Il reato di tortura finalmente ritorna nell’aula del Senato di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 3 febbraio 2017 È stato rimesso in calendario dalla conferenza dei Capigruppo, ma il giorno non è ancora fissato. Ritornerà in aula la discussione sul reato di tortura. Il disegno di legge che punta a introdurlo nell’ordinamento italiano torna all’ordine del giorno dei lavori dell’aula del Senato. Lo ha stabilito la Conferenza dei capigruppo di Palazzo Madama. "Finalmente - spiega la presidente del gruppo Misto Loredana De Petris - si sono decisi ad accogliere la nostra richiesta di rimetterlo in calendario. Ma un giorno preciso non è ancora stato indicato. Sicuramente dovrebbe venire esaminato a seguire dopo decreti". Prende corpo l’annuncio del ministro della Giustizia Andrea Orlando fatto alla cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario a Milano. "Introdurremo il reato di tortura all’interno del codice penale - ha annunciato Orlando, non possiamo perdere altro tempo nell’affermare un principio che tra l’altro viene richiesto anche in sede europea e internazionale". Qualche giorno fa a esortare il Parlamento a votare l’introduzione del reato di tortura è stato anche Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, dopo la prima intervista televisiva del nuovo presidente Usa Donald Trump, secondo cui la tortura e il water-boarding assolutamente funzionano. "L’Italia mostri la sua diversità rispetto all’America di Trump. Ci appelliamo - dichiara Gonnella - al capo del Governo Paolo Gentiloni e al ministro della Giustizia Andrea Orlando affinché con un provvedimento urgente del governo approvino in una settimana la legge che introduce il crimine di tortura nel nostro paese. È un’indecenza che siamo ancora a questo punto, mentre dall’altra parte dell’oceano c’è chi la vuole addirittura legittimare". Il presidente di Antigone prosegue: "Di fronte a chi come Trump ci vuole riportare in un’epoca pre-moderna, l’Italia mostri il volto di Cesare Beccaria e del rispetto dei diritti umani. Nelle prossime settimane saremo giudicati dalle Nazioni Unite sui diritti civili e politici. L’impossibilità di punire i torturatori ci priva di moralità e ci indebolisce nelle relazioni internazionali. Si approvi la legge subito, conforme alle convenzioni Onu. Lo si faccia nel rispetto e nella memoria di chi è morto per tortura, come nel caso di Giulio Regeni, ammazzato e torturato in un crimine di Stato". Il testo era stato già approvato alla Camera nell’aprile del 2015, dopo un primo passaggio in Senato che l’ha modificato, e il governo - in seguito alla sentenza della Corte Europea sui fatti del G8 di Genova - si era impegnato a farlo approvare in via definitiva, ma non trovando un accordo che garantisse voti a sufficienza per renderlo legge si è deciso di sospendere tutto, evitando nel frattempo che tornasse in Commissione con ulteriori ritardi. Però, da allora, è rimasto tutto fermo. Il reato di tortura, per come è regolato nel disegno di legge, resta comunque un reato comune, punito con la reclusione da 4 a 10 anni. In altri Paesi europei, invece, è considerato tale soltanto se commesso da un pubblico ufficiale. Nel nostro Paese, se la legge verrà approvata, il fatto che a commetterlo sia un pubblico ufficiale è un’aggravante e prevede pene dai 5 ai 15 anni. Se dal fatto deriva una lesione personale, le pene sono aumentate: di un terzo se la "lesione personale è grave", della metà "in caso di lesione personale gravissima". Se dal fatto deriva la morte "quale conseguenza non voluta", la pena è della reclusione a trent’anni. Se la morte è causata da un atto volontario, la pena è l’ergastolo. Nel testo si parla anche del reato di istigazione a commettere tortura: un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio che istiga un collega rischia da sei mesi a tre anni, indipendentemente dal fatto se il reato di tortura sia poi commesso. Se viene verificato il delitto di tortura, le dichiarazioni ottenute tramite questo sistema non possono essere utilizzate in un processo penale. L’articolo 1 della legge prevede poi che siano vietati espulsioni o respingimenti verso uno Stato nel quale, basandosi su fondati motivi, il respinto rischi di essere sottoposto a tortura. Nel rispetto dei diritti internazionali stop anche all’immunità diplomatica a chi è condannato o indagato nel suo Paese d’origine. Viene prevista l’estradizione di un cittadino straniero verso il Paese richiedente nel caso in questo risulti indagato o condannato per il delitto di tortura Riforma penale, l’obbligo per i pm di decidere in 3 mesi apre il fronte tra Anm e governo di Errico Novi Il Dubbio, 3 febbraio 2017 "I rapporti a questo punto sono tesi", spiega un componente del direttivo Anm. I rapporti sono quelli tra governo e sindacato dei giudici, appunto. Arrivati al grado zero dopo il mancato intervento dell’esecutivo sull’età pensionabile dei magistrati, rimasta a 70 anni. Ora l’interlocuzione tra toghe e politica rischia di diventare persino più difficile di quanto non abbia mostrato l’inaugurazione dell’Anno giudiziario, disertata dall’Anm. A dare l’ultimo innesco sarà il ritorno del ddl penale in Senato. L’esame del provvedimento dovrebbe riprendere a metà febbraio, e tra i passaggi più spinosi, oltre alla prescrizione, c’è la norma sulla cosiddetta avocazione obbligatoria. È questo il punto apertamente contestato da Piercamillo Davigo: con le regole introdotte all’articolo 17 del disegno di legge, il procuratore generale è tenuto a subentrare al pm qualora quest’ultimo non decida entro tre mesi se chiedere il rinvio a giudizio o l’archiviazione. "Una norma assurda, non c’è personale sufficiente per rispettare un termine simile", è la contestazione dell’Anm. E dal sindacato delle toghe ora non si escludono "ulteriori e più aspre forme di protesta", se l’avocazione obbligatoria restasse nell’articolato. "A decidere sarà il comitato direttivo centrale del 18 febbraio: in quella sede si potrebbe optare per un segnale più forte di quello inviato con l’assenza alla cerimonia in Cassazione", spiega ancora un componente del "parlamentino" Anm. Va detto che il contestato articolo 17 è stato inserito nella riforma del processo come ripiego rispetto a una regola assai più stringente sollecitata e, inizialmente, ottenuta dall’avvocatura: l’obbligo per il pm di inserire immediatamente il nome dell’indagato nell’apposito registro, a pena di sanzioni disciplinari. L’Associazione magistrati chiese di eliminare la norma, e l’avocazione obbligatoria venne inserita nel ddl per rimediare almeno in parte al disappunto dell’avvocatura. Ora il ministro della Giustizia Andrea Orlando non pare intenzionato a tornare sui suoi passi: l’articolo 17 del ddl dovrebbe restare com’è. A meno che a Palazzo Madama non si crei un fronte favorevole alle posizioni dei magistrati, ipotesi alquanto remota. L’ennesimo motivo di attrito rischia di portare a una vera e propria guerra fredda tra esecutivo e magistratura. Non basterà a pacificare gli animi l’emendamento sui giudici di prima nomina, inserito formalmente nel Mille Proroghe come assicurato già un paio di settimane fa dal guardasigilli. La norma riporta da quattro a tre anni il tempo minimo di permanenza nella sede assegnata per tutte quelle "giovani" toghe che, all’entrata in vigore della norma, hanno già una destinazione di lavoro. Vengono dunque messi in salvo i diritti acquisiti dai magistrati entrati in servizio tra il 2012 e il 2014. In teoria sarebbe così risolta una delle tre cause di dissidio tra Orlando e Davigo. In realtà l’atmosfera sembra tornata pesante quasi come ai tempi di Berlusconi premier. Lotta al terrorismo, tra "rischio carceri", lupi solitari ed espulsioni di Stefano Vespa formiche.net, 3 febbraio 2017 La prevenzione antiterrorismo passa attraverso indagini serrate che portano a continue espulsioni di soggetti a rischio, il monitoraggio delle carceri e un’attenzione specifica ai mille canali, leciti e illeciti, che finanziano le organizzazioni terroristiche. Temi che si intrecciano quotidianamente e che sono stati al centro di due diversi appuntamenti nella stessa giornata del 2 febbraio. Il rischio carceri - Il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, ha fornito un quadro preoccupante durante l’audizione dinanzi alla commissione Affari costituzionali della Camera. I detenuti monitorati sono 393 di cui 175 "a forte rischio di radicalizzazione", ha detto il ministro. Se si considera che il 30 novembre scorso il sottosegretario alla Giustizia Cosimo Ferri in un convegno dei Carabinieri parlò di 371 detenuti sotto controllo, significa che in due mesi sono aumentati di 22 unità, un trend allarmante. La maggioranza dei detenuti monitorati viene dalla Tunisia (115), dal Marocco (105) e dall’Egitto (27). Inoltre 14 soggetti sono nati in Italia, di cui tre con cognome di origine straniera. Anche se 130 detenuti non hanno dato segnali di radicalizzazione, restano ugualmente sospettati e osservati mentre, ha detto Orlando, "88 soggetti, non ancora classificati come radicalizzati, hanno manifestato concreti e ripetuti atteggiamenti, anche in occasione di gravi attentati, che fanno presupporre vicinanza all’ideologia jihadista e quindi propensione alla attività di proselitismo e reclutamento". La popolazione carceraria è di 55.381 detenuti, di cui 18.825 stranieri, pari al 34 per cento. I professanti musulmani sono circa 7.500 e gli imam 157. Orlando ha poi annunciato che si sta pensando di utilizzare anche le colonie agricole per l’esecuzione della pena in modo da prevenire rischi di radicalizzazione con il lavoro. Lupi solitari ed espulsioni - Nell’audizione Orlando, oltre a confermare la presenza di possibili lupi solitari o "lone-actors" (come li ha definiti) teoricamente in grado di agire in Italia o nel Medio Oriente, ha aggiunto particolari non del tutto noti citando i risultati di alcune inchieste che "hanno rivelato la presenza sul nostro territorio di frammenti di gruppi organizzati attivi in Nord Africa, Medio Oriente o nel sub-continente indiano" e di "una scena jihadista autoctona, caratterizzata da elementi di forte eterogeneità sia nei profili demografici che nelle dinamiche di mobilitazione, sviluppatasi in parallelo all’affermarsi del fenomeno dello Stato islamico". Infatti, di situazione "particolarmente difficile" ha parlato Lamberto Giannini, direttore centrale della Polizia di prevenzione e in quanto tale presidente del Casa, il Comitato di analisi strategica antiterrorismo, intervenuto alla Scuola di polizia tributaria della Guardia di Finanza (comandata dal generale Giancarlo Pezzuto) al convegno sulla prevenzione e il contrasto ai canali di finanziamento del terrorismo. La maggiore difficoltà nasce proprio dall’approssimarsi di una sconfitta militare dell’Isis che, ha detto Giannini, "accresce la minaccia per l’Europa e il nostro territorio" ricordando un esempio fatto anche in passato, quello del foreign fighter pronto a combattere in Siria e fermato da un emiro il quale, con un messaggio audio Whatsapp, gli disse che sarebbe stato più utile attaccare "gli infedeli" dove sono. Giannini ha anche rivendicato la politica delle espulsioni di soggetti pericolosi, individuati dopo lunghe e dettagliate indagini, che non possono essere arrestati perché non arrivano al tentativo di compiere un atto e che però sono fortemente a rischio. Va ricordato, a questo proposito, che dal 29 dicembre sono state espulse ben nove persone (cinque tunisini, due marocchini e due pakistani), per un totale di 140 dal gennaio 2015. Un’attività che coinvolge tutte le forze dell’ordine e l’intelligence, con un coordinamento che riguarda "anche gli investimenti per le tecnologie e per la valorizzazione degli uomini con la creazione di specialisti", come ha rilevato Matteo Piantedosi, vice capo della Polizia che si occupa proprio di coordinamento e pianificazione. Attentati "economici" - Quanto costa un attentato? "Oggi possono bastare da 1.000 a 1.500 euro", ha spiegato il sostituto procuratore antimafia e antiterrorismo Antonio Laudati al convegno organizzato dalla Finanza mentre in un documento di al-Qaeda che fu trovato dai servizi segreti americani si calcolavano 4.200 dollari. Se in Italia o in Europa parliamo di "zakat" pochi capiscono, eppure è un fondamentale precetto del Corano che i terroristi applicano sotto forma di contributo non volontario a un’attività: Laudati l’ha definita "una via di mezzo tra una donazione e un’estorsione" rivolta alla popolazione islamica, una miriade di piccole somme che arriva in Olanda e in Gran Bretagna da dove viene distribuita in vari paesi. Le segnalazioni su operazioni sospette sono aumentate di sei volte negli ultimi due anni e Claudio Clemente, direttore dell’Unità di informazione finanziaria della Banca d’Italia, ha specificato che "sono 741 quelle classificate, anche se non tutte fondate", con somme inferiori a 50 mila euro e concentrate a Milano, Brescia e Roma. Un numero rende l’idea del fenomeno: sono 30 mila i soggetti potenzialmente legati al terrorismo al centro di indagini finanziarie in tutto il mondo, nomi che, con lo scambio di informazioni, sono a disposizione anche dell’Unità di Bankitalia. Normativa e scarsa collaborazione - È vero che le segnalazioni che arrivano alla Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo, incrociate con il database della Dna, migliorano la conoscenza del fenomeno, ma il procuratore Franco Roberti ha lamentato la perdurante assenza di una vera collaborazione internazionale con la quale Caterina Chinnici, magistrato ed europarlamentare, si scontra quotidianamente. Chinnici ha aggiunto che anche "le frodi transnazionali dell’Iva sono utilizzate per finanziare il terrorismo" e che resta indispensabile una procura europea, come rilanciato anche dal ministro Orlando in quell’audizione. Tra i tanti modi di finanziamento, quello attraverso certe Onlus è forse uno dei più nascosti, un fenomeno di cui si è presa coscienza solo da poco. La professoressa Paola Severino, rettore della Luiss, ha infatti ricordato che quando da ministro della Giustizia del governo Monti andò a Mosca rimase colpita negativamente dalla normativa anti-Onlus lì in vigore: "Oggi non mi stupisco più" ha ammesso. Anche in Italia ci sono controlli sul no profit: il generale Stefano Screpanti, capo del III Reparto Operazioni della Guardia di Finanza, ha spiegato che nel 2015-2016 sono stati effettuati mille controlli su organizzazioni no profit, normali controlli fiscali che però consentono di verificare eventuali tracce sospette. Tra i vari modi di finanziamento, va detto che il welfare applicato dall’Isis nel territorio che controlla in realtà è il minimo indispensabile. Giuseppe Maresca, capo della Direzione prevenzione utilizzo sistema finanziario per fini illegali del ministero dell’Economia, ha spiegato infatti che in quelle aree "meno del 20 per cento delle tasse imposte è reinvestito nell’assistenza alla popolazione. È una vera spoliazione" perché il rimanente viene utilizzato in guerra o in atti di terrorismo. Più controlli sui finanziamenti - Al convegno moderato da Andrea Margelletti, presidente del Centro studi internazionali, il comandante della Guardia di Finanza, Giorgio Toschi, ha ricordato un’importante novità in vigore dal 1° agosto scorso e che ha voluto subito dopo la sua nomina: il Gift, Gruppo investigativo finanziamento terrorismo, inserito nel Nucleo speciale di Polizia valutaria, cui si sono aggiunte recentemente le Sift, Sezioni investigative per ora in seno ai nuclei di Polizia tributaria di Milano, Roma e Napoli e che presto nasceranno anche altrove. Quella ai finanziamenti del terrorismo è una lotta nascosta eppure fondamentale: come ha detto Juan Manuel Vega-Serrano, presidente del Gafi/Fatf (il Gruppo di azione finanziaria, organismo intergovernativo che si occupa anche di questo), "uccidere costa poco". Anche in Italia c’è un giudice che dice la verità sui giudici di Valter Vecellio Il Dubbio, 3 febbraio 2017 Si cercavano, da tempo, magistrati capaci di dire quello che è giusto dire, capaci di mettere il dito sulla piaga sanguinante. Pochi, ma se ne trovano, e questo fa dire che non tutto, ancora, è perduto. Uno di questi pochi magistrati è il dottor Guido Salvini. Esemplare, per chiarezza - in ogni senso l’intervista rilasciata ieri (2 febbraio) al Il Dubbio. Il dottor Salvini è come il ragazzo che svela la nudità del re, da tutti visibile, da quasi tutti ignorata: parla dello sgomento percepito dai suoi colleghi "per l’accorciarsi del tempo del proprio prestigio e potere personale". Denuncia la pericolosità della "giustizia spettacolo e degli show in televisione che partono già all’inizio dell’indagine e rischiano di condizionarne gli sviluppi". In Italia, che si vanta d’essere la culla del diritto - Leonardo Sciascia, giustamente, osservava che al contrario ne è la bara - accadono cose che si vivono e patiscono con mesta rassegnazione; qualcosa di ineluttabile, come l’alternarsi delle stagioni, e l’avanzare dell’età. Accade questo: in occasione delle inaugurazioni dell’anno giudiziario, i più alti vertici degli Uffici Giudiziari, nelle loro relazioni, levano un grido di dolore comune: dicono che la prescrizione falcidia i processi. Per dire: a Bologna, va regolarmente in fumo un processo ogni cinque; e si parla dei processi definiti, quelli che hanno passato il vaglio del primo grado, e attendono il secondo. Dei procedimenti che vanno in malora prima, quando si è ancora in fase di Giudice per le Indagini Preliminari, o Giudice per l’Udienza Preliminare, non si sa. A Roma "muore" il 38 per cento dei giudizi. Il procuratore generale parla di "vanificazione della sanzione penale e della sua stessa minaccia, proprio nelle aree di maggior interesse per il cittadino". A Venezia prescritto il 49 per cento dei procedimenti definiti. "Interi settori della legalità quotidiana sono sommersi dalla prescrizione", dice il procuratore. A Napoli si parla apertamente di "amnistia strisciante". Si calcola che almeno 12mila pregiudicati non scontano la pena, perché non si riesce a eseguire materialmente le condanne. Il presidente della Corte d’Appello dice la situazione è tale che è più facile andare in galera da innocenti che da colpevoli. A Palermo ben 1.692 procedimenti sono stati eliminati dai Gip o Gup; 1.569 i processi finiti nel cestino in primo grado, 280 in Appello. Per l’appello, il fattore determinante è il ritardo nel deposito della sentenza o nella trasmissione del fascicolo del primo giudice. I procuratori generali dicono che "la decorrenza dei termini, e l’estinzione di un gran numero di reati per prescrizione, finisce per diventare una amnistia strisciante e perenne che opera peraltro in modo casuale". A fronte di questa disastrosa situazione, l’atteggiamento di cui si è fatto cenno: sostanziale indifferenza da una parte; rassegnazione dall’altra. Il dottor Salvini, che dice pane al pane, ci ricorda come "non si parla mai, quasi nessuno lo sa, delle centinaia di magistrati che svolgono funzioni giurisdizionali ridotte perché fanno parte delle numerose strutture di supporto che il Csm ha voluto". Dice cose che certamente per l’Associazione nazionale dei magistrati, arroccata com’è nella corporativa difesa dei suoi privilegi di sempre, equivalgono a fumo negli occhi. Sono le cose che a suo tempo diceva, isolato, Giovanni Falcone, e infatti ne ha pagato un prezzo: candidato al Consiglio superiore della magistratura, sono stati i suoi colleghi a negargli il voto, e tanti di coloro che poi lo hanno pianto, dopo la strage a Capaci. Candidato al vertice della Super procura, in tanti suoi colleghi hanno detto di No, quella nomina avrebbe leso la loro autonomia e indipendenza. Grazie dottor Salvini: per quello che dice, per come lo dice. In Spagna la chiamerebbero un hombre vertical; con la schiena dritta, insomma. Ha saputo assicurare giustizia in occasione di un’inchiesta delicata e complessa come quella relativa al mega inquinamento ad opera della Tamoil a Cremona, una vicenda sollevata dai radicali Maurizio Turco e Sergio Ravelli, e lungamente, per anni, ignorata, nonostante l’incontestabile danno ambientale e alla salute dei cittadini che ha provocato. Ricordo come Salvini mi ha lasciato a bocca aperta, quando, durante una trasmissione televisiva, gli chiesi se nelle sue indagini sulla strage di piazza Fontana, avesse avuto difficoltà e ostacoli da parte dei servizi segreti o di alcune sue branche. La risposta su secca e senza tentennamenti: "All’inizio sì, dai servizi segreti. Poi, dai miei colleghi". Una franchezza, un’onestà intellettuale rara, e che comunque ci fa dire, come il famoso mugnaio di Postdam, che non solo a Berlino, ma anche in Italia, ancora - e nonostante - ci sono dei giudici capaci di essere tali. Uomo arrestato prima dell’udienza. La "svista" del Tribunale del riesame di Bologna di Filippo Facci Libero, 3 febbraio 2017 Ripetere una tesi all’infinito non la rende più credibile: a meno che la gente abbia una gran voglia di crederla. Vale per i politici e vale per i magistrati, perché l’aria che tira non risparmia neanche loro, anzi, lo spazio mediatico calante delle loro sparate dice già molto. Però, ecco, al quarto o quinto giorno in cui tocca leggere degli slogan sospesi nel nulla ("i magistrati italiani lavorano di più", "i magistrati italiani sbagliano pochissimo", roba così) viene da chiederselo: scusate, ma pensate davvero che qualcuno vi creda? Pensate forse che chi tace acconsenta? E allora raccontiamo una vicenda accaduta a Bologna a settembre e resa nota - si fa per dire - nei giorni scorsi. Seguite lo schema di quello che è accaduto, e che è documentalmente provato: un pm chiede un arresto, il gip gli respinge la richiesta, il pm allora fa appello al tribunale del Riesame che convoca l’udienza per decidere: ma, forse per errore, il tribunale notifica all’avvocato l’accoglimento della richiesta del pm (mettere il tizio in galera) il giorno prima che si tenga l’udienza per deciderlo. È come se a un imputato fosse consegnata la sentenza di condanna prima ancora che inizi il processo. Questa vicenda è esplosa pubblicamente nei giorni scorsi e il tribunale del Riesame responsabile della clamorosa violazione, imbarazzato, si è limitato ad astenersi: ergo, gli è subentrato un altro collegio che subito si è adeguato alla decisione precedente. Per loro è finita così: e chi se ne frega se l’Unione Camere Penali intanto era salita sulle barricate. La notifica era solo una minuta inviata per errore, hanno detto i togati. Poi è intervenuta la solita Associazione magistrati (quella retta da Davigo) e ha sentenziato: niente "può porre in dubbio l’integrità e la buona fede dei magistrati coinvolti". Basta dirlo. E il diritto di difesa? Non ha "subito né danni né limitazioni". Basta dirlo. Non una parola per stigmatizzare una pre-decisione che ha mortificato ogni regola e la stessa Costituzione: per loro è solo un errore formale, una svista. Non è, secondo loro, qualcosa che lascia immaginare una prassi diffusa, qualcosa che relega il difensore in un ruolo accessorio rispetto allo strapotere autoreferenziale di giudici e pm: come se l’avvocato, e ciò che avrebbe potuto dire durante un’udienza, non avesse importanza. Accusa e difesa dovrebbero avere la stessa parità giuridica (è la base del diritto in Occidente) e questo, forse, potrebbe contribuire a limitare i 42 milioni di euro spesi nel 2016 per risarcire gli errori giudiziari. Ma fa niente. Ecco: la giustizia italiana funziona così, non è un pallino da garantisti politicamente schierati o una consapevolezza solo degli addetti ai lavori che lavorano nei tribunali: lo sanno milioni di italiani che lo sapevano anche prima, ma che, per lustri, hanno delegato la magistratura in funzione salvifica e anti-casta. Ma ora, a farlo, sono rimasti solo grillini e fattoidi. Nel 1994, uno scambio di messaggi tra il pm Antonio Di Pietro e il giudice Italo Ghitti venne ritrovato casualmente in un faldone; diceva: "Appunto per Italo. Ti anticipo perché Caio dovrebbe andare dentro al più presto". E Ghitti, il giudice, cioè il gip, il giudice terzo, il teorico garante delle parti: "Antonio, trova altro capo d’imputazione, perché..." eccetera. Gli scrisse così: trova un altro capo di imputazione, uno qualsiasi. Cioè: un giudice si era accorto che un reato non avrebbe consentito di ingabbiare tizio - unico aspetto ritenuto interessante - e allora consigliava al pm d’inventarsi qualcos’altro. Uno scandalo, e sapete che cosa accadde in quel 1994? Niente. E avvenne lo stesso quando alla procura di Palermo, nello stesso anno, spuntarono due paginette scritte da un giudice all’indirizzo di un pm; nonostante il giudice dovrebbe porsi in equidistanza tra il pm e il difensore, appunto, il gip si rivolse al pm in questo modo: "Caro, ti rimetto le argomentazioni svolte dal difensore... argomentare in senso contrario presuppone l’attento esame del fascicolo che è ponderoso. Ti sarei grato se tu volessi scrivermi informalmente due righe in modo da evitarmi una noiosa camera di consiglio". Traduzione: caro amico pm, scrivi direttamente tu le motivazioni che lascino in galera tizio. Un giudice, cioè, chiedeva che le considerazioni della pubblica accusa potessero diventare automaticamente le sue: perché la camera di consiglio oltretutto "è noiosa". Che cosa successe? Nulla. E non è successo nulla neanche a Bologna mei giorni scorsi, e infatti il punto è questo: da allora è cambiato il mondo e solo la magistratura italiana è rimasta identica. E, a sentire i Davigo, perfetta. E quando non lo sembra - perché proprio cretini non siamo - è colpa della classe politica. Le intercettazioni? Non sono un problema, sono già disciplinate. La presunzione d’innocenza? "I politici che delinquono vanno mandati a casa senza il bisogno di attendere il giudizio definitivo". Questa era di Davigo. Gli errori clamorosi dei magistrati, gli innocenti in galera? "Dipendono da carichi di lavoro che non hanno equivalenti negli altri Paesi". Anche questa era di Davigo, interessato al dialogo come può esserlo un muro con una pallina da tennis. È questa la magistratura italiana, quella che i magistrati pretendono non sia sovrapponibile al disastro della giustizia: un’aura di sacralità, di intangibilità, uno spaventoso problema per il Paese, l’indisponibilità a muoversi da una posizione di arcigna schermaglia sindacale e ad accettare un confronto fondato perlomeno su una minima presa d’atto della realtà. Macché. Il conflitto tra politica e magistratura? "Naturale conseguenza della loro separatezza e indipendenza". I tempi della giustizia? "Tutte le inchieste arrivano a sentenza". Sono tutte perle di Davigo. Poi c’è questa leggenda dei magistrati italiani che sarebbero i più produttivi d’Europa: ma i rapporti del Consiglio d’Europa non dicono niente del genere, anzi, i rapporti del Cepej pongono il nostro Paese come maglia nera della giustizia europea e riportano essenzialmente dei numeri: dopodiché l’Associazione magistrati ha semplicemente diviso il numero di procedimenti definiti per il numero dei magistrati italiani e ha chiamato questo "produttività", che sarebbe come giudicare la produttività di un governo solo per il numero di leggi che faccia. I magistrati italiani si vantano dei processi "definiti" ma dimenticano di dire che tra questi ci sono anche quelli prescritti, e dimenticano pure che tre quarti delle prescrizioni matura durante le indagini preliminari e che quindi è responsabilità loro e basta. I magistrati italiani non parlano delle loro ferie, non rivelano che sono i più pagati d’Europa, parlano solo della "mancanza di risorse" e che manca la carta per le fotocopie, signora mia, che tizio è in malattia, che la segretaria è in maternità, tutte cose che secondo l’Associazione nazionale magistrati costituiscono i soli problemi "strutturali" che ci vedono in coda alle classifiche mondiali sulla giustizia. I nostri processi durano dieci volte più della Francia e cinquanta volte più della Gran Bretagna, ma forse è perché li facciamo meglio. Vedrete, prima o poi diranno anche questo. La claque dei giustizieri, una tragedia italiana di Francesco Merlo La Repubblica, 3 febbraio 2017 L’omicidio di Vasto e la nostra violenza: questa vendetta è il contrario della giustizia e del sentimento d’amore. Stiamo attenti al fascino ambiguo della passione e della follia romantica. Purtroppo c’è solo l’odio malato in questa vendetta di Vasto che è il contrario sia della giustizia sia del sentimento d’amore. Ed è orribile il dettaglio, da reality macho-noir, della pistola che l’assassino ha deposto come un mazzo di fiori sulla tomba della moglie vendicata, un gesto teatrale da carogna per bene, da giustiziere spietato ma di cuore, virile ma lieve, duro per necessità. La verità è che, nella tragedia di Vasto, terribile ed esemplare in questa Italia eccitata e imbruttita dalla rabbia sociale, c’è la forte complicità ambientale. C’è la grande responsabilità del coro, non solo virtuale, il "dalli al colpevole" che è in libertà, "una claque di morbosi", come l’ha definita il procuratore di Vasto, che ha istigato Fabio Di Lello a farsi giustizia da solo, a sentirsi come quel gladiatore cinematografico di cui ha postato la foto su Facebook. E di nuovo dobbiamo fare attenzione perché è capitato a Vasto, ma poteva capitare in qualsiasi altra parte d’Italia di sentire l’incitamento e l’applauso alla giustizia fai da te. Vasto, che è un bellissimo paese con la malinconia e la sapienza del mare Adriatico, non è certo abitato da sadici. Evidentemente anche lì si è fatto strada il livore, "un’incomprensibile campagna di giustizia", ha detto il procuratore Giampiero Di Florio: "Questa claque doveva aiutare Fabio a venirne fuori, e invece ha alimentato, giorno dopo giorno, il suo sentimento di vendetta". Dunque, incitato e protetto da manifestazioni, fiaccolate e istigazioni all’odio che duravano da sette mesi, Fabio Di Lello, calciatore e panettiere molto popolare, si è sentito protagonista di un film, di un fumettone, di una canzone maledetta o di un manga giapponese. Non si è accorto che si era invece infilato nella nevrosi caricaturale raccontata da Vincenzo Cerami e Alberto Sordi (Il borghese piccolo piccolo) e nella paccottiglia eroica dell’assassino per bontà. Dunque si è procurato la pistola, ha aspettato in strada Italo D’Elisa, quel ragazzo di 22 anni che era passato col rosso e aveva investito e ucciso la sua Roberta. L’omicidio colposo gli sembrava una raffinatezza e una trappola giuridica, lo voleva in galera, lo voleva morto e dunque, con la miserabile solidarietà della parte peggiore e più plebea del paese, ha interpretato il ruolo del cane di paglia, del Charles Bronson, della 44 Magnum per l’ispettore Callaghan o del bravo ragazzo di paese costretto a surrogare l’imbelle magistratura e a mettere le sue buone intenzioni al servizio del peggio, del sangue chiama sangue, a farsi selvaggio che emette la sentenza ed esegue la condanna perché non crede alla giustizia delegata, ai giudici e ai tribunali che non capiscono: tre colpi di pistola contro quel povero ragazzo, il quale - speriamo che Fabio Di Lello cominci a rendersene conto - è molto più vittima della sua vittima perché lui ha avuto un carnefice volontario, freddo, premeditato e pure infiammato da una folla fanatica che ancora lo acclama e lo celebra sui social, mentre lei, la povera Roberta, è morta in ospedale, il giorno dopo l’incidente. Stava sul motorino e quell’altro l’ha investita: è passato col rosso, ma sicuramente non voleva ucciderla e solo il processo avrebbe potuto stabilire quanta colpa c’era stata nella scelta di non rispettare il semaforo. Il procuratore di Vasto ha spiegato che era giusto lasciare libero Italo D’Elisa e che anzi non si poteva proprio arrestarlo, perché si era fermato a soccorrere Roberta, non era drogato, non aveva bevuto, non correva. Era passato con il rosso, ma questo non basta perché la libertà va rispettata, anche se meno di quanto va rispettata la vita. Si può capire che un marito senta dentro di sé la pulsione di sparare al mondo se sua moglie viene uccisa per strada. Ma è una pulsione oscura e primitiva che va tenuta a bada, specie con il passare del tempo, con la riflessione, con l’aiuto dell’ambiente e della civiltà diffusa. La forza della Giustizia è il distacco; ha sempre bisogno di una distanza e non può confondersi con il legittimo dolore dei familiari e con la loro rabbia, che è comprensibile ma non può ispirare il codice penale né consentire che il castigo diventi delitto. Anche noi cronisti che raccontiamo, interpretiamo e ci infiliamo dentro i fatti dovremmo tenere a bada tutto ciò che dà plausibilità al mito reazionario della giustizia privata, e stare attenti a evocare l’amore, le canzoni di De André, i presunti buoni sentimenti dell’individuo che precede lo stato, salta i processi e i tribunali, diventa giudice e boia. E non ci sono scuse per le reazioni sguaiate, eccessive e convulse della folla che ha sempre torto quando invita all’odio, quando si fa tribunale cieco. Andate a rivedere quel video (http://larep.it/2kmQirk) girato da Andrea Lattanzi tre giorni fa, prima della sentenza che avrebbe condannato a 7 anni Mauro Moretti per il disastro colposo di Viareggio. C’è un una piccola folla che ritma gli insulti - "pezzo di m..." - contro Moretti. Sono così brutti da vedere che forse, chissà, gli stessi scalmanati, se si guardassero dall’esterno, capirebbero che lì, in quei cori, ci si smarrisce e si smarriscono le ragioni fondanti della civiltà dei diritti. Ebbene, proprio lì succede quel che non ti aspetti: interviene Marco Piagentini, che nella strage perse moglie e due figli. Determinato e cortese, li ringrazia per la solidarietà, ma li invita a smetterla: "Le offese no". Ecco: se qualcuno lo avesse fatto anche a Vasto, chissà... Insomma, è una tragedia così estrema questa di Vasto che ci permette di dirci chiare certe cose oscure. E, per esempio, che ci sono pulsioni ancestrali e profonde che tutti abbiamo e alle quali, a caldo, ci piacerebbe abbandonarci. Ebbene, solo la legittima difesa, che peraltro richiede quel coraggio che non c’è mai nella viltà dell’agguato, ci consentirebbe di fare le cose che non si fanno e che a volte tutti vorremmo poter fare. Solo la legittima difesa rende giusti il cazzotto che non diamo, la "bella lezione" che non impartiamo, la violenza che non liberiamo, il colpo di pistola che non spariamo. La volontà di punire e il populismo vendicativo di Maurizio Crippa Il Foglio, 3 febbraio 2017 Il Caso, la tragedia, l’amore. Ma nel delitto "stradale" di Vasto c’è anche altro: il populismo vendicativo. Aspettare Italo D’Elisa, vent’anni, fuori dal bar Drink Water in via Perth, a Vasto. Dirgli qualcosa. Sparargli tre colpi in pancia. Lasciare la pistola dentro una busta di plastica sulla tomba della moglie, Roberta Smargiassi, trentaquattro anni. Pensarci un po’ su. Costituirsi qualche ora dopo. Fabio Di Lello, trentacinque anni, s’è preso la sua vendetta. O si è fatto giustizia. O ha interpretato stricto sensu la lettera della legge che recita "omicidio stradale". Italo D’Elisa, qualche mese fa, era passato col rosso e aveva investito Roberta Smargiassi, che passava con lo scooter. Lei era morta. Fabio Di Lello andava sempre sulla sua tomba. O forse è la tragedia di un amore spezzato. Ne capitano, signora mia, di tragedie così. Non mette conto parlarne. Il procedimento contro Italo D’Elisa era chiuso, fissata l’udienza del Gup. C’era stata una campagna d’odio contro di lui, dice il suo avvocato. Italo D’Elisa aveva avuto dai magistrati il premesso di usare la moto. Girava in città, faceva lo smargiasso, dice qualcuno. Vasto è meno nevosa di Minneapolis. Ma il deserto d’odio, il regolamento di conti, la mancanza di senso. Il Caso. La logica della vendetta, l’ossessione. Fanno rabbrividire come in "Fargo" (non la serie, più il film dei fratelli Coen). Italo D’Elisa era colpevole? Niente precedenti, niente omissione di soccorso, non guidava in stato di ebbrezza. Avrebbe probabilmente schivato il carcere. Non mette conto parlarne. Fabio Di Lello è colpevole. Ma precisamente, di cosa? Di omicidio, certo. Ma per vendetta? Per giustizia? Per amore? Qualcuna di queste attenuanti - che nel codice non ci sono - gli interpreti della legge gliela riconosceranno. C’è già molta gente che gli dà ragione. Ma c’è un aspetto che sfugge, perché sta sotto gli occhi, come la lettera di Poe. Fabio Di Lello ha tirato alle estreme conseguenze una logica. La logica di un risarcimento extra legem, morale, psicologico (la psicologia è il sostituto postmoderno della morale). Anzi, le conseguenze di un bisogno di punizione avvertito e collettivo, a cui la sola legge non sa dare risposta. Un membro dell’Associazione familiari vittime della strada ha scritto a un giornale: "La tragica conseguenza di una giustizia lenta... non si arriverebbe a tali gesti estremi come a Vasto". Quindi non è omicidio, è tragica conseguenza dell’inefficacia della legge a punire. Ma questo si chiama populismo penale, lo stesso visto all’opera qualche giorno fa, con esiti solo apparentemente meno cruenti, a Viareggio. Il populismo penale è "la volontà di punire" indagata in un libro di Denis Salas, ricordato da Luigi Ferrarella sul Corriere a proposito di Viareggio. Alla volontà di punire s’aggiunge qualcosa di più inquietante. "Italo D’Elisa non ha mai chiesto scusa, non ha mostrato segni di pentimento", ha detto l’avvocato di Fabio Di Lello. Non ha chiesto scusa. Avrebbe dovuto? Non è una categoria giuridica. Almeno, usciti dal Medioevo in cui non vigeva la legge laica ma quella della chiesa, descritto da Michel Foucault. Quando "se il condannato era presentato in pentimento, accettando il verdetto, chiedendo perdono a Dio e agli uomini dei suoi delitti, lo si vedeva purificato". C’è qualcosa di peggio della vendetta, è il populismo penale. C’è qualcosa di peggio del populismo penale, è la pretesa che il colpevole - tornato al rango ferino di nemico - si penta, chieda perdono. Tutto questo Fabio Di Lello non l’ha pensato. Ma è colpevole di questo. La vendetta è il demone di chi non trova più risposte di Vittorio Macioce Il Giornale, 3 febbraio 2017 Ci sono domande che speri di non farti mai. Muore la donna che ami. Muore sull’asfalto di un incrocio maledetto, per un semaforo non visto, per distrazione, per disgrazia, perché la vita e la morte sono tiri di dadi. Che succede? Che scatta? Che fai? La verità è che non puoi saperlo. Ti piacerebbe dire che sai perdonare, ma il perdono, quello vero, è un atto sovrumano. È la forza di un Dio che si incarna nell’uomo. Sospetti che te ne faresti una ragione, con quella dose di cinismo che aiuta gli uomini a sopravvivere. Poi c’è la vendetta e due vittime innocenti. È la scelta di Fabio, il trentaquattrenne di Vasto, l’uomo che ogni giorno cercava una risposta sulla tomba della moglie, con quella frase in testa difficile da scacciare "non c’è giustizia", con la foto del Gladiatore sul profilo Facebook. Fabio, come si sa, ha sparato. E tu, tu che faresti? È la scelta più tragica e sono in tanti quelli che dicono: magari farei lo stesso. Magari no, perché un conto è dirlo e altro farlo. Ma comprendono, si mettono nei suoi panni, come se qualcosa di ancestrale tornasse a bussare in questi tempi senza mappa e sestante. La violenza, fosse solo pensata, non è più un tabù. Il guaio è che sta diventando una risposta, quella sbagliata. È un vecchio demone che si ritrova a incarnare lo spirito di questo tempo. È come se ci fosse un vuoto di giustizia, uno spaesamento, una sorta di disillusione nel riuscire a trovare qui e ora una risposta al dolore che ti scava dentro. Non ti fidi dello Stato, non ti fidi dei processi, non trovi qualcosa a cui aggrapparti. È lì che il dolore diventa ossessione. È lì che cadi e finisci per assecondare i tuoi pensieri più cattivi. Lei non c’è più, lui è libero, non ha chiesto neppure scusa, e nessuno sa dirmi perché. Tu faresti come lui? Forse no, non ti appartiene, non è nel tuo carattere. Tanti hanno risposto sì, si può. Appartiene all’uomo, che di certo non è perfetto. Ma per capirlo, chiedi e la risposta non è così lontana da te. È la risposta di chi si è messo nei panni di Fabio e ha provato a dargli voce. "La vendetta non è giustizia, ma era la mia necessità. La tua vita non era stata scalfita, la mia si è interrotta lì, sull’asfalto, tra i riccioli, il sorriso e il sangue di Roberta. Non tolleravo che tu andassi in giro con i tuoi vent’anni di inconsapevolezza e superficialità. Le azioni hanno conseguenze. Sempre. Io sono la tua conseguenza. Ma io so quello che ho fatto. Vedi, chi sbaglia deve pagare. Nel mio mondo è così. Non ho saputo fare diversamente. Devo pagare. È giusto. Questo ha un senso per me. La vendetta non dà pace? Non è la pace che cerco. Non ora. Io cercavo un punto, un finale. Non chiedo di essere perdonato. Quello che è urgente è portare fiori a Roberta. Le ho portato anche una pistola, per dirle che tutto è finito. Ma i fiori vicino a lei stanno meglio. Questo lo so anch’io". Ma farsi giustizia da soli apre le porte al Far West di Stefano Zecchi Il Giornale, 3 febbraio 2017 Se mio figlio tornasse a casa desolato perché un compagno di scuola gli ha rubato l’astuccio con i pennarelli e la maestra non è stata in grado di difendere il suo diritto di proprietà, cosa suggerisco al bambino? Aspettare dietro la porta della mensa il ladruncolo e pestarlo a sangue? Il problema è tutto qui: in questo esempio elementare di modeste proporzioni va preso in esame anche la vicenda di Fabio Di Lello, il signore di Vasto, che ammazza chi ha ammazzato sua moglie. Dunque, dovrei suggerire a mio figlio di farsi giustizia da sé? Neanche per sogno. Da un punto di vista formativo quest’idea è deleteria, non soltanto perché può avviare il bambino sulla strada della delinquenza, quanto perché viene insinuata nella sua mente la convinzione che non esistano regole con cui si governa una comunità. Il rancore del signore di Vasto è più che comprensibile, ma non è ammissibile per una comunità, che si governa attraverso leggi, alleviare la propria pena vendicandosi, per di più commettendo lo stesso reato da cui si è generato il bisogno di vendetta. È indiscutibile che noi stiamo vivendo in una società in cui si percepisce costantemente l’ingiustizia della giustizia, l’assenza di certezza della pena, la lentezza delle procedure, le scappatoie burocratiche, tutti aspetti che allontanano il cittadino dal rispetto della legge. In più si può aggiungere tutta una letteratura, grandi film che suggestionano l’immaginario delle persone. Come non amare il mitico John Wayne che quando tira fuori dalla fondina la sua colt accoppa qualcuno solo a fin di bene? L’ombroso Charles Bronson giustiziere della notte, e il nostro Alberto Sordi, che nel film "Un borghese piccolo piccolo", tratto dall’omonimo romanzo di Vincenzo Cerami, interpreta il ruolo di un modesto impiegato così colpito negli affetti da volersi fare vendetta da sé, perché la legge ha umiliato il suo dolore. Sono molte e anche affascinanti le suggestioni per oltrepassare quel principio elementare della nostra civiltà democratica che non consente al singolo il diritto di farsi giustizia da sé, neppure se il torto patito è clamoroso. Si può comprendere il dolore di chi arriva a commettere un crimine per vendicarsi, perché la legge lo avrebbe tradito, ma ammettere che ciò sia lecito in una società di diritto significa aprire le porte all’anarchia. Una barbarica reazione a catena di reati come nelle società mafiose, in cui si crea un codice privato estraneo o in competizione alla legge dello Stato. Ma il fatto stesso che si possa discutere e anche giustificare un gesto come quello compiuto da Fabio Di Lello, significa che stiamo rischiando una pericolosa deriva anarchica. D’accordo sulla giustizia che non funziona, sulla sfiducia nella legge, ma c’è, come sempre, un problema originario più importante: come educare. E a questa domanda non si può rispondere accettando le motivazioni psicologiche che hanno spinto al crimine Di Lello. Piuttosto con umiltà e sincerità si spieghino le criticità delle leggi che ci governano, con l’impegno civile di migliorarle. Pena accessoria mai sotto il minimo di Laura Ambrosi e Antonio Iorio Il Sole 24 Ore, 3 febbraio 2017 Sentenza Corte di cassazione -Sentenza 4916/2017 penale. La pena accessoria per i reati tributari non può essere irrogata in misura al di sotto del minimo previsto, anche se la sanzione penale edittale è di durata inferiore. La previsione, come nel caso dei reati tributari, di un minimo per la misura accessoria espresso con la formula letterale "non inferiore a", anziché con l’individuazione di un determinato periodo esatto, rappresenta comunque un limite invalicabile al di sotto del quale il giudice non può scendere Ad affermarlo è la Corte di cassazione, terza sezione penale, con la sentenza 4916 depositata ieri. Un contribuente veniva condannato in primo grado a un anno di reclusione per il reato di indebita compensazione (articolo 10 quater, Dlgs 74/2000), oltre alle pene accessorie (interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche, incapacità di contrattare con la Pa, interdizione dalle funzioni di assistenza e rappresentanza tributaria). La Corte di appello riduceva la pena principale a otto mesi di reclusione mentre confermava quelle accessorie. Avverso la decisione, l’imputato proponeva ricorso per Cassazione lamentando che il giudice territoriale, nonostante avesse ridotto la pena principale, non riduceva c anche quelle accessorie. La Suprema Corte ha innanzitutto rilevato che per i reati tributari, in base all’articolo 12, Dlgs 74/2000, tutte le pene accessorie possono essere irrogate entro una fascia compresa fra un minimo e un massimo. Fa eccezione solo la pena accessoria dell’interdizione dall’ufficio di componente delle commissioni tributarie che prevede infatti l’interdizione perpetua. In tale contesto, si inserisce l’articolo 37 del Codice penale secondo cui quando la condanna importa una pena accessoria temporanea, e la durata di questa non è espressamente determinata, questa deve essere di entità eguale a quella della principale inflitta. In nessun caso essa può oltrepassare il limite minimo e massimo stabiliti per ciascuna pena accessoria. Secondo un orientamento della giurisprudenza di legittimità, nella "durata espressamente determinata" occorre ricomprendere anche i casi in cui la legge contempli un minimo e un massimo, spettando al giudice decidere in relazione alla gravità del reato, entro l’intervallo temporale. In base ad un diverso orientamento, invece, l’indicazione nella pena accessoria di un minimo ed un massimo non rappresenta una "durata espressamente determinata". I giudici di legittimità, discostandosi da questo secondo indirizzo interpretativo, hanno rilevato che per il caso specifico dell’articolo 12, Dlgs 74/2000, il legislatore pur utilizzando termini come "non inferiore a" e/o "non superiore a" e quindi non individuando un limite edittale numericamente prestabilito, ha utilizzato termini sostanzialmente equivalenti. Così la Suprema Corte, mentre con riferimento alla pena accessoria relativa all’interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche ha accolto il ricorso, per le altre due (incapacità di contrattare con la Pa e interdizione dalle funzioni di rappresentanza e assistenza in materia tributaria, ha ritenuto corretto l’operato del giudice di merito confermando dette interdizioni per un anno (minimo edittale previsto con la formula non inferiore a un anno) nonostante l’imputato fosse stato condannato a 8 mesi di reclusione. L’uso della scrittura privata falsa va depenalizzato e non costituisce più reato di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 3 febbraio 2017 Corte di cassazione - Sezione II penale - Sentenza 2 febbraio 2017 n. 4951. L’uso di scrittura privata falsa non rappresenta più reato. Lo chiarisce la Cassazione con la sentenza n. 4951/2017. La Corte si è trovata alle prese con una vicenda in cui all’imputato erano stati contestati i reati di uso di atto falso e di tentata truffa. Il tutto perché in concorso con altre persone - rimaste peraltro ignote - avrebbe utilizzato artifizi e raggiri (consistiti nel fare uso di una scrittura privata relativa a una richiesta di inserzione sul Registro italiano Internet con firma falsa del notaio e dell’impronta contraffatta del suo timbro) al fine di procurarsi l’ingiusto profitto consistente nella richiesta di saldo di una fattura pari dell’importo di circa 960euro. La Cassazione ha bocciato l’operato dei giudici di merito per un duplice motivo. Illegittima attività inquisitoria - Sotto un primo profilo il giudice di primo grado ha compiuto un’illegittima attività inquisitoria al di fuori del contraddittorio delle parti effettuando in camera di consiglio una navigazione in Internet che l’ha portato ad accertare che la società della quale l’imputata era legale rappresentante pur essendo apparentemente dedita a fornire servizi di natura commerciale e di promozione pubblicitaria di attività imprenditoriali, in realtà perseguiva l’unica finalità di ottenere con modalità illecite l’insorgenza di crediti a suo favore e a carico di professionisti senza la controprestazione di alcun servizio. Secondo i Supremi giudici le informazioni così acquisite sarebbero state qualificate come fatto notorio. Il tutto pur sapendo che rappresenta fatto notorio solo quello che non richiede la verifica del probandum, qualificandosi come tale ogni dato che può essere facilmente asseribile perché corrispondente a cognizioni comuni, storiche o "de rerum natura". Quindi in sostanza il fatto che siano state necessarie ricerche per acquisire quelle informazioni rende di per sé evidente che non si trattava certo di un fatto notorio. Si legge, così, nella sentenza che il giudice non può raccogliere e utilizzare prove da lui acquisite al di fuori del contraddittorio delle parti. L’errore commesso dal giudice di merito - Dopo aver fatto queste necessarie puntualizzazioni la Cassazione ha chiarito che le modifiche apportate dal Dlgs 7/2016 riguardano anche la depenalizzazione del reato di falso in scrittura privata così come previsto dall’articolo 485 del Cp. Ora - si legge nella sentenza (con un’opera di interpretazione autentica della norma) - se è stato depenalizzato il reato di falso in scrittura a maggior ragione non ha rilevanza penale il comportamento del soggetto che si limiti a utilizzare le scritture false e che, quindi, non sia intervenuto nell’opera vera e propria di falsificazione. Secondo la Corte "l’unica lettura costituzionalmente orientata del contesto normativo nel quale il Legislatore aveva in origine deciso di ben differenziare l’ipotesi specifica dell’uso della "scrittura privata" falsa rispetto a quella più generica dell’uso di un "atto falso" e ha, con l’intervento operato con il Dlgs 7/2016, addirittura eliminato ogni riferimento alla scrittura privata è quella di ritenere che anche l’uso di scrittura privata falsa oggi non è più previsto dalla legge come reato". Ciò impone l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata limitatamente al reato di falso perché il fatto non è (più) previsto dalla legge come reato. Brescia: nuovo carcere, c’è il cronoprogramma di Eugenio Barboglio Brescia Oggi, 3 febbraio 2017 Il ministero della Giustizia fissa i tempi per l’ampliamento del carcere di Verziano. Se a luglio scorso il deputato Pd Alfredo Bazoli dall’incontro con il Dipartimento amministrazione penitenziaria aveva riportato l’assicurazione che il 2017 sarebbe stato un anno decisivo per l’espletamento della procedura di gara del progetto, ora torna con qualcosa di più preciso e circostanziato. La tempistica, il cronoprogramma. Con la fine di aprile - hanno confermato il direttore generale del Dap, Pietro Buffa e l’architetto Di Croce che cura l’iter procedurale - sarà proclamato il vincitore della gara di progettazione della nuova struttura che si aggiungerà a quella attuale di Verziano, permettendo di svuotare e pensionare Canton Mombello. Successivamente per la fine di luglio sarà redatto il progetto definitivo, così da poter indire subito dopo la conferenza dei servizi con i soggetti coinvolti nell’operazione e rimuovere eventuali problemi sulla strada del completamento del percorso. Che a fine anno vedrà la gara per il progetto esecutivo. Una ulteriore conferma dello stanziamento di 15 milioni di euro per la realizzazione dell’opera è stato l’altro punto all’ordine del giorno del vertice ministeriale di Bazoli sul carcere bresciano. Non ce n’era bisogno più di tanto, se non per sgomberare il campo dai dubbi su effettività ed entità della somma circolati in ambiente bresciano. Somma che il ministero però ha sempre ribadito, sottolinea Bazoli, precisando che lo ha fatto anche ieri. Sicuramente più importante invece è stata la terza questione affrontata, ossia la necessità di avere una stima della casa circondariale di Canton Mombello. E in tempi abbastanza rapidi, se si vuol rispettare il cronoprogramma. Già ieri il ministero della giustizia avrebbe sollecitato a tal fine il Demanio. La stima del carcere cittadino serve per poterlo utilizzare come contropartita nella trattativa con l’azienda agricola Verziano proprietaria dei terreni accanto alla realtà penitenziaria e coinvolti nell’ampliamento. Per il nuovo padiglione, capace di accogliere 400 detenuti, potrebbe bastare il sedime attuale, ma non per i servizi collegati, quelli che distinguono un carcere moderno come quello che il ministero intende realizzare alla periferia di Brescia: aree sportive e agricole, laboratori per il lavoro. Per quelli occorre ulteriore spazio. E conoscere con esattezza il valore di Canton Mombello è decisivo per sapere cosa ci sarà sul tavolo della trattativa con i proprietari dei terreni. Già nella direzione della trattativa si sta muovendo il Comune di Brescia. Di recente sul dorso bresciano del Corriere della Sera era stata avanzata l’ipotesi che palazzo Bonoris in via Tosio potesse fare da contropartita. La Loggia, per voce dell’assessore all’Urbanistica Michela Tiboni, accoglie con favore che ci possa essere anche il ministero su questa linea e con strumenti che possano facilitare l’acquisizione fondiaria. Canton Mombello, del resto, della partita del nuovo carcere ne fa parte per forza, visto che a cose fatte resterà un immobile vuoto e senza funzione. "Il Pgt lascia aperte tante strade", ricorda Tiboni: l’esproprio ma meglio ancora l’accordo con l’azienda di Verziano "con la quale il dialogo è sereno e pacato", dice l’assessore. Da sciogliere però c’è il nodo del ricorso al Tar dei proprietari, che, come altri (vedi i questa pagina il caso Martinetto), rivendicano i diritti edificatori che gli erano stati concessi dal precedente Pgt e cancellati dalla variante. Trento: carcere sovraffollato e carenza di agenti, il direttore minaccia la chiusura trentotoday.it, 3 febbraio 2017 Prosegue a Spini lo stato di agitazione per il personale di polizia penitenziaria, il direttore Pappalardo minaccia la chiusura. I deputati Ottobre e Dellai si attivano per ottenere la delega dal governo. Carcere Sovraffollato e carenza di agenti, il direttore minaccia la chiusura. Servono almeno 20 agenti con estrema urgenza o si rischiano situazioni di pericolo. La denuncia arriva dal Sinappe, nella settimana di agitazione del personale penitenziario al carcere si Spini di Gardolo. La struttura, lamentano le sigle sindacali, ospita 360 detenuti a fronte di un limite di 240 mentre il personale è fermo alle 130 unità, un numero ben lontano dai 214 agenti previsti. Il risultato sono ore su ore di straordinario e il timore di vedersi negati in futuri i riposi settimanali. Alla casa circondariale mancano il 35% degli agenti, la copertura più bassa di tutto il Triveneto. Il direttore Valerio Pappalardo è arrivato a minacciare la chiusura della struttura, se non si dovesse trovare una soluzione alla questione. Sul tema sono intervenuti i deputati Ottobre e Dellai, chiedendo rinforzi e attivandosi a Roma per ottenere la delega dal governo. Firenze: via l’ultimo recluso dall’Opg di Montelupo, ora si decide sulla villa La Repubblica, 3 febbraio 2017 Via l’ultimo detenuto dalla villa medicea dell’Ambrogiana a Montelupo Fiorentino, dal 1886 manicomio criminale. Dalla settimana prossima cesserà definitivamente di essere un ospedale pediatrico giudiziario. E per il Comune, che parla di "evento epocale per la città" da gestire "con molta attenzione", si apre ora la delicata fase del recupero della struttura. Che non può tralasciare, chiede il sindaco Paolo Masetti, anche la tutela dell’occupazione per chi ha fin qui lavorato nella struttura. Mercoledì scorso Franco Corleone, commissario unico del governo per le procedure necessarie al definitivo superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari, ha incontrato la commissione consiliare speciale "Villa medicea" per illustrare la situazione attuale e quanto accadrà nel breve periodo. Primo dato importante è la rassicurazione del Dap, riferisce ieri il Comune, sul fatto che la villa non ospiterà un carcere. Sulla valorizzazione della struttura la prossima settimana si riunirà poi il gruppo che deve definire le linee guida della progettazione futura, coordinato da Comune e composto da Dap, Regione Toscana, Demanio. "La certezza che la villa medicea non diventi sede di una struttura carceraria è per noi sicuramente positiva - commenta Paolo Masetti. Certo è che a noi preme anche il futuro di coloro che lavoravano nell’ospedale psichiatrico e che si sono trasferiti in zona, costruendo, di fatto, la loro vita intorno a questa realtà. Faccio mie le parole di Franco Corleone nel chiedere pubblicamente al Dap, con il quale ho già affrontato la questione, affinché vengano tutelati i dipendenti della struttura, che hanno lavorato in questi decenni con grande competenza e professionalità di cui si deve necessariamente tenere conto". Cosa fare ora della villa dell’Ambrogiana? La soluzione ideale, si spiega dal Comune, "sarebbe quella di arrivare in tempi brevi a pubblicare un bando pubblico non solo finalizzato all’individuazione di un’idea progettuale, ma anche alla sua sostenibilità economica nel tempo. Un ruolo importante nella salvaguardia dell’immobile in questa delicata fase di passaggio è certamente rivestito dal Dap, per quanto attiene l’eliminazione delle infrastrutture realizzate in relazione alla funzione carceraria". Brindisi: detenuto s’impicca in cella, il medico lo salva di Roberta Grassi Quotidiano di Puglia, 3 febbraio 2017 "La vita va salvata in ogni modo, è questa la missione di ogni medico". È il commento di Dino Furioso, medico di turno nel carcere di Brindisi nella notte tra lunedì e martedì quando un detenuto ha tentato di togliersi la vita impiccandosi. Lo ha salvato, chiamato a intervenire dai compagni di cella che lo hanno trovato in bagno. La tragedia sembrava compiuta. E invece dopo alcuni minuti di massaggio cardiaco, di manovre imparate a memoria sui manuali ma sempre difficili da attuare quando l’emergenza è lì, in carne e ossa, il cuore del detenuto ha ricominciato a battere regolarmente. Un ritorno alla vita salutato con l’applauso dalle altre persone che si trovano recluse nella casa circondariale di via Appia. Una rinascita che resterà probabilmente fra i momenti da ricordare per Furioso, medico sportivo che presta servizio nel carcere di Brindisi da molti anni. È accaduto tra lunedì e martedì, all’1.30 del mattino. Il compagno di cella è andato in bagno e ha visto un compagno di cella impiccato allo sciacquone con un asciugamano. Era cianotico. Non ci pensa un secondo il detenuto a dare l’allarme agli agenti di polizia penitenziaria che sono accorsi senza esitare. A loro volta hanno avvertito il dottor Furioso che era di turno quella notte. Un agente ha afferrato l’uomo per le gambe sollevandolo, sì da ridurre immediatamente gli effetti dello strangolamento. Un altro lo ha liberato. Si è deciso, in quei frangenti concitati, di non tentare il trasporto all’ospedale. Non ci sarebbe stato tempo. Bisognava tentare il tutto per tutto per ridargli la vita, lì, con gli strumenti a disposizione. Con la tenacia di chi sa quanto può essere gratificante salvare una vita. L’uomo, sembrava ormai privo di vita. Non respirava quasi più. Il dottor Furioso non si è dato per vinto, lo hanno aiutato gli stessi detenuti della cella. Torino: la proposta della Garante "nel carcere una sala per pregare tutte le fedi" di Jacopo Ricca La Repubblica, 3 febbraio 2017 Un luogo di preghiera condiviso dalle tante fedi che convivono nel carcere delle Vallette per sconfiggere il fanatismo e la radicalizzazione. Un’idea che nasce dal confronto tra don Fredo Olivero, per più di quindici anni responsabile della Pastorale migranti della diocesi, e Monica Gallo, garante dei detenuti della Città. "Quello che mi chiedo è se non si possa pensare di avere un unico spazio di riflessione, meditazione e preghiera gestito dalle diverse comunità religiose presenti" spiega Gallo che lanciato la riflessione sul blog sul pianeta carcerario, ospitato sul sito di Repubblica, prendendo spunto anche dalle recenti polemiche sulla radicalizzazione dei terroristi islamici dietro le sbarre. In questo momento nella casa circondariale Lorusso e Cotugno il 47,4 percento dei detenuti è di origine straniera e, se per i musulmani è stata individuata la palestra come luogo di preghiera, per tutti gli altri non cattolici gli spazi non ci sono. "Questa riflessione è nata partendo dagli spazi architettonici che nel carcere di Torino sono dedicati alla religione cattolica - racconta la Garante. Ci sono una grande chiesa centrale e cappelle in ogni padiglione, ma per tutti gli altri mancano gli spazi". L’idea, che non riguarderebbe solo musulmani e cattolici, ma anche le altre fedi cristiane così come buddisti, induisti e scintoisti, incassa l’appoggio di Fredo Olivero: "Ci sono le esperienze del Mauriziano o delle Molinette che dicono che si può fare - dice il sacerdote. Abbiamo anche il progetto della costruzione di una "sala delle religioni" in corso di realizzazione all’ex Incet di via Cigna. In carcere potrebbe essere sperimentata durante il Ramadan per un mese e poi si potrebbe valutare come è andata". L’idea si fonda sul dialogo interreligioso come strumento principe per contrastare la radicalizzazione, ma Gallo denuncia la totale assenza di mediatori culturali alle Vallette: "Nonostante un protocollo siglato dal Dap, il dipartimento per l’amministrazione penitenziaria, e dall’Ucoii, l’Unione delle comunità islamiche italiane, che prevedeva di inserire almeno un mediatore in ogni carcere, a Torino in questo momento non ce n’è neanche uno". Per Olivero però bisogna partire da lì: "Senza dialogo tra fedi e culture cresce solo il pregiudizio - conclude il sacerdote - Iman bravi e disponibili ci sono e i monaci cappellani che ora sono alle Vallette hanno le capacità per sostenere l’esperienza". Roma: Angiolina Freda, il giudice "in carcere" da 60 anni, per scelta di Maria Lombardi Il Messaggero, 3 febbraio 2017 "Grazie dottore. A domani". Alle 18,30 Angiolina Freda esce dal carcere. Tutti i giorni da 61 anni, "detenuta" per scelta. "Al mattino li condannavo e il pomeriggio andavo da loro. Oppure il pomeriggio li conoscevo e due giorni dopo li giudicavo. Ma poi tornavo sempre da loro". Giudice al tribunale dei minori e volontaria in carcere, rigorosa nell’applicare la legge e materna nel renderla più sopportabile. Questo ha fatto Angiolina per tutta la vita: ha donato il suo tempo a chi non sa che farci e lo consuma nell’attesa, ha dato un senso e un ritmo alle ore lunghissime e ferme. Far muovere le mani e la testa, almeno quelle, prima che si arrendano all’immobilità. Anche adesso che di anni ne ha 86, Angiolina continua a dedicarsi ai suoi detenuti. "Dottore, tu sì che sei un bravo giudice. È vero, ci condanni ma poi ci dai consigli e ci tieni occupati", così le dicevano i ragazzi di Casal del Marmo, e lei sempre lì a farli parlare o creare. Dal 2010 è a Regina Coeli, tre ore la mattina e tre il pomeriggio, nel laboratorio di artigianato della IV sezione, tutto a sue spese. "Grazie dottore. per queste ore che ci offre, ci siamo sentiti fuori dal carcere, abbiamo respirato un’aria pulita". E Angiolina ogni giorno, senza sentire la fatica dell’età, entra nel grande portone di via della Lungara. Alzando gli occhi, sul muro della seconda rotonda, saluta i colleghi Falcone e Borsellino, un detenuto ha riprodotto qualche mese fa la loro foto a matita, in bianco e nero. Un percorso fatto insieme, il giudice Freda ne conosce ogni singolo passo, quel ritratto è il dono di una vita intera. Padova: riparte domenica 5 febbraio "Cantiere all’Opera", con la lirica debutta il sociale Riccardo Cecconi Il Mattino di Padova, 3 febbraio 2017 Domenica 5 febbraio il debutto della Stagione al Teatro Barbarigo con l’Ensemble Rossini. Ogni mese un evento e un’associazione sul palco, prima ospite Ristretti Orizzonti. Giunge alla sua quinta edizione la rassegna operistica dell’associazione Cantiere all’Opera, che troverà il suo palco al teatro Barbarigo di Via del Seminario la prima Domenica di ogni mese alle 17 fino a Dicembre, e che quest’anno avvia una nuova collaborazione con il Pollini. Proprio dal Conservatorio proviene l’Ensemble Rossini, nuovissima compagine diretta dal Maestro Emanuele Pasqualin, sul palco del Barbarigo questa Domenica per il debutto e il concerto che aprirà la rassegna, a fianco della violinista Marina Miola e il clarinettista Andrea Agati, e le voci delle soprano Annamaria Dainese, Kamilla Menlibekova e Giulia Poletto. Le cantanti sono state selezionate durante le audizioni svolte lo scorso autunno, a cui hanno partecipato giovani virtuosi provenienti da non meno di 26 paesi di tutto il mondo, voci scelte per il repertorio della serata, che prevede arie tratte dal Flauto Magico, dal Don Giovanni, dall’Otello, dal Guglielmo Tell, dalla Cenerentola, da I Capuleti e i Montecchi, dal Don Pasquale e da Un Ballo in maschera. Per una realtà come Cantiere all’Opera, che realizza la sua rassegna senza fare ricorso a finanziamenti pubblici, quello delle audizioni resta un sistema di sostentamento al pari dei tesseramenti. Un’altra iniziativa che caratterizzerà la rassegna sarà lo spazio "Diamo voce a..." una pausa all’interno del concerto in cui esponenti dell’associazionismo cittadino saliranno sul palco per parlare delle loro attività. primi ospiti, domenica, saranno i membri della Cooperativa sociale l’Altracittà - Ristretti Orizzonti, realtà da anni attiva nell’assistenza e nel reinserimento sociale di persone svantaggiate come detenuti ed ex detenuti. Molti altri restano gli appuntamenti del paniere Cantiere all’Opera: il secondo appuntamento scatterà il 5 Marzo, per l’incontro con l’étoile internazionale Luciana Savignano e la presentazione del volume L’eleganza interiore, biografia a lei dedicata dallo scrittore Emanuele Burrafato. Il 2 Aprile sarà la volta del concerto lirico "Tra Arguzie e trappole", passando quindi al 7 Maggio con "Passioni e vendette", e l’assegnazione dell’annuale premio Arrigo Boito al tenore Giuseppe Filianoti. il 4 Giugno la locandina recherà il titolo "Amori e gelosie", mentre il primo ottobre, dopo la pausa estiva, toccherà alla Cenerentola di Rossini, su libretto di Jacopo Ferretti. Seguirà, il 5 Novembre, la Suor Angelica di Puccini su libretto di Gioacchino Forzano, con una nuova partecipazione dell’Ensemble Rossini, chiudendo il 3 Dicembre con la Lucia di Lammermoor di Donizetti su libretto di Salvatore Cammarano. Ingresso unico a 15 euro, per studenti 5 euro, mentre gli iscritti, con quota annuale di 40 euro, avranno ingresso gratuito ai concerti e di 12 Euro alle opere. Alessandria: sabato 4 febbraio un dibattito per guardare "Oltre il muro" delle carceri di Tatiana Gagliano adiogold.it, 3 febbraio 2017 Una delegazione del Comitato Macchiarossa, accompagnata dall’On. Andrea Maestri e dal segretario generale Uil-pa Salvatore Carbone visiterà i due istituti alessandrini e poi, dalle 16, terrà un dibattito alla Casa di Quartiere in via Verona 116 ad Alessandria. Sabato 4 febbraio alla Casa di Quartiere di Alessandria si guarderà "Oltre il muro" delle carceri alessandrine. Da settimane gli agenti della Polizia Penitenziaria di San Michele e poi anche del Don Soria rinunciano al pasto servito in mensa per denunciare la carenza d’organico. Una protesta "silenziosa" che ha dato voce ai baschi azzurri, costretti ad affrontare turni estenuanti e a rinunciare anche ai previsti riposi settimanali. "Possibile Alessandria - Comitato Macchiarossa" ha così deciso di organizzare l’incontro pubblico per discutere non solo dei diritti degli agenti della Penitenziaria ma anche dei problemi dei carcerati, dal sovraffollamento alla mancanza di lavoro "intramurario" che rischiano di vanificare il principio rieducativo della pena. Sabato una delegazione del Comitato Macchiarossa, accompagnata dall’On. Andrea Maestri e dal segretario generale Uil-pa Salvatore Carbone visiterà i due istituti alessandrini e poi, dalle 16, terrà un dibattito alla Casa di Quartiere in via Verona 116 ad Alessandria. "La politica ha risposto all’appello sulla protesta della Polizia penitenziaria di San Michele Alessandria" ha commentato il segretario del sindacato Salvatore Carbone. Da qualche giorno, ha aggiunto, le due carceri di Alessandria sono state accorpate sotto la denominazione "Istituti penitenziari G. Cantiello e S. Gaeta Alessandria". Entrambe le strutture rimarranno aperte, ha precisato il segretario Uil-pa, ma ci sarà un unico dirigente superiore. "Non sappiamo ancora chi sarà e neanche chi assumerà questo incarico fino all’interpello. Per noi non è una cosa da poco perché è comunque la nostra controparte a livello sindacale". In attesa di avere questa risposta, il 30 gennaio la Uil-pa ha intanto ricevuto "rassicurazioni più concrete" sul problema della carenza d’organico a San Michele dal Provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria. "La carenza di personale negli istituti alessandrini è diventata una priorità - ha spiegato Salvatore Carbone - È stato modificato l’accordo su Alba e ora le 44 unità in sede stabile non verranno più suddivise tra gli istituti di Fossano, Saluzzo e Asti ma tra Saluzzo, Asti e Alessandria San Michele. Dalle 8-14 e poi dalle 14-20 sono previste sette unità in supporto per ogni turno e ci è stato assicurato che anche le 15 unità distaccate già da un anno dalla sede di Alba verranno destinate ai tre istituti maggiormente in difficoltà". Per non aggravare la situazione al Cantiello e Gaeta i previsti tre agenti in supporto ai colleghi di San Michele rimarranno invece nelle struttura carceraria in pizza Don Soria. "Certo la carenza di organico è più pesante ma è il massimo che siamo riusciti a ottenere come provvedimento tampone almeno fino alle assunzioni nazionali. È comunque un passo avanti rispetto alla riunione del 26 gennaio quando Alessandria non era stata neppure considerata una priorità". Venezia: un’audio-teca al carcere di Santa Maria Maggiore veneziatoday.it, 3 febbraio 2017 In carcere "si alza il volume": a Santa Maria Maggiore l’audio-teca che rieduca i detenuti. Il progetto ha preso piede nel 2013. Dal 2017 è stato ampliato ad altre carceri e farà capolino anche nella casa circondariale maschile lagunare. Sarà presentato martedì 7 febbraio. Un’audio-teca consultabile per stati d’animo. Arriva anche alla casa circondariale di Santa Maria Maggiore di Venezia l’innovativo progetto di CO2, che offre l’ascolto della musica come naturale e ritemprante chiave d’accesso a un mondo di emozioni e sentimenti represso da detenzione e disagio interiore. Dopo tre anni di sperimentazione e successive valutazioni scientifiche dei dati raccolti in 4 istituti di pena italiani, arriva il momento di inaugurare ufficialmente nuovi spazi di libertà interiore offerti a tutti i detenuti di 8 nuove carceri italiane. Un momento importante che consente alla musica contenuta in queste particolari audio-teche di essere stimolo per il mondo emotivo personale e al contempo strumento educativo e trattamentale. Dopo i momenti di formazione destinati a educatori, agenti di polizia penitenziaria e operatori culturali di ciascun istituto, CO2 verrà presentato attraverso una serie di eventi-spettacolo all’interno dei 12 istituti di pena coinvolti. E martedì 7 febbraio sarà la volta del carcere lagunare. Le funzioni dell’audio-teca e il suo scopo in carcere verranno presentate attraverso uno spettacolo con momenti musicali dal vivo che vedranno protagonista Franco Mussida, ascolti e qualche proiezione video. Un modo facile e diretto per incentivare la fruizione dell’audio-teca attraverso l’individuazione dello stato emotivo evocato dalla musica ascoltata. I detenuti verranno quindi coinvolti in un gioco interattivo fatto di ascolto di brani live e dell’audio-teca. Dopo l’ascolto i detenuti manifesteranno il loro stato d’animo attraverso l’esposizione di speciali emoticon che li rappresentano. Sono gli stessi presenti nei tablet che danno accesso al database dei brani dell’audio-teca. CO2 è un progetto entrato in servizio nella sua fase sperimentale nel 2013 grazie alla collaborazione del Ministero della Giustizia coinvolgendo circa 100 detenuti sperimentatori nelle carceri di Monza, Opera, Rebibbia femminile e Secondigliano. È stato poi seguito nel suo svolgimento, oltre che da un comitato scientifico, anche dal Dipartimento di Scienze Sociali dell’Università di Pavia. E dal 2017, su volontà del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia, sarà disponibile anche negli istituti di pena di Ancona, Genova, Parma, Torino, Venezia, Firenze, Bologna e Milano (San Vittore). Roma: "Outside/Inside/out" e "Non me la racconti giusta", la street-art entra in carcere La Stampa, 3 febbraio 2017 Due progetti che portano l’arte dentro le prigioni: "Outside/Inside/out" e "Non me la racconti giusta". Spazi chiusi che diventano pubblici. Luoghi trascurati che si trasformano in gallerie d’arte. Ambienti grigi che diventano la tela per esprimere personalità. Negli ultimi mesi due progetti di street art sono entrati nelle carceri italiane, per riportare l’attenzione sulla dimensione delle case circondariali e per offrire ai detenuti la possibilità di esprimersi attraverso l’arte. A Roma, le pareti del carcere di Regina Coeli si sono aperte all’arte, alla creatività e all’ingegno dei detenuti con il progetto "outside/inside/out - Arte a Regina Coeli". Tre artiste, fotografe e videomaker - Laura Federici, Camelia Mirescu e Pax Paloscia sono state invitate a realizzare interventi artistici permanenti sulle pareti del carcere, negli spazi comuni. Opere a più mani realizzate con linguaggi e tecniche diverse. Dall’iconismo grafico e street di Pax Paloscia, alla pittura espressiva di Laura Federici fino al collage materico e multi-visuale di Camelia Mirescu. Opere permanenti che rendono pubblici e fruibili gli spazi chiusi della casa circondariale. Il progetto è promosso e condiviso da Roma Capitale, Assessorato alla Crescita culturale - Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali - Macro e dalla Direzione Casa Circondariale "Regina Coeli", a cura di Claudio Crescentini, con l’organizzazione di Vo.Re.Co Volontari Regina Coeli e Shakespeare and Company. Si è svolto in Campania invece "Non me la racconti giusta", progetto di arte pubblica realizzato grazie alla collaborazione tra gli street-artist Collettivo Fx e Nemòs con il magazine di arte ziguline e il fotografo Antonio Siena. Questo progetto ha visto non solo l’impegno degli street-artist, ma la partecipazione dei detenuti nella creazione delle opere murarie che ora decorano la Casa circondariale di Ariano Irpino e nella Casa di reclusione di Sant’Angelo dei Lombardi, sempre in provincia di Avellino. Un progetto che mira a compiere una serie di interventi in diverse carceri italiane, e che coinvolge in ogni tappa un gruppo di detenuti. È grazie al confronto tra loro e le idee dei detenuti stessi che sono nate opere come il volto di Ulisse, il murale con Totò. Taranto: nel carcere il progetto "Fuori… gioco" ciaksocial.com, 3 febbraio 2017 Giunge all’ultima fase la quarta edizione del progetto formativo "Fuori… gioco!" che si tiene presso il Carcere di Taranto e che ha come obiettivo quello di trasmettere ai detenuti i valori tipici dello sport come il rispetto delle regole e dell’avversario, convintamente portato avanti dalla dott.ssa Stefania Baldassari, direttore dell’Istituto Penitenziario e dall’avv. Giulio Destratis presidente dell’Aps Fuorigioco e coordinatore del progetto. Anche questa volta tra i principali sostenitori dell’iniziativa figurano personalità di spicco della Magistratura come i Giudici Martino Rosati e Maurizio Carbone. Tra le novità di quest’anno anche la presenza a Taranto del Magistrato ferrarese Filippo Di Benedetto, vero pilastro della Nazionale Magistrati che vanta un passato da calciatore di buon livello. Dopo le lezioni di aula in tema di tecniche e tattiche di gioco, di giustizia sportiva, di medicina, di ordinamento federale che hanno preceduto la fase prettamente atletica con una ventina di detenuti impegnati in una serie di allenamenti di gioco, è arrivato uno dei momenti più significativi del progetto: l’ormai classico incontro di calcio quadrangolare all’insegna del Fair Play e della correttezza tra le rappresentative di Magistrati, Avvocati, Agenti Penitenziari e detenuti che si terrà Sabato 4 febbraio allo Stadio Iacovone di Taranto con inizio alle ore 15,00 ed ingresso gratuito. Di rilevo i nomi del calcio italiano che aderiscono ogni anno all’iniziativa: dopo Gianni Rivera, Nicola Legrottaglie ed Antonio Cabrini, in questa quarta edizione è confermata la presenza del grandissimo Campione del Mondo 1982 Claudio Gentile che interverrà alla conferenza stampa dell’evento (sabato mattina all’interno dell’Istituto di via Magli) per poi indossare gli scarpini nel pomeriggio e prendere parte al quadrangolare. "Bare-Handed - A mani nude", con la telecamera nel carcere dei giovani jihadisti di Luciana Borsatti Ansa, 3 febbraio 2017 Adolescenti incerti, cercano nel Califfato una casa e un’identità. "Ce li aspettavamo aggressivi, determinati. E invece abbiamo incontrato ragazzi giovanissimi, al massimo ventenni, che in realtà cercavano in modo quasi infantile un’appartenenza, un’identità". A parlare con l’Ansa è il regista Stefano Obino, che sta lavorando ad un documentario su jihadisti e "returning fighter" nel carcere minorile di Wiesbaden, in Germania, protagonisti di un progetto di recupero che passa per il teatro ed il Corano. La maggior parte di loro, immigrati di seconda e terza generazione, provengono proprio dai quartieri periferici di Francoforte, dove si è svolto il maxi blitz antiterrorismo di ieri. A pochi chilometri si trova il carcere dove lui e la casa di produzione italiana TFilm sono riusciti a far entrare per la prima volta una telecamera, dopo aver convinto le autorità tedesche della validità del progetto: il documentario "Bare-Handed - A mani nude", per il quale è appena partita una campagna di crowdfunding. Le riprese sono in corso, ma già il trailer ed i primi clip dicono molto dell’esperienza di recupero messa in atto dal regista teatrale Arne Dechow e da Martin Meyer Husamuddin, un tedesco convertito dall’islam e divenuto imam del carcere. Significativa la confessione di Mustafa: "Qui in Germania - dice, il volto seminascosto dal cappuccio - non puoi pregare in pace, sei discriminato. Ho incontrato molti reclutatori: dicono che laggiù è meraviglioso, che puoi vivere secondo i principi islamici. Che puoi combattere per l’islam ma se non vuoi puoi solo vivere lì". "L’Isis? Non so esattamente - prosegue il ragazzo - da una parte sembrano terroristi, dall’altra sembrano gente che vuole vivere l’islam in pace. E cosi sono in questo dilemma, non so cosa sia il Bene e il Male". Una testimonianza da cui emerge, osserva ancora Obino, che l’Isis "è un’occasione di riscatto sociale, una forma di identità culturale. Altri giovani raccontavano: "se andiamo in Algeria non ci sentiamo algerini, qui in Germania non siamo tedeschi". E dunque il Califfato diventa per loro ‘casa nostrà, un luogo dove essere se stessi prima che combattere il jihad". Uno spettacolo già andato in scena, per il pubblico nel teatro del carcere, raccontava in chiave ironica di un paradiso immaginario dove si incontrano un attentatore suicida e il cantante rasta vittima dell’esplosione. Ma dal "work in progress" sulla scena teatrale emerge anche tanta rabbia, quella di Aidin, per esempio: adolescente di origine turca deriso a scuola come "il musulmano", sebbene lui nemmeno avesse un Corano in casa. "Lontano dai palazzi di Bruxelles - conclude Obino - un regista ed un imam cercano di creare una nuova cultura europea, che non emargini ma sappia includere". "Le chiavi della libertà. Arte-terapia e Gestalt in carcere", di Arianne Fonda Il Piccolo, 3 febbraio 2017 Disegni che raccontano pezzi di vita personale di un detenuto. Arianne Fonda, triestina, psicologa, psicoterapeuta e arte-terapeuta, ha potuto svolgere diversi laboratori sulla base dell’Arteterapia e della Gestalt dal 2009 al 2012 all’interno del reparto maschile della carcere del Coroneo. Da questo cammino tra le sbarre è nato il libro "Le chiavi della libertà. Arte-terapia e Gestalt in carcere" (Aracne Editrice) a cura della stessa Fonda, presentato al pubblico il 3 febbraio al Coroneo. "Tanti si raccontano con storie non inerenti al reato commesso, ma trasmettono la parte umana che spesso viene tralasciata". L’arte-terapia è uno strumento che supera le barriere linguistiche e culturali. E non solo. "Studi recenti hanno dimostrato che l’uso dell’arte-terapia in galera comporta una diminuzione degli atti di autolesionismo e la percentuale dei suicidi diminuisce significativamente". Terrorismo. "Rischio radicalizzazione, Italia meno tranquilla" di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 3 febbraio 2017 La radicalizzazione è più che un rischio. È una minaccia concreta di violenza, confermata dalle "più recenti indagini" della magistratura italiana, da cui emerge la presenza di "Ione actors" pronti ad entrare in azione "in scenari medio-orientali o in territorio italiano". Perciò, "la condizione di relativa tranquillità dell’Italia potrebbe mutare", dice il ministro della Giustizia Andrea Orlando di fronte alla commissione Affari costituzionali della Camera, alla luce dei "dati giudiziari" che confermano l’analogo allarme del capo della polizia. Ecco perché la lotta alla radicalizzazione violenta è "una priorità politica", con particolare attenzione al web e al carcere. Quest’ultimo è un osservatorio "privilegiato" della radicalizzazione e la prevenzione del rischio, fa sapere il ministro, potrebbe in futuro passare anche attraverso l’utilizzo delle colonie agricole per scontare la pena in contesti lavorativi. È nel carcere che spesso si crea quella "zona grigia" di proselitismo dei terroristi di matrice jihadista che fa presa soprattutto sulla seconda generazione di immigrati. I detenuti per reati di terrorismo internazionale sono stati separati dagli altri e sottoposti a una capillare osservazione e per i "segnalati" vige un trattamento detentivo più rigoroso. La situazione italiana è meno allarmante di quella europea: su 55.381 detenuti presenti (dato, purtroppo, in costante aumento da mesi), gli "osservati" sono 393 (tunisini, marocchini, egiziani e 14 italiani, 3 con cognome straniero) ma soltanto 175 sono classificati "a forte rischio di radicalizzazione" e 46 sono nel circuito dell’Alta Sicurezza. Dei 18.825 stranieri detenuti,14.680 sono di fede musulmana (i professanti sono però 7.500): garantire l’esercizio del culto non è solo un dovere ma anche una strategia per non alimentare risentimento. Perciò si stanno stipulando protocolli d’intesa con le associazioni religiose disponibili a favorire "la circolazione di anticorpi in grado di debellare focolai di odio sociale e religioso". Sbagliato, invece, pensare a una sorta di imam "con bollinatura" da far entrare nelle carceri per la pratica del culto perché, com’è avvenuto in altri Paesi (Francia), verrebbero percepiti come "agenti dello Stato" e sarebbero "inutili". Particolarmente esposto è il mondo del carcere minorile: anche se sono solo 12 i detenuti attenzionati, la strategia messa in campo è globale, improntata ad accoglienza, sostegno e integrazione, per valorizzare i diversi patrimoni culturali e religiosi, e stemperare il rischio-isolamento ed emarginazione, "che alimenta spinte e derive terroristiche e crea anche il contesto necessario alla propaganda e al reclutamento jihadista". Essenziale è la presenza di mediatori culturali. Quanto all’esecuzione penale esterna - la "sfida" per la quale sono stati stanziati circa 16 milioni per il prossimo triennio -, secondo Orlando costituisce "assoluta priorità" l’individuazione di interventi specifici per i soggetti a rischio, passando per il coinvolgimento del contesto familiare, sociale e territoriale di appartenenza. Migranti. Circolare del Ministero: "cercate i nigeriani irregolari, è pronto un charter" di Jacopo Ricca La Repubblica, 3 febbraio 2017 L’invito non è piaciuto a molti: "La questione che sconcerta è innanzitutto che si disponga il rintraccio per gruppi etnici". Una circolare del ministero dell’Interno scatena la polemica politica sui rimpatri verso la Nigeria. Con un messaggio urgente le questure di Torino, Roma, Brindisi e Caltanissetta (tutte sedi di Cie attivi in questo momento) sono invitate individuare entro il 18 febbraio 95 cittadini nigeriani irregolari da riportare nel Paese d’origine con un charter, per farlo la polizia può chiedere l’autorizzazione "a effettuare mirati servizi finalizzati al rintraccio di cittadini nigeriani in posizione illegale sul territorio nazionale". Una frase che non è piaciuta a molti, tra questi gli avvocati dell’associazione siciliana "Adduma", che riunisce un gruppo di legali che si occupano dei diritti dei i migranti: "La questione che sconcerta è innanzitutto che si disponga il rintraccio per gruppi etnici. Non si può fare una sorta di "rastrellamento" e chiedere scusa per la terminologia usata - attacca il presidente Giorgio Bisagna - Si rischia la configurazione dell’espulsione collettiva per gli irregolari. Questa circolare sembra denotare la volontà di procedere a una espulsione collettiva. A parte l’evidente discriminazione, al di là di ogni giustificazione di una prassi operativa, non possono venire meno ai principi fondamentali dello stato di diritto". Il Viminale attribuisce a ciascuna questura numero e sesso delle persone da rintracciare, innanzitutto tra quelle presenti nei Cie: "50 posti per donne nel Cie di Roma, 25 per uomini a Torino, 10 per uomini a Brindisi, e altri 10 per uomini a Caltanissetta, ma se nei centri di identificazione ed espulsione non ci fossero abbastanza cittadini nigeriani, e ad esempio in quello di Torino gli ultimi presenti sono partiti pochi giorni fa, si dovrà fare azioni in città per cercarne altri. La circolare, datata 26 gennaio, è stata inviata dalla Direzione centrale dell’immigrazione e della polizia delle frontiere, e l’oggetto parla di "Audizioni e charter Nigeria. Attività di contrasto all’immigrazione clandestina", e si fa riferimento agli accordi con il Paese africano e si invita a "procedere, d’intesa con l’ambasciata della repubblica federale della Nigeria, alle audizioni a fini identificativi di sedicenti cittadini nigeriani rintracciati in posizione irregolare sul territorio nazionale per il successivo rimpatrio". La vicenda, che secondo gli approfondimenti realizzati dagli uffici del Garante nazionale dei detenuti non presenta irregolarità sul piano formale, è stata oggetto di un’interrogazione parlamentare presentata dai deputati di Possibile: "Visto il poco tempo a disposizione le audizioni non verificheranno le reali motivazioni ed esigenze nigeriani presenti in Italia, come ad esempio delle donne vittime di tratta. Oppure, non verranno informati in modo esaustivo e completo sulla procedura di richiesta della protezione internazionale" scrivono i parlamentari secondo cui ci sarebbero "gravi violazioni delle norme interne e internazionali, del diritto alla protezione internazionale e il principio di non refoulement" ma sarebbe violata anche "la tutela dei diritti umani fondamentali e il divieto di espulsioni collettive". Il vicepresidente dell’Arci Nazionale, Filippo Miraglia, parla in un post su Facebook di "allucinante telegramma" e di "caccia ai nigeriani e alle nigeriane presenti sul territorio italiano". Miraglia aggiunge poi: "Si tratta di una azione di espulsione collettiva, vietata dalla legge, fatta sulla base della nazionalità, quindi discriminatoria, a prescindere, come direbbe Totò, dalle condizioni delle singole persone. Rintracciare sul territorio 95 persone provenienti dalla Nigeria che sono in posizione irregolare, quindi uomini e donne dalle pelle nera che non girano con un cartello con scritto "nigeriano irregolare in attesa di espulsione", vuol dire procedere a veri e propri rastrellamenti". Migranti. Partita la "caccia" ai nigeriani di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 3 febbraio 2017 Il Viminale ordina di rintracciare i cittadini nigeriani ed espellerli. Questo è in sintesi è il testo del telegramma a firma del Dipartimento della pubblica sicurezza inviato alle questure. Secondo il documento, dal 26 gennaio al 18 febbraio le autorità devono privilegiare "mirati servizi finalizzati al rintraccio di cittadini nigeriani in posizione illegale sul territorio nazionale". Per "agevolare" le operazioni sono stati riservati novantacinque posti nei Centri di identificazione ed espulsione. 50 posti per donne nel Cie di Roma, 25 per uomini a Torino, 10 a Brindisi, 10 a Caltanissetta, per poi procedere ai rimpatri. Per Filippo Miraglia, vicepresidente dell’Arci, si tratta "di una azione di espulsione collettiva, vietata dalla legge, fatta sulla base della nazionalità, quindi discriminatoria, a prescindere dalle condizioni delle singole persone". Secondo il vicepresidente dell’Arci: "Rintracciare sul territorio 95 persone provenienti dalla Nigeria che sono in posizione irregolare, quindi uomini e donne dalle pelle nera che non girano con un cartello con scritto "nigeriano irregolare in attesa di espulsione", vuol dire procedere a veri e propri rastrellamenti. Ma posizione irregolare, ammesso che sia corretta, ma non lo è per niente, è una azione contro persone provenienti da un Paese, va valutata caso per caso e non può essere oggetto di un provvedimento collettivo ad hoc che ha il senso di una persecuzione". Per l’avvocato Giorgio Bisagna, Presidente dell’Associazione "Adduma", associazione di avvocati che si occupa dei diritti dei migranti. "La questione che sconcerta è innanzitutto che si disponga il rintraccio per gruppi etnici. Ci stiamo mobilitando, intanto a livello locale prenderemo le difese dei singoli nigeriani, ma valutiamo anche se c’è la possibilità di agire a tutela dei migranti nigeriani", spiega all’AdnKronos. Nel frattempo, i primi rimpatri nei confronti dei nigeriani sono stati resi subito operativi. Il giorno dopo il telegramma, il 27 gennaio, sono stati espulsi 36 cittadini nigeriani - precedentemente ospitati presso i Cie di Caltanissetta e Torino - con un volo charter decollato dall’aeroporto di Roma Fiumicino, diretto a Lagos (Nigeria). "Il rafforzamento - si legge in una nota del ministero dell’Interno - della cooperazione con alcuni Paesi terzi, Nigeria, Tunisia ed Egitto, consente da tempo alla polizia di Stato di organizzare voli charter per il rimpatrio contemporaneo di un numero di migranti compatibile con le esigenze di sicurezza del trasferimento aereo". A bordo del volo charter con destinazione Nigeria, organizzato in collaborazione con l’Agenzia europea Frontex, sono stati ricondotti a Lagos anche due cittadini nigeriani, espulsi dalla Germania e dalla Polonia. Nel telegramma emerge anche un altro dettaglio che spingerebbero le autorità a bypassare la legge che consente i giusti tempi per l’identificazione. Se quei 95 posti assegnati ai nigeriani all’interno dei Cie non fossero disponibili, a quel punto si può ricorrere alle dimissioni anticipate degli stranieri ospitati. Il Viminale, nel caso, ordina che i posti vengano resi "disponibili anche mediante eventuali dimissioni anticipate qualora praticabile nell’immediato e senza eccezione alcuna". Il telegramma è in linea con ciò che ha detto il ministro dell’interno Minniti appena insediatosi: raddoppiare le espulsioni, creazioni di nuovi Cie e nuovi accordi di riammissione con i Paesi di origine. Gli accordi tra Italia e Nigeria per respingimenti ed espulsioni con procedure semplificate risalgono a molto tempo fa, quando gli accordi internazionali erano ancora ratificati dal Parlamento, a differenza di quanto avviene oggi con i cosiddetti Mou (Memorandum of undestanding) che bypassano l’approvazione dell’Aula, anche quando hanno natura di accordi politici e comportano ingenti oneri finanziari. Obiettivo degli accordi di riammissione è la semplificazione delle procedure di accertamento dell’identità personale e dell’età, al punto che spesso - come accade in questi giorni - si può arrivare persino alle espulsioni collettive di una determinata nazionalità. Per quanto riguarda la Nigeria, la concretizzazione di tali accordi con l’Italia risalgono a febbraio dell’anno scorso quando l’ex capo della polizia Alessandro Pansa, assieme all’ex premier Matteo Renzi nell’ambito della missione nell’Africa Sub-sahariana per contrastare l’immigrazione clandestina, ha firmato con il suo omologo nigeriano Solomon E. Arase un memorandum che prevedeva una collaborazione reciproca tra le autorità per i rimpatri dei nigeriani che non hanno diritto a restare in Italia. Ad agosto dell’anno scorso, gli accordi con la Nigeria si sono ulteriormente rafforzati con la missione dell’attuale premier Gentiloni, all’epoca capo della Farnesina. In cambio dell’accettazione dei rimpatri, Gentiloni ha promesso l’addestramento delle loro forze di sicurezza, la creazione di posti di lavoro, capacity building e sostegno alla governance. L’Italia è un partner economico molto importante per la Nigeria e l’accordo tra i due Stati si inserisce in un patto a larga scala tra l’Unione Europa e la Nigeria. Nello specifico, l’Agenzia europea per la gestione della cooperazione internazionale alle frontiere esterne degli Stati membri dell’Unione europea (Frontex) ha stipulato un accordo per rendere più efficaci le operazioni di rimpatrio forzato, assumendosi anche la responsabilità di organizzare voli charter congiunti per la riammissione dei migranti nigeriani nel paese di origine. Secondo l’ultimo studio della fondazione Ismu (Istituto per lo Studio della Multietnicità), i nigeriani risultano nella "top ten" delle provenienze migratorie non autorizzate via mare: quarti nel 2014, secondi nel 2015 e decisamente primi nel 2016. Appena mettono piede sulle nostre coste, fanno domanda di richiesta di asilo per poter essere regolarizzati. I numeri però parlano chiaro. A fronte delle 28mila domane presentate, per i nigeriani gli esiti positivi in prima istanza nel 2014- 2015 sono stati meno di 6mila. Il motivo? La Nigeria è considerato un "paese sicuro" e quindi la domanda di asilo viene, nella maggioranza dei casi, rigettata. Ma non solo. Molti nigeriani che arrivano in Italia si trovavano in Libia per lavoro, e venivano costretti alla fuga senza possibilità di ritorno diretto nel loro paese, a seguito degli eventi bellici che hanno diviso la Libia in tre parti, obbligando quindi chi voleva salvare la propria vita a tentare l’imbarco verso la Sicilia. Ma essendo nigeriani e quindi cittadini di un "paese sicuro", non hanno diritto all’asilo politico. Non gli rimane che diventare clandestini. I nigeriani che arrivano in Italia sui barconi percorrono la rotta occidentale africana attraverso il deserto e fuggono dalla violenza, dagli attentati terroristici, dalle persecuzioni e dagli scontri tra fondamentalismi islamici di Boko Haram e l’esercito, dall’impoverimento e dalla devastazione dei territori dovuto a uno sfruttamento indiscriminato delle risorse, tra cui petrolio, gas e minerali preziosi. A denunciare questa situazione sono i vescovi nigeriani. "Un uragano di violenza", così gli uomini della Chiesa descrivono la situazione del proprio Paese, parlando di "un paesaggio di sangue e distruzione", di "violenza politica, corruzione, rapimenti, rapine a mano armata, omicidi rituali", con "la popolazione devastata dalla malattia e dalla fame e un aumento della violenza da parte di attori statali e non statali". Monsignor Giancarlo Perego, direttore generale della Fondazione Migrantes, denuncia che "la Nigeria ha avuto 7000 omicidi nel 2015, è uno dei Paesi del mondo con il più alto numero di attentati terroristici". A proposito della presenza della mafia nigeriana in Italia, spesso a fianco di quelle italiane, fa notare che "non è un fenomeno di oggi, era già una delle più forti". Infine il direttore di Migrantes sottolinea che "a maggior ragione bisogna rafforzare la protezione delle donne nigeriane: non possono essere tutelate nei Centri di accoglienza straordinaria, altrimenti rischiano di finire sulla strada. Questo è l’unico modo per colpire anche le mafie". Mogherini e i migranti: "Fermare gli arrivi è solo un’illusione" di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 3 febbraio 2017 Parla l’Alto rappresentante della Ue per politica gli affari esteri. E su Trump: "Questa America non minaccia l’Europa". È il momento delle grandi sfide per l’Europa e la sua politica nel mondo. Vedi le svolte di Donald Trump che mettono in dubbio i tanti decenni di alleanza Eu-Usa, l’espansionismo muscolare di Vladimir Putin, la Brexit, i migranti, Isis, l’incertezza economica, l’antieuropeismo montante tra gli europei: cosa la preoccupa di più? "La mancanza di fiducia in noi stessi. I nostri partner internazionali, dall’Argentina al Giappone, continuano a dirmi che noi europei non ci rendiamo conto della nostra potenza. Mi preoccupa: siamo noi a non capire la nostra forza. In un periodo di totale stravolgimento degli equilibri geopolitici, il mondo guarda all’Europa come al partner affidabile su questioni centrali come quelle del commercio libero ed equo, diritti umani, multilateralismo, sostegno all’Onu, diplomazia che previene i conflitti, cambiamenti climatici, siamo il primo mercato mondiale, abbiamo 16 missioni militari all’estero e l’elenco è ancora lunghissimo. Insomma, siamo come una meravigliosa sedicenne che si guarda allo specchio e si vede brutta. La nostra salute fisica è perfetta, ma siamo labili di nervi, una vera crisi d’identità, di mancanza di consapevolezza. Se non conosci la tua forza, rischi di non usarla e ciò potrebbe alla lunga minare le basi della nostra potenza". Trump glorifica la Brexit, è una minaccia? "No, l’America non è una minaccia per l’Europa. I nostri legami sono antichi e più profondi di qualsiasi amministrazione Usa. Ma la politica americana deve ancora definirsi, dovremo vedere cosa farà il Congresso, che criticava Obama per essere troppo dolce con Mosca. Questa è una crisi interna americana, non nostra". Anche noi sposteremo la nostra ambasciata a Gerusalemme? "Assolutamente no. Spero però che il processo di pace in Medio Oriente possa presto essere affrontato con un coordinamento stabile tra Bruxelles, Mosca, le Nazioni Unite e Washington. A proposito di coordinamento, stiamo mettendo a punto la proposta di una conferenza di pace internazionale in primavera mirata ad avviare il processo di pacificazione in Siria. I costi della ricostruzione sono enormi, ma nessuno metterà un soldo senza la prospettiva solida del dialogo interno tra le componenti del Paese". Servirebbe un esercito europeo, visto che Trump mette in dubbio la Nato? "La forza militare in parte l’abbiamo già mettendo insieme le forze armate dei nostri Stati membri. A volte la usiamo con un ottimo impatto, vedi l’operazione Sofia nel Mediterraneo o la campagna contro la pirateria nel Corno d’Africa. L’addestramento della guardia costiera libica lo fa l’Unione Europea e non la Nato. Così come le missioni di addestramento delle forze armate in Africa. Ci sono luoghi dove noi possiamo essere considerati meno problematici della Nato grazie alla dimensione umanitaria e diplomatica dell’Europa. Noi siamo prima di tutto un’alleanza politica e lavoriamo in partenariato con la Nato, che è fondamentale per la sicurezza non solo degli europei. Ma stiamo rafforzando la difesa europea, presenterò dei primi risultati concreti in occasione delle celebrazioni per il trattato di Roma a marzo. Gli europei spendono il 50 per cento del budget Usa sulla difesa, ma il risultato è solo il 15 per cento di quello americano, per il fatto che è diviso in 28 amministrazioni nazionali. Occorre creare un meccanismo di cooperazione e integrazione della difesa". Capita però che l’Italia in Libia stia con Fayez Sarraj a Tripoli e la Francia con Khalifa Haftar a Bengasi. Oltretutto Sarraj appare debolissimo, i suoi guardiacoste sono divisi tra diverse milizie in lotta tra loro: è l’uomo giusto cui affidare la nostra politica per il controllo dei migranti? "Non sta a noi scegliere il leader libico. Il nostro compito non è interferire ma sostenere un processo in cui i libici riescano a unirsi e governare il Paese. La Libia è profondamente divisa. Né Tripoli né Tobruk possono governare da soli. Ma è un Paese strategico, che può e deve restare unito. Noi sosteniamo le scelte sancite dall’Onu e la legalità internazionale". Farraj vorrebbe un summit al Cairo, ma Haftar è riottoso, si sente più forte. Dove sta l’Europa? "Sostiene e riconosce il governo di accordo nazionale e incoraggia il dialogo. Mezzo secolo di Gheddafi e sei anni di crisi in Libia sono difficili da superare. Siamo davvero certi che un uomo forte possa governare da solo la complessità di quel posto? Mi sembra più logica la strada di un accordo politico in cui ognuno accetti i propri limiti per una forma di cooperazione e condivisione delle responsabilità". Come controllare i migranti? "Primo: con l’azione in mare. Il nostro addestramento della guardia costiera è iniziato a settembre e comporta anche l’applicazione dei diritti umani, i diritti delle donne. In acque internazionali negli ultimi tempi abbiamo salvato più di 32.000 persone, ma 4.500 sono morte. E questo anche perché nelle acque libiche non entriamo. A ciò si aggiunge la necessità del controllo sulla frontiera verso il deserto. Per questo abbiamo lavorato in particolare con il Niger, ad Agadez, per assistere, informare e spesso aiutare i migranti a tornare al loro Paese, creando posti di lavoro con l’aiuto dell’Onu. Ad Agadez siamo riusciti a ridurre il numero dei passaggi da 76.000 a 11.0000 in pochi mesi". Ma come selezionare i rifugiati perseguitati politici con diritto d’asilo dai migranti illegali? "È proprio quello che vogliamo fare. Ma questo significa che se sei un eritreo con diritto d’asilo internazionale l’Europa deve accoglierti. Purtroppo non sempre avviene così. E ciò perché nei nostri Paesi prevale spesso l’illusione per cui la migrazione si possa fermare. Impossibile. Oltretutto l’economia europea senza migranti sarebbe paralizzata, la nostra demografia ci porta al collasso. Sarebbe il crollo delle nostre società. Dovremmo fare uno studio sul costo della non migrazione. Così, per inseguire la falsa convinzione dell’immigrazione zero in alcuni Paesi non si fanno le scelte corrette per gestire al meglio i flussi. Due anni fa la Commissione Europea ha fatto questa proposta. Ma poi i nostri Paesi membri non le hanno dato seguito. Il punto vero non è fermare, ma gestire". Anche Trump paralizza questa politica. "Certo, ha compiuto un passo gravissimo vietando l’accesso anche a coloro che avevano già il visto. La crisi dei rifugiati non è solo europea è globale, oltre 70 milioni di persone, un record storico e si può gestire insieme, globalmente". Che fa l’Europa di fronte al nuovo asse Trump-Putin e una Russia forte, vincente in Siria, amica dei dittatori in Medio Oriente? "Io avrei qualche dubbio sulla forza reale della Russia, un Paese minato dalla crisi economica. Le sue difficoltà interne sono ben mascherate da una dinamica politica internazionale e militare. L’Europa non ha interesse a una Russia debole e in crisi. Sono molto preoccupata da ciò che avviene in Ucraina. Gravissimo, perché si continua a violare il principio per cui le frontiere non si devono cambiare con la forza. Però, Europa e Russia hanno lavorato e lavorano benissimo assieme su molti dossier come il nucleare iraniano. E invece su altri temi come l’Afghanistan o il processo di pace in Medio Oriente non sono così sicura che le agende Trump-Putin collimino". L’Onu all’Ue: "La Libia non è sicura non rimandate indietro i migranti" di Carlo Lania Il Manifesto, 3 febbraio 2017 L’allarme dell’Alto commissario per i diritti umani. Un rapporto denuncia stupri e maltrattamenti: "Situazione fuori controllo". "Non respingete i migranti in Libia". Mentre l’Europa cerca a tutti i costi un accordo con Tripoli per chiudere la rotta del Mediterraneo centrale e punta ad affidare alla Guardia costiera libica il compito di riportare indietro i barconi carichi di disperati, un avvertimento a non stringere patti pericolosi arriva dalle Nazioni unite e in particolare dall’Alto commissario per i diritti umani (Ohchr). "Data l’incertezza dell’attuale situazione, la frammentazione del controllo e la pletora di gruppi armati, non esistono condizioni ragionevoli per i ricollocamenti" nel paese nordafricano. E un monito analogo arriva a Bruxelles anche dal Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Nils Muiznieks, contrario anche lui ad "accordi con paesi terzi se questi non rispettano i diritti di migranti e richiedenti asilo". Le preoccupazioni delle Nazioni unite sono contenute in una relazione intitolata "Detenuti e disumanizzati, rapporto sulle violazioni dei diritti umani dei migranti in Libia" messo a punto dall’ufficio dell’Alto commissario per i diritti umani a dicembre dello scorso anno, quando le trattative per un accordo con Tripoli erano ormai più di una semplice ipotesi. 28 pagine in cui si ricorda come le condizioni di sicurezza nel paese abbiano cominciato a deteriorarsi dal 2011, con l’inizio del conflitto, ma siano peggiorate nel tempo parallelamente a un incremento dei traffici delle organizzazioni criminali. Una situazione di pericolo che persiste ancora oggi, al punto che l’Onu non esita a definire la situazione dei migranti in Libia come "una crisi dei diritti umani". "La caduta del sistema giudiziario - si legge nel report - ha portato a uno stato di impunità nel quale gruppi armati, bande criminali, trafficanti di uomini e contrabbandieri controllano il flusso dei migranti attraverso il paese". Traffici illeciti ai quali non sarebbero estranei - secondo l’Ohchr -, anche alcuni "membri delle istituzioni" libiche e dei quali gli unici a pagarne le spese sono i migranti, "soggetti a detenzioni arbitrarie, tortura, maltrattamenti, uccisioni, violenze sessuali e costretti a lavori forzati". In questa situazione a essere maggiormente a rischio ovviamente sono le donne, vittime di "numerosi casi di stupro e altre violenza sessuali". Ancora oggi, nonostante il governo guidato del premier Fayez al Serraj sia sostenuto dall’Onu, la Libia non ha firmato la convenzione di Ginevra e sul suo territorio si trovano 24 centri di detenzione per migranti, non tutti attivi, gestiti dal Dipartimento per il contrasto dell’immigrazione clandestina (Dcim) e nei quali si trovano - stando alle stime fornite nel rapporto - tra i 4.000 e i 7.000 detenuti. A questi si devono però aggiungere quanti - e sono decine di migliaia - vengono rinchiusi dai trafficanti di uomini in capannoni o "connection house" fino al momento della partenza. In tutti questi luoghi le violenze sono all’ordine del giorno, accompagnate quasi sempre da continue e ulteriori richieste di denaro alle famiglie dei migranti. Numerose le testimonianze riportate nel rapporto, come quella di un sedicenne eritreo. Una volta riuscito ad arrivare in Italia, a Pozzallo, ha raccontato di essere stato catturato a Tripoli da uomini in divisa e di essere stato richiuso un mese e mezzo in un hangar insieme ad altri 200 uomini, donne e bambini, in maggioranza eritrei e somali. "Non c’erano finestre e l’aria era poca", denuncia il rapporto. "C’era un solo bagno e i detenuti erano obbligati a urinare nelle bottiglie. L’odore era travolgente e molte persone si sono ammalate". Alcuni di scabbia, altri hanno denunciato problemi di respirazione. "Siamo africani, ci chiamavano animali e ci trattavano come animali", ha raccontato il ragazzo. Un altro giovane, anche lui di 16 anni ma originario del Senegal, è stato invece richiuso per un mese in un magazzino di Sabha, nel sud della Libia, insieme ad altri 80 migranti, tra i quali 42 donne e bambini, con acqua e cibo insufficienti e guardati a vista da uomini in divisa. "Ogni notte - ha detto - alcuni uomini armati venivano e portavano via donne e ragazze di 13 anni. Le riportavano indietro dopo poche ore o il giorno dopo. Le donne e le ragazze venivano violentate e se resistevano venivano picchiate o minacciate con le armi". "Per il diritto internazionale essere un migrante non dovrebbe mai comportare la detenzione automatica", ricorda l’Onu chiedendo di non rimandare indietro i migranti. "Entrare irregolarmente in un paese non dovrebbe costituire un crimine e chi lo fa non commette un reato contro la persona, la proprietà o la sicurezza nazionale". Un avvertimento che dovrebbe valere per la Libia come per molti paesi europei. Egitto. Giulio Regeni, quel corpo torturato che chiede verità di Riccardo Noury Corriere della Sera, 3 febbraio 2017 La mattina del 3 febbraio di un anno fa, in un fosso lungo l’autostrada Cairo - Alessandria, veniva ritrovato il corpo, orribilmente torturato, di Giulio Regeni: una prassi comune sin dai tempi di Hosni Mubarak, quella di disfarsi dei corpi delle persone fatte sparire e torturate a morte. Sono trascorsi 365 giorni esatti. Da allora, nonostante gli sforzi della procura di Roma, la verità su chi abbia sequestrato, sottoposto a sparizione forzata, torturato e ucciso Giulio non è ancora emersa. Dopo mesi e mesi di depistaggi e versioni grottesche e insultanti (una delle quali costata la morte a cinque innocenti), la timida e tardiva collaborazione delle autorità giudiziarie egiziane ha portato ad almeno una conclusione: che qualche persona appartenente agli apparati di sicurezza del Cairo sia stata coinvolta. Siamo a quella cosiddetta "verità di comodo", che chiama in causa singole "mele marce" che avrebbero agito fuori controllo, senza ricevere ordini e senza riferire ad altri, in altre parole senza una catena di comando. Una verità che non sta in piedi ma che rischia di essere quella finale, per stanchezza, per impossibilità di ottenere di più, perché in qualche modo, a un certo punto, "questa storia deve finire". È quello che ci dicono espressamente dal Cairo, in questi ultimi giorni: disposti a proseguire nella collaborazione (beninteso, non oltre la "verità di comodo") ma i rapporti devono tornare normali. Ed è quello che, ancora con un certo pudore, si dice anche in Italia: accontentiamoci. La risposta, da parte di chi considera l’omicidio di Giulio una grave violazione dei diritti umani e non un intralcio alle normali relazioni tra Italia ed Egitto (peraltro quelle economiche, nel settore energetico, sono proseguite senza problemi), è semplice: non ci accontentiamo. Non ci accontentiamo di una verità parziale e continuiamo a giudicare il ritorno dell’ambasciatore italiano al Cairo sia intempestivo e controproducente. Intanto, per tenere viva la sua memoria, gli amici di Giulio e il Collegio del mondo unito dell’Adriatico Onlus presentano oggi alla Camera dei deputati una sottoscrizione pubblica per la raccolta di borse di studio. Tali borse, su richiesta della famiglia Regeni, saranno destinate a studenti egiziani selezionati esclusivamente in base al merito dalla Commissione nazionale dei collegi del mondo unito in Egitto. Gli studenti andranno a studiare al Collegio del mondo unito dell’Adriatico Onlus di Duino (Trieste). Giulio si era diplomato presso il Collegio del New Mexico, Usa ed era nato e cresciuto a pochi chilometri da quello di Duino. Le borse saranno quindi legate a un luogo dove la memoria di Giulio concretamente perdurerà nel tempo. Turchia. "Ai detenuti applicato il metodo Ocalan, il paese è una prigione" di Ernesto Milanesi Il Manifesto, 3 febbraio 2017 A Padova, al convegno sulla tutela dei diritti nello stato d’emergenza, parla l’avvocato del leader del Pkk, Mahmut Sakar: "Ankara non è più quella che pensano i leader europei. Se mai, è diventata il problema dell’Europa". Premiata Barbara Spinelli. Uno "Stato di guerra" ai diritti umani, alle libertà fondamentali e all’informazione. La Turchia di Erdogan licenzia magistrati e perseguita avvocati, zittisce quotidiani e spegne tv, militarizza le città e dilata il coprifuoco anche sulla costituzione turca. "Con i responsabili dei consigli dell’ordine radiati e i colleghi in carcere, ma anche con 191 giornalisti detenuti (su 348 nel mondo), 92 ricercati e 839 indagati non possiamo far finta di nulla", sottolinea Leonardo Arnau dell’esecutivo nazionale dei Giuristi Democratici. Insieme ad Articolo 21 Veneto hanno organizzato nella prestigiosa sala della Carità il convegno "La tutela dei diritti nello stato d’emergenza: il caso Turchia. Diritto di difesa e libertà di informazione". È stata l’occasione per consegnare a Barbara Spinelli il riconoscimento dei colleghi turchi e internazionali, dopo che il 13 gennaio era stata espulsa proprio perché relatrice del convegno di Ankara dedicato allo stato d’emergenza. "Dal 2014 abbiamo visto con i nostri occhi di osservatori internazionali l’utilizzo perverso del diritto penale e lo svuotamento della democrazia in Turchia. E dall’imminente referendum sulla "riforma" costituzionale rischia di uscirne con un depotenziamento degli organi statali e con la concentrazione dei poteri di nomina e controllo solo nelle mani del presidente", afferma Spinelli. Al convegno di Padova ci si è concentrati sullo scenario attuale nel regime di Erdogan, ma anche sulle conseguenze che comporta soprattutto in Europa. La sospensione, di fatto, dei diritti più elementari ha già prodotto effetti eclatanti: morti e detenuti, ritiro dei passaporti e congelamento dei beni ai "sospetti", stato d’emergenza permanente. E si profila la reintroduzione (perfino retroattiva) della pena di morte con una sorta di ulteriore miccia nella santabarbara fra Iraq, Siria e Rojava. "Alcuni accademici sono stati recentemente arrestati soltanto per aver sottoscritto un appello per la libertà di espressione" testimonia Serife Ceren Uysal, l’avvocata del foro di Istanbul che ha ripercorso in dettaglio l’imbarbarimento del suo paese fino a incarnare l’incubo del fascismo sunnita fra l’Ue e la Russia. Emblema della parabola che attanaglia la Turchia resta Abdullah Ocalan, il leader del Pkk curdo arrestato nel 1999 a Nairobi. Da allora è detenuto nell’isola-prigione di Imrali. Delle 17 mila pagine del suo dossier non ne ha potuto leggere una. In 18 anni di detenzione non ha mai incontrato un familiare. Le visite dei suoi legali sono, quando va bene, limitate a un’ora (registrata, a beneficio di denunce penali…). "Dopo il golpe a tutti i detenuti viene applicato il "metodo Ocalan" e l’intera Turchia è diventata Imrali", tuona Mahmut Sakar, difensore di Ocalan costretto a riparare in Germania. "Non lo incontro dal 27 luglio 2011 e non abbiamo nemmeno potuto, come avvocati, sottoporgli il ricorso presentato alla Corte europea dei diritti umani e al Comitato contro la tortura. Nel 2014, era stata inoltrata alle autorità competenti la richiesta di due colloqui a settimana. Ebbene, tutte negate perfino con la perfidia di motivazioni pretestuose: 9 per brutto tempo, 86 per guasti alle navi di collegamento con l’isola, 6 per la manutenzione delle imbarcazioni, 3 perché giorni festivi…". Il destino di Ocalan nella Turchia di Erdogan è così sempre più appeso a un esile filo. Soprattutto se l’opinione pubblica internazionale non si lascia distrarre dagli agreements dei governi dell’Ue in materia di migranti. "Fra tre mesi il referendum costituzionale sarà sul nuovo fascismo. La vittoria di Erdogan sarebbe non solo la grande sconfitta dei curdi, ma la guerra oltre il Medio Oriente. Erdogan non vuole entrare in Europa, tant’è che sta rafforzando i rapporti con Putin. La Turchia non è più quella che pensano i leader della Ue che la volevano conquistare: se mai, è diventata il problema dell’Europa", conclude Sakar. E proprio il convegno di Padova ha rafforzato l’impegno assunto da European association of Lawyers for Democracy and Human Rights sulla Turchia: "Oggi nessuno può sostenere che i problemi economico-politici di qualsivoglia luogo siano problemi che riguardano solo quel luogo. Che si tratti di stato di emergenza, legge marziale, pratiche antiterrorismo, peggioramento del sistema giudiziario, democrazia, accesso alla giustizia. A prescindere dalla loro gravità e collocazione geografica, sono problemi di tutti noi". Romania. 300mila in piazza contro il decreto salva-corrotti di Luca Veronese Il Sole 24 Ore, 3 febbraio 2017 Il governo non cede ma subisce le prime defezioni. Più di 300mila romeni stanno protestando nelle piazze di tutto il Paese contro il "decreto salva corrotti" approvato dal governo socialdemocratico. Ma la più grande mobilitazione popolare dalla caduta del regime comunista nel 1989 non sembra aver ottenuto risultati. E nemmeno i richiami del presidente della Repubblica, Klaus Iohannis, e quelli della Commissione europea hanno convinto il governo a rivedere il provvedimento. Nella maggioranza uscita dal voto di dicembre ci sono state tuttavia le prime defezioni. Il ministro del Commercio, il socialdemocratico Florin Jianu, ha dato le dimissioni spiegando che "è l’unica cosa da fare, non per onestà professionale, la mia coscienza è pulita su questo fronte, ma per mio figlio. Come potrei continuare a guardarlo negli occhi - ha detto Jianu - e cosa dovrei raccontargli nei prossimi anni?". Il vicepresidente dei socialdemocratici, Mihai Chirica, è andato contro gli ordini del partito chiedendo apertamente che il governo stracci il decreto appena approvato. Il ministro della Giustizia, Florin Iordache, l’artefice del provvedimento, ha lasciato per una settimana ogni responsabilità al suo vice, ufficialmente per prepararsi al dibattito parlamentare sulla legge di bilancio. Il governo a guida socialdemocratica di Sorin Grindeanu ha approvato martedì sera un decreto di emergenza che depenalizza, con effetto immediato, una serie di reati di corruzione, incluso l’abuso d’ufficio quando il danno provocato non superi i 45mila euro. Così facendo il governo romeno ha sconfessato tutte le politiche messe in atto dal Paese per contrastare la cor- ruzione da quando ha aderito all’Unione europea, dieci anni fa. "La strategia dei socialdemocratici mira a proteggere gli esponenti politici di oggi e del passato da ogni inchiesta per corruzione. Le nuove regole rendono praticamente impossibile perseguire qualcuno per corruzione", spiega James Sawyer, analista di Eurasia Group. Secondo le analisi dell’organizzazione Transparency International, che elabora il Corruption perceptions index, la Romania è il quarto Paese più corrotto dell’Unione: peggio fanno solo Italia, Grecia e Bulgaria. Negli ultimi tre anni le indagini della magistratura hanno portato a incriminare per abuso d’ufficio più di duemila persone per un danno complessivo di circa un miliardo di euro, pari a sei volte il Pil annuo del Paese. Il presidente Iohannis, dopo essersi scagliato contro il governo, ha aperto lo scontro istituzionale chiedendo alla Corte costituzionale di dichiarare illegittimo il decreto salva-corrotti. La Commissione europea, che tiene sotto osservazione la Romania per l’accesso all’Area Schengen, ha messo in guardia Bucarest "contro ogni passo indietro nella lotta alla corruzione" e - come ha spiegato il presidente Jean Claude Juncker - "esaminerà attentamente il decreto di emergenza" appena approvato. Nella capitale ieri ci sono stati scontri tra i manifestanti e la polizia che ha sparato lacrimogeni per disperdere la folla e ha arrestato almeno sessanta persone. Davanti al palazzo del governo, nonostante la temperatura sia scesa sotto lo zero, sono accampati più di 100mila cittadini. Ma l’Esecutivo ha ribadito la linea morbida contro i corrotti che potrebbe salvare anche Liviu Dragnea, il leader del Partito socialdemocratico imputato in un processo per abuso d’ufficio. Russia. Avvelenato giornalista dissidente, è in gravissime condizioni di Fabrizio Dragosei Corriere della Sera, 3 febbraio 2017 Il giornalista e oppositore Vladimir Kara-Murza ha dato fastidio in Patria con la sua attività e si fa avanti il sospetto di un altro caso "eccellente" come quello Litvinenko. Dissidente gravissimo per avvelenamento. É in ospedale e probabilmente è stato avvelenato con "metalli pesanti" come era già accaduto due anni fa. Il giornalista e oppositore Vladimir Kara-Murza ha dato parecchio fastidio con la sua attività e quindi il sospetto di un altro caso "eccellente" in Russia appare giustificato. É il coordinatore dell’organizzazione Open Russia dell’ex oligarca Mikhail Khodorkovskij, che ha passato dieci anni in galera per aver osteggiato Vladimir Putin. Inoltre Kara-Murza è stato vice presidente del partito d’opposizione Parnas del quale faceva parte Boris Nemtsov, il leader ostile al Cremlino che esattamente due anni fa venne ammazzato nel centro di Mosca. La collaborazione con gli americani - L’anno scorso il giornalista aveva fatto circolare in tutta la Russia il film realizzato proprio sulla morte di Nemtsov, film che aveva provocato interminabili polemiche nel paese. Infine Kara-Murza aveva assistito il Senato degli Stati Uniti nell’elaborazione della lista degli uomini del potere russo da sottoporre a sanzioni. La lista Magnitskij, che prende il nome dall’avvocato morto in un carcere moscovita. Insomma, di "buone ragioni" perché qualcuno ce l’avesse con lui ce n’erano tante. Soprattutto la sua collaborazione con gli americani, fanno notare esperti di intelligence, potrebbe aver suscitato le ire di esponenti dello spionaggio e del controspionaggio che avrebbero deciso di farla pagare al "traditore". Due anni fa era stato avvelenato con manganese. Ora il giornalista è in ospedale e, secondo il suo avvocato, presenta gli stessi sintomi di allora. Il pensiero dei suoi amici, naturalmente, va alla vicenda di Aleksandr Litvinenko, l’altro oppositore che aveva infastidito troppe persone. Lui venne avvelenato a Londra nel 2007 con il polonio, un metallo radioattivo che lo uccise lentamente. Iran. Il Piemonte si mobilita per il medico condannato a morte per spionaggio di Sara Strippoli La Repubblica, 3 febbraio 2017 Il presidente della Regione Chiamparino si unisce all’appello dell’università del Piemonte Orientale dove Djalali ha lavorato per 4 anni, a Novara. L’assessore Saitta: "La sua colpa è quella di aver collaborato con ricercatori italiani, israeliani, e americani". "La vicenda del dottor Ahmadreza Djalali lascia sbigottiti e attoniti". Così il presidente della Regione Piemonte, Sergio Chiamparino, sulla condanna a morte del medico iraniano - che per quattro anni ha lavorato a Novara - perché accusato di essere una spia. "Da quel che la famiglia è riuscita a ricostruire, sappiamo che è detenuto ingiustamente dalle autorità iraniane con accuse vaghe e senza la possibilità di parlare con un avvocato - aggiunge Chiamparino -: una situazione inaccettabile". Il presidente della Regione Piemonte parla di "una totale negazione dei diritti civili per la quale chiediamo un immediato intervento del nostro governo a tutela di un medico e ricercatore che stava lavorando su progetti di solidarietà internazionale e soccorso nei paesi più poveri". Per questo motivo, Chiamparino si unisce "agli appelli dei colleghi di Djalali, del rettore della Università del Piemonte Orientale Cesare Emaniel e della comunità scientifica internazionale per chiedere alle autorità iraniane l’immediato rilascio del dottor Djalali". L’assessore alla sanità della Regione Antonio Saitta dedica oggi un ritratto al medico: "Un medico apprezzato e stimato da tutti - dice - Chiediamo l’immediata revoca della sua condanna e della sua scarcerazione e sollecitiamo il governo e l’Unione europea a intervenire presso le autorità italiane". Il dottor Djalali ha 45 anni e per quattro anni ha lavorato a Novara, all’Università del Piemonte Orientale, come ricercatore capo al Crimedim, il Centro di ricerca in medicina di emergenza e delle catastrofi. La sua unica colpa, dice Saitta "è quella di aver collaborato all’estero con ricercatori italiani, israeliani, svedesi, americani e del Medio Oriente, per migliorare le capacità operative degli ospedali di quei paesi che soffrono la povertà e sono flagellati da guerre e disastri naturali, assicurano i medici che hanno lavorato con lui e adesso hanno lanciato un appello per ottenere la sua liberazione. A cominciare da Roberta Petrino, presidente dell’Eusem la European society for emergency medicine, nonché presidente regionale del Simeu". Il medico andava periodicamente in Iran, ricorda l’assessore alla sanità. Nel corso della sua ultima visita è stato arrestato e mantenuto in isolamento nella prigione di Evin e quando ha saputo delle accuse ha cominciato uno sciopero della fame. Camerun. Un tendone per rendere più umane le condizioni di vita nel carcere di Douala santegidio.org, 3 febbraio 2017 La Comunità di Sant Egidio, ancora una volta, è venuta in soccorso dei prigionieri della prigione centrale di Douala New Bell, fornendo un tendone per ripararsi dal sole e dalla pioggia. Il mese scorso, infatti, molti si sono gravemente ammalati, altri hanno tentato la fuga, perché le condizioni di vita nella prigione sono insopportabili: la costruzione è vecchia, il tetto di lamiera, e le celle sono sovraffollate (il carcere previsto per circa 1000 persone ne ospita ora circa 3.200). Molti preferiscono a dormire all’aperto nel cortile. Ma sono esposti alle intemperie e all’aggressione degli insetti. E anche durante il giorno il calore nelle celle è tale che non si può resistere. Ma anche all’aperto, lo spazio è angusto e il sole cocente. Il tendone donato dalla Comunità di Sant’Egidio è un aiuto a resistere in questa situazione difficile. Offre un po’ di riparo per la notte e nelle lunghe giornate di caldo. È un piccolo passo verso una condizione di vita meno disumana in questo grande e vecchio carcere. Per questo è stato accolto con gioia e gratitudine dai detenuti.