La riforma del processo penale in aula al Senato a metà febbraio di Errico Novi Il Dubbio, 2 febbraio 2017 "Ecco, vedete, cercano l’incidente per far cadere il governo". Quando viene a sapere che la capigruppo di Palazzo Madama ha calendarizzato l’ormai mitico ddl sul processo penale, la senatrice d’opposizione Loredana de Petris riesce a darsi solo una spiegazione: è tutto un trucco, dietro la decisione di "riportare in aula un provvedimento così divisivo per la maggioranza" ci dev’essere per forza la manina perfida di Renzi, ansioso di tornare alle urne. E invece c’è la nuova tensione provocata dal processo sulla strage di Viareggio, dal rischio che i reati vadano prescritti. Naturalmente "qualunque intervento non avrà valore sui processi in corso per il criterio della non retroattività delle norme penali", come è costretto a chiarire al question time di Montecitorio il ministro della Giustizia Andrea Orlando. Casomai, l’inevitabile timore di una nuova clamorosa prescrizione ha contribuito ad accelerare i tempi del Senato. Non ci crede: Loredana de Petris, senatrice di Sinistra italiana, si stropiccia gli occhi e diffida del nuovo calendario di Palazzo Madama che, udite udite, prevede il ritorno in aula dell’ormai leggendaria riforma penale. "Vedete, è la prova che cercano l’incidente: e mica un governo può andarsene a casa senza un appiglio... serve un pretesto per staccare la spina, e mettere in calendario una legge così divisiva è un espediente perfetto". È così incredibile che il Senato decida di riprendere la discussione sul ddl che contiene prescrizione e intercettazioni, da costringere i senatori stessi a terribili dietrologie. Invece è tutto vero, la capigruppo si è dunque risolta e ha riportato in vita un provvedimento tra i più tormentati della legislatura: seppur dopo il decreto salva banche e il ddl di conversione del milleproroghe, la riforma del processo penale ricompare nell’agenda del presidente Pietro Grasso. Considerato che la legge sugli istituti di credito è calendarizzata per il 7 febbraio, il ddl voluto dal ministro della Giustizia Andrea Orlando dovrebbe entrare in scena verso la settimana successiva, probabilmente il giorno di San Valentino. Naturalmente al guardasigilli non passa neppure per l’anticamera del cervello che dietro il via libera del capo- gruppo dem al Senato Luigi Zanda possa nascondersi la mano perfida di Matteo Renzi e l’ansia di far saltare la legislatura. Anzi, nel question time alla Camera Orlando ricorda che approvare il ddl penale "è prioritario" e, soprattutto, che "ho avuto anche ragioni di discussione nel precedente governo per la priorità da assegnargli". Cioè, con la consueta misura nei toni chiarisce che lui con Renzi ci ha litigato, per far passare la legge. Dopodiché, sempre in risposta alle interrogazioni dei deputati, in allarme per il rischio prescrizione del processo sulla strage di Viareggio, il ministro della Giustizia chiarisce un principio elementare: "Qualunque intervento non avrà valore sui processi in corso, per il criterio della non retroattività delle norme penali". Appunto. Non è che cambia qualcosa per vicende giudiziarie come quelle dell’Eternit o delle 32 vittime alla stazione di Viareggio. Ma certo se neppure stavolta la conferenza dei capigruppo si fosse decisa a fissare una data per la legge che tra l’altro allunga la prescrizione, sarebbe scoppiata una rivolta. Anche se la scelta di Palazzo Madama è in fondo la semplice conseguenza di quanto il nuovo premier Paolo Gentiloni aveva detto al suo insediamento: il via libera alla riforma penale è tra gli obiettivi prioritari. Che poi i problemi possano davvero sorgere, in aula, è praticamente scontato. Così come è evidente che i rischi maggiori arriveranno proprio sulle norme relative alla prescrizione. Ma che quest’ultima non possa essere modificata in modo retroattivo lo ricorda anche il presidente dell’Anm Piercamillo Davigo, intervenuto ieri al forum "Viva l’Italia" dell’agenzia Agi. "Il regime dell’estinzione dei reati è un problema, ma anche se venisse cambiato domani, indietro non si tornerebbe". Il leader dell’Associazione magistrati parla a 360 gradi con il consueto tono insieme caustico e brillante. "Le pensioni di noi giudici? Non so se Orlando non vuole o non può, il punto è che i patti non sono stati rispettati". La giustizia in Italia "non funziona perché facciamo troppi processi, servirebbe una depenalizzazione massiccia a cui invece non si mette mano", dice. Ricorda che "i magistrati italiani sono quelli che lavorano di più, il doppio dei tedeschi e il quadruplo dei francesi". E non ha problemi a dichiarare che "per il nostro codice etico, i magistrati non dovrebbero fare mai politica: si getta un’ombra su ciò che si è fatto prima". A proposito del procuratore di Aosta Pasquale Longarini, finito agli arresti, ribadisce che "i nostri che rubano noi li mettiamo dentro". E chiude sulle accuse di "sentenza populista" rivolte dagli avvocati dopo la sentenza su Viareggio: "I magistrati non adottano provvedimenti populisti, emettono sentenze in nome del popolo italiano: le dichiarazioni rese un minuto dopo il dispositivo, e senza leggere le motivazioni, delegittimano gravemente la giurisdizione" Una legge speciale per i bambini orfani dopo i femminicidi di Francesca Angeli Il Giornale, 2 febbraio 2017 Assistenza sanitaria e psicologica, borse di studio e formazione professionale per gli orfani vittime dei crimini domestici. Arriva una legge con l’obiettivo di tutelare il difficile percorso di recupero per quei bambini coinvolti dalla violenza cieca degli adulti. Onorevole Mara Carfagna, quando era ministro delle Pari Opportunità del governo Berlusconi, portò al traguardo la legge sullo stalking. Ora punta l’obiettivo su quanto accade dopo un crimine che colpisce i più indifesi. "Sono orfani speciali. Bambini che spesso sono stati costretti ad assistere all’omicidio della propria madre da parte del padre. È rarissimo che accada il contrario. I padri omicidi nel 30 per cento dei casi si tolgono la vita e nel restante 70 per cento finiscono in carcere. Noi vogliamo che lo Stato assuma il ruolo di genitori per questi piccoli che restano soli. Con uno stanziamento di 2 milioni di euro lo Stato si farà garante del percorso di recupero, di studio e di formazione professionale di questi bambini". Il cammino della proposta di legge non è stato facile. "Siamo stati molto tenaci. Ho presentato oltre un anno fa una proposta mai calendarizzata. Poi ho cercato di introdurre il provvedimento come emendamento alla Legge di Bilancio. Ed è un peccato che non sia stato accolto perché a quest’ora sarebbe già operativo e ci sono quasi 1.700 orfani che sono in attesa del nostro aiuto. Ora finalmente un ddl in materia che ha incorporato tutte le nostre proposte è stato approvato dalla commissione Giustizia e ci auguriamo arrivi in aula a Montecitorio in tempi brevissimi". Quali sono gli elementi qualificanti del provvedimento? "I due milioni verranno stanziati nel Fondo per le vittime della mafia che verrà allargato alle vittime di crimini domestici. Verrà garantito il gratuito patrocinio ai piccoli si introdurrà l’indegnità alla successione per il genitore omicida che dunque verrà escluso dall’asse ereditario. Soprattutto c’è l’impegno a garantire la continuità affettiva e a monitorare la crescita dei bimbi in mondo che crescano in un ambiente protetto". A che punto è la nostra legislazione in materia di femminicidio? "Il nostro quadro normativo è efficace ma va monitorato ed eventualmente migliorato. Purtroppo né il governo Letta prima né quello Renzi hanno messo tra le priorità la lotta contro la violenza alle donne. Mancano finanziamenti adeguati per i centri antiviolenza che sono un importante punto di riferimento e sicuramente si può fare di più sul fronte delle campagne di sensibilizzazione e informazione". Bullismo online, minori a rischio: scatta lo scudo, sì alla rimozione dai siti di Francesco Lo Dico Il Mattino, 2 febbraio 2017 Accadde in una notte di gennaio di quattro anni fa. Carolina Picchio, quattordici anni e due occhi grandi, salì al terzo piano e si gettò dalla finestra della sua casa di Novara. Poco prima del grande salto, c’era stata quella festa di dicembre che le aveva tolto il sonno. Qualche bicchiere di troppo, qualcuno che la riprende piegata in due dai fumi dell’alcol, altri bulletti che le fanno avance spudorate. Una scena che la piccola fu costretta a rivedere, mille e mille volte, al ritmo di chi l’aveva diffuso in rete, fino a farla vergognare di essere venuta al mondo. Molti vollero dimenticare quella storia. Non lo fece mai la sua insegnante di musica, Elena Ferrara. Che un anno dopo, eletta senatrice del Pd, si dedicò anima e corpo a un provvedimento che desse senso all’insensata morte di Carolina. La stessa legge che è stata approvata ieri al Senato con 224 sì, un solo no e 6 astenuti, e che adesso dovrà tornare alla Camera in quarta lettura. "Abbiamo riproposto sostanzialmente il testo originario, quello che venne approvato qui a Palazzo Madama il 20 maggio del 2015", spiega Elena Ferrara, "perché abbiamo preferito scollegare la tutela dei minori da quella degli adulti" che avrebbe comportato un complesso iter di modifiche al codice penale. "Il fenomeno del cyberbullismo è talmente grave - chiarisce la senatrice dem - che abbiamo scelto di concentrarci sui minorenni che sono i più deboli". Rispetto alle precedenti versioni uscite dall’aula, la legge prevede infatti tutele a misura dell’universo giovanile. Sarebbe stato inutile e per certi versi controproducente, sovrapporle a quelle per gli adulti che esistono già. E d’altra parte, non c’era più tempo da perdere. Il cyberbullismo nel 2016 è cresciuto dell’8 per cento rispetto all’anno scorso, anche sulla scorta dell’ormai dilagante sexting, l’insistito scambio di chat, foto e messaggi a sfondo erotico esploso anche tra gli adolescenti. Una ricerca condotta dalla Regione Lombardia su 7mila giovani, ha appurato che lo fa ormai uno su quattro, già a partire dall’età di undici anni. "Il 50 per cento dei ragazzi che subisce fenomeni di cyberbullismo pensa di suicidarsi - ricorda la senatrice Ferrara - mentre l’11 per cento cerca di farlo". Già, ma che cosa prevede il provvedimento? Attribuisce innanzitutto potere al minore. Il potere di chiedere, a partire dai 14 anni (e senza obbligatoriamente doverne informare i genitori) l’oscuramento, la rimozione o il blocco di qualunque dato personale diffuso sul web, a prescindere dal fatto che i contenuti che lo riguardano possano configurare o meno dei reati. A fronte dell’istanza presentata dal ragazzo, il sito o il social non può più temporeggiare o opporre politiche di compliance aziendali: entro 24 ore dalla richiesta, il sito deve comunicare di avere preso in carico il problema, ed entro 48 ore deve risolverlo. In caso contrario, entra in campo il Garante per la protezione dei dati personali, che dopo richiesta formale, concede altre 48 ore di tempo al gestore del sito. Più garanzie alle vittime, dunque, ma anche sanzioni più incisive ai carnefici. In parallelo, prima dell’eventuale querela o denuncia, il provvedimento offre al minorenne over 14 che si è macchiato di bullismo, un salvacondotto. Si tratta dell’ammonimento: il questore lo convoca insieme a un genitore per comunicargli il provvedimento, e censurare quindi il suo comportamento di fronte ai familiari. Cyberbulli, non basta una buona legge di Salvatore Sica Il Mattino, 2 febbraio 2017 Diciamolo subito: la legge approvata sulla prevenzione e contrasto del cyberbullismo, con riguardo ai minori, costituisce un’innovazione importantissima e significativa. Molti gli elementi di pregio, anche se non mancano taluni aspetti che avrebbero meritato maggiore approfondimento. In realtà, è particolarmente convincente la prospettiva di fondo che, fin dal titolo, rivela la nuova disciplina. "Disposizioni a tutela dei minori". È una scelta precisa e fondata culturalmente, così come lo è la definizione, molto ampia, di cyberbullismo, che la norma individua, sino a farla coincidere, in definitiva, con ogni forma di "violazione" on line della personalità del minore o di uno o più componenti della sua famiglia, "il cui scopo intenzionale e predominante sia quello di isolare un minore o un gruppo di minori ponendo in atto un serio abuso, un attacco dannoso, o la loro messa in ridicolo". Due notazioni, magari un po’ retrò, ma sintomatiche: nell’era di Internet il legislatore si arrende all’uso della lingua della Rete ("on line"), prende, cioè, atto che non vi è alcuna soluzione linguistica differente; ed inoltre il legislatore (torna il tema della qualità culturale dei nostri politici?) non abbandona una certa approssimazione lessicale, che, poi, in sede applicativa, ingenera contenzioso: basti pensare all’espressione "messa in ridicolo", equivoca e francamente esteticamente poco felice. Ma tant’è; semmai gli aspetti critici sono ben altri. La disciplina da un lato consacra l’autonomia del minore, se almeno quattordicenne, che può tentare una tutela "da sé", rivolgendosi, appunto, in autonomia al gestore del sito o al social per ottenere la rimozione (ma con conservazione degli elementi atti ad identificare l’eventuale responsabile) dei contenuti "bullistici"; e se non ottiene soddisfazione può indirizzare analoga istanza al Garante per la protezione dei dati personali. Da un altro lato, nulla è precisato sugli strumenti per garantire "effettività" a tali disposizioni. Non penso al Garante, che, oggettivamente, sta mettendo in campo tutte le risorse, culturali, giuridiche e tecnologiche, per combattere la "buona battaglia" contro gli abusi in Rete. Penso agli operatori della Rete stessa: ce li vedete i Social o i network della comunicazione che stanno dietro alle richieste di una ragazzina di quindici anni che segnala di essere fatta oggetto di comportamenti di cyberbullismo? Francamente, mi riesce difficile. A seguire, c’è sì il Garante, ma dopo ventiquattro ore: un’eternità nel fuso orario di Internet. Che cosa di meglio poteva fare il legislatore? Probabilmente poco se non si affrontano i nodi della debolezza del diritto (e della politica) di fronte alla Rete. Ecco perché consola molto di più la serie di articoli della legge dedicati, meritoriamente, alla prevenzione, educazione e sanzioni alle famiglie in ambito scolastico e progetti di recupero e sostegno. Si tratta di un disegno organico, ma con la tendenza, tutta italiana, a creare "tavoli" che somigliano a curve di stadio, per numeri di componenti e sovrapposizioni di competenze. Ma non c’è dubbio che la scelta dell’incentivazione della cultura del rispetto sia la più convincente e fruttuosa, a patto che sia svolta senza timidezze ed eccessi di "buonismo" educativo. La centralità del ruolo delle istituzioni scolastiche, ad esempio, è fondamentale, purché ci si trovi di fronte a dirigenti scolastici (che, purtroppo, non sono i vecchi presidi!) capaci di scelte nette, magari anche impopolari, che eliminino la dannosa invadenza dei genitori nell’educazione scolastica. A proposito, ai sensi dell’articolo 7 della legge, il questore può comminare al minore con più di quattordici anni la sanzione dell’ammonimento; a tal fine deve convocarlo accompagnato da almeno un genitore: in altri tempi sarebbe stata sufficiente la lettera del questore affinché l’ "ammonimento" ed altro scattassero già casa. Ma il tema della perdita di autorevolezza educativa del nostro tempo è un altro ancora, sebbene molto più collegato a quello della Rete di quanto si possa immaginare. Mettere all’asta i beni sequestrati e confiscati ai mafiosi è una bestemmia di Luciano Silvestri* La Repubblica, 2 febbraio 2017 Mettere all’asta i beni sequestrati e confiscati ai mafiosi è una vera e propria bestemmia, un alibi che gli inetti vanno cercando per coprire le debolezze di uno Stato che, dal varo della legge Rognoni-La Torre (1982), é stato incapace di varare strumenti idonei ad affrontare il tema del riutilizzo sociale di quei beni. L’Agenzia Nazionale per i Beni sequestrati e confiscati é praticamente un moribondo. Non ha risorse, non ha professionalità, non ha dotazioni strumentali. L’albo degli Amministratori Giudiziari non é ancora operativo. Non c’é né una norma né una prassi che coinvolga gli attori sociali ed economici nel riutilizzo di quei beni. Eppure con un minimo di accortezza si sono realizzati risultati straordinari come nel caso di Mafia Capitale dove, con il Tribunale di Roma che ha coinvolto con un protocollo di intesa tutti gli attori (Unioncamere, associazioni di impresa, sindacati), siamo riusciti a gestire senza perdere un solo posto di lavoro un impatto che ha riguardato oltre 5 mila lavoratori. Senza mettere all’asta niente. Eppure su questi temi c’è un testo di legge, approvato alla Camera e fermo al Senato che ha preso le mosse da una legge di iniziativa popolare ("Io riattivo il lavoro"), che potrebbe dare una spinta decisiva alla soluzione di questi problemi. La mafia non é solo potere economico. La mafia é potere economico esercitato attraverso il controllo sociale del territorio. Ed é su questo terreno che va combattuta. Contrapporre alla mafia un controllo sociale del territorio improntato al rispetto di legalità. Il riutilizzo a fini sociali dei beni confiscati é lo strumento e il modo per esercitarlo, per fare impresa sociale e collettiva. Certo, ci sono beni e aziende che al momento del sequestro sono semplicemente delle scatole vuote. In questi casi é chiaro che il percorso di una loro ricollocazione nel circuito dell’economia legale sarebbe una missione impossibile. Ma non possono essere l’alibi per generalizzare soluzioni improprie. Lo Stato deve fare uno scatto. Non possiamo, giustamente, stanziare 20 miliardi di euro per tutelare le banche e non mettere un solo euro su una missione che per il Paese é assolutamente vitale. È con il protagonismo di un soggetto collettivo, capace di unire le energie migliori, che si riconquistano spazi di legalità, senza i quali non c’é alcuna prospettiva possibile di sviluppo. Nessuno da solo può sconfiggere le mafie. Tanto meno il mercato delle aste. *Responsabile Legalità e Sicurezza della Cgil nazionale Circolazione delle sentenze, la Corte Ue chiede un approccio flessibile di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 2 febbraio 2017 Corte di giustizia Ue - Sentenza dell’11 gennaio (C-289/15). Un approccio flessibile nell’interpretazione della condizione della doppia incriminazione per favorire la circolazione delle sentenze penali di condanna nello spazio Ue. Senza ostacoli dettati dal formalismo. Lo chiede la Corte di giustizia dell’Unione europea con la sentenza dell’11 gennaio (C-289/15), che va nel senso di un rafforzamento della fiducia reciproca sull’operato delle autorità giudiziarie degli Stati membri e di un ridimensionamento delle condizioni formali alla base dell’applicazione del principio della doppia incriminazione. E questo anche per assicurare il reinserimento sociale della persona condannata. A rivolgersi alla Corte Ue, il Tribunale regionale di Presov, Slovacchia, che aveva dubbi sul riconoscimento di una sentenza di un tribunale circoscrizionale della Repubblica ceca con la quale un cittadino slovacco era stato condannato a 15 mesi anche per inosservanza di una decisione dell’autorità pubblica. Il giudice slovacco aveva dubbi sulla possibilità di eseguire la sentenza, perché il fatto per il quale il destinatario della decisione era stato condannato non era reato, secondo il codice penale slovacco. Di conseguenza dovrebbe scattare la possibilità - prevista dall’articolo 7 della decisione quadro 2008/909 sull’applicazione del principio del reciproco riconoscimento alle sentenze penali che irrogano pene detentive o misure privative della libertà personale, ai fini della loro esecuzione nell’Unione europea, modificata dalla 2009/299 - di subordinare l’attuazione della pronuncia alla verifica della doppia incriminazione e, quindi, di fermare l’esecuzione. Non dello stesso avviso la Corte Ue, che richiama gli Stati a un approccio flessibile nell’applicazione della condizione della doppia incriminazione per favorire piena effettività al mutuo riconoscimento. Gli euro-giudici osservano che il principio generale è quello della libera circolazione delle sentenze, nel segno della fiducia reciproca tra le autorità nazionali. La decisione quadro, in questa direzione, ha eliminato la verifica della doppia incriminazione per 32 reati, prevedendone l’applicazione, come motivo facoltativo di rifiuto all’esecuzione, in via eccezionale. Questo vuol dire che la condizione della doppia incriminabilità va interpretata in modo restrittivo "per limitare i casi di non riconoscimento e di non esecuzione". Pertanto, per accertare il rispetto della doppia incriminazione - scrivono gli euro-giudici - ciò che conta è la corrispondenza "tra gli elementi di fatto alla base del reato, quali risultano dalla sentenza dello Stato di emissione, da un lato, e la definizione del reato conformemente alla legge dello Stato di esecuzione dall’altro". Non è richiesto, quindi, che i reati siano identici nei due Paesi interessati o che vi sia una corrispondenza esatta tra le componenti del reato o nella denominazione. È vero - osserva Lussemburgo - che il reato oggetto del procedimento principale è strettamente legato a una lesione di un interesse dello Stato di emissione, ma se si accerta che il medesimo fatto avrebbe comportato una sanzione penale a tutela di un interesse analogo nello Stato di esecuzione, si può ritenere soddisfatta la condizione della doppia incriminazione, con la conseguenza che la sentenza deve essere eseguita. Diffamazione "attenuata" se via Facebook di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 2 febbraio 2017 Facebook è un "mezzo di pubblicità" capace di amplificare indefinitamente la diffamazione, ma il social network non può paradossalmente essere equiparato alla stampa, medium ormai molto meno pervasivo del web 2.0 eppure perseguibile con sanzioni penali ben più gravi. La Quinta sezione della Cassazione - sentenza 4873/17, depositata ieri - torna ancora una volta sul tema, sensibilissimo, della legge applicabile al mondo digitale, scontrandosi però ancora una volta con regole non più attuali, o comunque da ripensare e riequilibrare. Il caso all’esame dei giudici della Quinta era stato innescato dal procuratore della Repubblica di Imperia; il capo dell’ufficio ligure aveva impugnato per "abnormità" l’ordinanza con cui il Gip locale aveva riqualificato un fascicolo relativo agli "apprezzamenti" via Facebook pubblicati da un imputato catanese 60enne nei confronti di un terzo, fatto avvenuto a Diano Marina nell’estate del 2013. Per il giudice preliminare non si trattò di diffamazione aggravata dal fatto determinato e "dal mezzo della stampa", ma di semplice diffamazione aggravata dal "mezzo di pubblicità" (Facebook, appunto) e ovviamente dall’attribuzione del fatto determinato. Differenza non da poco, quella sottolineata dal Gip: l’esclusione della legge 47/1948 (quella sulla stampa) di fatto dimezza la pena edittale (da 6 a 3 anni nel massimo) e, come conseguenza, determina processualmente la citazione diretta a giudizio - impugnata dal procuratore quale presupposto dell’ordinanza "abnorme" firmata dal Gip. La Cassazione però ha bocciato il ricorso della Procura ligure, ribadendo un precedente del 2015 (31022) secondo cui la bacheca del social network può essere incasellata agevolmente nell’articolo 595 del Codice penale, ma solo nella seconda ipotesi del comma 3 (non "stampa" ma "altro mezzo di pubblicità"). Non è quindi applicabile la legge 47 del 1948 (Disposizioni sulla stampa, diffamazione, reati attinenti alla professione e processo penale) che per la diffamazione aggravata dal fatto determinato prevede da 1 a 6 anni di carcere (articolo 13). Già due anni fa le Sezioni unite, disegnando una "interpretazione evolutiva e costituzionalmente orientata del termine stampa", avevano ricompreso nel concetto le testate giornalistiche online, ma avevano anche aggiunto che "tale operazione ermeneutica non può riguardare in blocco tutti i nuovi media, informatici e telematici di manifestazione del pensiero (forum, blog, newsletter mailing list, Fb, etc.) ma deve rimanere circoscritto a quei casi che, per i profili strutturale e finalistico, sono riconducibili al concetto di stampa": caratterizzata quest’ultima, in sostanza, dalla "professionalità" di chi scrivendo diffama. Avvocati, il giudizio penale sospende il procedimento disciplinare di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 2 febbraio 2017 Corte di cassazione - Sezioni unite civili - Sentenza 1° febbraio 2016 n. 2615. Il Consiglio nazionale forense deve sospendere il procedimento disciplinare ai danni di un avvocato nel caso in cui il professionista sia sottoposto per le medesime condotte anche da un giudizio penale. Lo hanno stabilito le Sezioni unite civili della Corte di cassazione, sentenza 1° febbraio 2016 n. 2615, dando ragione ad un legale. Il Consiglio dell’ordine di Verona aveva avviato un’azione disciplinare contro un avvocato per "numerosi illeciti" di cui poi ritenne provati: l’"appropriazione di somme appartenenti alla persona della quale era amministratore di sostegno; il mancato adempimento del mandato di svolgere alcune procedure giudiziarie e la falsa affermazione dell’avvenuto svolgimento di attività", e gli irrogò la sanzione della radiazione. Proposto ricorso, il Cnf lo accolse tramutando la sanzione in quella più mite della sospensione dall’esercizio della professione per tre anni. Contro questa decisione il Coa ha proposto ricorso in Cassazione. L’avvocato non è rimasto a guardare ed ha risposto con un controricorso sostenendo, in uno dei cinque motivi, che il Consiglio dell’Ordine "non avrebbe dovuto/potuto procedere sino a definitiva pronuncia del Giudice Penale, giudice naturale a cui è soggetta la persona imputata della violazione ex art. 314 c.p.". Per la Suprema Corte tale doglianza non appare manifestamente infondata alla luce del principio di diritto per cui "in tema di procedimento disciplinare nei confronti di avvocati, per effetto della modifica dell’articolo 653 c.p.p. disposta dall’articolo 1 della legge 27 marzo 2001, n. 97, qualora l’addebito abbia ad oggetto gli stessi fatti contestati in sede penale, si impone la sospensione del giudizio disciplinare in pendenza del procedimento penale, ai sensi dell’articolo 295 c.p.c.". "Ne consegue - continua la sentenza citando un precedente - che, quando risulti la pendenza di un procedimento penale, il Consiglio Nazionale Forense deve necessariamente verificare la sussistenza dei presupposti per la sospensione del procedimento disciplinare, procedendo ad una delibazione in ordine alla effettiva identità esistente tra le condotte contestate in sede penale e quelle oggetto del procedimento sottoposto alla sua cognizione (S.U, n. 15206 del 2016)". E così, considerato il "danno grave ed irreparabile" che può derivare dal provvedimento di sospensione immediatamente esecutivo, l’ha sospeso. Possibile la condanna in solido per le spese di parte civile se vi sono più imputati di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 2 febbraio 2017 Corte di cassazione - Sezione II penale - Sentenza 13 gennaio 2017 n. 1681. Nel caso di parte civile costituita nei confronti di più imputati, può essere disposta la condanna in solido nel pagamento delle spese processuali da questa sostenute qualora vi sia una responsabilità solidale in ordine all’obbligazione dedotta in giudizio ovvero una comunanza di interessi tra loro, ravvisabile anche in base a convergenti atteggiamenti difensivi. Ad affermarlo è la Cassazione con la sentenza 1681/2017. Il caso - La questione dell’ammissibilità del pagamento solidale veniva sollevata dopo una condanna ex articolo 444 del Cpp all’esito di un procedimento nel quale gli imputati erano accusati di aver costituito in forma associativa un collaudato sistema di sfruttamento dei fondali della laguna di Venezia con attività di pesca abusiva, con grave alterazione dell’ecosistema lagunare. I giudici di merito, oltre a concedere il patteggiamento, avevano disposto altresì la condanna in solido in favore dei difensori delle diverse parti civili costituite, ovvero gli enti locali coinvolti nella vicenda e diverse organizzazioni ambientaliste. Tutti gli imputati ricorrevano però in Cassazione lamentando, con diverse motivazioni, l’illegittimità della condanna in solido alle spese legali delle parti civili. In sostanza, per i ricorrenti, una tale previsione è incompatibile con l’articolo 541 Cpp, che dispone la solidarietà solo tra imputato e responsabilità civile, né dall’articolo 535 Cpp che stabilisce come regola di imputazione l’accollo pro quota e non la solidarietà. La decisione - La Cassazione non condivide l’assunto difensivo e con estrema chiarezza spiega il perché della legittimità della condanna in solido al pagamento delle spese delle parti civili. Per la Corte, l’articolo 541Cpp, norma cardine in materia di pagamento delle spese processuali in favore della parte civile, non detta una regola in caso di parte civile costituita nei confronti di più imputati. La disciplina per tale fattispecie deve essere desunta tenendo in considerazione "la peculiarità della posizione della parte civile che, pur nell’ambito del processo penale, esercita comunque un’azione civile". Pertanto, l’articolo 541 Cpp va raccordato con la disciplina posta con riguardo alla liquidazione delle spese processuali da liquidare nel processo civile, ove l’articolo 97 Cpc consente una possibile condanna in solido disposta dal giudice quando tra le parti soccombenti sussiste un interesse comune. E tale comunanza di interessi è tale da fondare la solidarietà anche nel processo penale. Con la prostituzione non c’è foglio di via di Andrea A. Moramarco Il Sole 24 Ore, 2 febbraio 2017 Tribunale di Frosinone - Sezione penale - Sentenza 26 ottobre 2016, n. 3074. La prostituzione in sé non legittima l’emissione del foglio di via obbligatorio: chi svolge tale attività non rientra tra le persone pericolose per la sicurezza pubblica. L’esercizio del meretricio, infatti, non è reato e non può essere posto a fondamento della misura di prevenzione. Così il Tribunale ha disapplicato il provvedimento del Questore motivato solo con l’esercizio della prostituzione da parte dell’imputata, assolvendola dal reato contestatole di inosservanza della misura di prevenzione. Una storia privata su Tortora ricorda il dramma delle ingiustizie di oggi di Enrico Costa (Ministro degli Affari Regionali) Il Foglio, 2 febbraio 2017 Gentile Direttore, incorniciato, nel mio studio, c’è un foglio a righe scritto a penna, ingiallito dal trascorrere del tempo. È una lettera, datata 30 agosto 1983. Ero appena adolescente quando un detenuto, dal carcere di Bergamo, la fece recapitare a mio padre Raffaele e da allora fa parte dei ricordi di famiglia, esposta come una reliquia laica. La grafia è ordinata, ritmica, chiarissima. Il ragionamento lucido, di chi ha meditato a lungo: "Oggi - si legge - so cose che mai avrei sospettato. Ma ciò che più mi indigna, a parte la stregonesca, medievale iniquità del rito, è questa Giustizia "in ferie", come una rivendita di gelati, e questa spazzatura umana (tale è la considerazione del cittadino per certi giudici) lasciata a fermentare, nei bidoni di ferro delle carceri: piene di disperati, di non interrogati, di sventurati, e di, come me, innocenti". Una manciata di righe, che culminano nel grido di implorazione di chi non ha perso la speranza: "Fate qualcosa, ve ne prego". Poi la firma, un estroso trionfo di curve, unico guizzo nel rigore della pagina: Enzo Tortora. Fate qualcosa: l’appello di Tortora ci investe tutti, ancora oggi. La sua vicenda umana e giudiziaria resta un potente simbolo collettivo. È un faro per le nuove generazioni. Un monito per una politica (non mi sottraggo all’autocritica) che sul garantismo e i diritti continua a spendere tante parole, senza riuscire a tradurle in atti concreti. Basta osservare i numeri: dal 1992 (anno delle prime liquidazioni) a oggi, sono state oltre 25 mila le persone private della libertà personale e poi indennizzate dallo Stato per ingiusta detenzione, con una spesa complessiva per il contribuente di 648 milioni di euro. E se sommiamo a questi le vittime degli errori giudiziari arriviamo quasi a 700 milioni di euro. Praticamente uno stadio di calcio gremito che ha chiesto e ottenuto l’indennizzo. Per non parlare di coloro che non hanno neppure fatto richiesta. Parliamo di una media di circa mille casi l’anno. Nel 2016 le autorizzazioni sono state 1001: indennizzi per 42 milioni di euro. Ma quale cifra può davvero risarcire il dramma personale di chi deve affrontare le conseguenze di una giustizia che sbaglia e ammette di aver sbagliato? Questo è il punto. L’enorme, vergognoso dispendio di risorse pubbliche è solo un aspetto marginale del problema. Anche in presenza del più cospicuo indennizzo, il marchio indelebile sulla persona non si cancella e la dignità strappata - davanti agli occhi della comunità, dei colleghi, dei propri cari, di un figlio - è estremamente difficile da recuperare. Con effetti traumatici soprattutto per le famiglie, che in molti casi ne escono distrutte. Ecco perché è così importante accendere i riflettori sul tema. Ben vengano allora le iniziative, gli articoli di giornale, le testimonianze, se ci obbligano a guardare in faccia il problema, a interrogarci sulle cause, sulle responsabilità e sulle possibili soluzioni. Con questa lente di ingrandimento, potremo allora riconoscere alcuni sintomi di una grave patologia del nostro sistema processuale. Come non considerare che gli indennizzi per ingiusta detenzione in Italia, in termini di spesa e numero di persone indennizzate, sono fortemente disomogenei sul territorio nazionale? Abbiamo tribunali in cui le ingiuste detenzioni sono numerosissime e fori dove si registrano solo sporadicamente. Ma il tema ha molto a che fare anche con la lunghezza dei processi: ognuno di questi indennizzi avviene infatti generalmente dopo oltre 10 anni dall’ingiusta carcerazione subita, perché la sentenza definitiva che accerta l’innocenza dell’imputato non arriva certo in tempi contenuti. Questo è forse uno degli aspetti più odiosi, perché nel frattempo la persona rimane esposta al pregiudizio e al sospetto. C’è poi la questione dell’abuso della carcerazione preventiva: non è un mistero che la misura cautelare venga utilizzata spesso per obiettivi diversi da quelli per cui è ammessa. Ma c’è anche un altro aspetto significativo che non possiamo trascurare: la responsabilità disciplinare dei magistrati, di fronte a questi macroscopici errori, non scatta mai. Infatti, a differenza di quanto previsto dalla Legge Pinto, il provvedimento di indennizzo non viene trasmesso al titolare dell’azione disciplinare per le valutazioni di competenza. Questo è un punto fondamentale e non formale: per tali errori finora ha pagato solo lo Stato; il magistrato che sbaglia non ne risponde. Va riconosciuto, comunque, che una maggiore sensibilità, anche politica, sulla questione si sta diffondendo. Un segnale, per esempio, è stato il voto unanime della Camera alla norma, inserita nel Ddl sul Processo Penale, che prevede una relazione annuale al Parlamento che contenga i dati relativi alle sentenze di riparazione per ingiusta detenzione (con specificazione delle ragioni di accoglimento e dell’entità delle riparazioni) e al numero di procedimenti disciplinari iniziati nei confronti di magistrati per le ingiuste detenzioni accertate, con indicazione dell’esito, ove conclusi. È già qualcosa, ma non basta. Finché assisteremo anche a un solo caso di carcerazione ingiusta, illegittima o ingiustificata, dovremo batterci con forza: la civiltà giuridica di un Paese si misura da questi elementi. Se dibattessimo meno di età pensionabile dei magistrati e più di queste profonde lesioni della libertà personale, non sarebbe male. La violenza che non ripaga del dolore di Pierangelo Sapegno La Stampa, 2 febbraio 2017 Tutto quello che lascia la vendetta è il dolore. Ma quello che colpisce di più nella tragedia di Fabio Di Lello, il marito che aveva perso la moglie travolta sette mesi fa a un semaforo rosso da un pirata della strada e che è andato a cercare l’imputato per ammazzarlo con una pistola prima del processo, sono tutte le lacrime di sofferenza di questa storia, il mistero insondabile nascosto nell’amore e nella violenza, sentimenti che appartengono alle nostre radici e non solo al nostro tempo; quello che colpisce è la tormentata e affliggente dolcezza dell’assassino che dopo aver compiuto la sua folle vendetta si reca sulla tomba della moglie, come confessa a un amico, con il mazzo di fiori nuovo e il vestito stazzonato. "Vado a salutarla ancora una volta, a parlarci insieme prima di andare dai carabinieri. Devo dirle perché l’ho fatto". È difficile giudicare il dolore, qualsiasi dolore, perché scava nei nostri abissi ferite incomprensibili per tutti quelli che non lo conoscono. Ma la vita ha delle regole che vanno oltre a questi sentimenti, che sono mutate nei secoli quando assieme al tempo e alla storia anche l’uomo è cambiato. È vero che l’Antico Testamento, Levitico, recita che "se uno farà una lesione al suo prossimo, si farà a lui come egli ha fatto all’altro, dente per dente". Ma la nostra civiltà ha superato da secoli questa concezione della Giustizia, finendo per considerare la pena persino come un percorso di recupero più che di punizione. Che poi non sia così sarebbe un altro discorso. Il fatto è che non è mai così. Se le nostre carceri sono luoghi di emarginazione e persecuzione, in cui vige la legge ancestrale del più forte, prima di scontare la condanna hai migliaia di percorsi di fuga e cavilli legali davanti a te per evitarla. La vittima di un processo è troppe volte sola. E in questa solitudine dev’essere affondato Fabio Di Lello dentro al suo dolore cieco. Solo che il paradosso del sentimento di vendetta è che ti rende dipendente proprio da chi ti ha fatto del male, facendoti credere che ti libererai dal dolore solo quando farai soffrire il tuo persecutore. In realtà, ti imprigiona, ti rende schiavo della sua follia primitiva. È questa la condanna a cui vai incontro. George Orwell diceva che "la vendetta si compie quando si è impotenti". Ed è vero, come è vero che Fabio Di Lello si dev’essere sentito abbandonato dalla giustizia per arrivare a compiere un gesto così folle. Un uomo capace di amare come doveva essere lui, così dolorosamente e così dolcemente, s’è distrutto con le sue mani ergendosi a giudice della vita. Perché se inizi il percorso della vendetta, diceva Confucio, "preparati a scavare due tombe". Una per il tuo nemico. L’altra per te. Campobasso: morì d’infarto, ma i medici del carcere l’avevano curato con un Malox di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 2 febbraio 2017 Si riapre il caso di Alessandro Ianno, un detenuto di 33 anni morto nel carcere di Campobasso il 19 marzo del 2015 per un infarto. Aveva avuto dei sintomi premonitori, purtroppo in carcere venne curato con un antiacido. Si aprì un’inchiesta, ma nonostante il caso si presentasse molto particolare, il sostituto procuratore che si occupò delle indagini chiese ed ottenne l’archiviazione. A disporre di nuovi accertamenti è ora il gip Teresina Pepe del tribunale di Campobasso, in seguito alla perizia di parte presentata dai legali della famiglia Ianno, gli avvocati Silvio Tolesino e Antonello Veneziano, nella quale si sostiene che c’è stata un’omissione. Alessandro Ianni, il quale già soffriva di problemi cardiaci, era morto di infarto nonostante che prima di morire avesse forti dolori al petto e allo stomaco. I sintomi che aveva avuto erano tipici segnali dell’arresto cardiocircolatorio, ma qualcuno gli prescrisse un antiacido. Per questo motivo la procura della Repubblica di Campobasso aveva iscritto nel registro degli indagati con l’accusa di omissione di soccorso quattro persone tra agenti di polizia penitenziaria e medici in servizio nella Casa circondariale intervenuti nella cella del 33enne. L’avvocato della famiglia Ianno sospettò che le cure mediche fossero state prestate in forte ritardo al ragazzo "che già dalla mattina - spiegò l’avvocato - si lamentava per dolori alla spalla, allo stomaco e al petto". Ad Alessandro qualcuno, forse il medico della struttura di via Cavour - ma questo è ancora tutto da accertare - avrebbe prescritto un Malox. "I dolori non si placarono - riferì il legale Silvio Tolesino che assieme ad Antonello Veneziano sta seguendo il caso - anzi diventarono più forti". Alle 17 c’è stato il collasso e Alessandro è morto sotto gli occhi di diversi testimoni. Inutili i tentativi di rianimarlo. "Il nostro non è un accanimento contro il personale penitenziario - con cui si schierò il sindacato Sappe - ma vogliamo sapere esattamente chi c’era per arrivare alla verità" disse ancora Tolesino nel giorno della sepoltura di Ianno i cui funerali si svolsero nella chiesta di San Pietro, a Campobasso. Alessandro divideva la stanza con altre tre persone, la loro versione non combacerebbe alla perfezione con quella del personale penitenziario in servizio. Ora il caso, dopo prima archiviazione, si riapre alla luce di una nuova perizia dei legali della famiglia e in questa nuova fase è probabile che arrivino le risposte alle tante domande degli avvocati Tolesino e Veneziano. Come già ribadito più volte su questa stessa pagina, la maggior parte delle morti in carcere sono legate dalla mancanza di cure adeguate. L’intero sistema sanitario penitenziario è in deficit e per questo motivo i detenuti non ricevono cure adeguate. Tagli al personale che incidono anche sulle morti in carcere. Ogni anno oltre cento detenuti muoiono per "cause naturali". A volte la causa della morte è l’infarto, evento difficilmente prevedibile, ma altre volte sono i sintomi dei malanni trascurati o curati male e un lungo deperimento, dovuti a malattie croniche. L’articolo 1 del Decreto Legislativo 230/ 99, sul riordino della medicina penitenziaria stabilisce che: "i detenuti e gli internati hanno diritto, al pari dei cittadini in stato di libertà, alla erogazione delle prestazioni di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione, efficaci ed appropriate, sulla base degli obiettivi generali e speciali di salute e dei livelli essenziali e uniformi di assistenza individuati nel Piano sanitario nazionale, nei piani sanitari regionali ed in quelli locali". Dall’entrata in vigore di questa legge sono trascorsi 16 anni, nel corso dei quali le competenze sull’assistenza sanitaria dei detenuti avrebbero dovuto gradualmente passare dal ministero della Giustizia a quello della Sanità: invece, quello che si è sicuramente verificato è stato il taglio delle risorse economiche destinate alle cure mediche per i detenuti, mentre l’attribuzione delle pertinenze è tuttora argomento di discussione e di confusione. C’è la tendenza a considerare tutti i detenuti dei simulatori, a minimizzare di fronte ai sintomi di una malattia, a rassicurare il paziente - detenuto sul fatto che "non è niente di grave". Così, quando un detenuto muore, una azione di "depistaggio" viene spesso messa in campo per scaricare su altri la responsabilità dell’accaduto, sia all’interno del carcere - gli agenti non l’hanno sorvegliato, i medici non l’hanno curato, gli psicologi non l’hanno capito, i magistrati non l’hanno scarcerato, sia all’esterno - non è morto in cella, ma durante la corsa verso l’ospedale, oppure subito dopo l’arrivo in ospedale -, il che vuol dire: "Noi non c’entriamo, il carcere non c’entra, da qui è uscito ancora vivo". All’interno delle carceri sono tanti i detenuti che hanno gravi patologie: cancro, leucemia, diabete, Alzheimer, epilessia. Per non parlare dei disabili. In questi giorni, Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione sarda "Socialismo Diritti Riforme", sta sollevando il caso di un detenuto sieropositivo con l’epatite cronica rinchiuso nella casa circondariale di Cagliari. "Ha 45 anni, sieropositivo con complicazioni generali nonché epatite cronica. L’uomo, affetto da flebopatia con ulcere infettate negli arti inferiori, grave osteoporosi, non è in grado di camminare autonomamente e utilizza una carrozzina per muoversi. Le sue condizioni non sembrano compatibili con una struttura detentiva", afferma Maria Grazia Caligaris sollecitando un intervento urgente del magistrato di sorveglianza. Caligaris denuncia che "la situazione sanitaria è aggravata da uno stato di prostrazione che rende l’uomo incapace di reagire positivamente. Piange con facilità e afferma di volere accudire l’anziana madre che non è in grado di andare in carcere a trovarlo. Sono anche evidenti sulla sua testa le cicatrici di un pregresso incidente stradale che aveva determinato a suo tempo un periodo di coma". La presidente di "Socialismo Diritti Riforme", infine, osserva: "Nonostante non si tratti di uno stinco di santo non sembra opportuno mantenere dentro una cella una persona non autosufficiente. Le condizioni di salute non appaiono tali insomma da potergli far scontare la pena in stato di detenzione anche per la necessità di ricorrere costantemente alle cure del personale infermieristico e medico" Orvieto (Pg): il Ministero intenderebbe mantenere l’Istituto a Custodia Attenuata orvietosi.it, 2 febbraio 2017 Carcere di Via Roma, ancora non è detta l’ultima. Ci sarebbe infatti la volontà del ministro della Giustizia Andrea Orlando di mantenere la struttura orvietana quale Istituto a Custodia Attenuata anche se sarà necessario un pronunciamento certo e definitivo da parte dello stesso Ministero auspicabile già con la visita del responsabile del Capo del Dipartimento della Amministrazione Penitenziaria (Dap) nel mese di febbraio. È quanto emerso dall’incontro di stamattina del sindaco con le componenti sindacali del comparto giustizia per far luce sull’argomento. Come si ricorderà il sindacato di polizia penitenziaria Sappe aveva proclamato lo stato di agitazione a seguito della decisione di riconvertire l’istituto orvietano da Ica a Casa di Reclusione a media sicurezza. All’incontro hanno partecipato i rappresentanti sindacali: Fabrizio Bonino (Sappe), Mario Tognarini (Cgil), Marcello Gubbiotto (Uspp), Paolo Conti (Cisl Fp), Mario Ragni (Coordinatore regionale Cgil), Elisabetta Rico (Segretario regionale Cisl Fp), Isabella Ianni (Rsu Cgil della Casa di Reclusione) che hanno ringraziato il sindaco e il Comune di Orvieto per l’interesse che sta dimostrando sulle sorti della struttura, per lo sviluppo delle attività svolte dall’attuale tipologia di istituto e per il mantenimento dei posti di lavoro più in generale. In apertura il sindaco ha sottolineato l’importanza che l’Istituto riveste per la Città di Orvieto che, anche attraverso un comitato cittadino, sta mantenendo alta l’attenzione sul tema. Germani ha ricordato che in virtù della convenzione sottoscritta nel 2015 dall’amministrazione comunale con l’Istituto, ad oggi è stato possibile attivare collaborazioni che si sono rivelate costruttive e soddisfacenti per il Comune di Orvieto, tanto che il progetto Ica attuato nella nostra città è stato definito a vari livelli regionali e nazionali un progetto interessante e da valorizzare. Di qui la preoccupazione e l’attenzione ulteriore attivata dall’amministrazione comunale e dalla città nelle sue varie espressioni politiche e civili, quando sono stati paventati i rischi di un ripensamento dell’istituto Ica. Il sindaco si è anche soffermato sulla volontà del Comune di Orvieto di incentivare il contatto interno/esterno con il carcere, infatti il progetto di sviluppo dell’ICA che, peraltro, ha avviato la programmazione di nuovi progetti per il 2017, sta andando avanti secondo la convenzione sottoscritta dal Comune e riguarderà la realizzazione di altri progetti contestualizzati all’interno della programmazione delle attività sociali del Comune di Orvieto e dei Comuni facenti parte delle Aree Interne. Al termine dell’incontro, a fronte della validità dell’Istituto ICA di Orvieto che si è dimostrato un positivo strumento per attivare una vera rieducazione sociale, Germani ha evidenziato che "tutte le strutture della città devono essere concordi per raggiungere questo obiettivo, per questo sarà chiesto anche il sostegno delle istituzioni e delle rappresentanze politiche regionali e nazionali". Alessandria: carceri cittadine verso l’accorpamento, sabato un convegno per fare il punto alessandrianews.it, 2 febbraio 2017 Dal sindacato Uil-Pa l’annuncio della decisione politica di accorpare le direzioni e i servizi amministrativi dei due istituti. Intanto sabato 4 febbraio si terrà un dibattito pubblico con la presenza del deputato Andrea Maestri per parlare della carenza di organico. "La Politica ha risposto all’appello della UIi-Pa sulla protesta silente della Polizia penitenziaria di San Michele Alessandria". Salvatore Carbone, Segretario generale regionale Uil-Pa Polizia penitenziaria, annuncia così l’importante novità che si profila all’orizzonte, cioè la decisione di accorpare gli istituti cittadini: la Casa circondariale Catiello Gaeta e la Casa di Reclusione di San Michele (almeno per quel che riguarda la direzione e il personale amministrativo). Sabato 4 febbraio, dopo la visita agli Istituti penitenziari alessandrini con l’On. Andrea Maestri, deputato, componente della seconda commissione parlamentare (Giustizia), si terrà un dibattito sulla problematica della carenza organica dell’istituto. "Abbiamo ricevuto anche rassicurazioni più concrete dal Provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria Pagano - spiega Carbone - durante l’ultimo incontro sindacale avuto a Torino lo scorso 30 gennaio, più proficuo di quello antecedente del 26. Intanto da oggi, mercoledì 1 febbraio, gli istituti cittadini si sono accorpati, almeno con la denominazione, in Istituti penitenziari "G. Cantiello e S. Gaeta" Alessandria. Pur avendolo chiesto, non conosciamo ancora il nome del dirigente responsabile delle due strutture cui fare riferimento anche sindacalmente". Venerdì 3 febbraio si terrà invece la prima assemblea con tutto il personale dell’istituto di P.zza Don Soria sull’accorpamento delle carceri cittadine. Sassari: in carcere la sanità è da terzo mondo di Vincenzo Garofalo La Nuova Sardegna, 2 febbraio 2017 Il Garante dei detenuti: "A Bancali niente psicologi e assistenza psichiatrica. Un anno di attesa per una visita ortopedica". Niente psicologi, nessuna assistenza psichiatrica, pochi specialisti a disposizione, più di un anno di attesa per una visita ortopedica, e un ambulatorio retto da infermieri precari che devono fare a meno di presidi, stetoscopi, carrelli. È la fotografia dell’assistenza sanitaria in carcere, ed è il problema maggiore della struttura penitenziaria di Bancali. Così la vede il garante per i diritti dei detenuti, Mario Dossoni, che ieri mattina è stato sentito a Palazzo ducale dalla commissione Problemi sociali, convocata dalla presidente, Carla Fundoni. "La sanità è il problema più grave del carcere di Bancali", ha detto il rappresentante del Comune all’interno dell’istituto penitenziario, dipingendo la realtà di un mondo costretto dietro le sbarre. "I farmaci più somministrati sono il paracetamolo e gli psicofarmaci, eppure per i detenuti non ci sono psicologi, c’è solo un servizio di ascolto organizzato in maniera encomiabile dal Serd", ha continuato Dossoni. "All’interno della struttura c’è un piccolo reparto medico, costruito appositamente, ma non è mai stato accreditato e non è mai potuto entrare in funzione". Se poi un detenuto ha necessità di una visita specialistica, è bene che si faccia il segno della croce: "Gli specialisti visitano in carcere solo due ore la settimana, e non è assolutamente sufficiente. C’è un detenuti che ha chiesto una visita ortopedica a dicembre del 2015, e sta ancora aspettando". Ma la sanità non è l’unico problema con cui devono convivere i 430 detenuti del carcere sassarese: 18 sono donne ospitate nella sezione femminile, 20 sono detenuti nell’Alta sicurezza 2, trentadue nella sezione "protetti", 270 sono carcerati comuni, e 89 sono al 41bis. Proprio questo settore rende problematica la vita di tutto il carcere: "quando un detenuto in regime 41 bis deve essere spostato, tutto il carcere si blocca per questioni di sicurezza. E si blocca anche l’ambulatorio", spiega il garante, "e poi il 41 bis assorbe troppe risorse, sottraendole al resto della struttura. Soprattutto risorse umane, che con una pianta organica di 384 agenti ma con solo 200 effettivi, non bastano mai. Qualsiasi iniziativa si scontra con difficoltà incredibili. Ogni attività deve chiaramente svolgersi sotto il controllo degli agenti, ma non sempre ci sono unità disponibili, anche perché la priorità è per la sorveglianza al 41bis. Ma nonostante i problemi, Mario Dossoni racconta anche di un carcere vivo, che cerca in tutti i modi di guardare oltre i muri: quindi in quest’anno sono stati organizzati corsi di qualificazione, spettacoli, incontri, e lui stesso, utilizzando l’esiguo fondo comunale per il garante (2mila euro l’anno), ha creato un laboratorio di falegnameria: "è fondamentale insegnare e tenere attivi i detenuti. Gli studi di settore dicono che nelle carceri dove di organizzano corsi di formazione e laboratori, la recidività è del 30 per cento, mentre dalle alte parti è del 60-70 per cento. E a Bancali la recidività è intorno al 60 per cento". Sentite le problematiche esposte dal garante la Commissione comunale si è impegnata, su proposta dei consiglieri Giuseppe Mascia, a presentare un ordine del giorno per sollecitare la Regione alla nomina di un garante regionale, e su proposta di Antonello Sassu a fare in modo che il Bilancio comunale riservi fondi maggiori per realizzare iniziative all’interno del carcere di Bancali. Varese: detenuti-operai al lavoro, finalmente l’acqua calda ai Miogni di Barbara Zanetti La Prealpina, 2 febbraio 2017 Trenta euro al giorno non sono tanti, ma se a guadagnarli sono i detenuti, per mettere a posto quella che al momento è per forza la loro "casa", rappresentano un guadagno che è meglio di nulla. Piccone, martello, carriole, entrano ai Miogni e a condurre i lavori "in economia" sono i carcerati. Al momento, tranne un paio, tutte le celle al piano terra sono libere. I detenuti sono saliti ai piani superiori e fa niente se qualche disagio in più va affrontato. È un sacrificio necessario per rendere possibile la ristrutturazione della casa circondariale di via Felicita Morandi, dopo tre lustri di "voci" di chiusura. La promessa era stata fatta la scorsa primavera in occasione della visita del capo di Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Santi Consolo, con il sottosegretario alla Giustizia con delega alle carceri Gennaro Migliore e con la parlamentare Pd Maria Chiara Gadda. In estate, la garanzia dell’arrivo dei fondi, 47.821,04 euro di finanziamento da Cassa Ammende. Ora, l’avvio dei lavori. In poco più di dieci giorni è stato scrostato l’intonaco e si sono predisposte le celle per i lavori che dovrebbero partire tra poche ore (si dice che manchi ancora parte il materiale necessario e che gli agenti di polizia penitenziaria abbiano portato alcuni attrezzi da casa per predisporre il lavoro). Qualche ritardo a parte, è certo che l’intervento si farà, poiché così è stato disposto quando ormai nessuno avrebbe scommesso un centesimo sul futuro del carcere in centro città. I lavori hanno come obiettivo il rifacimento degli impianti e dei sanitari delle celle. Perché le celle sono al momento in queste condizioni: turca al posto del water, lavandino. Niente doccia. E acqua fredda. Al termine del cantiere, i lavori sono stimati in quattro mesi, nelle celle (ve ne sono di due tipi, una di otto metri quadrati, l’altra di poco più di nove, la prima per due detenuti, la seconda fino a tre), dove vi saranno tubature tutte nuove, i detenuti potranno lavarsi con acqua calda e farsi finalmente una doccia "tutta per loro". Al momento sono finanziati i lavori per quelle di un piano, si spera arrivino i fondi per la sistemazione anche delle 15 celle, più altre 15, dei due piani sopra. Per i detenuti, che spesso hanno chiesto una occasione di "inclusione sociale" attraverso la possibilità di rispolverare una vecchia professione o di apprenderne una nuova, un momento importante. Il lavoro è coordinato dagli agenti della polizia penitenziaria della Mof, sigla che indica gli agenti che si occupano della manutenzione ordinaria del fabbricato (Pasquale Ferro e Alberto Riggio), col coordinamento dell’ispettore capo Sergio Magonara. Lavorano i detenuti, ma sotto l’organizzazione tecnica e formativa della cooperativa Maco (presidente Antonio Licari, direzione lavori, Mario Martignoni). I tecnici sono inoltre al lavoro per studiare il rifacimento delle colonne montanti dell’impianto di riscaldamento della sezione detentiva. Non vi sono invece ancora novità per i lavori necessari al muro di cinta, "puntellato" da impalcature da anni, in alcuni punti. Il progetto è ancora al palo poiché non considerato al momento un intervento di riqualificazione "utile per il benessere dei detenuti". Dopo anni di immobilismo, l’apertura del cantiere rappresenta una svolta che ha riunito tutte le sigle sindacali degli agenti di polizia penitenziaria in un corale grazie. Lo scorso ottobre, con una lettera aperta, gli agenti hanno ricordato che "il destino dei Miogni, per la prima volta negli ultimi quindici anni è cambiato, non si è più parlato di chiusura, di trasferimenti di massa". Il riferimento è alla visita dello scorso maggio del capo del Dipartimento e del sottosegretario alla Giustizia con l’allora candidato sindaco Davide Galimberti, poi tornato in visita al carcere un mese dopo essere stato eletto. Lecce: cuscini Made in carcere, la seconda chance per detenute (e tessuti) di Mariella Caruso wisesociety.it, 2 febbraio 2017 Cuscini, braccialetti e borse creati con tessuti riciclati sono l’ultimo prodotto del marchio nato in Puglia per dare prospettive lavorative alle donne in carcere. Ogni cuscino è un pezzo unico fatto di scampoli di tessuti uniti in patchwork sempre diversi. Sono i cuscini Made in Carcere, gli ultimi nati del marchio che, da 10 anni, ridona speranza alle donne detenute della Casa Circondariale Borgo San Nicola di Lecce e della Casa Circondariale di Trani, permettendo loro di imparare un mestiere. Venti donne che, dopo il percorso formativo, creano prodotti eco-solidali a partire da tessuto riciclato e donato da aziende del settore. Il progetto Made in Carcere (www.madeincarcere.it), nato nel 2007, grazie a Luciana Delle Donne, fondatrice di Officina Creativa, si basa sul principio della "second chance", seconda opportunità e vita per le detenute e per i tessuti. I manufatti nascono, infatti, dall’utilizzo di materiali e tessuti esclusivamente di scarto, provenienti da aziende italiane che credono nel progetto e "smaltiscono" così le loro rimanenze. "Abbiamo una vera e propria Cittadella del tessile - spiega Luciana Delle Donne - dove recuperiamo gli scarti che i donatori, circa 200 aziende su tutto il territorio nazionale, ci mandano. Si tratta di rimanenze, campionari e giacenze di magazzino che per loro sono merce da smaltire e per noi diventano materia prima". Ad oggi con il marchio Made in Carcere sono state vendute oltre 300.000 shopper bags, più di 500 mila braccialetti e tanti altri manufatti tra accessori, porta-tablet e foulard e ora anche cuscini. "L’idea vincente - spiega Delle Donne che, nel frattempo, è anche diventata la responsabile dell’area commerciale e stile prodotto di Sigillo (agenzia nazionale di coordinamento dell’imprenditorialità delle donne detenute, istituito dal Ministero della Giustizia che certifica la qualità e l’eticità dei prodotti) - è quella di decidere cosa creare a partire dal materiale che abbiamo a disposizione. All’inizio, infatti, avevo brevettato un tipo di collo di camicia ma quando, con l’indulto, le detenute formate uscirono e dovemmo ricominciare la formazione, capii che era meglio basarsi su progetti più semplici da realizzare, in cui ogni donna poteva cucire e apportare il suo contributo. La vita del carcere, di fatto, non permette di programmare a lunga scadenza, ma in questo modo ogni donna inserita nel laboratorio ha la sua occasione per conoscere meglio, non solo il mondo del cucito ma anche quello del lavoro e a rispettare turni, scadenze e ruoli". Un percorso di responsabilità sociale, dunque, che è anche un percorso di sostenibilità ambientale, da cui è nata l’idea di una vera e propria Banca del Tessuto, insieme alla collaborazione delle Università Bocconi e IED. Un’iniziativa finalizzata a raccogliere su scala industriale donazioni di tessuti di scarto e rimanenze di magazzino altrimenti depositati o smaltiti come rifiuti ordinari dalle aziende tessili nazionali. Attraverso questi progetti Made in Carcere ha collezionato diversi premi e riconoscimenti nell’ambito ambientale: nel 2010 è stato scelto tra le realtà imprenditoriali europee e premiato a Bruxelles, ha ricevuto nella categoria "Miglior prodotto", il "Premio Impresa Ambiente" per le aziende private e pubbliche che si sono distinte in un’ottica di sviluppo sostenibile, rispetto ambientale e responsabilità sociale e si è aggiudicato, nel 2011, la prima edizione del "Premio non sprecare", nato per valorizzare le realtà piccole e grandi che sono impegnate nel ridurre lo spreco. Modena: superato il sovraffollamento, l’emergenza è nella carenze di personale modenatoday.it, 2 febbraio 2017 Audizione del nuovo Garante Marcello Marighelli in Regione, dopo il sopralluogo a Sant’Anna. E sull’agitazione sindacale in corso da mesi invita a non "mortificare" i vertici della struttura. "L’avvicendamento dei vertici del carcere di Modena non risolverebbe nessuno dei problemi sul tappeto, anzi mortificherebbe un impegno che vede oltre 100 detenuti coinvolti in attività scolastiche o formative, 88 detenuti in attività lavorativa interna e 25 all’esterno, attuando uno sforzo organizzativo coerente con il rinnovato quadro normativo nazionale e con il contesto internazionale richiesto dal ministero della Giustizia". Lo segnala il garante regionale dei detenuti, Marcello Marighelli, nel corso di una seduta di commissione a tema in Regione. Se una dura vertenza tiene banco al carcere, coi sindacati schierati da anni contro la direzione e i vertici della Polizia penitenziaria, Marighelli tende dunque a sfumare. "Non c’è - ha detto il garante in Regione - una situazione di sovraffollamento ma una presenza molto significativa di detenuti stranieri, che raggiunge quasi il 67% rispetto ad una media negli istituti della regione del 47%". Il tutto mentre il M5s, per iniziativa della consigliera Giulia Gibertoni, denuncia tuttavia una "videosorveglianza fatiscente, sia esternamente che internamente, al carcere Sant’Anna con un evidente pericolo per la sicurezza". Secondo i dati raccolti dal garante, nella visita a Modena il 18 gennaio scorso, i detenuti sono 457 (418 uomini e 39 donne) a fronte di una capienza "tollerabile", riconosciuta anche da una sentenza della Corte di giustizia europea, di 618 (576 uomini e 36 donne). Marighelli ha confermato poi "una carenza negli organici molto evidente: per la Polizia penitenziaria è oltre il 22% e per il personale giuridico educativo oltre il 37%. Ma il problema caratterizza tutta la regione". In commissione (Parità e diritti delle persone) la presidente Roberta Mori ha accolto "la disponibilità" di Gibertoni per tentare una risoluzione bipartisan sull’allarme dei sindacati di Polizia. Trieste: il Sappe "il carcere è una bomba a orologeria, capienza sforata e pochi agenti" triesteprima.it, 2 febbraio 2017 La Casa circondariale di via Coroneo è ormai oltre la capienza massima tollerabile, la situazione rischia di implodere da un momento all’altro. Lo dichiara il Sappe, Sindacato Autonomo di Polizia Penitenziaria. Lo dichiara Giovanni Altomare, segretario regionale del sindacato, massima autorità dei Baschi Azzurri: "Rispetto a una capienza di 139 detenuti - rivela Altomare - oggi se ne contano 200, e più della metà sono stranieri. È imminente il rischio di tornare a far dormire i detenuti col materasso per terra. Non è temerario asserire che si rasenta l’illegalità. Condizioni che aumentano il rischio di tensioni fra la popolazione detenuta costretta a convivere forzatamente in spazi ridotti. Altro che buoni propositi di reinserimento sociale e rieducazione". Si richiama l’attenzione su un fatto preoccupante: manca un direttore in pianta stabile perché quello vigente dirige sia Trieste che Tolmezzo (Istituto con detenuti 41 bis e alta sicurezza). "Non se la passa di certo meglio il personale di Polizia Penitenziaria - continua il segretario - costretto a turni massacranti che spesso raggiungono le dodici ore continuative. Rispetto a un organico previsto di 147 unità l’organico consta di 129 unità, comprensivo di circa 10 unità distaccate fuori sede. In questo periodo, peraltro, 12 unità sono impegnate alla sorveglianza di due detenuti con problemi psichici in luogo esterno di cura, in reparto che non pare attrezzato per la degenza di pazienti detenuti, per questioni anche di sicurezza pubblica". Solo pochi giorni fa, ricorda Altomare, uno dei detenuti ricoverati ha dato in escandescenze ferendo seriamente con una spranga due agenti e creando il panico nel reparto ospedaliero anche agli avventori, tanto da richiedere supporto ad altre forze di Polizia. Pieno sostegno alla protesta del Sappe di Trieste da parte della Segreteria Generale del Sindacato. Da Roma, il leader nazionale Donato Capece aggiunge: "Le donne e gli uomini dei Reparti di Polizia Penitenziaria in servizio nel carcere giuliano di via del Coroneo hanno fronteggiato nell’intero anno 2016 ben 25 atti di autolesionismo, hanno salvato la vita a 3 detenuti che hanno tentato il suicidio, sono stati coinvolti in 22 colluttazioni. Per questo il SAPPE dice mille volte grazie ai poliziotti penitenziari in servizio a Trieste, ai nostri poco conosciuti eroi del quotidiano, per quello che fanno ogni giorno nella struttura di via del Coroneo. Ci uniamo alla loro protesta affinché le loro giuste e legittime rivendicazioni trovino soddisfazione in tempi celeri". Torino: religione in carcere, senza dialogo tra fedi e culture cresce il pregiudizio di Monica Gallo La Repubblica, 2 febbraio 2017 All’istituto Lorusso e Cotugno, la maggior parte dei detenuti è di religione islamica, anche se non mancano gli ortodossi i buddisti, i protestanti gli induisti, i scintoisti e evangelici. La fede resta nelle carceri uno degli strumenti di conforto più grande. C’è chi la scopre, o la ritrova, proprio dietro le sbarre, ma se per chi è cattolico è garantita giornalmente la presenza dei cappellani e ampi spazi dedicati, diversa è la situazione per chi professa altri credo. Ho iniziato questa riflessione partendo dagli spazi architettonici che nel carcere di Torino sono dedicati alla religione cattolica: una grande chiesa centrale e cappelle in ogni padiglione. Ho pensato di avviare una riflessione più ampia sul tema, in un momento dove è costante la ricerca di modelli volti alla deradicalizzazione e per farlo ho provato a coinvolgere un sacerdote che ha dedicato la sua vita al dialogo con le altre fedi e all’accoglienza, don Fredo Olivero che per sedici anni è stato il direttore della Pastorale migranti della diocesi di Torino: "È necessario e importante il dialogo tra fedi e culture diverse che si collocano in varie religioni, però bisogna avere idea chiara di quello che si vuole ottenere" mi ha detto quando gli ho chiesto se incoraggiare un dialogo tra le religioni e culture all’interno del carcere possa essere utile. "Per ottenere qualcosa di proficuo - ha aggiunto. Si devono superare le singole posizioni culturali di partenza dove nessuno ha niente da imparare, dove sappiamo già tutte le risposte e ci sentiamo il meglio. Riconoscere l’altro o l’altra come persone e rispettarli anche nella sua dignità "rinchiusa in carcere" che rimane sempre, anche lì". La percentuale di detenuti stranieri in Italia si aggira intorno al 35 % dato che si conferma nell’istituto torinese, dove la maggior parte dei detenuti sono di religione islamica, anche se non mancano gli ortodossi i buddisti, i protestanti gli induisti, i scintoisti e evangelici. I detenuti musulmani utilizzano, per praticare il proprio culto, una volta alla settimana la palestra con l’Imam autorizzato all’ingresso ma per le altre religioni non c’è uno spazio dedicato. Quello che mi chiedo è se non si possa pensare un unico spazio di riflessione, meditazione e preghiera gestito dalle diverse comunità religiose presenti. Anche Olivero è convinto si possa provare: "Momenti di silenzio o preghiera possono avvenire in una sala del silenzio, penso alle esperienze del Mauriziano o delle Molinette ad esempio. Abbiamo anche il progetto della costruzione di una "sala delle religioni" in corso di realizzazione all’ex Incet di in via Cigna 91/17 ex Incet. In carcere potrebbe essere sperimentata durante il Ramadan per un mese e poi si può valutare come è andata. Iman bravi disponibili ci sono a Torino e i monaci cappellani che ora sono alle carceri hanno le capacità di sostenere l’esperienza". Non sono solo gli spazi ovviamente, ma anche alle modalità con le quali si pratica la preghiera, l’ascolto, l’accettazione dell’altro. Nei suoi scritti sul dialogo interreligioso Olivero descrive bene come l’assoluta mancanza di tutto questo sia all’origine di molti problemi dell’oggi. Per questo penso che un uno spazio unico di riflessione, meditazione e preghiera gestito dalle diverse comunità religiose presenti nell’istituto potrebbe farci fare un passo avanti. Immagino il Locale Delle Religioni dedicato al pluralismo religioso, del tipo prayer room e una delle cose che mi domando è che cosa potrebbe generare un dialogo interreligioso in carcere. "Il dialogo anche in carcere genera sia confronti che arroccamenti - ragiona Olivero - Però se fatto con impegno e sincerità, conoscenza cultura cambiamento (anche nella struttura recettiva e nel suo personale) può avere successo. L’obiettivo non è fare proseliti ma far conoscere quello che è importante e che costruisce la mia personalità. Per questo servirebbe qualche mediatore culturale, utilizzando anche detenuti colti o disponibili magari". Su questo punto va sottolineato come oggi nella casa Circondariale Lorusso e Cotugno non ci siano mediatori culturali, nonostante un protocollo siglato dal Dap, il dipartimento per l’amministrazione penitenziaria, e l’Ucoii-Unione delle comunità islamiche italiane, abbia previsto un elenco di mediatori da inserire nelle carceri. Questo dimostra che è convinzione di molti che una modalità spirituale comune possa rappresentare una possibile soluzione all’emarginazione dei detenuti stranieri in carcere: "Bisogna avere idee e provare sperimentare, monitorare quanto viene fuori e poi cambiare tiro se necessario - conclude Olivero - Senza dialogo tra fedi e culture cresce solo il pregiudizio". Ascoli: laboratorio di Scrittura Espressiva nel carcere di Marino del Tronto marchenotizie.it, 2 febbraio 2017 All’avvio un progetto laboratoriale di Scrittura Espressiva previsto presso la Casa Circondariale "Marino del Tronto" di Ascoli Piceno, ideato e curato dalla giornalista e scrittrice, Piera Ruffini, di concerto con il Dott. Stefano Cristofori, psicologo e psicoterapeuta biosistemico. Il corso, articolato in sette incontri, è stato accolto con attenzione dalla Direttrice del Carcere di Ascoli, Dott.ssa Lucia Di Feliciantonio, che manifesta da sempre interesse per le attività formative rivolte ai suoi detenuti e agli agenti di polizia penitenziaria. La metodologia di Elisabeth Bing, utilizzata in questo itinerario, individua nell’atelier di scrittura un mezzo che consente a chi vi partecipa il (ri)trovato piacere di scrivere, l’annoverare di nuovo, o per la prima volta, tale pratica fra gli strumenti espressivi a disposizione poiché capace di contattare e di trasformare emozioni, talvolta di rimuovere blocchi. Il percorso, che ha contenuti a metà tra la scrittura autobiografica e quella terapeutica, diventa, dunque, un veicolo di manifestazione della relazione con il sé, della conoscenza della propria esperienza. È il fluire e il sentire di un viaggio all’interno dell’esistenza umana, della sua bellezza e del suo vuoto, soprattutto per i reclusi che possono così tenere non "imprigionata" la propria mente o la propria fantasia, ma liberarla per una crescita emotiva, interiore, sociale. Taranto: il Rotaract consegna 200 libri ai detenuti della Casa circondariale politicamentecorretto.com, 2 febbraio 2017 Nella giornata di venerdì 27 gennaio u.s. negli uffici della Direzione della Casa Circondariale di Taranto è avvenuta la consegna dei volumi in occasione del Service "Sulla scia delle ali della Libertà", un service Rotaract che mira a diffondere, attraverso la raccolta di libri, la cultura all’interno delle carceri di tutta Italia. In tale occasione sono stati consegnati, presso la struttura detentiva, ben 200 libri alla presenza della direttrice del carcere, dott.ssa Stefania Baldassari. I libri sono stati raccolti grazie all’impegno del Rotaract Club Taranto (Pres. Andrea Sardella), in collaborazione con il Rotary Club Taranto (Pres. Massimo Basile ), Rotary Club Taranto Magna Grecia (Pres. Maria Teresa Basile) coordinati dal presidente del service nazionale Distretto Rotaract 2120 Francesco Roma. Fondamentale è stata la collaborazione con il Distretto Rotary 2120 rappresentato dal Governatore Luca Gallo che ha contribuito alla diffusione del progetto e all’Rrd Rotaract 2120 Fabrizio Michele Di Terlizzi per la realizzazione del service. L’incontro è stato occasione per riflettere sull’importanza della cultura come mezzo riabilitativo più efficace. L’iniziativa, come detto, è stata organizzata dal Rotaract per arricchire di nuovi libri la biblioteca del penitenziario tarantino e favorire la promozione e la diffusione della cultura tra le persone detenute. La Direzione del carcere jonico, nel ringraziare il Rotaract e il Rotary per tale contributo, riconosce il valore di questo tipo di iniziative dal significativo impatto sociale, auspicando ulteriori collaborazioni per il futuro. La biblioteca carceraria è, infatti, il luogo dove il detenuto può sentirsi cittadino a tutti gli effetti, dove vengono garantiti gli stessi servizi che riceverebbe all’esterno e dove è possibile avere un diretto contatto con i libri che costituiscono quel legame con l’esterno negato dalla detenzione. Milano: la musica entra nelle carceri milanesi di San Vittore, Opera e Bollate di Gaetano Santangelo amadeusonline.net, 2 febbraio 2017 L’Associazione per Mito Onlus con il programma "Music from the World" porta la musica nelle carceri grazie alla collaborazione con il Conservatorio di Milano. Il primo concerto del 2017 si terrà il prossimo 11 febbraio alle ore 14 nella Casa Circondariale di Opera. San Vittore, Opera e Bollate sono le prime tappe previste da questa interessante iniziativa che si realizza anche grazie alla sensibilità del Presidente Ralph Fassey, del Direttore Cristina Frosini e dei responsabili delle carceri milanesi. La rassegna concertistica vedrà esibirsi gli studenti del Laboratorio di World Music del Conservatorio di Milano sotto la guida di Alberto Serrapiglio. Finalità di questo Laboratorio: lo studio e l’approfondimento di forme e generi musicali di natura extra colta, provenienti da culture e ambienti geograficamente e storicamente lontani dal repertorio accademico. I programmi proposti spazieranno da Bach alla musica Yiddish, da Piazzolla alla musica turca, da Gershwin a Sarasate. L’Associazione auspica che quest’iniziativa sia l’inizio di un progetto di ampio respiro, volto a impiegare la musica all’interno delle carceri come uno strumento di confronto e di ascolto, che possa stimolare l’aggregazione e la partecipazione attiva dei detenuti, secondo le proprie attitudini ed esperienze. L’Associazione per Mito Onlus è stata costituita nel maggio 2016 per sostenere e promuovere il Festival Internazionale Mito Settembre Musica e per offrire musica di alta qualità a prezzi contenuti ad un pubblico vasto e diversificato ed in ambiti e spazi diversi. Nella convinzione che la musica abbia un valore educativo, culturale, sociale e terapeutico importante, l’Associazione punta, ad avvicinare alla musica soprattutto coloro che si trovano in difficolta`, in luoghi disagiati e difficili, nelle periferie, negli ospedali e anche nelle carceri. Infatti soprattutto in questi luoghi, anche tramite la collaborazione ed il coordinamento tra le diverse istituzioni presenti nel territorio, la musica potrebbe costituire lo strumento ideale per superare la marginalizzazione e le divisioni culturali. Trapani: i giovani della "Missione popolare" e il Vescoso in visita al carcere di Favignana lagazzettatrapanese.it, 2 febbraio 2017 Il Vescovo: "Grazie a chi lavora per rendere la realtà carceraria un cammino costruttivo". Per molti dei ragazzi che partecipano alla Missione popolare quella di stamattina è stata la prima volta in un carcere. Insieme al vescovo Pietro Maria Fragnelli, al cappellano padre Bruno Moras e alle suore "Apostole del Sacro Cuore" hanno passato i controlli, lasciato zaini e cellullari per scoprire che il carcere è fatto di persone: personale della polizia penitenziaria, educatori ma soprattutto detenuti provenienti da diverse città e perfino da diverse nazioni. Intenso lo scambio di storie, testimonianze, poesie e preghiere con l’invito finale di una delle giovani presenti a "non mollare mai". Con commozione alcuni detenuti hanno raccontato l’esperienza vissuta a Roma dove insieme al cappellano hanno partecipato nel novembre scorso al Giubileo dei carcerati con papa Francesco in Vaticano. Il direttore, Renato Persico, ha presentato la struttura che è anche "Casa Lavoro" e che al momento ospita 85 ristretti. Infine il vescovo si è soffermato a salutare personalmente i detenuti presenti e riprendendo le parole di alcuni di loro li ha invitati a vivere nel modo migliore possibile la vita: "le fragilità e le tendenze ai comportamenti non buoni le abbiamo tutti, non soltanto voi che siete qui ma questo non deve fermarci né abbatterci. Siamo tutti compagni di viaggio, sentiteci vostri compagni di viaggio e come nella cartolina che vi abbiamo donato papa Francesco porta sulle spalle l’agnello, il fragile piccolo della pecora, allo stesso modo Gesù porta ciascuno di noi sulle sue spalle". Quindi il ringraziamento al direttore, a tutto il personale e "a tutti coloro che s’impegnano a rendere questa realtà carceraria un cammino costruttivo". Un detenuto serbo ha donato al vescovo alcune croci a forma di Tau, lo stesso simbolo che i "missionari" hanno ricevuto nel corso del loro "mandato" domenica scorsa nella chiesa di San Pietro. Venerdì mattina 3 febbraio, sempre nell’ambito degli incontri della Missione popolare, è previsto un altro incontro presso la Casa Circondariale di Trapani. Guerra. Partono dalla Sardegna le bombe "Made in Italy" che uccidono in Yemen di Luigi Grimaldi Famiglia Cristiana, 2 febbraio 2017 Per il Governo italiano è tutto regolare. Ma la legge vieta di rifornire i Paesi in guerra. Da oltre un anno le organizzazioni umanitarie e pacifiste italiane stanno chiedendo di sapere perché l’Italia continua a vendere bombe all’Arabia Saudita nonostante la legge italiana proibisca di commerciare materiale bellico con un Paese in guerra. Infatti sono ordigni che l’Arabia Saudita usa per bombardare la popolazione civile in Yemen. A livello internazionale fioccano le accuse documentate di crimini di guerra: anche da parte di agenzie delle stesse Nazioni Unite: migliaia di morti e decine di migliaia di feriti, in gran parte civili. I sauditi in Yemen colpiscono qualunque cosa capiti a tiro: scuole, ospedali, fabbriche, impianti idrici, mercati, allevamenti di bestiame e ogni tipo di infrastruttura civile. Lo fanno in modo sistematico, al punto che lo scorso dicembre il segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon ha definito l’attacco saudita allo Vemen una "enorme carneficina". Insomma, l’Italia, come anche altri Paesi occidentali ed europei, sta rifornendo una guerra sanguinaria in aperta violazione dei più elementari diritti umani. Accuse di crimini di guerra che non riguardano solo gli ordigni. "Nello Yemen è in corso la più grave crisi alimentare mondiale: 14 milioni di persone non mangiano a sufficienza, due milioni che rischiano di morire se non si interviene con urgenza e sono 2,2 milioni i bambini che soffrono la fame". La denuncia è solo di qualche giorno fa e viene da Stephen O’Brien, capo delle operazioni umanitarie all’Onu, che ha lanciato l’allarme davanti al Consiglio di sicurezza dell’Onu. La fame usata come arma per piegare un intero Paese al dominio della più potente monarchia araba. Un crimine di guerra sanzionato dalle leggi internazionali generato da uno strettissimo embargo cui partecipano anche Gran Bretagna e Stati Uniti. L’Italia, dal canto suo, dall’inizio del conflitto di bombe ne ha vendute in gran quantità e pare abbia tutte le intenzioni di continuare a venderle. Lo ha confermato in Parlamento lo scorso dicembre l’allora ministro degli Esteri (e ora premier) Paolo Gentiloni riferendosi a un’autorizzazione di esportazione concessa nel 2013 alla Rwm di Domus Novas in Sardegna. Ma all’epoca l’Arabia Saudita, destinataria delle bombe, non aveva ancora aggredito lo Yemen, e non ricadeva quindi nei divieti posti dalla legislazione sul commercio delle armi. Allo scoppio delle ostilità pertanto le consegne di armi ai sauditi avrebbero dovuto essere sospese. Ma così non è stato. Numerosi sono i carichi di bombe prodotte in Sardegna e inviate all’aviazione di Riyad: migliaia di ordigni. Nel calcolo ufficiale però non figurano tutte le bombe e attrezzature militari partite dall’Italia e finite, in un modo o nell’altro, sulla testa degli yemeniti. Ufficialmente, nel solo 2015, l’Italia ha venduto ai sauditi 258 milioni di euro di armamenti. Ma nello stesso periodo l’Italia ha aumentato del 500% le vendite dei medesimi materiali alla Gran Bretagna, arrivando alla bella cifra di un miliardo e trecento milioni di euro. Un aumento percentuale che coincide con l’incremento delle forniture militari britanniche ai sauditi. Migranti. Il Viminale presenta il "Patto nazionale per un Islam italiano" La Repubblica, 2 febbraio 2017 Il ministro Minniti: "Tutti i firmatari si sono impegnati a ripudiare ogni forma di violenza e terrorismo". Tra i punti salienti l’impegno a "rendere pubblici nomi e recapiti di chi svolge un ruolo di mediazione tra la comunità e la realtà circostante". "Abbiamo firmato con le associazioni del tavolo islamico italiano un importantissimo documento, cruciale, che riguarda il presente e il futuro dell’Italia attraverso il dialogo interreligioso". Così il ministro dell’Interno Marco Minniti, al Viminale, presenta il "Patto nazionale per un islam italiano, espressione di una comunità aperta, integrata e aderente e ai valori e principi dell’ordinamento statale", redatto con la collaborazione del consiglio per i rapporti con l’islam italiano e recepito dal ministero dell’Interno. Minniti è soddisfatto, il documento è stato sottoscritto dalle principali associazioni e organizzazioni islamiche in Italia, rappresentative di circa il 70 per cento dei musulmani che attualmente vivono in Italia. "È un atto che considero straordinario - dice il ministro -, un importante passaggio utile per la vita del nostro Paese". Tra i punti salienti del patto, come sottolinea Minniti in conferenza stampa, c’è la "formazione di imam e guide religiose" che prelude a un albo degli imam. Inoltre, le associazioni islamiche si impegnano a "rendere pubblici nomi e recapiti di imam, guide religiose e personalità in grado di svolgere efficacemente un ruolo di mediazione tra la loro comunità e la realtà sociale e civile circostante; ad "adoperarsi concretamente affinché il sermone del venerdì sia svolto o tradotto in italiano"; ad "assicurare in massima trasparenza nella gestione e documentazione dei finanziamenti". Il documento di fatto consente di superare anche antiche contrapposizioni tra alcune associazioni islamiche. "Il patto - sottolinea - si muove nell’alveo della nostra Costituzione, che sono i nostri valori. I valori che tutti quanti insieme ci impegniamo a difendere e a ripudiare qualsiasi forma di violenza e di terrorismo". "La prima parte del Patto - prosegue Minniti - richiama i valori della Costituzione italiana, che sono i valori dei firmatari, valori che tutti insieme ci impegniamo a difendere. Il cuore del documento - ha aggiunto - è il giusto equilibrio tra diritti e doveri". Il segretario generale del centro Islamico culturale d’Italia (la grande moschea di Roma), Abdellah Redouane, tra i firmatari, esprime apprezzamento per lo "spirito" che ha portato alla firma: "Il centro continuerà a dare il suo contributo nel favorire una crescita e responsabile dell’islam in Italia". Il Patto contiene dieci impegni da parte delle associazioni islamiche chiamate a far parte del Tavolo di confronto presso il ministro dell’Interno ed altrettanti da parte del ministero. Si sottolinea, rileva il ministro, "che la libertà di culto è una delle libertà inalienabili e che lo Stato non dà regole alle religioni, ma può fare intese. È l’incontro di libere volontà, non la supremazia di una volontà". Il titolare del Viminale definisce poi "un grave errore l’equazione tra immigrazione e terrorismo, ma è un errore anche dire che non c’è rapporto tra mancata integrazione e terrorismo. L’attentato di Charlie Hebdo ha dimostrato che livelli di integrazione non adeguati formano un brodo cultura per i terroristi". Minniti quindi mette in guardia dagli imam fai da te, definiti "un grande pericolo" e illustra gli altri punti del documento: il contrasto al radicalismo religioso, l’impegno a garantire che i luoghi di preghiera siano accessibili a visitatori non musulmani e che il sermone del venerdì sia "svolto o tradotto in italiano", la massima trasparenza sui finanziamenti ricevuti per la costruzione e le gestione di moschee e luoghi di culto. "Non sono - conclude il ministro - standard che uno decide e gli altri devono accettare, sono condivisi e ho visto una straordinaria volontà dei firmatari di impegnarsi nella realizzazione di questo percorso. Sarà promossa una serie di incontri con le comunità musulmane, si organizzerà un tour per i giovani musulmani di seconda generazione e faremo una grande assemblea". Infine il ministro ringrazia i docenti musulmani "per il lavoro straordinario svolto, per aver permesso con la loro professionalità e la loro apertura culturale di raggiungere un obiettivo non semplice. In altri momenti non tutte le associazioni avrebbero firmato un documento simile, oggi lo hanno fatto. Qualcuna magari convincendosi all’ultimo momento: quando ho fatto notare che nella nostra religione c’è più festa in cielo per la pecorella smarrita, mi hanno fatto notare che lo stesso vale anche per la loro. Tanto che potremmo anche chiamarlo il patto della pecorella smarrita". Migranti. La Germania offre 1.200 euro a chi accetta il rimpatrio di Sebastiano Canetta Il Manifesto, 2 febbraio 2017 Il bonus destinato ai profughi con più di 12 anni. "Alternativa all’espulsione". Emergenza profughi: la Germania punta altri 40 milioni di euro sui rimpatri volontari. Da ieri nei 16 Land tedeschi è ufficiale l’incentivo di 1.200 euro a ogni rifugiato che accetta di lasciare per sempre il Paese. Quattro volte la cifra stanziata finora per smaltire gli oltre 300 mila richiedenti asilo del 2016 e ultimo "appello all’intelligenza e alla ragione dei migranti con scarse possibilità di accoglimento dello status di protezione" secondo il ministro dell’interno Thomas de Maizière della Cdu. Da qui il programma "Jump Start Plus": il salto all’indietro verso lo Stato di origine finanziato dal governo destinato ai profughi dai 12 anni in su. Con buona pace del nome è la sola "valida alternativa all’espulsione" ammettono al dicastero per la sicurezza di Berlino. Sovvenzione dedicata ai migranti con o senza le carte in regola. "Il bonus di 1.200 euro viene concesso a chi accetterà il rimpatrio prima del termine della procedura di asilo, mentre ne sono previsti 800 nel caso la domanda sia stata respinta e il titolare rinunci a ricorrere in appello" sintetizzano al ministero dell’Interno. L’obiettivo è accelerare i tempi, snellire le pratiche, svuotare i centri-rifugiati allestiti in hangar, scuole, palestre e ostelli. Il metodo, aumentare le partenze volontarie: nel 2016 sono salite a 55 mila, erano meno di 40 mila del 2015. Escludendo solo i Paesi insicuri. Più o meno. Il 25 gennaio De Maizière ha dettagliato il rapporto sul "rimpatrio collettivo" a Kabul di 25 afghani provenienti da Baviera, Baden-Württemberg, Renania-Palatinato e Amburgo. Una goccia nel mare di profughi dell’Afghanistan che, dopo la Siria, rimangono stabilmente al secondo posto nella lista degli arrivi (154 mila nel 2015, tra cui 32 mila richiedenti asilo, 49 mila nel 2016). Ma anche la prova pratica dell’efficacia delle dichiarazioni congiunte "per la cooperazione sull’immigrazione" come quella firmata il 2 ottobre 2016 da Berlino e Kabul. A bordo del volo di ritorno degli ex-profughi un funzionario Frontex, tre rappresentanti del comitato tedesco anti-tortura oltre ai medici. Pugno di ferro con guanto di velluto: l’anno scorso il governo Merkel ha "convinto" così ben 3.300 afghani a tornare a casa. Misure mirate, come l’incentivo varato ieri che non a caso esclude i cittadini dei Balcani occidentali. "Per prevenire eventuali abusi" è il motivo ufficiale del veto alla "promozione" che integra il programma "Reintegration and emigration for asylum-seekers". Fino all’altro ieri il piano si limitava a finanziare il rimpatrio volontario in oltre 40 Paesi offrendo 200-500 euro a profugo. Troppo poco per arginare la marea umana che sceglie la Bundesrepublik come destinazione finale. L’11 gennaio l’Ufficio federale per l’immigrazione (Bamf) ha conteggiato 695.733 domande "lavorate": più 146% rispetto al 2015. Solo a dicembre 2016 il Bundesamt tedesco ha esaminato 80.638 richieste mentre il numero di cause pendenti superava quota 430 mila. Un peso insostenibile: l’anno scorso la Germania ha speso oltre 21,7 miliardi per la gestione dell’emergenza-migranti; per il 2017 il governo federale ne prevede altri 21,3, da investire meglio che in passato. Missione affidata alla nuova responsabile del Bamf: Jutta Cordt, classe 1963, giurista indipendente dai partiti, già commissaria dell’ente, entrata in carica proprio ieri. A lei la tattica per prevenire il default del sistema di accoglienza nazionale certificato due anni fa. Il piano strategico invece resta saldamente nelle mani della cancelliera Angela Merkel attesa oggi in visita di Stato ad Ankara, la prima dopo il putsch contro Erdogan. Mutti visiterà gli edifici danneggiati dai golpisti ma al contempo chiederà la fine immediata della persecuzione ai fedeli del predicatore Gülen in Germania. Migranti. Quando l’America chiudeva le porte: giapponesi internati ed ebrei respinti di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 2 febbraio 2017 Una nuova indifferenza ai perseguitati può macchiare indelebilmente una grande democrazia. Grazie alla forza della grande democrazia americana, lo scrittore James Ellroy ha potuto raccontare in "Perfidia" (tradotto in Italia da Einaudi Stile Libero) il rastrellamento e la reclusione di oltre centomila giapponesi, molti dei quali già cittadini americani da una generazione, nei campi di internamento, insomma nei Lager, messi frettolosamente su in California all’indomani dell’attacco nipponico a Pearl Harbor. Grazie alla forza della democrazia americana, si può raccontare quella violazione dei diritti di una minoranza nazionale, bambini, donne, anziani, colpevole solo di essere minoranza di un Paese in guerra. L’umanità calpestata dei civili di origine giapponese, una delle pagine più nere della storia degli Stati Uniti. E grazie alla forza della democrazia americana non si può nascondere l’altra macchia della sua storia, il rifiuto di far approdare sulle coste americane, nel 1939, alla vigilia della catastrofe, la nave Saint Louis carica di oltre 900 ebrei, molti bambini, in fuga dalla Germania nazista e che era stata rifiutata prima da Cuba e dal Canada. Un’altra storia di discriminazione, di rifiuto dell’accoglienza. L’America però sa fare i conti con se stessa e i propri orrori. Oggi che i muri sono di nuovo alzati e si avverte il sentore pesante di nuove discriminazioni, di popoli, etnie, religioni messe al bando, il simbolico filo spinato srotolato per garantire la chiusura di una nazione-fortezza, non si può dire che gli Stati Uniti non abbiano alle spalle episodi terribili. "Datemi i vostri poveri, le vostre masse infreddolite desiderose di respirare libere, i rifiuti miserabili delle vostre spiagge affollate. Mandatemi loro, i senzatetto, gli scossi dalle tempeste a me, e io solleverò la mia fiaccola accanto alla porta dorata". Non sempre l’America è stata all’altezza, e adesso rischia di non esserlo ancora, delle parole che stanno alla base della Statua della Libertà. Popoli "desiderosi di respirare liberi" rigettati indietro. Manzanar è un nome terribile, nella storia di discriminazione anti nipponica cominciata nel 1942. È il lager più grande di quell’arcipelago di campi definiti "War Relocation Authority" in cui raccogliere la popolazione giapponese d’America per dare attuazione a un decreto del presidente democratico Franklin Delano Roosevelt (l’Executive Order 2066). L’ordine era quello di mettere sotto chiave la possibile "quinta colonna", il nemico interno di civili, anziani e bambini che vivevano pacificamente a Los Angeles e lungo la California che dava sull’Oceano Pacifico. Dopo l’aggressione di Pearl Harbor, l’amministrazione americana ruppe finalmente gli indugi e decise di intervenire a fianco delle forze che si battevano contro Hitler e l’alleanza tra la Germania, l’Italia e il Giappone. Fu una scelta molto controversa ed è il caso di ricordare, proprio oggi che si teme un’involuzione dell’America trumpiana in senso isolazionista, che furono soprattutto i settori progressisti di sinistra e pacifisti a battersi contro l’intervento Usa nella guerra: basta ricordare il personaggio di Barbra Streisand in "Come eravamo", appassionata idealista che in nome della pace si batte contro la scelta militare americana contro il tiranno tedesco. Ma dopo quella scelta una corrente di isteria anti nipponica fece accettare alla democratica America l’istituzione di campi di internamento che non avevano niente a che vedere con la sicurezza militare. Ogni giorno a Manzanar e negli altri campi venivano scaricate migliaia di persone in condizioni che è facile immaginare. Le parole scolpite alla base della Statua della Libertà, che avevano reso grande e accogliente la grande nazione americana, rimasero allora tristemente inascoltate. La storia della nave Saint Louis dimostra invece che le masse di profughi, chi fuggiva dalla morte, dalla distruzione, dalla persecuzione non sempre sono state illuminate dalla "fiaccola" retta dalla Statua della Libertà. All’indomani della Notte dei Cristalli, quando la sorte degli ebrei tedeschi sembrava oramai segnata, quegli oltre novecento ebrei imbarcati non avrebbero immaginato di essere respinti dalla terra della libertà e del sogno, delle opportunità e dell’accoglienza, dall’America costruita dagli immigrati che scappavano dalla miseria e dalla tirannia. E invece negli Stati Uniti, la rigida politica delle quote di immigrazione (ecco come la storia cerca di assomigliare sempre a se stessa, pur nel mutare delle circostanze politiche) non piegò le autorità americane. Quegli ebrei in fuga dovevano essere ricacciati nelle acque dell’oceano. E infatti la nave tornò indietro, ad Anversa. E si calcola che poco più di un terzo di quelle donne, di quei bambini, di quei vecchi che scappavano dal nazismo e dalla morte verrà inghiottito dalla macchina dello sterminio. L’America democratica si dimostrerà insensibile e sorda, anche se con l’intervento militare quell’indifferenza verrà almeno in parte riscattata. Quelle macchie sulla storia rischiano però di essere dimenticate e una nuova indifferenza alle sorti dei perseguitati e delle "masse infreddolite" può imbrattare ancora indelebilmente una grande democrazia e una grande nazione. Regno Unito: mai tanti suicidi in carcere di Marco Bernardoni settimananews.it, 2 febbraio 2017 Lo scorso 26 gennaio, Mons. Richard Moth, vescovo di Arundel e Brighton, ha chiesto al governo del Regno Unito di raddoppiare gli sforzi per la riforma carceraria (qui la notizia sul sito dei vescovi cattolici britannici). Il giorno stesso, il Ministero della Giustizia aveva reso noto che il numero dei suicidi registrato nelle carceri in Inghilterra e Galles non era mai stato così alto come nel 2016. I dati dell’anno appena concluso parlano chiaro: 119 suicidi, 37.784 casi di autolesionismo, 25.049 casi di aggressione. La carenza di organico e il sovraffollamento vengono considerate le principali cause della preoccupante crescita. Sempre nel corso del 2016, si segnala che sono state migliaia le persone (soprattutto tra le guardie) ad abbandonare il loro lavoro tra le mura del carcere a causa delle accresciute preoccupazioni per la salute e la sicurezza (dopo i numerosi casi di aggressione). Dati scioccanti e inaccettabili - "Le statistiche attuali sui suicidi e gli atti di autolesionismo in prigione - afferma mons. Moth - sono scioccanti. Ogni morte rappresenta una tragedia per la persona stessa, per i suoi familiari e per il personale carcerario che ha cercato di aiutarla. Consentire che nelle nostre carceri si arrivi a questo livello è inaccettabile. Sovraffollamento e carenza di personale sono fattori indubbiamente importanti tra le cause di questo dato. La questione deve essere affrontata con urgenza. Bisogna affrontare urgentemente le questioni riguardanti la carenza di personale ed il sovraffollamento di detenuti, anche per assicurare le giuste e necessarie cure ai prigionieri affetti da malattie mentali". E conclude: "Dostoevskij scriveva che il grado di civiltà di una società si può giudicare entrando in una delle sue prigioni. È responsabilità di tutti noi affrontare questa situazione. Chiediamo di nuovo al governo a procedere il più presto possibile alla riforma carceraria. Nel frattempo, attraverso i suoi cappellani e volontari, la Chiesa s’impegna a proseguire nell’impegno di supportare i detenuti più vulnerabili, lavorando al fianco delle istituzioni e dei responsabili degli istituti di detenzione". Medio Oriente. 498 prigionieri palestinesi scontano ergastoli nelle carceri israeliane infopal.it, 2 febbraio 2017 Il numero di prigionieri palestinesi nelle prigioni israeliane condannati all’ergastolo ha raggiunto i 498 casi. L’ultima condanna è contro il gerosolimitano Khaled Kutina. Il ricercatore per gli Affari dei prigionieri, Riyad al-Ashqar, ha dichiarato che dall’inizio del 2017 è stato inflitto il carcere a vita ad altri tre Palestinesi. Khalid Kutina, un residente del sobborgo gerosolimitano di Sheikh Jarrah, è stato condannato all’ergastolo e a una multa di 516,000 shekel. Kutina, padre di un bambino piccolo, fu arrestato ad aprile 2015 per l’uccisione di un colono israeliano e il ferimento di un altro in un attacco automobilistico a Gerusalemme. Al-Ashqar ha sottolineato che i due prigionieri Mohamed Abu Shahin, 30 anni, e Abdullah Ishaq, sono stati condannati all’ergastolo per attacchi anti-occupazione. Iran. Ricercatore iraniano dell’università di Novara condannato a morte da Teheran di Viviana Mazza Corriere della Sera, 2 febbraio 2017 Ahmadreza Djalali, medico, è scomparso il 24 aprile scorso. Finora la consorte ha taciuto per paura. "Rinchiuso nella prigione di Evin, il regime crede che sia una spia". "Sono passati nove mesi dall’arresto di mio marito in Iran - dice Vida Mehrannia al Corriere. All’inizio non ho denunciato la cosa perché un poliziotto ha chiamato la mia famiglia a Teheran avvertendo che non dovevo parlarne, e io temevo di danneggiare la situazione. Ma non posso più tacere: ieri Ahmad ha chiamato sua sorella, le ha detto che sarà giustiziato con l’accusa di collaborazione con Paesi nemici. Pensano che sia una spia. Ma è solo un ricercatore". Vida Mehrannia ci parla al telefono da Stoccolma, dove lei e i figli di 5 e 13 anni sono in fortissima ansia per la sorte di Ahmadreza Djalali, medico 45enne iraniano. Si sono trasferiti in Svezia nel 2009 per ottenere un dottorato; poi hanno vissuto a Novara, dove dal 2012 al 2015 Ahmad è stato assegnato al "Centro di ricerca interdipartimentale in medicina dei disastri" (Crimedim) dell’Università del Piemonte Orientale. Non ha mai tagliato i ponti con l’Iran, dove si recava ogni sei mesi, per tenere workshop universitari. "Non aveva mai avuto problemi". Ma lo scorso 24 aprile, mentre era a Teheran su invito dell’Università, è scomparso. "Ad aprile non si è presentato a un incontro a Novara, e non è da lui", ci dice Francesco Della Corte, direttore del "Crimedim". "Abbiamo chiamato la moglie: ci ha detto che era stato coinvolto in un grave incidente ed era in coma". In realtà, Djalali era stato rinchiuso, senza processo, nella famigerata prigione di Evin. In isolamento e senza avvocato - "Per tre mesi - racconta ora la moglie - è stato tenuto in isolamento assoluto, e per altri quattro parziale, nel Reparto 209 gestito dal ministero dell’Intelligence. Mi chiamava per due minuti una volta al mese. Poi è stato spostato nel Reparto 7, con gli altri prigionieri e per la prima volta gli hanno permesso di avere un avvocato che però non ha accesso al suo file e non può parlarci del caso perché è di sicurezza nazionale". Djalali ha detto alla moglie di essere stato forzato a firmare qualcosa. "Minacciavano di fare del male a me e ai bambini". Teme che si tratti di una confessione. Il 26 dicembre, quando gli hanno detto che riceverà la "massima pena", ha iniziato uno sciopero della fame che gli ha fatto perdere 18 chili. "Preferisce morire così". Infine, tre giorni fa lo hanno riportato nel Reparto 209 e qui, secondo la moglie, gli è stato confermato dal giudice del Tribunale della Rivoluzione Abolghasem Salavati che verrà impiccato dopo il processo che si terrà tra un paio di settimane. Professori sauditi e israeliani - I colleghi italiani e svedesi non credono affatto che Djalali sia una spia. Si chiedono se a metterlo nei guai possa essere stato il fatto di aver firmato articoli specialistici con ricercatori sauditi o di avere insegnato con professori israeliani nello stesso master e partecipato ad un progetto finanziato dall’Unione Europea (sulla gestione di emergenze radiologiche, chimiche e nucleari) insieme a un esperto israeliano. "L’unico suo scopo era migliorare la capacità operativa degli ospedali in Paesi poveri colpiti da terremoti e altri disastri", spiega Della Corte, che non gli ha mai sentito dire nulla di negativo sulla Repubblica Islamica. I rischi e gli appelli - "Quest’uomo è in grave pericolo", dice da Oslo Mahmood Amiry-Moghaddam, portavoce di Iran Human Rights, una Ong contro la pena di morte. "Salavati è noto per le condanne a morte contro presunti oppositori politici. Nei Tribunali della Rivoluzione il livello di arbitrarietà è enorme. Il regime è paranoico e i mesi che precedono le elezioni presidenziali sono i più rischiosi". I colleghi fanno appello ai governi di Italia e Svezia, e all’Alto Rappresentante Ue Federica Mogherini. Stati Uniti. Prigioniero dell’uomo bianco di Marco Cinque Il Manifesto, 2 febbraio 2017 Dopo 35 anni trascorsi nel braccio della morte, l’attivista per i diritti umani e scrittore Fernando Eros Caro, nativo americano di ascendenza yaqui, è stato trovato senza vita nella sua cella. Nativo americano di ascendenza yaqui, il 67enne Fernando Eros Caro è stato prigioniero nel braccio della morte di San Quentin per 35 anni e ha avuto segnate sul calendario ben tre date di esecuzione prima che il suo corpo cedesse al peso inumano cui era da troppo tempo sottoposto. La notizia è arrivata il 28 gennaio, tanto improvvisa quanto inattesa: lo hanno trovato senza vita nella sua cella. Al telefono il medico del carcere ha sostenuto il fatto che Fernando comunque non presentasse patologie che ne lasciassero prevedere la morte. Dall’autopsia risulterebbe un infarto, ma la stranezza è che questo è il secondo decesso nel giro di pochi giorni a San Quentin. Senza entrare nel merito della sua innocenza o colpevolezza, la cosa certa è che il suo caso giudiziario è la fotocopia di innumerevoli altri casi segnati da razzismo e pregiudizio, in un paese dove la giustizia è direttamente proporzionata al conto in banca e al colore della pelle. In una delle sue lettere, Fernando infatti scriveva: "La mentalità dei giurati americani sarà sempre un’incognita in un Paese che permette l’incremento dei senzatetto, l’abbandono nelle strade dei malati di mente, che sottrae il denaro all’educazione scolastica per investirlo nel prolungamento delle guerre. In un Paese che fu creato sterminando la popolazione che già vi risiedeva, come si fa a credere che una giuria sia infallibile?". Ho conosciuto Fernando nel 1992, anno in cui si celebrava il cinquecentenario della cosiddetta "scoperta dell’America". Gli scrissi per solidarietà e per dissociarmi da quei festeggiamenti, chiamati Colombiadi, che in realtà segnavano l’inizio del più grande genocidio della storia umana. Lui mi rispose e da allora siamo diventati fratelli adottivi. Diverse volte sono entrato nel braccio della morte di San Quentin per incontrarlo di persona. Durante tutti questi anni Fernando è diventato un pittore autodidatta e oggi i suoi dipinti sono in giro per il mondo a testimoniare contro la barbarie della pena di morte. Inizialmente ritraeva soggetti drammatici, coerenti con la sua condizione di condannato. Poi ha iniziato a dipingere i volti del suo popolo, gli animali e la natura che abitava nei suoi ricordi: "È già brutto vivere in un incubo - mi diceva - e non mi aiuta vederlo appeso anche alle pareti della mia cella". Fernando da molti anni era in corrispondenza epistolare con tanti pen friends sparsi per il mondo e persino con alunni e studenti di molte scuole italiane. Ha scritto diversi libri, sia sulla sua condizione di condannato che sui retaggi e la cultura del suo popolo, scrivendo articoli per diverse associazioni abolizioniste, tra cui il Comitato Paul Rougeau, con cui aveva una relazione assidua. Nonostante fosse sottoposto a dosi quotidiane di brutalità, Fernando riusciva a mantenere integra la propria umanità e spesso ti sorprendeva col suo sorriso e la sua ironia, persino quando denunciava le cose che non andavano: "Come sempre la colazione è disgustosa. Ne mangio un po’, il resto finisce nel water. Sono contento che i nostri gabinetti non abbiano la facoltà di vomitare". Durante una delle visite a San Quentin, nel 2007, di nascosto dalle guardie carcerarie Fernando mi consegnò un manufatto realizzato da lui: era un medaglione di pelle e perline colorate che ritraeva un’aquila stilizzata. Mi disse: "Qui dentro c’è il mio spirito. Lo spirito è invisibile e i secondini non lo vedranno uscire". È stato un semplice scambio di doni, ma sembrava che stessimo organizzando chissà quale evasione, viste le rigidissime regole carcerarie di San Quentin, dove non può entrare o uscire nemmeno uno spillo. Poi Fernando aggiunse: "Ogni volta che farai un’iniziativa per me, indossa il medaglione, così io sarò lì con te, attraverso il vento dello spirito". È quel che ho fatto e che adesso più che mai continuerò a fare. L’ultima volta è stata proprio pochi giorni fa, durante la Giornata della Memoria, in una scuola di Campoleone (Rm), dove i bambini entusiasti toccavano quasi come fosse una reliquia il medaglione di Fernando. Ora dovrò dirgli che il loro nuovo amico non è più in prigione. Che non potremo ascoltare più la sua voce. Che il suo sorriso coraggioso non risplende più dall’ombra di una cella. Che le sue mani hanno smesso di dipingere e di scrivere storie. Che non potrà più rispondere alle mie e alle loro lettere. L’unica consolazione sarà che non dovrà subire il disgustoso protocollo della camera della morte: il lettino a forma di croce, le cinghie, gli aghi, il siero letale, i visi del pubblico che assiste dietro il vetro. Questo almeno gli sarà risparmiato. Dopo l’elezione di Donald Trump e il recente voto del referendum popolare che ha deciso di confermare e velocizzare le sentenze capitali in California, restava poco da sperare e Fernando era stanco e terrorizzato da tutto questo. In un articolo pubblicato sul Bollettino mensile del Comitato Paul Rougeau, Fernando affermava: "Adesso le persone hanno votato e la pena di morte resta in vigore. Sono stati scelti, come punizione, la sofferenza e il dolore che si ritiene un condannato provi durante l’esecuzione! Le esecuzioni fallite e tormentose che hanno già avuto luogo nel nostro Paese lo dimostrano. Aver demonizzato i criminali convince le persone che l’omicidio di stato è una cosa giusta! Il termine giusto per definire il modo in cui le scelte delle masse vengono fatte oscillare da una parte piuttosto che dall’altra è "manipolazione". Dopo tutto le masse sono ingenue e credono a ciò che viene detto loro. Le loro priorità nella vita non sono fare indagini approfondite e confrontare le cose vere. Preferiscono adagiarsi sulle argomentazioni dello stato, che dice che la legge è la legge, e che tanto saranno altri a eseguire le esecuzioni! Compassione? Ammesso che esista, nessuno vuole dimostrare compassione nei nostri confronti. Poi c’è anche la tattica del "e se". E se la pena di morte fosse abolita, cosa accadrebbe dopo? Il sospetto nasce semplicemente dall’ignoranza delle persone! Quindi la manipolazione si limiterà a far credere falsamente che questi uomini un giorno verranno liberati. Fino a quando verrà utilizzata la tattica di instillare la paura nelle masse, si otterranno le risposte volute". Forse non si saprà mai il modo in cui Fernando se n’è andato, ma di certo adesso lo Stato non potrà più eseguire la sentenza. Tra le tante parole che Fernando ci lascia e che resteranno per sempre scolpite nella nostra memoria, vorrei ricordarne alcune, poche ed essenziali, ma capaci di denunciare, forse più di un intero trattato, l’inumanità della pena di morte: "Si può vivere, si può morire, ma nessuno dovrebbe vivere aspettando di morire". Romania. Depenalizzati i reati di corruzione, migliaia di persone protestano in piazza di Gianluca Falco Il Manifesto, 2 febbraio 2017 Al centro del dibattito la decisione di modificare l’articolo 267 del codice penale e alzare fino a 200mila Lei (circa 50mila euro) la soglia per cui l’abuso di ufficio non verrà più perseguito penalmente. C’è fermento in Romania dopo l’approvazione da parte del nuovo governo, guidato dal socialdemocratico Sorin Grindeanu, dell’ordinanza di urgenza che prevede la grazia e la depenalizzazione di diversi reati legati alla corruzione, primo fra tutti quello dell’abuso d’ufficio e di illeciti nella pubblica amministrazione. Martedì sera, subito dopo che le agenzie di stampa hanno diffuso la notizia, migliaia di persone, che già domenica sera avevano affollato le piazze delle principali città rumene, si sono riversate, in un moto spontaneo nato con il passaparola sui social, nelle strade di Bucarest chiedendo le immediate dimissioni dell’esecutivo. Al centro del dibattito che ha infuocato il paese e che mette seriamente a rischio la lotta alla corruzione, la decisione di modificare l’articolo 267 del codice penale e alzare fino a 200mila Lei (circa 50mila euro) la soglia per cui il reato di abuso di ufficio, per il quale erano previste pene tra i 2 e i 7 anni, non verrà più perseguito penalmente. Chi lo ha fatto in passato, è libero. Chi ha ricevuto una condanna tra i 5 e i 7 anni, vedrà dimezzata la propria pena (la grazia è prevista per reati fino a 5 anni). Chi lo farà stando attento a non superare i 50mila euro, verrà punito con una semplice ammenda. Una decisione presa in estrema fretta dal governo, senza il necessario dibattito che era stato chiesto dall’opposizione, in particolare dalla nuova forza politica, apparsa alle ultime elezioni dello scorso dicembre, Uninunea Salvati Bucuresti dell’ex candidato a sindaco di Bucarest, Nicusor Dan. Un’ordinanza, accusano dall’opposizione, fatta su misura per il leader del Partito socialdemocratico (Psd), Liviu Dragnea, la cui candidatura a primo ministro da parte dell’alleanza di governo Psd-Alde, era stata rifiutata dal presidente della Repubblica, Klaus Iohannis, proprio perché incriminato per corruzione (dopo aver già ricevuto una condanna definitiva a due anni per il tentativo di truccare i voti al referendum sulla destituzione dell’allora presidente, Traian Basescu). L’accusa? Abuso d’ufficio. Il danno all’erario? Circa 110mila Lei. La modifica non giova a livello di immagine a un paese sotto stretta sorveglianza dell’Unione Europea soprattutto sul tema della corruzione. La Romania ancora non è riuscita a ottenere il pass per entrare nello spazio Schengen, proprio per i reiterati richiami da parte della Commissione a procedere alla riforma della giustizia e ad aumentare i controlli sulla corruzione. "La lotta alla corruzione - hanno dichiarato in una nota comune il presidente della Commissione europea, Jean Claude Juncker, e il vice Frans Timmermans - deve avanzare e non essere minata. Seguiamo con grande preoccupazione le recenti evoluzioni in Romania". Nella stessa nota si precisa che "il rapporto pubblicato dalla Commissione la scorsa settimana, ha salutato con soddisfazione il bilancio positivo realizzato da procuratori e giudici della Romania per quanto riguarda la lotta alla corruzione, ma qualsiasi misura che possa condizionare o rallentare questo processo, avrà un impatto sul prossimo rapporto". Veemente anche la reazione del presidente della Repubblica Iohannis, che prima di entrare al Consiglio Superiore della Magistratura riunitosi ieri mattina, ha definito l’ordinanza "inammissibile, inaccettabile, scandalosa, una presa in giro senza precedenti che il governo ha preso in fretta, senza il consenso del Csm, senza che venisse inclusa nell’ordine del giorno, su un argomento tanto delicato come il codice penale". Lo stesso Iohannis ha poi chiesto formalmente al primo ministro Grindeanu di annullare l’ordinanza di urgenza. L’atmosfera è incandescente e arrivano le prime dimissioni. A fare subito un passo indietro è il segretario di Stato del Psd, Daniel Sandru che ha dichiarato: "La Romania non può progredire con la menzogna e il disprezzo delle richieste dei rumeni. Gli abusi non posso essere corretti con abusi ancor più grossi". Etiopia. Domani liberi 11.000 detenuti dopo "corso rieducazione" Askanews, 2 febbraio 2017 Più di 11.000 persone arrestate sotto lo stato di emergenza imposto in Etiopia lo scorso ottobre saranno rilasciate domani. Lo hanno annunciato oggi le autorità, citate dal sito governativo Fana Broadcasting Corporation, ricordando che il mese scorso erano state liberate altre 9.800 persone. I detenuti che saranno rilasciati domani hanno seguito un "corso di rieducazione", ha precisato il ministro della Difesa Siraj Fegessa, precisando che si tratta di un corso di 20 giorni sulla costituzione etiope, sull’ordine costituzionale e sull’agenda per lo sviluppo nazionale, tenuto nei centri di detenzione di Senkele, Yirgalem, Tolay e Birshelko. Secondo il ministro, il corso mira a rendere i detenuti attivamente partecipi alla vita economica e sociale del Paese. Una delle persone costrette a seguire tale corso è stato il docente universitario e noto blogger Seyoum Teshome, arrestato il 1 ottobre scorso, pochi giorni prima che venisse imposto lo stato di emergenza, e rilasciato a fine dicembre. Una settimana prima che venisse imposto lo stato di emergenza, Seyoum aveva rilasciato un’intervista all’emittente tedesca Deutche Welle sulle proteste in atto da mesi nel Paese, criticando la risposta del governo: "Esattamente 12 ore dopo quell’intervista, le forze di sicurezza hanno bussato alla mia porta", ha raccontato ad African Arguments. Seyoum ha precisato di essere stato accusato di possesso di pamphlet illegali, sebbene la polizia non avesse trovato nulla, e di essere stato mandato nel centro di Tolay, dove ha trascorso 56 giorni, seguendo il corso di rieducazione condotto da funzionari di polizia e dell’esercito.