di polizia penitenziaria del carcere trentino di Spini sono in stato di agitazione. La struttura, lamentano le sigle sindacali, ospita 360 detenuti a fronte di un limite di 240 mentre il personale è fermo alle 130 unità, un numero ben lontano dai 214 agenti previsti. Il risultato sono ore su ore di straordinario e il timore di vedersi negati in futuri i riposi settimanali. Alla casa circondariale mancano il 35% degli agenti, la copertura più bassa di tutto il Triveneto. Il direttore Valerio Pappalardo è arrivato addirittura a minacciare la chiusura della struttura, se non si dovesse trovare una soluzione alla questione. Il carcere del Trentino è anche sotto osservazione per quanto riguarda il fenomeno della radicalizzazione. Secondo l’ultimo rapporto del nucleo investigativo centrale della polizia penitenziaria, sarebbero una decina i detenuti sotto sorveglianza perché a rischio a radicalizzazione. Per contrastarla già in passato il Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria ha stretto una convenzione a livello nazionale con l’Ucoii per autorizzare la presenza di Imam nelle strutture penitenziarie al fine di svolgere assistenza spirituale. Nel carcere di Spini per due volte al mese, con incontri di circa un’ora, ad essere presente è l’Imam di Trento, Aboulkheir Breigheche, che porta avanti l’attività di guida spirituale con i detenuto che decidono di incontrarlo. Nel carcere di Trento ci sono altre forti criticità e presunti abusi, trai quali il presunto utilizzo improprio di una cella di isolamento. È stato il garante nazionale dei detenuti Mauro Palma a denunciarlo. Nel suo rapporto racconta di aver visitato la sezione di isolamento. All’ingresso della sezione ha potuto osservare due stanze: una, entrando a destra, funge da magazzino per i detersivi e il materiale per la pulizia e un’altra, entrando a sinistra (indicata come stanza 2706) è stata trovata vuota, arredata solo da un armadio di metallo dove era riposto un confezione di detersivo e della carta-panno, che presentava sulla parete segni di colpi da cui partivano striature nere e sotto delle piccole macchie a forma di schizzi di colore bruno che potevano essere indicativi di sangue. Il comandante di reparto, presente al momento della visita, ha ipotizzato che il sangue, qualora accertato, potesse essere dovuto ad atti di autolesionismo. A questa stanza la delegazione del garante era arrivata su segnalazione di diversi detenuti: sia di alcuni che si trovavano nella Casa circondariale di Trento nel giorno della visita, sia di altri non più detenuti a Trento e incontrati in altri Istituti, che avevano fornito convergenti indicazioni in tal senso. La stanza era stata indicata come luogo in cui alcuni di essi avevano subito percosse da parte di personale della Polizia penitenziaria. Mauro Palma ha quindi chiesto che si faccia luce sulla natura e sull’origine delle macchie sul muro. Chiede di sapere quale sia ufficialmente l’uso della stanza 2706 della Casa circondariale di Trento. Qualora si accerti che si tratta di conseguenze di autolesionismo, il Garante chiede di sapere perché persone a rischio di atti auto-aggressivi siano state messe in una stanza non detentiva priva di qualsiasi arredo tipico di una stanza di pernottamento e non in infermeria o in una stanza dove sia possibile una continua osservazione. Qualora invece tale ipotesi non venisse confermata e le macchie risultassero di sangue, chiede che ne venga trasmessa informazione alla Procura della Repubblica, anche in considerazione delle altre denunce che questo stesso Garante ha ricevuto nonché di quanto apparso sulla stampa dopo una specifica audizione del responsabile sanitario da parte della Prima commissione del Consiglio della Provincia di Trento. La Procura, in seguito all’esposto, aveva aperto un’indagine. Recentemente però ha chiesto l’archiviazione del fascicolo, ritenendo le accuse infondate. Ma il garante ha presentato opposizione. Ora si attende l’udienza davanti al gip. Nel frattempo, ancora rimane scottante la vicenda del drammatico episodio riguardante Luca Soricelli, il 35enne roveretano morto suicida nel carcere di Spini nella notte fra il 16 e il 17 dicembre scorso. Era detenuto nonostante la sua evidente incompatibilità con il carcere. Si uccise quando doveva esserci qualcuno a sorvegliarlo, ma l’agente incaricato doveva coprire quattro posti contemporaneamente. L’avvocato Stefano Trinco, nominato dal fratello del giovane, ha depositato una memoria in Procura a Trento, in cui viene sollecitata una serie di accertamenti. La vicenda è nota. Era stato arrestato dai carabinieri per l’incendio appiccato al distributore di benzina di via Cavour a Rovereto. Un gesto folle. Quando i carabinieri lo avevano fermato era stato trovato in stato confusionale e poco lucido. Il trentacinquenne pochi minuti prima aveva pagato di tasca propria 150 euro di benzina, poi aveva cosparso il carburante le pompe di benzina del distributore Eni- Agip e aveva appiccato il fuoco. Le fiamme in una manciata di secondi avevano giù lambito le due pompe ed erano arrivati fino al tetto della pensilina. Era stato uno dei gestori il primo ad accorrere, nel cuore della notte, per tentare di spegnere con l’estintore l’incendio. Ha scaricato sei estintori sulle fiamme, poi l’intervento dei vigili del fuoco aveva scongiurato il peggio, ma i danni sono stati comunque ingenti. Nella prima stima si era parlato di circa 80.000 euro. Dal momento dell’arresto non ha detto una parola, forse non ha nemmeno parlato con lo psichiatra che l’ha visitato e assicurato sulla sua idoneità ad essere rinchiuso in una cella. Il processo era in direttissima, quindi c’era stato poco da fare. Luca era risultato idoneo per il carcere. Punto. Talmente idoneo che, colto dalla disperazione, ha deciso di farla finita impiccandosi al cancello della cella. Eppure la storia di Luca, segnata dal disagio sociale, era cosa nota ai servizi e alle strutture pubbliche di assistenza sociale e psichiatrica. Una persona con problemi psichiatrici dovrebbe essere curata e difesa, non rinchiusa in una carcere. Prima della sentenza, però, è stato condotto preventivamente in carcere. Cagliari: Busia (Cd) "nel centro clinico del carcere di Uta mancano farmaci" cagliaripad.it, 4 febbraio 2017 "L’istituto di Uta deve far fronte a un problema che rischia di diventare gravissimo nel giro di pochi giorni: nel centro clinico sono in via di esaurimento le scorte di diversi farmaci compresi nella fascia C, per i quali è previsto il pagamento di un piccolo ticket. Si tratta di medicinali previsti obbligatoriamente per la popolazione carceraria che è costituita anche da pazienti con Tbc latente". Lo denuncia la consigliera regionale del Centro democratico, Anna Maria Busia, che sollecita l’intervento del Ministero, della Giunta e del Consiglio. "Il rischio - spiega - è che in assenza di cure i detenuti possano sviluppare la malattia e al tempo stesso contagiare gli operatori del carcere. Tenuto conto della situazione, è urgente un intervento da parte degli organi competenti anche ricorrendo alle scorte di medicinali esistenti in altri presidi. Inoltre, visto che la Sanità penitenziaria è materia di competenza della Regione, è indispensabile un proporzionato impegno economico visto che in un settore così importante per la salute pubblica non sono immaginabili tagli di risorse. Infine, alla luce della situazione nelle carceri della Sardegna non è più neanche procrastinabile la nomina, da parte del Consiglio, del Garante regionale dei detenuti". Secondo quanto riferisce Anna Maria Busia, "il Dipartimento del farmaco è stato già sollecitato ma la situazione è diventata ancor più difficile con la nuova organizzazione dell’Ats. Il centro clinico di Uta è una farmacia territoriale: ogni decisione deve ottenere l’autorizzazione del nuovo direttore generale" dell’Azienda unica. Alessandria: emergenza carceri, serve una commissione consiliare alessandrianews.it, 4 febbraio 2017 Sabato alle 16 un incontro pubblico per parlarne in Casa di Quartiere, intanto la protesta prosegue e il consigliere comunale Sciaudone chiede una commissione consiliare sul tema, prima che la situazione precipiti ulteriormente. Le due carceri del nostro capoluogo, la Casa Circondariale Catiello-Gaeta (ex don Soria) e la Casa di Reclusione di San Michele sono da pochi giorni formalmente unificati sotto un’unica amministrazione, anche se formalmente non è ancora stata individuata. Intanto lo sciopero della mensa dei caschi blu dei due istituti ha portato come primo risultato alcune risorse di personale aggiuntive provenienti da Alba, un intervento giudicato però dal sindacato ancora ampiamente insufficiente. Sabato 4 febbraio il tema verrà affrontato presso la Casa di Quartiere di Alessandria, in via Verona, con un incontro dal titolo "Oltre il muro" (ospite anche il deputato di Possibile, Andrea Maestri). Intanto a prendere la parola è il consigliere Oscar Sciaudone che chiede la convocazione di una commissione consiliare sul tema. Ecco il comunicato del consigliere, in versione integrale. Gli agenti della Polizia Penitenziaria denunciano una situazione potenzialmente esplosiva. La protesta è proseguita ed ha coinvolto anche gli operatori del Don Soria; nell’istituto che ha sede nel centro della Città, gli Agenti della Polizia Penitenziaria sono costretti a turni dove uno solo di loro è chiamato a vigilare su 140 detenuti, alloggiati su più piani dell’edificio. Queste carenze di organico (denunciate anche negli anni passati) non sono soltanto un grave disagio per dei lavoratori residenti sul nostro territorio ma costituiscono un potenziale pericolo per la città. Abbiamo già avuto un carcere in rivolta e sappiamo, purtroppo, come andò a finire. I "Baschi Azzurri" della Penitenziaria si stanno astenendo dal pasto (e ben so io, che sono un militare, cosa significhi rinunciare al "rancio" per protesta) come estremo gesto di denuncia per una situazione insostenibile. Come consigliere comunale ho chiesto di invitare nel corso di una commissione consigliare, i delegati della Polizia Penitenziaria, per ascoltare direttamente da loro lo stato delle cose e quali possibili azioni possiamo condurre, come amministrazione comunale, per migliorare la situazione. Ho anche chiesto - con un ordine del giorno in Consiglio comunale - al Sindaco Rita Rossa di intervenire presso il suo compagno di partito, il ministro Orlando, per avere l’assegnazione di personale in numero almeno sufficiente a garantire la sicurezza nelle carceri alessandrine e una decente qualità del quotidiano servizio dei lavoratori della Penitenziaria. Ci aspettiamo dal sindaco Rossa un’azione concreta per risolvere questo problema serissimo e non le solite acrobazie comunicative, vedi dichiarare di non essersi aumentata lo stipendio… ma di averlo "adeguato in salita". Vigevano (Pv): i detenuti puliscono le strade, convenzione tra l’Asm e il carcere di Selvaggia Bovani La Provincia Pavese, 4 febbraio 2017 Quattro detenuti lavoreranno per quattrocento euro al mese. Una città più pulita grazie ai detenuti del carcere di Vigevano. Giovedì 2 febbraio Davide Pisapia, direttore della Casa di reclusione di Vigevano, e Roberto Germani, presidente di Asm Isa, la municipalizzata che si occupa di igiene e pulizia strade hanno presentato la convenzione triennale che i due enti hanno sottoscritto. Dopo un breve corso di formazione, che tratterà argomenti relativi soprattutto alla sicurezza sul lavoro, tre o quattro detenuti avranno la possibilità di lavorare insieme agli uomini di Asm Isa percependo anche una remunerazione compresa tra i 300 ed i 400 euro mensili. I detenuti saranno impiegati in operazioni di pulizia del centro storico e delle periferie cittadine. "Dopo il successo del precedente progetto - ha spiegato Pisapia - che ha visto protagonisti due detenuti che hanno lavorato sempre qui in Asm Isa, dopo aver svolto un corso di formazione presso Enaip (Ente Nazionale Acli Istruzione Professionale), abbiamo pensato di riproporre questa esperienza, mettendola proprio nero su bianco e conferendole una durata superiore, ovvero triennale. Pensiamo avrà un doppio beneficio: il primo come servizio alla città, il secondo come percorso trattamentale del detenuto, di rieducazione che poi è il fine vero della pena". "Gli uomini di Asm Isa - ha aggiunto Germani - hanno lavorato in sinergia con i detenuti e hanno valutato positivamente questa esperienza. Siamo ben contenti di ripeterla". Si è invece conclusa ad agosto l’esperienza che aveva visto protagonisti altri detenuti, impegnati in progetti, sempre di pulizia strade e verde pubblico, per conto del Comune. "Quel progetto era finanziato dall’Apolf (Agenzia Provinciale per l’Orientamento, il Lavoro e la Formazione) - ha confermato Pisapia - che si faceva carico dell’assicurazione per i detenuti. In questo caso per i condannati era "volontariato" non ricevevano cioè alcun compenso o remunerazione di alcun tipo. Mancando però la copertura assicurativa, non potevamo proseguire". I detenuti che verranno reclutati saranno tutti uomini. "Al momento saranno solo uomini - ha concluso il direttore del carcere - e saranno persone che hanno, in qualche modo, legami con il territorio. Comunque non c’è nessuna discriminazione, quando troveremo o ci verranno proposti progetti che potranno sposarsi anche con le detenute saremo i primi ad accoglierli. Al momento non ne abbiamo che possano essere svolti anche dalle donne. Ricordo però che, in occasione della Giornata del Verde pulito, ci fu anche una detenuta". Palermo: l’arte della sartoria, opportunità di riscatto per migranti e detenuti di Gaspare Ingargiola meridionews.it, 4 febbraio 2017 Dal 2012 forma le persone svantaggiate nel mestiere del cucito. Fra macchinari e scatoloni stracolmi di stracci, stoffe e scarti da riciclare impilati in un equilibrio impossibile questi ragazzi imparano a cucire, a riparare vestiti, a recuperare abiti e accessori usati, a stirare, ma anche a tirar fuori le proprie creazioni. Sarjia sente sempre freddo e tiene il cappuccio in testa e i guanti anche quando sta al riparo. Viene dal Gambia e quando parla distoglie lo sguardo e sorride timidamente. "Questo posto mi piace, per me è molto importante". E non aggiunge altro. Lui è solo uno degli oltre 70 tra detenuti, immigrati, donne in difficoltà, tossicodipendenti e persone sottoposte a provvedimenti giudiziari che la cooperativa Al Revés ha accolto e formato da quando è nata nel 2012. Un piccolo mondo in una viuzza nascosta, largo Zuccarello, una traversa di via Sampolo. Lì la cooperativa ha creato una sartoria sociale: volontari, stilisti e amanti del cucito affiancano giovani italiani e stranieri in difficoltà in cerca di un’occupazione. Fra macchinari e scatoloni stracolmi di stracci, stoffe e scarti da riciclare impilati in un equilibrio impossibile questi ragazzi imparano a cucire, a riparare vestiti, a recuperare abiti e accessori usati, a stirare, ma anche a tirar fuori le proprie creazioni, dalle borse alle bomboniere, dai pantaloni agli abiti da sposa e da cerimonia grazie ai corsi di cucito e ai laboratori creativi organizzati dall’impresa sociale. C’è anche chi sta perfezionando le proprie competenze come l’ivoriano Gregoire, che aveva già seguito per tre anni una scuola di cucito nel suo Paese, ma poi si è ritrovato a lavorare saltuariamente in casa e allora "mia madre mi ha spinto perché venissi in Europa perché era convinta che qui avrei guadagnato abbastanza soldi per me e la mia famiglia. E invece quando sono arrivato qua non c’era niente. E mi faceva male non poter più fare quello che desideravo. Ma per fortuna ho trovato questo posto". E poi c’è Giuseppe che ha iniziato nel 2013: "Sono partito dalle basi, bottoni e cerniere, poi piano piano ho iniziato a prendere in mano ago e filo fino a realizzare uno shopper riprodotto in 100 esemplari". Anche lui guarda in basso con i suoi occhi tristi. Quest’anno Al Revés vuole tentare il salto di qualità: l’ingresso nell’e-commerce, il trasferimento in una sede più ampia in zona Malaspina grazie a un bando comunale sui beni confiscati - al momento sono in corso i lavori di ristrutturazione - lasciando l’attuale sede in affitto e infine l’acquisto, grazie al contributo della Carta Etica di Unicredit, di una stampante 3D, un computer e alcuni arredi d’ufficio per lanciarsi nel settore del graphic design. L’obiettivo del cambio sede è creare un vero e proprio punto vendita, magari meno artigianale, con un atelier, un laboratorio e due grandi vetrine e di non affidarsi più alla semplice esposizione dei prodotti in conto vendita in altri negozi: "Questa zona ci ha accolto bene ma vogliamo ingrandirci - dice Rosalba Romano, responsabile del progetto di sartoria sociale in 3D - anche perché nel nostro settore spesso siamo costretti a confrontarci con la concorrenza che lavora in nero perché rende meglio del dichiarato. Ma non ci lamentiamo, tante aziende hanno creduto in noi in questi anni e non siamo mai rimasti senza lavoro". Nel frattempo grazie alla collaborazione del Consorzio Arca è partito un laboratorio tessile finanziato con i fondi europei. La cooperativa è nata dall’iniziativa di una decina di soci e attualmente dà lavoro a cinque persone che fanno parte dello staff tecnico - due con contratto a tempo indeterminato - oltre ad assistere ogni giorno dalle sei alle dieci persone svantaggiate ma effettua anche servizi a domicilio, dalle pulizie all’accompagnamento all’autonomia. Una parte dei capi sterilizzati viene donata alle comunità alloggio e agli enti benefici come quello che fa capo a Biagio Conte. "Ci facciamo conoscere col porta a porta - racconta la vicepresidente Laura Di Fatta - oppure partecipiamo alle iniziative di Libera o di Addio Pizzo. Tanti vengono a portarci i loro vestiti usati. La cosa che più mi inorgoglisce è che questi prodotti non sono solo merci: dietro c’è la storia delle persone che aiutiamo". Trapani: la cultura dell’incontro per costruire il vero cambiamento, anche in carcere alqamah.it, 4 febbraio 2017 I "missionari" incontrano i detenuti della Casa Circondariale. La cultura dell’incontro è un balsamo per le ferite dell’umanità di oggi e può cambiarci la vita se lo vogliamo: non servono grandi mezzi economici non conta la nostra condizione di vita, basta una relazione accogliente. Con questo augurio del vescovo Pietro Maria Fragnelli è iniziato questa mattina in carcere, a Trapani, l’incontro tra i detenuti, le suore Apostole del Sacro Cuore, altre religiose che operano a Trapani, alcuni giovani dell’Oasi Gioia impegnati in questi giorni in una missione popolare a Trapani. Uno scambio reso ancora più schietto e fresco dalla spontaneità dei giovani che hanno dialogato (anche in inglese con gli immigrati detenuti presenti) a ruota libera su ciò che conta veramente, su cosa è l’amore, sull’importanza di imparare a rispettare se stessi e il proprio valore per rispettare gli altri, sulla fede che sostiene nei momenti di disorientamento, sulla dignità di ogni persona che precede e dà senso al rispetto necessario delle leggi. "Stiamo imparando moltissimo in questi nostri incontri con tutte le persone che sono impedite come voi detenuti o come gli ammalati o gli immigrati nei centri - ha raccontato Marianna, studentessa di giurisprudenza - c’è un tesoro di umanità che resta invisibile eppure capace di spiegare quali sono i veri problemi del presente e darci indicazioni sulla strada verso il futuro. Per questo prima di andare via vogliamo chiedervi un consiglio". Ai ringraziamenti per aver portato "l’estate in queste stanze", sono seguite le "raccomandazioni": andare sempre avanti, non seguire strade sbagliate ma fidarsi della vita affidandosi a Dio che non delude mai, non smettere di amare. Infine una preghiera recitata prendendosi per mano e la benedizione per tutte le famiglie. "Non ci nascondiamo dietro ad un dito: la situazione carceraria è difficile e le nostre vite sono piene di problemi ma possiamo accogliere e portare gli uni i pesi degli altri, costruire pazientemente, pezzo per pezzo, un nuovo tessuto sociale e relazionale, senza il quale non è possibile alcun vero cambiamento"- ha concluso il parroco della Cattedrale Gaspare Gruppuso. La missione popolare continuerà fino a tarda sera nella zona di via Garibaldi, nel centro storico. Domani la conclusione con un momento di verifica e la celebrazione eucaristica finale presieduta dal vescovo presso il Seminario Vescovile. Milano: la Compagnia Puntozero e il Sogno dei ragazzi del Beccaria di Albarosa Camaldo Famiglia Cristiana, 4 febbraio 2017 Con la compagnia Puntozero fondata e diretta da Giuseppe Scutellà, i giovani detenuti nel carcere minorile milanese hanno portato al Piccolo "Sogno di una notte di mezza estate" di Shakespeare, mostrando una straordinario controllo dei mezzi espressivi. Il teatro diventa occasione per sperimentare ciò che la detenzione impedisce e per riscattarsi. Le scolaresche applaudono convinte. Il nuovo spettacolo pensato da Giuseppe Scutellà per la compagnia Puntozero, da lui fondata e diretta con i detenuti dell’Istituto Penale Minorile Cesare Beccaria di Milano, è Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare. Il testo del drammaturgo inglese si presta a una lettura di differenti livelli con i numerosi nuclei tematici presenti e sempre attuali: l’essere e l’apparire, il sogno e la realtà, il vero amore e quello creato dalla magia, i divertenti inserti delle avventure dei comici, invitati per rallegrare il matrimonio fra Teseo ed Ippolita, regina delle Amazzoni. In un allestimento corale numerosi sono i personaggi che si muovono nel bosco incantato ideato da Shakespeare come sfondo alle intricate vicende amorose: le schermaglie tra Titania e Oberon, re e regina degli elfi, con l’aiuto del folletto Puck e la scelta dello sposo per Ermia da parte del padre Egeo, indeciso tra Lisandro, di cui la ragazza è innamorata, e il suo favorito Demetrio, innamorato invece di Elena. La compagnia è composta da giovani detenuti dell’Istituto Penale Minorile Cesare Beccaria che si calano così in nuovi mondi, potendo vivere l’amore liberamente e scoprire passioni e sentimenti che, a causa della reclusione, non possono gestire come i loro coetanei. Provano ora tante differenti situazioni, seguendo il gioco del teatro nel teatro, come quando i comici, capitanati da Bottom, recitano, davanti ai futuri sposi, la drammatica vicenda mitologica degli innamorati Piramo e Tisbe divisi da un muro voluto dall’odio dei rispettivi genitori, ma la trasformano in un testo comico. Straordinario è il controllo dei mezzi espressivi che i ragazzi hanno appreso dalle lezioni di Scutellà, che recita anche nel doppio ruolo di Oberon e di Teseo: egli li segue sempre con lo sguardo per incentivarli, sia quando è in scena, sia quando li osserva da lontano, senza perdere mai il controllo della situazione. La trama shakespeariana è stata conservata integralmente in un vero e proprio spettacolo con un ritmo scenico incalzate, creato dall’energia che gli attori infondono nei rispettivi personaggi: le fate capitanate da Titania, Lisa Mazoni, moglie di Scutellà, che è anche Ippolita, mostrano sensualità e vivacità, con suggestivi costumi, Puck rivela una dinamicità e una fisicità eccezionali, mentre recita con la sicurezza di un attore professionista, gli innamorati passano dal gioco amoroso, alla tenerezza degli sguardi. Tutti i ragazzi, alcuni che recitano per la prima volta nell’importante debutto al Piccolo Teatro di Milano, sono molto concentrati e attenti a come porgere ogni battuta, che siano quelle divertenti dei comici o quelle affettuose delle coppie degli innamorati. Con la loro dedizione e aderenza al ruolo interpretato, conquistano le rumorose scolaresche che assistono alla spettacolo, e che, in pochi minuti, si azzittiscono e poi applaudono calorosamente. Sempre sul palco, muovendosi all’unisono con gli altri attori nelle scene di gruppo, appare anche Enea, il figlio di Lisa e Giuseppe Scutellà, cresciuto sul palcoscenico. Per Enea, come anche per gli altri ragazzi, il teatro vissuto come quotidianità e possibilità di riscatto, si interiorizza, diviene parte della vita, come in un meccanismo naturale così che in un futuro può diventare anche un’opportunità di lavoro, come per molti ex detenuti che sono rimasti nella compagnia Puntozero. Dove e quando - "Sogno di una notte di mezza estate", di William Shakespeare. Regia, scene e luci di Giuseppe Scutellà. Aiuto regia, costumi di Lisa Mazoni. Con la compagnia Puntozero composta da giovani detenuti e non. Produzione Puntozero, Istituto Penale Minorile Beccaria, con il contributo di Fondazione Cariplo e Fondazione Marazzina. Dall’1 al 5 febbraio 2017, Piccolo Teatro Studio Melato, Via Rivoli, 6, Milano. Info: tel. 0242411889, piccoloteatro.org, puntozeroteatro.org. Terrorismo. Ministro Orlando "in Italia condizione di tranquillità, ma potrebbe mutare" Il Fatto Quotidiano, 4 febbraio 2017 La minaccia del terrorismo di matrice islamica ha sempre la lasciato l’Italia "relativamente tranquilla", ma questa condizione "potrebbe mutare". È la riflessione del ministro della Giustizia Andrea Orlando, che ha parlato nel corso di un’audizione davanti alla Commissione Affari costituzionali della Camera. La serietà della minaccia, ha osservato il ministro, è stata recentemente rimarcata dal capo della polizia e "trova riscontro nei dati giudiziari", per questo la risposta alla radicalizzazione deve essere "una priorità". Secondo il Guardasigilli "da una lato alcune inchieste hanno rivelato la presenza sul nostro territorio di frammenti di gruppi organizzati attivi nel Nord Africa, Medio oriente e nel sub-continente indiano. Dall’altro è stata individuata una scena jihadista autoctona". Le inchieste giudiziarie confermano anche la presenza di "lone actors pronti a usare la violenza, in scenari mediorientali o in territorio italiano". I dati diffusi da Orlando raccontano di 393 detenuti sottoposti a monitoraggio nelle carceri, di cui 175 "a forte rischio di radicalizzazione". Inoltre, 46 sono sottoposti a regime detentivo di alta sicurezza perché accusati di terrorismo internazionale". Il carcere è un osservatorio in qualche modo privilegiati per cogliere - ha detto Orlando - elementi e acquisire notizie sulla radicalizzazione". Dei 393 detenuti tenuti sotto osservazione "per rischio di radicalizzazione violenta o proselitismo in carcere", e che comunque presentano "un diverso grado di pericolosità", "la maggioranza - ha detto Orlando - è nata in Tunisia (115), Marocco (105), Egitto (27). Ma ce ne sono anche 14 nati in Italia, di cui tre con cognome di origine straniera". Per 130, ha continuato il ministro, "non sono emersi segnali concreti di radicalizzazione; restano però sospettati e sottoposti ad osservazione". Mentre "88 soggetti, non ancora classificati come radicalizzati, hanno manifestato concreti e ripetuti atteggiamenti, anche in occasione di gravi attentati, che fanno presupporre vicinanza all’ideologia jihadista e quindi propensione alla attività di proselitismo e reclutamento". "In carcere - ha continuato il ministro - è alto il rischio che si diffondano forme di esclusione e isolamento, condizioni su cui il radicalismo fa leva per alimentare senso di vendetta e odio contro la società". Per questo si stanno stipulando "protocolli d’intesa con le associazioni religiose disponibili a favorire, nell’ambito del sostegno del diritto di culto, la circolazione di anticorpi in grado di debellare focolai di odio sociale e religioso". Anche per quanto riguarda i minori c’è da tempo "una strategia complessiva diretta a contenere il rischio di radicalizzazione di detenuti minorenni e di giovani adulti, al momento molto contenuto (12 giovani risultano attenzionati) articolata lungo tre linee direttrici". Analizzando la popolazione carceraria complessiva, Orlando ha spiegato come su 55.381 detenuti, il 34% sono stranieri: 18.825. I detenuti che provengono da Paesi con popolazioni tradizionalmente di fede musulmana sono circa 14.680: oltre la metà da paesi africani, 3.359 dal Marocco e 2.141 dalla Tunisia. Di questi, 6.290 hanno dichiarato di essere professanti: circa il 33% della popolazione dei detenuti stranieri e l’11% del totale della popolazione carceraria. I professanti mussulmani sono circa 7.500 e gli imam 157. "L’amministrazione penitenziaria sta opportunamente approfondendo l’ipotesi di utilizzare in futuro anche le colonie agricole quali possibili luoghi di esecuzione della pena in un contesto di partecipazione al lavoro che appare idoneo alla prevenzione dei rischi di radicalizzazione". Miranti. Il diritto d’asilo è scomparso di Luigi Manconi Il Manifesto, 4 febbraio 2017 Memorandum Libia. La questione migratoria non può essere affrontata dall’Italia e dai paesi europei se non partendo dai principi di diritto internazionale su cui si basano le nostre democrazie. "Cooperare per individuare soluzioni urgenti alla questione dei migranti clandestini che attraversano la Libia per recarsi in Europa via mare, attraverso la predisposizione dei campi di accoglienza temporanei in Libia, sotto l’esclusivo controllo del Ministero dell’Interno libico, in attesa del rimpatrio o del rientro volontario nei paesi di origine": questo è l’obiettivo indicato. E a tal fine si dovrà lavorare perché "al tempo stesso i paesi di origine accettino i propri cittadini" e sottoscrivano "con questi paesi accordi in merito". Bastano queste parole del Memorandum firmato l’altro ieri dal presidente del consiglio italiano Gentiloni e dal premier libico Fayez al Serraj (che, ricordiamoci, governa su una parte sola di quel territorio) a prefigurare scenari non rassicuranti su quanto potrebbe accadere a partire dalle prossime settimane. Seppure trascuriamo per un attimo l’ovvio scetticismo circa la realizzabilità di accordi di cooperazione nel contesto libico attuale, totalmente precario e privo della benché minima prospettiva di stabilizzazione in tempi brevi, si deve comunque entrare nel merito del contenuto del Memorandum. Il quadro che quelle parole evocano non richiede uno sforzo d’immaginazione, ma piuttosto un esercizio di memoria, dal momento che il futuro prevedibile è stato anticipato da quanto già accaduto nell’ultimo decennio. Conosciamo le condizioni dei centri temporanei in Libia dai racconti di quanti sono sopravvissuti, nonostante i trattamenti disumani e le sopraffazioni subite a Sebah, nel Sud, o a Sciuscia, al confine con la Tunisia. E conosciamo nei dettagli più dolorosi quanto accade ora in Libia, su un territorio fuori dal controllo di qualsiasi governo, alle migliaia di persone eritree, somale, nigeriane, sudanesi, gambiane e di molti altri paesi africani, prima che raggiungano i barconi diretti verso le nostre coste. Racconti crudeli, che si susseguono tutti uguali da mesi e da anni e che rappresentano, da soli, la premessa ineludibile che impone di considerare inaccettabile, oltre che inattuabile, un accordo col governo libico per il controllo e la gestione dei flussi migratori. Valutazioni condivise da Unhcr e da Oim, nonostante il loro coinvolgimento nel piano della Commissione europea discusso ieri nel corso del vertice di Malta. Le due organizzazioni internazionali sostengono che è prematuro e rischioso pensare a dei centri sul modello hotspot nella Libia attuale e che si devono creare, innanzitutto, corridoi umanitari sicuri e servizi ricettivi appropriati dove il governo libico possa "registrare i nuovi arrivi, sostenere il ritorno volontario, esaminare le richieste di asilo e offrire soluzioni ai rifugiati". Ed è sicuramente questo l’aspetto più delicato: una strategia tutta finalizzata a bloccare l’immigrazione cosiddetta "clandestina" non lascia spazio alla tutela dei diritti e alla protezione internazionale. Nel Memorandum siglato l’altro ieri a Roma la parola asilo non compare: e non c’è alcun riferimento a quanti, all’interno dei flussi che partono dalle coste libiche, fuggono perché in pericolo di vita, perseguitati e bisognosi di soccorso e tutela. La questione migratoria non può essere affrontata dall’Italia e dai paesi europei se non partendo dai principi di diritto internazionale su cui si basano le nostre democrazie. Abdicare a quei principi vuol dire rinunciare di fatto alla propria storia e mettere in discussione l’intero sistema di valori a cui si ispirano gli stati di diritto. L’orizzonte non può essere così angusto: davvero per bloccare i flussi che da qui a poche settimane riprenderanno ancora più intensi siamo pronti a rinchiudere centinaia di migliaia di persone nei campi libici? È davvero sufficiente impegnare dei fondi per finanziare paesi africani che sappiamo essere instabili e fragili, quando non apertamente dispotici o totalitari? Basta puntare solo sulla cooperazione in materia di sicurezza e controllo della frontiera, mettendo in secondo piano lo sviluppo economico e democratico di quei paesi? Dieci anni fa, a contestare un accordo con la Libia non troppo dissimile, fu un piccolo pugno di parlamentari (i radicali, Savino Pezzotta, Furio Colombo, e pochi altri). Possiamo sperare che quegli anni siano bastati a veder moltiplicato quel numero allora così esiguo? Migranti. Ecco il nuovo modello italiano di Cie di Marco Ludovico Il Sole 24 Ore, 4 febbraio 2017 La permanenza nel centro dovrà essere breve: quella minima indispensabile all’identificazione del migrante. A procedura ultimata, scatta il rimpatrio. Il modello dei nuovi Cie, gli attuali centri di identificazione ed espulsione, si sta delineando. È uno dei cardini della politica sull’immigrazione del governo guidato da Paolo Gentiloni. Si integra con altri indirizzi già tracciati, come la firma giovedì scorso del memorandum d’intesa a palazzo Chigi con il presidente del consiglio presidenziale libico, Fayez Mustafa al-Sarraj, presenti i ministri Marco Minniti (Interno) e Roberta Pinotti (Difesa). Vanno dati segnali per scoraggiare le partenze. Mercoledì prossimo il titolare del Viminale presenterà alle commissioni riunite Affari costituzionali di Camera e Senato le linee programmatiche. Come la sua visione dei Cie: intanto, non si chiameranno più così ma Cpr, centri per il rimpatrio. La nuova definizione rappresenta l’orientamento impresso da Minniti. Il ministro dell’Interno, in- fatti, deve fare i conti con le critiche anche aspre sollevatesi dalla sinistra e dalle Regioni, non tutte favorevoli. Nelle intenzioni del Viminale il modello rinnovato deve apparire il meno vessatorio possibile. Anche se rimane una struttura con limitazioni della libertà perso- nale: non si può uscire. Ma nello schema definito dall’Interno diventano centri finalizzati ai rimpatri e non più carceri di tipo amministrativo per punire i clandestini. Come molte volte è avvenuto in passato. Il decreto legge sull’immigrazione in preparazione al Viminale prevede, poi, la vigilanza sui centri per il rimpatrio dell’ufficio del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, oggi guidato da Mauro Palma. Il Garante già svolge un lavoro di ricognizione sui Cie ma inserirlo in una norma primaria rafforza e legittima in pieno la sua azione. L’attuale permanenza degli stranieri nei Cie fino a 90 giorni non dovrebbe subire modifiche e viene considerata sufficiente dagli addetti ai lavori. Nel Cpr gli agenti portano gli immigranti cosiddetti economici, privi di documenti validi. Provengono soprattutto dagli hotspot dove sono stati fatti i "foto-segnalamenti" e i rilievi delle impronte digitali: gli unici dati certi. Le generalità, invece, sono presunte, giungono dalle dichiarazioni dello straniero. E non sempre sono veritiere, gli esempi non mancano al dipartimento di Ps guidato da Franco Gabrielli. Africani provenienti da stati non riconosciuti ai fini del diritto di asilo provano a dichiararsi cittadini di nazioni confinanti dove c’è una dittatura. Ma oltre ai casi controversi, gli immigrati senza titolo per l’istanza di protezione internazionale dovrebbero essere destinati tutti ai Cpr. Lì il ministero dell’Interno contatta il console della nazione di presunta appartenenza del migrante e partono le procedure di identificazione. Soltanto quando arriva il lasciapassare dello Stato di origine l’immigrato può essere messo su un volo di rimpatrio. Oltre a quello di Ps, al capitolo Cprex Cie sta lavorando anche il dipartimento Libertà civili dove a metà mese la guida passerà a Gerarda Pantalone; l’attuale numero uno, Mario Morcone, diventa capo di gabinetto al posto di Luciana Lamorgese, a sua volta alla guida della prefettura di Milano. Gli stranieri rintracciati in posizione irregolare l’anno scorso sono stati 41.473. I non rimpatriati sono stati 22.809. Di quelli allontanati dal territorio nazionale, 10.218 sono stati respinti alle frontiere, 2.629 riammessi nei Paesi di provenienza mentre 5.817 sono stati rimpatriati. Fare un Cpr in ogni regione, come ha in programma Minniti, significa aumentare la possibilità di fare rimpatri. È un segnale di dissuasione. Non intende e non potrebbe mai eliminare tutta la migrazione economica e i viaggi della disperazione. Migranti. A La Valletta l’Europa ritrova l’unità, ok all’accordo con la Libia di Carlo Lania Il Manifesto, 4 febbraio 2017 Via al piano italiano per fermare le carrette in partenza dalla Libia. Soldi e mezzi al leader libico, che però non controlla il paese. A questo punto c’è solo da sperare che la stretta sui migranti voluta dall’Europa per impedire loro di partire dalla Libia, non finisca per soffocarli. Il rischio non solo esiste, ma è anche probabile se non addirittura scontato. Il primo passo perché questa accada è stato fatto ieri nel vertice dei capi di Stato e di governo che si è tenuto a Malta. I 28 leader europei hanno sostenuto il piano messo a punto dall’Italia Roma e che prevede di affidare alla Guardia costiera libica il compito di riportare indietro i barconi carichi di disperati, mentre le navi della missione europea controlleranno dal limite delle acque internazionali. Sono inoltre previsti aiuti economici sia alle comunità locali costiere, che alle tribù che popolano il sud del paese e che l’Unione europea spera di coinvolgere nel contrastare i migranti provenienti dal Corno d’Africa attraverso Ciad e Sudan. Tribù nomadi che, ha ricordato ieri il premier maltese Jospeh Muscat, oggi guadagnerebbero fino a "sei milioni a settimana" aiutando le organizzazioni criminali che trafficano in migranti e con le quali, sempre secondo Muscat, sarebbero già stati avviati dei contatti. In che modo questa gente potrà fermare i migranti, sembra essere per tutti un problema secondario. E questo anche se la Ue si impegna a migliorare le condizioni di vita dei centri nei quali migliaia di migranti vengono tenuti prigionieri, anche con l’aiuto dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) e dell’Unhcr, l’Alto commissariato Onu per i rifugiati. Ma mentre l’Oim già la prossima settimana potrebbe essere a Tripoli per effettuare i primi sopralluoghi, qualche resistenza ci sarebbe da parte dell’Unhcr. Non ha caso ieri l’organismo dell’Onu ha sottolineato i rischi di un piano che si limita a parlare genericamente di migranti senza considerare la posizione dei rifugiati. Per finire ci sono poi i capitoli relativi alla fornitura di mezzi (sono previste otto motovedette per la futura guardia costiera insieme a droni per il controllo delle frontiere, equipaggiamenti, infrastrutture e training di addestramento) e al finanziamento del piano. E qui si rilevano altri problemi. In attesa che il parlamento europeo decida sui fondi da stanziare per i migration compact (fino a 40 miliardi di euro) per ora di fatto ci sono solo 200 milioni di euro. Pochi, come non ha mancato di far notare il premier libico Fayez al Serraj parlando nei giorni scorsi sia con il premier italiano Paolo Gentiloni che con il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk. Proprio Gentiloni ieri a Malta non tratteneva la soddisfazione per i consensi ricevuti dai partner europei al piano italiano. In realtà quella di Roma e Bruxelles è una scommessa dagli esiti molti incerti. Intanto perché tutto si basa sulla tenuta di Serraj, nella speranza che il riconoscimenti che gli arrivano da interlocutori internazionali possano aiutarlo a rafforzarsi. Ammesso e non concesso che questo avvenga si tratta sempre di un premier che controlla un’area ristrettissima del paese. E anche la nuova Guardia costiera libica, che da ottobre viene addestrata dalla missione europea Sophia, potrà controllare solo poche miglia delle coste libiche. C’è poi il problema non trascurabile della sorte dei migranti. Che fine fanno quelli riportati indietro dalla Marina libica? Serraj può garantire l’accesso alle organizzazioni internazionali solo in una minoranza dei 24 centri di detenzione presenti nel paese, quelli che si trovano in Tripolitania, regione solo in parte controllata dal governo di accordo nazionale che presiede. Tutti gli altri, compresi le centinaia di magazzini e hangar dove i trafficanti tengono prigionieri in condizioni disumane uomini, donne e bambini, sono e restano fuori controllo. Senza contare che, proprio in vista di un’attuazione del piano europeo, le bande criminali stanno già organizzando nuove rotte, compreso un passaggio a est della Libia nella parte controllata dal generale Haftar amico dell’Egitto e della Russia. Mettendo così di fatto il traffico di migranti nelle sue mani. E rendendo così l’Europa più ricattabile di quanto non lo sia oggi. Nel vertice di La Valletta i 28 si sono trovati d’accordo nell’intensificare i rimpatri dei migranti irregolari (ma accordi in tal senso esistono solo con quattro paesi), sorvolando però sui ricollocamenti europei ancora al palo. Una "rigidità", come l’ha definita lo stesso Gentiloni, sulle quali l’Europa non sembra intenzionata a cedere. All’ultimo minuto, invece si è riusciti a cancellare dal documento finale del vertice ogni riferimento alla riforma di Dublino. La formula utilizzata inizialmente non piaceva all’Italia che è riuscita a farla togliere grazie all’aiuto del premier greco Tsipras. La proposta che gira da tempo in Europa continua a penalizzare i paesi di primo sbarco contrariamente a quanto vorrebbero Italia, Grecia e la stessa Malta. Ma su questo l’unanimità dimostrata dai leader nel fermare i disperati in Libia, si subito persa. Stati Uniti. Un giudice blocca in tutti gli Usa lo stop di Trump agli immigrati di Claudio Del Frate Corriere della Sera, 4 febbraio 2017 Il provvedimento è del giudice federale dello Stato di Washington: "Anche il presidente è soggetto alla legge". Ma Donald non si ferma: ieri ha annunciato un giro di vite contro Cuba e Iran. Teheran replica annunciando sanzioni contro gli Stati Uniti. Un giudice ha bloccato temporaneamente su base nazionale le restrizioni introdotte dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump circa l’ingresso negli Usa di cittadini provenienti da sette paesi a maggioranza musulmana. La sfida legale era partita dagli stati di Washington e Minnesota che avevano chiesto per primi il blocco del provvedimento, cui però i legali del governo avevano posto giudizio negativo, che il giudice di Seattle James Robart ha invece respinto affermando che la causa ha fondamento. L’ingiunzione restrittiva verso il provvedimento, su richiesta degli stati di Washington e Minnesota, ha effetto a livello nazionale. La "riapertura" delle frontiere rischia ora di gettare nel caos porti e aeroporti in tutti gli States: il dipartimento di Stato e quello della sicurezza nazionale stanno in queste ore cercando di valutare l’impatto della sentenza sugli arrivi dei migranti e dei richiedenti asilo. Poche ore dopo la sentenza l’ufficio federale per il controllo delle frontiere ha autorizzato le compagnie aeree ad imbarcare i passeggeri in precedenza colpiti dal "muslim ban". "Tutti siamo soggetti alla legge" - Robart, giudice federale, ha dichiarato che "il provvedimento dimostra che nessuno può considerarsi al di sopra della legge". La sua decisione bloccato l’esecuzione dell’ordine di Trump di impedire l’ingresso negli Usa di viaggiatori provenienti da sette paesi a prevalenza musulmana (Siria, Libia, Yemen, Sudan, Somalia, Iran, Iraq) sospettati di essere fiancheggiatori del terrorismo. Bob Ferguson, general attorney dello stato di Washington, che aveva avviato la causa, dopo la decisione ha dichiarato che "la legge ha la capacità di sottomettere tutti ad essa e questo include anche il presidente degli Stati Uniti. Fergusson ha aggiunto che la gente proveniente dai Paesi della "black list" possono ora entrare nuovamente negli Stati Uniti. Il dipartimento nazionale di sicurezza, attraverso il suo portavoce Gillian Chiristensen, ha detto che per il momento non verranno rilasciati commenti sul verdetto. Lo stesso Fergusson in precedenza aveva affermato che la decisione della Casa Bianca viola i diritti costituzionali. La Casa Bianca prepara il ricorso - Non si è fatta attendere la reazione da parte della casa Bianca. In una dichiarazione ufficiale l’ufficio del presidente ha fatto sapere che ritiene il decreto blocca immigrati "legale e appropriato". La presidenza inoltre non ha alcuna intenzione di recedere di fronte alla decisione del giudice di Seattle e prepara il muro contro muro: "Al più presto possibile" il dipartimento di Giustizia intende presentare un ricorso di emergenza alla decisione del giudice federale. Nella medesima nota la Casa Bianca si dice quindi determinata alla difesa dell’ordine esecutivo "che siamo convinti è legale e appropriato". Un danno alle aziende hi tech - La decisione della Corte avviene in uno stato particolarmente colpito dalle restrizioni all’immigrazione: qui si trovano alcune delle principali aziende hi tech americane che accolgono numerosi giovani talenti provenienti da tutto il mondo. Non a caso uno dei fondamenti della richiesta era che i residenti degli Stati interessati stanno subendo un ingiusto danno dal "muslim ban" imposto dal presidente. Secondo i quotidiani e i siti di Seattle, la decisione avrà effetto immediato; stessa interpretazione è stata confermata a caldo dal Washington Post. È stato calcolato che solo nella prima settimana in cui è rimasto in vigore, il provvedimento di restrizione all’immigrazione ha colpito almeno 100mila persone con un passaporto emesso dai sette stati islamici. Alcuni di loro sono anche rifugiati politici. Ma Donald va avanti: sanzioni a Cuba e Iran - L’attivismo di Donald Trump, tuttavia, anche nella giornata di venerdì ha avuto modo di manifestarsi. Nuovi bersagli della casa Bianca sono diventati Cuba e di nuovo l’Iran. Il neo presidente ha annunciato provvedimenti che rivedranno completamente la politica di riavvicinamento tra Washington e L’Avana avviati dall’amministrazione di Barack Obama. Sanzioni economiche sono state annunciate anche nei confronti dell’Iran (altro stato con cui il presidente uscente aveva raggiunto un faticoso accordo di distensione) in seguito agli esperimenti missilistici attuati da Teheran. Dalla repubblica islamica è giunta l’immediata contromossa: restrizioni economiche saranno presto applicate nei confronti ci cittadini e aziende statunitensi. Infine la Casa Bianca si prepara a demolire un altro caposaldo del mandato presidenziale di Obama: la legge Dodd Frank che imponeva una serie di "paletti" all’azione delle banche sul mercato finanziario, a tutela dei risparmiatori. Stati Uniti. Guidò le torture nelle "prigioni nere", una donna numero due della Cia di Arturo Zampaglione La Repubblica, 4 febbraio 2017 Rinchiuso in una prigione segreta della Cia in Tailandia, il saudita Abu Zubaydad fu sottoposto 83 volte in un solo mese alla tortura del "water-boarding". Mettendogli la testa dentro l’acqua gli 007 speravano di strappargli notizie preziose su Al Qaeda e Bin Laden. Ma lui rimase zitto. Né apriva bocca quando lo maltrattavano a tal punto da fargli perdere un occhio. Adesso Zubaydad, 45 anni, è dietro alle sbarre di Guantánamo, mentre Gina Haspel, 60 anni, che era responsabile di quel "black site" in Tailandia, è stata appena scelta da Donald Trump come numero due della Cia guidata dall’italo-americano Mike Pompeo. Democratici e associazioni per i diritti civili hanno subito protestato per la nomina di Haspel. Il loro sospetto? Che Trump, che si vanta apertamente di essere favorevole alla tortura, possa favorire un approccio più permissivo. Nell’immancabile tweet il neo-presidente si è solo vantato di aver voluto una donna per un incarico così importante. Di sicuro la scelta, che dovrà ora essere ratificata dal Senato, servirà a normalizzare i rapporti tra la Casa Bianca e il mondo dell’intelligence, dopo i pesanti attacchi di Trump per le denunce dell’hackeraggio russo. La neo-vicedirettrice, infatti, ha una lunga esperienza nei servizi ed è molto apprezzata dai colleghi. Entrata alla Cia nel 1985, ha guidato la "stazione" di Londra ed è stata numero due del "servizio clandestino" della agency a Langley, in Virginia. Ma Haspel fu anche quella che ordinò di distruggere i videotape delle torture per cancellare ogni prova. Birmania. L’Onu condanna gli abusi contro i Rohingya di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 4 febbraio 2017 Le Nazioni Unite accusano le forze di sicurezza in Birmania di aver commesso seri abusi dei diritti umani contro la minoranza musulmana Rohingya a partire dallo scorso ottobre. È la conclusione di un rapporto dell’Onu pubblicato venerdì 3 febbraio dall’organizzazione a Ginevra e compilato sulla base di interviste con oltre 200 Rohingya scappati in Bangladesh dopo l’inizio dell’offensiva dell’esercito birmano nella parte settentrionale dello stato Rakhine, a cui l’accesso agli osservatori esterni è proibito. La metà degli intervistati ha avuto un membro della famiglia ucciso, su 101 donne ascoltate più della metà (52) ha detto di essere stata stuprata dalle forze di sicurezza. Il rapporto ha evidenziato crimini come l’uccisione di bambini anche in fasce, donne e anziani, oltre a spari contro persone in fuga, stupri di gruppo e incendi appiccati a interi villaggi. Il documento menziona una donna che ha raccontato come al figlio di otto mesi sia stata tagliata la gola, mentre un’altra ha denunciato l’uccisione della figlia di cinque anni che cercava di difenderla dallo stupro. Molte vittime hanno detto che mentre venivano picchiate o violentate i loro aguzzini dicevano: "Cosa può fare ora il vostro Allah per voi?" "La devastante crudeltà che questi bambini Rohingya hanno subito è insopportabile. Quale odio può portare un uomo ad accoltellare un neonato che piange perché vuole il latte della mamma?" ha detto l’alto commissario per i diritti umani dell’Onu, Zeid Ràad al Hussein. Secondo l’Onu, 69 mila persone sono fuggite dalla Birmania in Bangladesh dopo l’inizio delle operazioni dell’esercito. Si calcola che siano circa un milione i Rohingya in Birmania, di cui oltre 100 mila vivono da quattro anni in squallidi campi di sfollati sorti dopo un’esplosione di violenze settarie. "Mi appello alla comunità internazionale perché ci aiuti ad intimare alle autorità birmane di mettere fine a queste operazioni militari" ha detto ancora Zeid Ràad al Hussein.