Allarme suicidi in carcere camerepenali.it, 28 febbraio 2017 A Bologna e a Roma due morti annunciate. Il sistema penitenziario non riesce a garantire il diritto alla salute e le raccomandazioni del Consiglio d’Europa sono ormai del tutto disattese. L’Unione delle Camere Penali Italiane, con il proprio "Osservatorio Carcere", nell’apprendere la notizia dei recenti suicidi avvenuti negli istituti Dozza e Regina Coeli, denuncia l’assoluta inerzia del Parlamento, del Governo e dell’Amministrazione Penitenziaria dinanzi all’attuale situazione di degrado e d’inefficienza che coinvolge l’esecuzione delle pene in carcere e delle misure di sicurezza nelle Rems. Solo pochi giorni fa, il 21 febbraio, una delegazione della Camera Penale di Bologna e dell’Osservatorio Carcere UCPI, aveva visitato la locale Casa Circondariale, evidenziando le enormi criticità del reparto infermeria e la carenza di educatori (un educatore ogni 100 detenuti), con conseguente compressione del diritto al trattamento individualizzato. Il suicidio di Roma rappresenta il tragico prevedibile epilogo della storia di un giovane di 22 anni, colpevole di reati tipici di chi ha problemi psichiatrici, allontanatosi dalla Rems in cui era ricoverato e, per questa ragione, rinchiuso a Regina Coeli, dove si è ucciso. In questi primi due mesi dell’anno i suicidi sono già dieci, un numero enorme che, come dato statistico, fa tornare agli anni più bui della detenzione in Italia. Nel 2002, infatti, ve ne furono sessanta, ma successivamente sono diminuiti fino ad arrivare allo scorso anno a trentanove. Dopo che l’Europa, suggestionata da provvedimenti in vigore solo sulla carta, ha archiviato il "caso Italia", il mondo politico che era stato messo sotto accusa, ha ripreso ad ignorare del tutto le continue violazioni di legge ed oggi le prospettive sono drammatiche. Il lavoro degli Stati Generali dell’Esecuzione Penale giace nel cassetto del Comitato Scientifico. Parlamentari e Ministri sembrano impegnati a preparare le prossime elezioni e, dunque, non pare esservi possibilità che nei prossimi mesi qualcuno si occupi della riforma dell’Ordinamento Penitenziario o di quanto drammaticamente continua a verificarsi nelle carceri. Nell’assordante silenzio della magistratura, i radicali - anche con il digiuno di Rita Bernardini - e l’Unione delle Camere Penali e le associazioni attente alle problematiche del carcere, continueranno la loro battaglia in difesa degli "ultimi", sempre più numerosi. Chi è stato privato della libertà, infatti, non può morire nell’indifferenza dello Stato, a maggior ragione se afflitto da patologie psichiatriche. L’Unione, nel ribadire che nelle carceri e nelle Rems vanno immediatamente potenziate le strutture sanitarie, e va effettuato concretamente il trattamento individualizzato, il solo che, come previsto dal 1975, può scongiurare gesti estremi da parte di persone affidate allo Stato per l’esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza, continuerà come sempre a vigilare, pronta ad azioni di protesta in difesa dello Stato di diritto, per la tutela di tutti "primi" e "ultimi". La Giunta dell’Ucpi L’Osservatorio Carcere Ucpi Viaggio nelle Rems: una "rivoluzione gentile" per 569 detenuti di Claudia Fusani L’Unità, 28 febbraio 2017 In Sicilia chiude l’ultimo Opg: al loro posto 30 Residenze regionali. Da una di queste era fuggito Valerio, il ragazzo suicida a Regina Coeli. Hanno chiuso finalmente gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari. Sono usciti in tanti. Qualcuno ce l’ha fatta, qualcun altro no. Qualcuno non ce l’avrebbe fatta comunque [...]. Io sento che l’aria sta cambiando... non voglio affrontare il mondo, voglio che un po’ di mondo, venga a trovarmi, per conoscermi e condividere un tratto della mia esistenza". Così ha scritto un ex internato nell’ospedale psichiatrico di Aversa e oggi uno dei 569 ospiti delle trenta Rems, la Residenze per l’esecuzione di misure di sicurezza, che nelle varie regioni italiane hanno sostituito e superato, che è la cosa che più conta, gli ospedali psichiatrici. Quella che è andata a compimento il 20 febbraio è "una rivoluzione gentile" nel campo dei diritti e dell’esecuzione della pena. Sono ormai "solo" quattro gli ospiti dell’ultimo Opg aperto, quello di Barcellona Pozzo di Gotto in Sicilia. Questione di giorni e settimane e anche loro saranno trasferiti in una delle due Rems siciliane, 40 posti disponibili e già occupati, segno che serve un’altra struttura (è prevista a Caltagirone) visto che una delle differenze sostanziali tra Opg e Rems è che gli ospiti, prima sbattuti in tutta Italia, oggi sono vincolati a restare nel proprio territorio. Dove più facilmente ci possono essere affetti e motivi per riprovare una nuova vita. La frase - "voglio che un po’ di mondo venga a trovarmi per conoscermi" - è contenuta nel Rapporto conclusivo che Franco Corleone, Commissario per la chiusura degli Opg, ha appena consegnato al Ministero della Salute e della Giustizia. "Missione quasi compiuta" dice Corleone, dove il "quasi" è legato a ciò che ancora deve essere fatto posto che la strada imboccata è quella giusta. Anche l’unica percorribile. È un cerchio che si chiude. Nel caso di Corleone può raccontare il senso di un’intera vita politica prima come parlamentare e poi come sottosegretario alla Giustizia, il tema delle carceri e della droga sempre in cima alla sua agenda. Era marzo del 2011 quando l’allora senatore Ignazio Marino consegnò al governo un rapporto da brividi sulle condizioni dei sei Opg italiani. Un dossier talmente vergognoso (a parte le condizioni igieniche inesistenti, venne fuori che su 376 internati dimissibili solo 20 erano stati fatti usci re e solo 5 di quelli rinchiusi erano ritenuti ancora pericolosi) che per la prima volta si mise in moto un percorso da troppo rinviato e che il 20 febbraio scorso ha portato a quella che Corleone definisce "la rivoluzione gentile" in due tempi. Prima, con la legge Basaglia, la chiusura dei manicomi. Poi con la chiusura degli ospedali psichiatrici, "l’istituzione totale per eccellenza; manicomio e carcere insieme - scrive Corleone nella relazione finale - dove la malattia richiedeva la cura obbligatoria, la pena poteva essere infinita e la negazione della responsabilità precipitava il folle all’inferno". È giusto ricordare che il cerchio che si chiude oggi era iniziato proprio con Corleone quando giovanissimo deputato Verde di scuola Radicale nel 1988 fece un blitz nell’Opg di Agrigento e per la prima volta mostrò al paese l’oscena ipocrisia degli Opg. La differenza sostanziale tra Opg e Rems è che nei primi venivano rinchiusi quelli che Corleone chiama "i rei folli" spesso condannati ai cosiddetti "ergastoli bianchi", vite intere spese là dentro perché dimenticate o senza alternativa. Le Rems, invece, sono i luoghi dei "folli rei", dove l’aggettivo diventa sostantivo: le residenze protette per chi ha commesso un reato ma è stato prosciolto per infermità mentale ed è ritenuto pericoloso socialmente. La capienza delle Rems presenti sul territorio nazionale è di 604 posti. Gli Opg sono arrivati ad ospitare fino a 1.400 pazienti. Nelle Rems oggi ce ne sono 569. "Il fatto che molte persone vengano dimesse è un segnale positivo - si legge nel Rapporto - che porta a pensare che queste residenze siano delle strutture tendenzialmente aperte e, contrariamente agli Opg, non prevedono una presenza senza fine (ergastolo bianco). Inoltre, visto il numero irrisorio di reingressi comunicati dai responsabili delle Rems su richiesta del Commissario, possiamo permetterci di affermare che il sistema stia rispondendo alle aspettative e che il lavoro svolto dagli operatori stia dando dei risultati molto positivi". Sono "più comunità che ospedali", non hanno inferriate e vigilate da guardie giurate. Rispondono a "criteri di territorialità", sono "a numero chiuso" ed "escludono la contenzione meccanica". Buona parte del loro successo è dovuto anche al personale, "giovani assunti che lavorano con entusiasmo" osserva Corleone. Molto può essere ancora fatto. Per evitare tragedie come quella di Valerio G., 22 anni, che si era allontanato dalla Rems (era la terza volta) e quando è stato fermato è stato arrestato per resistenza. Una volta arrivato in carcere a Regina Coeli sì è impiccato. E per evitare che le Rems tornino ad essere dei nuovi Opg. È una rivoluzione da monitorare di continuo. "Nella sostanza - suggerisce Corleone - va completata con l’attuazione dell’emendamento De Biase alla riforma del processo penale. Chiusura Opg. Corleone: "Missione compiuta, ma ora monitorare le Rems" di Giovanni Augello Redattore Sociale, 28 febbraio 2017 Consegnata al governo la seconda e ultima Relazione semestrale del Commissario unico per il superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari. Trenta le Rems attive in tutta Italia con oltre 600 posti letto, poche quelle in strutture definitive. "Evitare che diventino nuovi Opg". "Missione compiuta": aver chiuso gli Ospedali psichiatrici giudiziari è stata una "rivoluzione culturale e sociale" ma non basta, occorre definire con chiarezza la natura delle Rems. È questo l’appello che il Commissario unico per il superamento degli Ospedali psichiatrici giudiziari, Franco Corleone, affida alla Seconda Relazione semestrale sulle attività svolte nel suo secondo mandato (conclusosi nei giorni scorsi) consegnata al governo. Con l’Opg di Barcellona Pozzo di Gotto (di cui la chiusura è ormai prossima), quindi, si conclude l’ultimo capitolo di una "istituzione totale per eccellenza: manicomio e carcere insieme", ma allo stesso tempo apre una riflessione su quello che sono e saranno le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza. La relazione non è un mero bilancio degli ultimi sei mesi, quanto una traccia per la definizione di quella che sarà la nuova sfida per il paese, ovvero la corretta impostazione delle Rems. Un compito non da poco, i cui criteri vanno individuati e condivisi nel più breve tempo possibile. "Le Rems - spiega Corleone nel testo, si troveranno a fare i conti con casi difficili, tanto che alcuni operatori hanno ipotizzato Rems ad alta intensità di cura. Definizione che potrebbe fare da ipocrita velo a un nuovo ibrido, dove la cura si intreccia, e infine soggiace, alla logica manicomiale e alla pratica dell’internamento. Le basi concettuali e pratiche di un modello come le Rems, affinché evitino il rischio di diventare nuovi Opg, sono invece la territorialità e il numero chiuso, il rifiuto della coercizione, in particolare la contenzione, e la consapevolezza che la permanenza nella struttura deve avere un tempo definito". Sono 30 le Rems attive ad oggi, con 604 posti letto e 569 pazienti presenti. In totale, i pazienti accolti sono stati 950, di cui 415 quelli dimessi. Da un rapido sguardo alle tabelle riportate nella relazione, però, si può notare che tra le diverse Rems e regioni d’Italia ci sono differenze notevoli. Si va dai numeri record di Castiglione delle Stiviere, in Lombardia, dove ci sono 120 posti letto e 121 presenze, alla Rems di Udine, in Friuli Venezia Giulia, dove i due posti disponibili attualmente solo liberi essendo stati dimessi i pazienti. A tener testa a Castiglione, come capacità di posti letto, solo la Rems di Nogara, con 40 posti. In tutte le altre si va dai dieci posti circa ai venti. È la Lombardia, quindi, la regione con il maggio numero di posti letti (i 120 di Castiglione delle Stiviere), segue il Lazio (91) e la Campania (68), ma tra le tabelle emerge anche il primato della Sicilia per quanto riguarda le misure di sicurezza in attesa di essere eseguite: sono 81. "Si tratta di numeri in continua crescita che stanno mettendo a dura prova l’intero sistema con il rischio di far fallire la Riforma - si legge nella relazione. Bisognerebbe iniziare a pensare che le misure di sicurezze detentive del ricovero in Rems debbano essere assegnate come extrema ratio". Tra i dati raccolti dalla seconda relazione, quelli delle persone "fuori regione", ovvero quelle ospitate in Rems non ubicate nella propria regione di residenza. Numeri che non preoccupano, cioè 16 unità, mentre sono più allarmanti quelli dei senza fissa dimora presenti nelle Rems: sono 47, di cui 38 stranieri e 9 italiani. Anche la presenza femminile nelle Rems è un tema che dovrà essere affrontato, spiega la relazione. Attualmente sono 46 le donne presenti in diverse strutture. La Rems che ne ospita di più è quella di Castiglione delle Stiviere (14). "La dimensione della presenza femminile rappresenta meno del 10 per cento delle presenze nelle Rems - si legge nella relazione. Solo dodici strutture ospitano donne. Pontecorvo è una Rems solo femminile e a Castiglione delle Stiviere è dedicato un reparto esclusivamente per donne. Nelle altre dieci strutture la presenza femminile è assai poco consistente rispetto al numero degli uomini ospitati. Occorre evitare che questa condizione assuma un carattere di residualità. Il rischio della marginalità e dell’annullamento della differenza di genere esige una particolare attenzione per valorizzare tempi, spazi e attività corrispondenti alle esigenze e agli interessi delle donne". C’è poi l’orizzonte delle Rems "definitive" ancora da raggiungere, il cui quadro, spiega la relazione è "ancora incerto e a macchia di leopardo". Le Rems provvisorie, infatti, sono ancora molte: su 30 solo sei sono definitive. "Per molte deve essere ancora attivato il bando - si legge nel testo -, la procedura di appalto e tutti gli altri adempimenti. Si può stimare che tutte le Rems saranno definitive, non prima di due anni". Intanto, mentre si progettano strutture che possano rifiutare le "caratteristiche proprie delle strutture ospedaliere o, peggio, delle istituzioni totali", per il commissario sarebbe bene "eliminare la presenza di fili spinati e di inferriate" da quelle esistenti. Al di là dell’organizzazione architettonica degli spazi, però, per Corleone occorre "monitorare e tenere sotto stretta sorveglianza" l’evoluzione delle Rems. "Andranno dotate di un regolamento chiaro - spiega -, di garanzia e unico per tutte le strutture". Per Corleone, infatti, "non basta parlare di superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari. Occorre mettere in discussione sino in fondo quella logica manicomiale che era a fondamento degli Opg stessi". Per il Commissario, inoltre, è "indispensabile" che sia il Parlamento a farsi carico dei nodi da sciogliere. "Occorre definire la natura delle Rems che dovrebbero essere luoghi solo per persone con misura di sicurezza definitiva. Vi è la necessità di prevedere una revisione delle misure di sicurezza di cui si è occupato il Tavolo 11 degli Stati Generali del carcere ma è necessario un intervento d’urgenza come quello indicato dall’emendamento De Biasi per il provvedimento al Senato sulla legge delega. Oggi trenta Rems devono fare i conti con le richieste di misure di sicurezza provvisorie disposte in gran parte dalla magistratura di Cognizione e hanno trenta magistrature di Sorveglianza, trenta Prefetti, trenta Questori con cui confrontarsi". L’aver archiviato la questione Opg, quindi, non significa aver finito il lavoro. Sul tema salute mentale e carcere ci sarà ancora molto da fare. Il Ministro Orlando: "pacchetto giustizia al via" di Giuseppe Boi Gazzetta di Reggio, 28 febbraio 2017 Diviso tra la corsa alla segreteria del Pd e il ruolo di ministro della giustizia. Da una parte ci sono "l’errore" della scissione e il congresso del partito, in cui vuole portare con forza il tema "del lavoro e della lotta alle disuguaglianze"; dall’altra l’emergenza sicurezza e il decreto sulla certezza della pena - per cui la prossima dovrebbe "essere la settimana decisiva" - ma anche l’esigenza di sbloccare il concorso per assumere personale amministrativo nei tribunali. Andrea Orlando sbarca in provincia di Reggio Emilia, a Fabbrico, vestendo una doppia giacca tutt’altro che comoda. Le emergenze nel partito e nel ministero incombono e fanno quasi passare in secondo piano il motivo della presenza del ministro della Giustizia: la cerimonia di commemorazione per il 72° anniversario della battaglia in cui i partigiani sconfissero le forze fasciste che tenevano in ostaggio 22 civili. Un’azione riuscita grazie all’unione dei combattenti antifascisti. Un’unità persa nel Pd. La scissione si poteva evitare, si può ancora evitare? "Non lo so, va chiesto a chi la ha promossa. Certamente è un errore. L’idea che tutto si possa ridurre a una costante conta delle forze in campo è un po’ la causa delle difficoltà nelle quali ci troviamo". Dicendo così sembra voler puntare il dito su D’Alema. "Ricondurre tutto e soltanto a un piano di D’Alema mi pare francamente riduttivo. C’è un malessere che non è soltanto quello di pezzi di gruppi dirigenti che se ne vanno, ma anche delle tante persone che sono rimaste a casa in questi anni e che hanno perduto la speranza nel Partito democratico. La mia candidatura è in campo anche perché questa speranza non vada delusa". Qual è stato il principale errore dei Pd? "Il dialogo tra sordi genera dei compartimenti stagni e dentro il Pd ce ne sono troppi, al di là della scissione: questo credo che sia il problema. Non possiamo andare avanti con riunioni che finiscono esattamente come sono iniziate". Anche perché poi ci sono i problemi concreti della gente, a partire dal lavoro. "Forse avremmo dovuto discuterne e rifletterci prima, ma non è mai troppo tardi per occuparsi di un tema come questo. Credo che il congresso del Pd debba partire da questa riflessione: il referendum ci ha detto che nel Paese ci sono profonde disuguaglianze, che la trasformazione del tessuto economico ha prodotto grandissime sofferenze e c’è bisogno di prendersi cura e guidare questi processi. Se parliamo di lavoro nella discussione congressuale credo che Partito democratico possa ripartire bene". Tra i problemi più sentiti ci sono anche la sicurezza e la certezza della pena nei reati come furti e rapine. "C’è una legge che purtroppo giace da troppo tempo al Senato. Io non ho la possibilità di approvarla da solo, ma siamo a buon punto: mi auguro che la prossima settimana sia quella decisiva". I sindaci dell’Unione dei comuni Tresinaro-Secchia hanno raccolto quasi 17mila firme perché l’iter riparta. Lei li ha incontrati, come risponde alle loro richieste? "Penso che su questo il Pd possa ritrovare unità. Io, Emiliano e Renzi, se ci uniamo, rappresentiamo il 100% del partito. Se tutti e tre spingiamo politicamente sui gruppi parlamentari perché questa legge vada a buon fine, credo che potremo dare presto una risposta all’appello che è venuto dai sindaci della provincia di Reggio". Pacchetto giustizia o meno, resta il fatto che i tribunali sono alla paralisi. Quello di Reggio, ad esempio, è praticamente al collasso per il peso del processo Aemilia. "Stiamo lavorando su due fronti. Anzitutto abbiamo avviato le procedure di mobilità dalle altre amministrazioni. Poi, ed è la cosa più importante, nei prossimi giorni lavoreremo per accelerare la procedura di assunzione di 2mila dipendenti nel settore amministrativo della giustizia". Quali tempi prevede? "Per il reclutamento serve un concorso che vogliamo bandire in tempi stretti. Se riusciremo a mantenere la tabella di marcia, saranno al lavoro a partire dalla prossima estate". Se i tribunali sono bloccati è anche perché si devono occupare di questioni come le "querele temerarie" fatte a noi giornalisti solo a scopo di intimidazione. Un problema per la giustizia e più in generale per la libertà di stampa e di espressione. "Nei prossimi giorni incontrerò le rappresentanze della stampa per affrontare questo tema nell’ambito della riforma del processo civile. L’obiettivo è introdurre degli elementi che, in generale, disincentivino qualsiasi utilizzo strumentale del processo. Questo è il senso del lavoro che stiamo portando avanti e che credo potrà dare dei risultati anche in conformità con le indicazioni sovrannazionali". Insomma, la sfida è far ripartire la giustizia, il Pd e, più in generale il paese. "Tanta gente nelle scorse elezioni è rimasta a casa. Per poter battere la destra dobbiamo riuscire a mobilitarli in vista delle prossime sfide". L’esodo delle magistrate che "cambia" la giustizia di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 28 febbraio 2017 Nell’ultimo biennio hanno lasciato in 56 tra i 52 e i 69 anni - Nel mirino carrierismo e burocratizzazione. L’onda "rosa" della magistratura rischia l’effetto risacca: sembra infatti rifluire verso il mare, come respinta da un ostacolo, lasciando un vuoto che non è solo numerico ma di qualità della giurisdizione. Nell’ultimo biennio, infatti, si è verificato un esodo significativo delle magistrate. Donne che hanno scelto di appendere la toga al chiodo prima dei 70 anni, la dead-line stabilita da Renzi a fine 2014 per la pensione, in ossequio al "ricambio generazionale". Se ne contano ben 56. In quattro casi la scelta è maturata addirittura tra i 52 e i 59 anni, più spesso (33 casi) tra i 60 e i 65 anni, mentre, per 19 di loro, si colloca tra i 66 e 69 anni. Né, a frenare l’esodo, è servito l’aumento (scontato) delle nomine "rosa" a incarichi direttivi e semi direttivi (rispettivamente il 25% e il 37% del totale, nel biennio); anzi, la prospettiva di una poltrona non sembra attirare particolarmente le donne né invogliarle a restare in servizio, anche quando l’ambìto traguardo è un’aspettativa legittima e concreta. Sia chiaro: l’esodo non risparmia neanche gli uomini (114 le uscite anticipate, in prevalenza tra i 66 e i 69 anni) ma quello delle donne, pur numericamente inferiore, è complessivamente più significativo, considerati sia la maggiore "anzianità" di servizio dei colleghi uomini sia, soprattutto, il trend della progressiva femminilizzazione di questa categoria professionale nella fase dell’ingresso. Le donne, ammesse in magistratura soltanto nel 1963, oggi già sono il 52% delle toghe in servizio ed aumentano ad ogni concorso. In prospettiva, dunque, è probabile che diventino la stragrande maggioranza. Ecco perché il dato sull’esodo rosa è preoccupante e non va sottovalutato. Racconta molte cose, che impongono una riflessione politica e istituzionale. Motivazioni personalissime si intrecciano con altre di diversa natura. Anzitutto, la progressiva ed eccessiva burocratizzazione del lavoro, che ha spostato il baricentro dall’attività giurisdizionale a quella amministrativa: l’"ossessione per la produttività", scandita quasi mensilmente da relazioni, rendicontazioni, statistiche, accentua la burocratizzazione del giudice e dei dirigenti a scapito dell’attività giurisdizionale vera e propria. L’opinabilità delle scelte del Csm, poi, crea sfiducia anche in chi avrebbe in tasca la nomina a un direttivo o semi direttivo: al di là del dato politico di una classe dirigente della magistratura ridisegnata dal Csm per i prossimi 8 anni (4+4) con i 520 incarichi di vertice conferiti per coprire i vuoti creati d’emblée con l’abbassamento dell’età pensionabile (da 75 a 70), la base dei magistrati (composta in gran parte da donne) a stento riconosce le logiche seguite dal Consiglio ora che l’anzianità è di- ventata un criterio meno stringente. A ciò si aggiunga l’enorme onere gravante sui capi degli uffici giudiziari sul fronte organizzativo, soprattutto per la carenza cronica di risorse, in particolare umane (mancano circa 9mila cancellieri e 1200 magistrati). Non meno rilevante è la rigidità del sistema di uscita, per l’assenza di meccanismi flessibili di permanenza dei pensionabili o prepensionabili, che consentirebbero invece al servizio pubblico di non privarsi di quelle professionalità ma di utilizzarle, ad esempio, per la formazione, l’organizzazione, il coordinamento delle buone prassi. Infine, le donne hanno una cultura della carriera e una concezione del potere diverse da quelle tipicamente maschili e ciò contribuisce a rendere meno appetibili i posti direttivi e semidirettivi, determinando così una sorta di esodo anche da quelli. Ma ci sono altri elementi ancora. Come gli oneri che continuano a pesare prevalentemente, se non esclusivamente, sulle donne giunte tra "il non più e il non ancora": non più (anagraficamente) giovani, ma non ancora (anagraficamente) vecchie, spesso costrette a farsi carico di un welfare familiare indispensabile in mancanza di supporti pubblici. Donne sposate, divorziate o single; madri di figli non ancora indipendenti o all’inizio di un incerto percorso professionale; a volte già nonne ma ancora figlie, di vecchi genitori da accudire. Professioniste di spessore, indipendenti, che hanno investito in un lavoro che amano e su cui hanno fatto affidamento, quasi mai coinvolte in cordate politiche e che frequentemente si vedono scavalcate da colleghi, certamente stimabili, ma anche "supportati" nell’assegnazione di poltrone e poltroncine. Donne che non hanno rinunciato a mettersi in gioco, in una vita fatta di rinunce; che hanno dimostrato sul campo valore e competenza ma che sono sfiduciate dalla deriva carrierista e burocratica del mestiere di giudice e perciò preferiscono mettere al riparo la loro dignità professionale, facendo un passo indietro. "Forse nella mia carriera ho pagato qualche prezzo per il fatto di essere donna e per essere arrivata troppo presto rispetto a certi mutamenti culturali nella società e anche nel mondo della magistratura, oltre che per il mio non eccessivo coinvolgimento nell’Anm e nelle attività correntizie", scrive nel Diario di una giudice (Forum, 2016) Gabriella Luccioli, una delle prime otto donne entrate in magistratura nel 1965, fermatasi alla presidenza della prima sezione civile della Cassazione pur avendo tutti i numeri per assurgere al vertice della suprema Corte (prima presidenza), andata in pensione (con altre quattro colleghe) nel 2015, a 75 anni. "Ma rivendico con orgoglio - continua nel suo Diario - di non aver mai salito le scale di Palazzo dei Marescialli se non per motivi istituzionali e di non aver mai alzato il telefono per chiedere". Un "vezzo" - quello di "non chiedere" - tipico di molte donne (non di tutte, s’intende), che - con buona pace delle percentuali - finisce per penalizzarle nelle loro legittime aspettative. E che - complice la "ripugnanza" per le cosiddette "carriere parallele" avallate dal Csm (la corsa a titoli e titoletti che fanno curriculum) e per la pressione/ossessione della produttività - concorre all’effetto risacca dell’onda. Come nel caso di Fiorella Pilato, consigliere della Corte d’appello di Cagliari nonché componente togata del Csm nel quadriennio 2006-2010, che ha lasciato la magistratura l’anno scorso, a 66 anni. In una bella lettera di commiato dai colleghi ha spiegato anzitutto il carattere "molto personale" della sua decisione - fare l’esperienza della nonna - ma non senza punte di amarezza per una magistratura che rischia di scivola- re nel "peggior carrierismo", allontanandosi così "dalla funzione più alta, quella del giudicare". "È il momento di aiutare mia figlia - ha scritto Pilato - ora che tocca a lei lavorare tutto il giorno. Non voglio perdere lo spettacolo affascinante di questa piccolina (la nipotina di 5 mesi, ndr) che inizia l’avventura e giorno dopo giorno scopre il mondo e impara ad essere se stessa. Non posso, perché gli anni passano e non ho più le energie per far bene tutto, sacrificare la famiglia a un mestiere che ho amato tanto e che in realtà mi piace ancora molto". "Vado via - ha poi proseguito - con la piccola civetteria di non aver mai voluto chiedere incarichi direttivi e di aver rinunciato all’unico incarico semi direttivo per cui avevo presentato domanda, il posto ufficiale di presidente della sezione penale che reggo come "facente funzioni" e senza esonero parziale da moltissimi anni". Infine, un’esortazione ai colleghi, che tradisce appunto la sua "ripugnanza" per la deriva carrierista della magistratura. "Non consentite all’ordinamento giudiziario riformato di cambiarvi, non fatevi tentare dal carrierismo innescato dalla rotazione di poltrone e poltroncine più o meno "prestigiose" né terrorizzare da un sistema che punta sulla quantità anziché sulla qualità delle risposte giudiziarie". Insomma, numeri e motivazioni delle uscite anticipate dal servizio devono essere un campanello d’allarme da non trascurare, perché sono molte le magistrate a pensarla così, al punto da aver già rinunciato a presentare domanda per un posto direttivo o semidirettivo, cui avrebbero diritto. E intenzionate ad andarsene prima del tempo. Uno spreco di risorse che il Paese non può permettersi; un’emorragia che rischia di depauperare un’istituzione e una funzione essenziali per la tenuta e la crescita democratica. L’ingresso delle donne in magistratura, infatti, non è stato una conquista in funzione della parità (numerica), ma molto di più: ha consentito la creazione di un nuovo modello di giudice, "uomo sociale, partecipe e interprete della società in cui vive", proprio grazie al punto di vista e alla sensibilità di genere portati dalle donne. Guai a dimenticarsene. "Uno Bianca", i parenti in pressing su Orlando Corriere di Bologna, 28 febbraio 2017 Anche se il Guardasigilli ieri non é voluto intervenire sulla vicenda del permesso premio ad Alberto Savi, dopo la bufera di polemiche e indignazione scatenata dal provvedimento del tribunale di Sorveglianza di Venezia, é partito il pressing sul ministro. L’associazione dei familiari delle vittime della Uno Bianca ha chiesto un incontro al ministro della Giustizia Andrea Orlando per discutere della possibilità di una modifica della legge sui benefici per i detenuti, che escluda permessi premio, semilibertà e altri sconti per coloro che hanno commesso reati particolarmente efferati, come appunto i killer della Uno Bianca. Orlando, che ieri era a Fabbrico in provincia di Reggio Emilia per la commemorazione del 72esimo anniversario della battaglia partigiana che lì fu combattuta, si é limitato a dire che "un ministro della Giustizia non commenta le valutazioni dei magistrati", ma l’associazione promette battaglia. L’avvocato di Alberto Savi, invece, Anna Maria Marin, fa sapere di aver incontrato l’ex poliziotto in carcere dopo la pubblicazione della notizia e assicura: "Sta soffrendo per le inevitabili ferite che non avrebbe voluto arrecare. Si rende conto dello stato d’animo dei familiari e delle vittime dei suoi reati". Il vizio della gogna e le scuse Di Maio al dem Graziano di Monica Guerzoni Corriere della Sera, 28 febbraio 2017 Il presidente del Pd in Campania, che si era autosospeso subito dopo l’avviso di garanzia, è tornato al suo posto. Era il 27 aprile dell’anno scorso quando Luigi Di Maio si scagliò contro Stefano Graziano, definendolo "questo individuo" e dipingendolo come "il riferimento del clan dei Casalesi dal punto di vista dei voti" in Campania. Dopo il concorso esterno in associazione camorristica caduto nel luglio del 2016, il 23 febbraio è stata archiviata anche l’accusa di corruzione elettorale: innocente, come hanno stabilito otto magistrati di due Procure. Ora il presidente del Pd in Campania, che si era autosospeso subito dopo l’avviso di garanzia, è tornato al suo posto. Con le pacche sulle spalle dei colleghi dem, sono arrivate anche le scuse del vicepresidente della Camera. A favor di telecamera, su La7, Luigi Di Maio ha risposto alla richiesta di scuse della conduttrice Myrta Merlino concedendo all’avversario un mea culpa condizionato: "Non ho nessun problema a scusarmi, ma mi aspetto dal Pd le scuse sul caso Quarto". Una dichiarazione che conferma quanto alto sia, soprattutto in campagna elettorale, il grado di strumentalizzazione delle vicende giudiziarie. Graziano ha raccontato di aver subìto dieci mesi di inferno, un incubo che racconterà in un libro: "Mia figlia aveva cinque mesi e mia moglie, per lo choc di vedermi descritto come il capo della camorra, perse il latte. È finita, ma le ferite di questa aggressione senza precedenti restano". Come sottolinea il protagonista di questa incredibile vicenda giudiziaria, "la presunzione di innocenza è una cosa seria". Riguarda la vita delle persone, che non può essere massacrata per tornaconto politico. Comprensibile allora che le scuse di Di Maio non emozionino Graziano, come non devono averlo emozionato i "bentornato" di quei dem che nei giorni della bufera si erano voltati dall’altra parte. C’erano le amministrative, è vero, e il sospetto di concorso esterno pesava come un macigno sulla campagna elettorale del Pd. Ma in un Paese civile un avviso di garanzia non può diventare, per dirla con Graziano, "un avviso di gogna politica e mediatica". Sul diritto d’asilo decreto a effetto ritardato di Marco Noci Il Sole 24 Ore, 28 febbraio 2017 Con il decreto legge 13 del 17 febbraio 2017 (pubblicato, in pari data, nella Gazzetta Ufficiale 40) e in vigore dal 18 febbraio il Governo ha introdotto sostanziali modifiche ai procedimenti amministrativi e giurisdizionali in materia di protezione internazionale e non solo. Il decreto va convertito entro il 18 aprile. L’esponenziale aumento delle domande di protezione internazionale (nel 2013 le richieste sono state 26.620 mentre nel 2016 hanno superato le 123mila istanze) si è tradotto in un altrettanto incremento delle impugnazioni, in sede giurisdizionale, delle decisioni amministrative (nel 2016 sono stati oltre 51mila i rigetti delle Commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale). Le disposizioni del decreto legge appaiono rivolte a comprimere i tempi per la definizione delle pratiche di protezione internazionale e avviare i cittadini stranieri verso le forme di accoglienza previste (in caso di accoglimento della domanda) ovvero verso le misure idonee ad assicurarne il rimpatrio (in caso di rigetto). In proposito, sembrerebbe, però, difettare il presupposto dell’urgenza, considerato che scorrendo i 23 articoli che compongono il testo normativo, tante disposizioni sono rimandate a una futura applicazione: entro 90 giorni la nuova procedura di notificazione per il procedimento amministrativo o entro 180 giorni dall’entrata in vigore il nuovo processo e le video registrazioni dell’audizione del richiedente asilo. Il provvedimento si compone di quattro capi. Il capo primo istituisce 14 sezioni presso i Tribunali di Bari, Bologna, Brescia, Cagliari, Catania, Catanzaro, Firenze, Lecce, Milano, Palermo, Roma, Napoli, Torino e Venezia, competenti territorialmente secondo la ripartizione fatta dall’articolo 4 del decreto legge, specializzate in materia di immigrazione e asilo. L’accentramento dei procedimenti in pochi Tribunali potrebbe accentuare le attuali difficoltà degli Uffici giudiziari coinvolti, che vedranno ulteriormente aumentare il carico di lavoro. Il capo secondo reca alcune disposizioni intese ad accelerare i tempi per la definizione delle procedure amministrative e giurisdizionali per il riconoscimento della protezione internazionale, nonché interventi in materia di esecuzione penale esterna e messa alla prova. Il capo terzo del provvedimento tratta delle operazioni di identificazione dei cittadini stranieri, con particolare riguardo alle operazioni di foto segnalamento e dei provvedimenti di allontanamento dal territorio nazionale dei cittadini stranieri irregolari. Il capo quarto prevede che il Governo, per i primi tre anni dopo l’entrata in vigore del decreto, provveda a fornire al Parlamento una relazione sullo stato di attuazione delle norme in esame. Il richiedente la protezione internazionale è una persona che è in attesa della decisione sulla sua domanda di riconoscimento dello status di rifugiato o di altra forma di protezione. Le definizioni - Il rifugiato è colui che ha un timore fondato di essere perseguitato nel proprio Paese di origine o, se non ha una cittadinanza, di residenza abituale, per motivi di razza, di religione, di nazionalità, di appartenenza a un gruppo sociale, di opinione politica e non vuole o non può ricevere protezione e tutela dallo Stato di origine o dallo Stato in cui abbia risieduto abitualmente. Per persecuzione si intendono, per esempio, le minacce alla vita, la tortura, le ingiuste privazioni della libertà personale, le violazioni gravi dei diritti umani. La protezione sussidiaria è la protezione che viene accordata a un cittadino straniero, o apolide, che non possiede i requisiti per essere riconosciuto come rifugiato, ma nei cui confronti sussistono fondati motivi di ritenere che se tornasse nel Paese di origine, o nel Paese nel quale aveva la propria dimora abituale, correrebbe un rischio effettivo di subire un grave danno e non può o non vuole, a causa di tale rischio, avvalersi della protezione di quel Paese. La protezione umanitaria è la protezione accordata tutte le volte in cui le Commissioni territoriali, pur non ravvisando gli estremi per la protezione internazionale, rilevino "gravi motivi di carattere umanitario" a carico dell’interessato. In generale, le difficoltà economiche, anche se reali e in alcuni casi molto gravi, non costituiscono motivi per il riconoscimento della domanda di asilo. La procedura per la protezione - La domanda di protezione internazionale si presenta alla Polizia di frontiera o all’Ufficio Immigrazione della Questura. L’interessato è autorizzato a rimanere sul territorio nazionale, sino alla decisione della Commissione territoriale e, poi, durante la pendenza del ricorso giurisdizionale. La decisione sulla domanda di protezione internazionale è compito della Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale, composta da quattro componenti: due del ministero dell’Interno, un rappresentante degli enti locali e un rappresentante dell’Unhcr. L’articolo 6 del decreto legge 13/2017 apporta varie modifiche al decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25 in particolare sulle modalità di comunicazioni dei provvedimenti amministrativi al richiedente asilo. L’onere di comunicare all’interessato la data di convocazione per l’audizione davanti alla Commissione (come anche gli altri provvedimenti) è sempre stato delegato dall’ufficio Immigrazione della questura. Il decreto legge 13/2017 solleva da tali oneri gli uffici immigrazione delle questure trascurando di esaminare che, nonostante il rigetto della domanda, lo straniero rimarrà nella disponibilità di un titolo di soggiorno anche valido che, oggi, viene ritirato al momento della notifica del provvedimento amministrativo negativo. Sono previste modalità di notifica più celeri per gli atti (convocazioni) e le decisioni delle Commissioni e si individua con certezza il momento in cui si perfeziona la notifica nei casi in cui il richiedente si renda irreperibile. Con la riforma, le notificazioni sono validamente effettuate all’ultimo domicilio comunicato dal richiedente ovvero presso i centri o le strutture di accoglienza che costituiscono il domicilio legale dello straniero. Per i richiedenti presenti nei centri e nelle strutture di accoglienza, le notificazioni saranno effettuate mediante Pec all’indirizzo del responsabile del centro o della struttura che, quale pubblico ufficiale, avrà il compito di consegnarlo all’interessato dandone immediata comunicazione, sempre a mezzo Pec, alla Commissione. Ove la consegna dell’atto notificato sia impossibile per irreperibilità del destinatario, la notificazione si intende eseguita nel momento in cui diviene disponibile nella casella di posta elettronica certificata della Commissione la risposta del responsabile del centro. Per le notificazioni ai richiedenti asilo che non usufruiscono di misure di accoglienza e non sono destinatari di misure di trattenimento, le Commissioni territoriali faranno ricorso al servizio postale. Quando per l’inidoneità del domicilio comunicato, la notificazione risulta impossibile, essa si intende eseguita nel momento in cui perviene alla Commissione l’avviso postale di ricevimento da cui risulta tale impossibilità. Ove il richiedente abbia fornito un indirizzo Pec, le notificazioni potranno essere effettuate a tale indirizzo. In tal caso, ove il messaggio di posta elettronica non possa essere recapitato per cause imputabili al destinatario, la notificazione si intende eseguita quando diviene disponibile nella casella di posta della Commissione l’avviso di mancata consegna. Altra novità contenuta nel decreto legge è la videoregistrazione dell’audizione del richiedente innanzi alla Commissione territoriale. Sono dettate le modalità di trascrizione del colloquio con l’ausilio di sistemi automatici di riconoscimento vocale, nonché di conservazione del file contenente la videoregistrazione. Sono individuate inoltre le modalità di verbalizzazione da seguire quando, per qualsiasi motivo, non può procedersi alla videoregistrazione del colloquio. La Commissione, attraverso decisione scritta, può riconoscere lo status di rifugiato o la protezione sussidiaria o ritenere che sussistano gravi motivi di carattere umanitario e, pertanto, sollecitare la Questura al rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari. La Commissione può rigettare la domanda anche per manifesta infondatezza, quando ritiene palese l’insussistenza di qualsiasi presupposto per il riconoscimento della protezione internazionale, ovvero quando risulti che lo straniero ha presentato domanda al solo scopo di ritardare o impedire l’esecuzione di un provvedimento di espulsione o respingimento. Il ricorso giurisdizionale - Entro trenta giorni dalla notifica della decisione è ammesso ricorso giurisdizionale. Come detto, il decreto legge reca le norme occorrenti all’istituzione delle sezioni specializzate in materia di immigrazione e asilo nonché alla semplificazione del ricorso giurisdizionale avverso le decisioni delle Commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale. Alle sezioni (Roma, Catanzaro, Bari, Catania, Palermo, Venezia, Firenze, Milano, Napoli, Bologna, Torino, Cagliari, Brescia e Lecce) sono attribuite, oltre alla materia della protezione internazionale, anche le controversie in materia di immigrazione e quelle relative al soggiorno e all’allontanamento dei cittadini comunitari. L’individuazione degli uffici giudiziari è avvenuta sulla base dei dati relativi al numero di domande di protezione internazionali esaminate, negli anni 2015 e 2016, dalle commissioni territoriali. In particolare alle sezioni specializzate sono assegnate le controversie: - in materia di soggiorno sul territorio nazionale dei cittadini comunitari e dei loro familiari, di cui all’articolo 16 del decreto legislativo 150 del 2011; - in materia di allontanamento dei cittadini europei e dei loro familiari per motivi di pubblica sicurezza, per motivi imperativi di pubblica sicurezza e nel caso in cui vengano a cessare le condizioni che avevano determinato il diritto di soggiorno, regolate dall’articolo 17 del decreto legislativo 150 del 2011, nonché per i procedimenti di convalida dei provvedimenti di allontanamento dal territorio nazionale adottati nei confronti di cittadini europei, di cui all’articolo 20-ter del decreto legislativo 30 del 2007; - in materia di riconoscimento della protezione internazionale, nonché per i procedimenti per la convalida del provvedimento con il quale il questore dispone il trattenimento o la proroga del trattenimento del richiedente protezione internazionale, nonché per la convalida dei provvedimenti di cui all’articolo 14, comma 6 del decreto legislativo 142 del 2015; - in materia di riconoscimento della protezione umanitaria nei casi di cui all’articolo 32, comma 3 del decreto legislativo 28 del 2005; - in materia di diniego del nullaosta al ricongiungimento familiare e del permesso di soggiorno per motivi familiari, nonché contro gli altri provvedimenti dell’autorità amministrativa in materia di diritto all’unità familiare; - in materia di apolidia. L’articolo 2 prevede che i giudici che compongono le sezioni specializzate vengano scelti tra magistrati dotati di specifiche competenze. La Scuola superiore della magistratura è investita del compito di organizzare, in collaborazione con l’Easo e l’Unhcr, dei corsi di formazione destinati ai magistrati che intendono acquisire una specifica formazione in materia. Il decreto legge non incide nel riparto tra la giurisdizione ordinaria e amministrativa e si mantiene ferma la competenza in materia di espulsione amministrativa (articolo 13 del Testo unico Immigrazione) del giudice di pace. L’articolo 4 individua i criteri di competenza territoriale delle sezioni, incardinati, a seconda dei casi: sul luogo in cui ha sede l’autorità che ha adottato il provvedimento impugnato; sul luogo in cui ha sede la struttura di accoglienza governativa o del sistema di protezione di cui all’articolo 1-sexies del decreto-legge 416 del 1989, convertito, con modificazioni, dalla legge 39 del 1990, ovvero il centro di cui all’articolo 14 del Testo unico di cui al decreto legislativo 286 del 1998 in cui è presente il ricorrente; sul luogo in cui il richiedente ha la dimora. L’articolo 6 apporta varie modifiche al decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25 (procedure per il riconoscimento della protezione internazionale). La lettera g) del comma 1 dell’articolo 6 riscrive la disciplina delle controversie in materia di riconoscimento della protezione internazionale. Rimeditando la scelta compiuta dal legislatore del 2011 con l’articolo 19 del decreto legislativo 150, si prevede che tali controversie siano regolate dal rito camerale (a contraddittorio scritto e a udienza eventuale) anziché dal rito sommario di cognizione. La sospensione dei termini processuali nel periodo feriale non opera per i procedimenti in materia di riconoscimento della protezione internazionale. Il procedimento camerale è definito, con decreto, entro quattro mesi dalla presentazione del ricorso (il vigente articolo 19 del decreto legislativo 150 del 2011 fissa in sei mesi il termine per la conclusione del procedimento). Introdotto il ricorso, è previsto un termine (ordinatorio o perentorio) per il deposito di note difensive e della documentazione, compreso il file della videoregistrazione, da parte della Commissione territoriale (entro 20 giorni dalla comunicazione del ricorso da parte della Cancelleria) e il termine entro cui l’interessato può depositare una propria nota di replica (entro 20 giorni dalla scadenza del termine per la costituzione dell’Amministrazione). Il giudice potrà avvalersi, per la decisione, delle informazioni sul Paese di origine fornite dalla Commissione nazionale per il diritto d’asilo. L’udienza orale è prevista quando si è in presenza di elementi nuovi o è indispensabile ai fini dell’integrazione dei fatti e delle prove allegate nel ricorso e, in ogni caso, in cui il giudice, visionata la videoregistrazione, ritenga necessario sentire personalmente il richiedente o chiedere chiarimenti alle parti. L’interessato deve essere sentito in udienza se la videoregistrazione non è stata prodotta in giudizio. Il decreto del Tribunale non è reclamabile, ma esclusivamente ricorribile per Cassazione entro il termine ordinario. Nel merito, appaiono affievolite le possibilità di contraddittorio anche perché una completa istruttoria non dovrebbe prescindere dalla comparizione personale delle parti e, infine, tale limitazione non può ritenersi giustificata da esigenze di economia e speditezza processuale. L’eliminazione del secondo grado di merito non appare conforme al disposto dell’articolo 46 della direttiva 2013/32/Ue. Ben si potrebbe, allora, introdurre un reclamo ex articolo 739 del Codice di procedura civile. Nessuna attenuante di speciale tenuità per chi favorisce l’immigrazione clandestina di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 28 febbraio 2017 Corte di cassazione - Sentenza 9636/2017. Non è che lo scafista può fare leva sull’esiguità della somma strappata ai migranti per ottenere un’attenuante che gli ridurrebbe la pena. La Corte di cassazione mette nero su bianco il principio di diritto per cui "in tema di atti diretti a procurare illegalmente l’ingresso di stranieri extracomunitari nel territorio dello Stato o di altro Stato dell’Unione europea e, in generale, in tema di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, in considerazione della natura, dell’entità e dell’importanza della messa in pericolo degli interessi tutelati dalla norma incriminatrice, la modestia del compenso corrisposto, o promesso, dallo straniero favorito al soggetto attivo del reato per remunerare la condotta delittuosa, non comporta il riconoscimento della attenuante comune del danno patrimoniale di speciale tenuità". La Corte, con la sentenza n. 9636 della Prima sezione penale depositata ieri, ha annullato il verdetto del Gip di Imperia che aveva sì condannato un cittadino extracomunitario per avare favorito l’ingresso in Francia di un gruppo di clandestini, ma, nello stesso tempo, aveva ritenuto che, con le attenuanti generiche, concorresse anche l’attenuante del danno patrimoniale di speciale tenuità. Per giudice delle indagini preliminari, infatti, la condotta criminale rappresentava il frutto di un accordo estemporaneo concluso in prossimità del confine, senza collegamenti con le fase precedenti della migrazione; inoltre la consistenza del prezzo pattuito era assai modesta, visto i migranti avevano corrisposto 50 euro per il passaggio oltreconfine. Linea contestata dal ricorso della procura che sottolineava invece come il danno provocato ai migranti non poteva certo essere considerato lieve, visto che si sarebbe dovuto tenere conto del complessivo danno patrimoniale prodotto a soggetti privi di uno stabile radicamento, di un reddito legittimo, di attività lavorativa sul territorio nazionale. La sentenza procede a una ricostruzione del quadro giuridico che puntualizza, tra l’altro, come il reato che consiste nel compere atti indirizzati a favorire l’ingresso illegale di una persona nello Stato (articolo 12 del decreto legislativo n. 286 del 1998) ha natura di reato di pericolo ed è del tutto irrilevante che lo scopo sia stato raggiunto. In ogni caso, ricorda ancora la Cassazione, l’attenuante del danno di lieve entità è applicabile anche ai reati di pericolo quando sono pluri-offensivi e colpiscono anche il patrimonio. L’eventuale assenza del danno patrimoniale non esclude comunque l’esistenza quando è compromesso l’altro interesse protetto dalla norma, diverso da quello patrimoniale. Pertanto, il reato in discussione (che può consistere anche nell’agevolare il passaggio nello Stato confinante, come avvenuto nella vicenda approdata in Cassazione) tutela l’interesse dello Stato alla sicurezza e alla cooperazione, "senza che occorra la realizzazione di un ingiusto profitto da parte dell’agente, il cui perseguimento aggrava, invece, il reato base, che si perfeziona con il compimento di atti volti al potenziale ingresso illegale dello straniero, rimanendo del tutto irrilevante il perseguimento dello scopo". Diversa invece era stata la posizione del Gip, che aveva concesso l’attenuante, trascurando, tra l’altro, che, anche a volere ritenere pulri-offensivo il reato in questione, il pregiudizio provocato ai clandestini non poteva certo essere ritenuto lievissimo e neppure di valore economico irrilevante. Reati edilizi, mattoni e forati nelle costruzioni antisismiche. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 28 febbraio 2017 Reati edilizi - Legislazione antisismica - D.P.R. n. 380/2001 - Caratteristiche tecniche delle opere edilizie - Genericità dei termini "mattone" e "forati" - Necessaria specificazione dei materiali utilizzati. La speciale disciplina antisismica deve applicarsi a tutte le costruzioni la cui sicurezza possa in ogni caso interessare l’incolumità pubblica, realizzate in zone a sismicità dichiarata. E ciò a prescindere dai materiali utilizzati e dalle relative strutture, nonché dal carattere precario o permanente dell’intervento, data la natura formale dei relativi reati ex articolo 83 del D.P.R. 380/2001 e considerato il fine di consentirne il controllo preventivo da parte delle PPAA interessate. Nello specifico, è indubbio che l’utilizzo di blocchi di calcestruzzo anziché di materiali laterizi con spazi vuoti all’interno per la realizzazione di un muro di recinzione comporti un carico ben diverso nelle due distinte ipotesi; ma tale osservazione è del tutto apodittica e prescindente dai necessari accertamenti tecnico-scientifici in ordine ai materiali effettivamente utilizzati atteso che, dal punto di vista tecnico, i termini "mattone" e "forati" sono generici, prescindendo il primo dall’indicazione specifica del materiale usato, e riferendosi il secondo esclusivamente alla presenza di fori. • Corte di Cassazione, sezione III, sentenza 24 febbraio 2017, n. 9126. Edilizia - Opere previste dall’articolo 20, l. regione Sicilia n. 4 del 2003 - Precarietà e facile rimovibilità - Nozione - Conseguenze - Fattispecie. In tema di reati edilizi, la natura precaria delle opere di chiusura e di copertura di spazi e superfici per le quali l’articolo 20 della legge Regione Sicilia n. 4 del 2003 non richiede concessione e/o autorizzazione va intesa secondo un criterio strutturale, ovvero nel senso della facile rimovibilità dell’opera, e non funzionale, ossia con riferimento alla temporaneità e provvisorietà dell’uso, sicché tale disposizione, di carattere eccezionale, non può essere applicata al di fuori dei casi ivi espressamente previsti. (Fattispecie in cui è stata esclusa la natura precaria della chiusura di due verande mediante mattoni forati legati da malta cementizia). • Corte cassazione, sezione III, sentenza 20 novembre 2014 n. 48005. Reati edilizi - Opere realizzate in assenza di concessione edilizia - Violazione della normativa antisismica - Applicabilità anche alla struttura metallica che assolve una funzione portante - Inammissibilità del ricorso. In materia di reati antisismici, integra la contravvenzione di cui al Decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380, articolo 95, qualsiasi intervento edilizio, con la sola eccezione di quelli di semplice manutenzione ordinaria, effettuato in zona sismica, comportante o meno l’esecuzione di opere in conglomerato cementizio armato, che non sia preceduto dalla previa denuncia al competente ufficio con presentazione di un progetto redatto da tecnico abilitato, o per il quale non sia stato rilasciato il titolo abilitativo, i cui lavori non siano stati svolti sotto la direzione di professionista abilitato. • Corte cassazione, sezione III, sentenza 28 dicembre 2016 n. 54983. Abuso edilizio - Zona sismica - Dpr 380 del 2001 - Presupposti - Strutture precarie - Criteri - Giudizio di legittimità - Motivi inconferenti - Genericità delle censure - Inammissibilità. Le specifiche finalità della disciplina delle costruzioni in zone sismiche hanno determinato la previsione di un rigoroso regime autorizzatorio (articolo 93) che impone, a chiunque intenda procedere ad interventi in tali zone, di darne preavviso scritto allo sportello unico che, a sua volta, provvede alla trasmissione al competente ufficio tecnico regionale. La speciale disciplina si applica a tutte le costruzioni, la cui sicurezza possa comunque interessare la pubblica incolumità, realizzate in zone delle quali sia dichiarata la sismicità. Dal contenuto delle disposizioni che regolano la materia si rileva come il loro ambito di applicazione sia particolarmente esteso, riferendosi non solo alla costruzione dei nuovi edifici, ma anche ad interventi su manufatti già esistenti, in ordine ai quali si prendono in esame le sopraelevazioni (articolo 90) e le riparazioni (articolo 91). Del tutto inconferente, ai fini dell’applicazione della disciplina, è stata ritenuta la natura dei materiali usati e delle strutture realizzate, in quanto le disposizioni che regolano la materia hanno una portata particolarmente ampia, perché’ finalizzate alla tutela dell’incolumità pubblica e devono, quindi, applicarsi a "tutte le costruzioni la cui sicurezza possa comunque interessare la pubblica incolumità", a nulla rilevando, appunto, la natura dei materiali impiegati e delle relative strutture. • Corte cassazione, sezione III, sentenza 11 dicembre 2015 n. 48950. Roma: suicida a Regina Coeli, quel ragazzo non doveva essere lì di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 28 febbraio 2017 Aveva problemi psichiatrici, era scappato da una Rems e lo hanno messo in galera. Cinque suicidi nel solo mese di febbraio. L’anno è appena iniziato e nelle carceri italiane abbiamo raggiunto un totale di 20 morti, di cui la metà sono suicidi. L’espressione "carcere", oltre che dal latino, si pensa che derivi dall’ebraico carcar che vuol dire "tumulare", "sotterrare": i dati statistici sulle morti confermano che le galere assomigliano sempre di più a dei cimiteri, con tanto di cubicoli (le celle) che diventano luoghi ideali per togliersi la vita. Non di rado accade che finiscano "tumulate" persone non compatibili con il sistema penitenziario. Esattamente come nel caso dell’ultimi due suicidi del 24 febbraio. Entrambi avevano patologie psichiatriche. Uno riguarda il caso di un 50enne recluso nell’infermeria del carcere bolognese della Dozza che si è impiccato utilizzando i lacci delle scarpe. Sul caso la Camera penale bolognese, che aveva denunciato le condizioni del reparto dopo una visita il 21 febbraio, è intervenuta denunciando "evidenti interrogativi sulla gestione delle persone malate da parte e dell’amministrazione penitenziaria, a cui spetta il controllo delle persone ristrette, e della sanità pubblica, a cui spetta in via esclusiva la tutela del diritto alla salute". L’altro caso è quello di un ragazzo di 22 anni, si è tolto la vita nel carcere romano di Regina Coeli usando come cappio un lenzuolo legato in bagno. È proprio quest’ultimo caso che ha suscitato forti reazioni dal mondo politico e associativo che si occupa dei diritti dei detenuti. Valerio G. - così si chiamava il giovane - soffriva di disturbi psichiatrici che rendevano le sue conduzioni incompatibili con il carcere. Infatti prima era ospite della Rems di Ceccano (la residenza sanitaria nata in sostituzione degli Ospedali giudiziari psichiatrici), ma dopo due episodi di allontanamento e di irreperibilità, al momento del ritrovamento da parte dei carabinieri, un magistrato decise per la custodia cautelare in carcere, nonostante lo spirito della legge sia quello di favorire misure cautelari non detentive. Una settimana prima di uccidersi aveva inviato una lettera al fratello - resa pubblica dall’associazione Antigone - dove scriveva "Io qui sto impazzendo", "non ce la faccio più", dice di essere stato lasciato "dall’unica ragazza che amavo veramente", e aggiunge "sono stanco di mangiare, di fare qualunque cosa, scappare, basta". Appena informato del suicidio, il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha immediatamente chiesto a Santi Consolo, capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, di fare luce sul drammatico evento. Gli uffici di via Arenula hanno chiesto al Dap, in particolare, "accurati accertamenti ispettivi al fine di verificare la compiuta attuazione della Direttiva sulla prevenzione dei suicidi emanata dal Guardasigilli il 3 maggio 2016". L’aspetto da chiarire, però, riguarda il discorso della compatibilità o meno con il carcere. Il presidente di Antigone, Patrizio Gonnella, e Stefano Cecconi della campagna Stop Opg hanno dichiarato di essere non solo addolorati, ma anche indignati perché "non si cura mettendo le persone dietro le sbarre, ma affidando le persone, e ancor più i ragazzi, al sostegno medico, sociale, psicologico dei servizi del territorio. Se un ragazzo va via da una Rems non si deve parlare di evasione. Non si butta una vita in galera!". Un fatto questo che avviene a pochi giorni dalla chiusura definitiva degli Ospedali psichiatrici giudiziari e che dimostra quanto siano motivate le preoccupazioni - come già riportato da Il Dubbio nei giorni scorsi - di chi mette in discussione le misure di sicurezza. A ribadirlo è nuovamente Michele Capano dei Radicali Italiani: "Si muore in carcere, perché si "evade" da una misura di sicurezza che non dovrebbe esistere. La battaglia, sacrosanta, contro gli Opg, che dopo la loro chiusura ha spostato l’attenzione su quanto avviene nelle Rems, deve ora lasciare il posto a un più deciso intervento di riforma, che abroghi le misure di sicurezza. Sono queste infatti lo strumento attraverso il quale il malato psichiatrico continua a essere oggetto di segregazione ed esclusione sociale". Nel frattempo, Stefano Anastasia, il garante dei detenuti del Lazio, lancia un duro atto di accusa: "Questo ragazzo era scappato dalla Rems e a lui erano contestati soltanto reati di resistenza a pubblico ufficiale e lesioni. Reati tutto sommato irrilevanti e legati al fatto che era andato via dalla Rems. E allora mi chiedo, perché non è stato portato lì? Perché si trovava in carcere? Questo suicidio si poteva evitare". Il problema dei detenuti psichiatrici è di elevata importanza. A intraprendere una battaglia solitaria in parlamento è la senatrice Maria Mussini, vicepresidente del gruppo misto e membro della commissione giustizia. Oggi al Senato riprende la discussione sull’ordinamento penitenziario e verrà discussa anche l’indicazione della senatrice che riguarda la destinazione alle Rems, prioritariamente delle persone per le quali sia stato accertato in via definitiva lo stato di infermità al momento della commissione del fatto, da cui derivi il giudizio di pericolosità sociale, nonché dei soggetti per i quali l’infermità di mente sia sopravvenuta durante l’esecuzione della pena, degli imputati sottoposti a misure di sicurezza provvisoria e di tutti coloro per i quali occorra accertare le relative condizioni psichiche, qualora le sezioni degli istituti penitenziari alle quali sono destinati non siano idonee, di fatto, a garantire i trattamenti terapeutico riabilitativi. "La tragedia avvenuta nel carcere di Regina Coeli - dichiara al Dubbio la senatrice Mussini - evidenzia in tutta la sua crudezza la complessità del percorso di superamento degli Ospedali psichiatrici giudiziari: il principio della Legge Marino della cura innanzitutto potrà realizzarsi solo se e quando si terrà conto della varietà delle situazioni fatte di persone in carne e ossa, con profili clinici differenti ed esigenze specifiche, solo se e quando si stabilirà di investire nella cura della salute degli internati, ma anche dei detenuti. Questo episodio dimostra una volta di più come le carceri non siano attrezzate adeguatamente per la tutela della salute, né tantomeno strutturate per garantire i trattamenti terapeutico riabilitativi necessari a chi resta escluso dalle Rems. Grazie anche al mio interessamento la legge delega sulla revisione dell’ordinamento penitenziario contiene espressamente questa indicazione, cioè il potenziamento della salute mentale in carcere, il cui scopo è proprio quello di evitare che episodi simili si ripetano". Sono centinaia i detenuti con problemi psichiatrici che vivono all’interno degli istituti penitenziari. Potenzialmente i suicidi potrebbero essere molto di più. In molti casi, grazie all’intervento degli agenti penitenziari, in extremis, si sono evitate ulteriori tragedie. L’ultimo caso risale a sabato sera: un ragazzo detenuto al carcere minorile di Potenza ha tentato di togliersi la vita facendo un cappio con il lenzuolo legato alle grate di un bagno. Anche lui soffre di problemi psichiatrici. Talora è il carcere stesso con i suoi ritmi ossessivi e con le sue abitudini a creare vere e proprie turbe psicopatologiche che in cella acquisiscono una strutturazione solida e difficilmente curabile. Il suicidio in carcere è il gesto finale Roma: Valerio era malato fin dall’infanzia di Donatella Coccoli Left, 28 febbraio 2017 L’avvocato: "Era malato dall’infanzia, com’è possibile che sia finito in cella?". Una notizia che ormai non è più notizia nella stampa mainstream. Oggi solo due colonne nella cronaca locale di Repubblica, qualche riga sui siti, nulla più. L’ennesimo suicidio in carcere, stavolta a Regina Coeli, il 25 febbraio. Dall’inizio dell’anno sono 10 i detenuti che si sono tolti la vita. Un’agghiacciante escalation. Ma il ragazzo di 21 anni che si è impiccato con un lenzuolo nella casa circondariale della Capitale aveva una storia particolare. Aveva problemi conclamati di malattia mentale e veniva seguito dai servizi psichiatrici da quando aveva 10 anni. Valerio, questo il suo nome, il 16 febbraio aveva scritto una lettera al fratello in cui raccontava il dramma che stava vivendo. Parole commoventi, drammatiche, scolpite in un italiano incerto su quel foglio che la madre ha consegnato all’associazione Antigone che l’ha resa pubblica. Com’è possibile che un ragazzo con evidenti problemi di malattia psichica finisca in una casa circondariale e non venga affidato invece a un dipartimento di salute mentale di una Asl oppure a una Rems, le residenze per l’esecuzione della misura di sicurezza che hanno sostituito gli Opg? La "sintesi fredda di un episodio gravissimo": così ieri Mauro Palma, garante nazionale dei detenuti ha raccontato la vicenda di Valerio in un post su Facebook. "Collocazione in Rems (Ceccano) - scrive - nel settembre dell’anno scorso. Due episodi di allontanamento dalla Rems e irreperibilità; ritrovamento da parte dei Carabinieri. Il magistrato stabilisce l’aggravamento della misura e, quindi, la custodia cautelare in carcere: siamo alla vigilia di Natale. Solo nove giorni fa assegnazione a un’altra Rems (Subiaco), ma questa dichiara che non ha posto. Resta in carcere sotto "grande sorveglianza". Ieri si è ucciso. Una storia di rinvii, di incapacità a gestire la difficoltà. Una vita finita. A ventidue anni". Sulla morte di Valerio il pm Pisani ha aperto le indagini. "Ma bisogna andare oltre il fatto di cronaca, occorre dare un senso alla vicenda per cercar di capire come sia potuto accadere, perché non sia stato curato e invece sia finito in carcere" dice Simona Filippi, difensore civico di Antigone e legale della madre di Valerio. "Il ragazzo aveva una storia documentata sui suoi problemi mentali, gravi, e che si portava dietro dall’infanzia. Dinanzi a questo quadro il carcere deve mettere in atto una serie di azioni: il servizio nuovi giunti, le Rems, la sorveglianza a vista", dice l’avvocata. "Come è possibile che alla luce di tutto quello che è stato fatto, anche in tema di sensibilizzazione su questi temi, con il superamento degli Opg, chi ha una storia come la sua finisca in carcere dove può accadere anche quello che è accaduto a lui? Ci sono stati due passaggi, dal punto di vista giuridico - continua l’avvocata Filippi - a dicembre 2016 per oltraggio a un pubblico ufficiale finisce a Regina Coeli con un provvedimento di un giudice che applica la misura cautelare in carcere. Dopo di che, il fascicolo passa ad un altro giudice il quale revoca la misura cautelare in carcere e applica la misura di sicurezza all’interno di una Rems. Ma nella Rems non c’è posto e il ragazzo - e questo è il punto - rimane a Regina Coeli". Valerio, racconta l’avvocata Filippi, ha vissuto quel momento come "una regressione nel suo percorso che con grande sofferenza sua e della famiglia stava portando avanti". Stop Opg che proprio qualche giorno fa ricordava la chiusura definitiva degli ex manicomi giudiziari, interviene a proposito della vicenda e chiede di "rafforzare e riqualificare i programmi di tutela della salute mentale in carcere da parte delle Asl, mentre il Dap deve istituire, senza ulteriori ritardi, le sezioni di Osservazione psichiatrica e le previste articolazioni psichiatriche, spazi adeguati per le attività di cura e riabilitazione". Il caso di Valerio dimostra ancora una volta come occorra potenziare in generale una ricerca psichiatrica che consideri la malattia di mente una malattia da curare e non uno stigma, un destino né tantomeno una colpa. Quello che conta è la cura e non le mura, sosteneva a Left due anni fa lo psichiatra Massimo Fagioli nell’ambito di una inchiesta sulla chiusura degli Opg. Non basta abolire gli ospedali psichiatrici giudiziari se poi "c’è l’eliminazione di qualsiasi possibilità e idea di fare una ricerca sulla mente umana, sulla malattia mentale", diceva. E infine, come auspicava sempre nell’inchiesta di Left il giudice Francesco Maisto, presidente del Tribunale di sorveglianza di Bologna, in questi casi in cui sono protagonisti i cosiddetti "folli rei" tra psichiatria e magistratura occorrerebbe "una collaborazione virtuosa in modo che nessuno resti nel proprio orticello". Parole e azioni comuni tra magistrati, psichiatri e operatori sociali. Bologna: morire di carcere di Francesco Errani (Consigliere comunale Pd) francescoerrani.it, 28 febbraio 2017 Sono numerosi i detenuti che tentano il suicidio e che vengono salvati dagli agenti di polizia penitenziaria o dai compagni di cella, senza che la cosa faccia troppo notizia. Venerdì nel carcere bolognese della Dozza un detenuto cinquantenne che si trovava nel reparto infermeria "si è tolto la vita, impiccandosi all’interno della sua cella" ed è finito nelle statistiche di un dramma, al quale siamo purtroppo ormai abituati. Sono novecento trentasette le persone che, dal 2000, si sono suicidate in carcere in Italia. Questa morte pesa come una piuma nella coscienza collettiva e non basta certo a convincere i benpensanti che uno stato democratico ha il dovere di garantire condizioni di vita dignitose anche in un luogo di restrizione. Il carcere non dovrebbe infatti punire, ma rieducare. Per cercare di capire, non riesco a non prendere prima di tutto in considerazione la domanda: lasciar morire non è forse un modo, anche se non voluto e sicuramente più nascosto, di dare la morte? La Costituzione della Repubblica Italiana afferma il principio che la pena ha fini di recupero e di reinserimento sociale. La situazione del sistema carcerario italiano, di fronte al sovraffollamento e al calo di risorse, è drammatico. All’interno della Casa Circondariale di Bologna, la capienza di 489 detenuti è abbondantemente superata dalle 760 presenze. Il personale di Polizia Penitenziaria è sempre meno (350 quando dovrebbero essere 550) e gli educatori in servizio sono solo 6 (invece che 11). Il carcere non è extraterritoriale, è parte della città di Bologna. Il Comune di Bologna, durante lo scorso mandato, ha riattivato lo Sportello del cittadino dentro il carcere, ripristinato la figura dell’assistente sociale che garantisce il collegamento "tra dentro e fuori", riattivato il Comitato Locale per l’esecuzione penale. L’esperienza del carcere deve proporsi come un tempo di riprogettazione di vita. Ci sono esperienze che confortano questa prospettiva: l’esperienza musicale del maestro Napolitano; il laboratorio sartoriale e quello per il trattamento di materiali elettronici; l’officina meccanica; la serra per la produzione agricola e oggi il nuovo caseificio, il progetto "non solo mimosa". Serve un impegno attivo delle istituzioni per ridurre il sovraffollamento e per assumere personale, e occorre che il carcere possa essere vissuto come dovere, ma anche come diritto di pagare per un’azione ingiusta commessa nei confronti della società, di cui si è però legittimamente ancora parte, e c’è la necessità che anche questa esperienza drammatica lasci intravedere una prospettiva, un futuro possibile. Messina: ad un soffio dalla chiusura dell’ultimo Opg, chi la ostacola? stopopg.it, 28 febbraio 2017 Nonostante gli impegni assunti pubblicamente dai responsabili della Regione Sicilia e delle Aziende sanitarie competenti, durante la visita di Stop Opg il 10 e 11 febbraio scorsi, undici persone sono ancora in attesa di essere dimesse dall’ex Opg Barcellona Pozzo di Gotto. Sette persone sono già state dichiarate dimissibili dai magistrati di sorveglianza e in queste ore si sta completando il loro trasferimento nei servizi di salute mentale delle Aziende Sanitarie (che ribadiamo: devono essere rafforzati): 5 a Messina che si è resa disponibile ad accogliere pazienti di altri territori, 1 ad Agrigento, 1 a Mantova. Per altre quattro persone con misure di sicurezza provvisoria la magistratura di cognizione non avrebbe ancora deciso: si tratta di un ritardo inaccettabile. Chiediamo al Governo - Ministero della Salute e Ministero della Giustizia - di intervenire immediatamente per sbloccare la situazione, che riguarda davvero pochissime persone se pensiamo che in questi mesi sono stati dimessi centinaia di internati dagli ex Opg italiani e dalle stesse Rems, come segnala l’ultima Relazione del commissario Corleone. In ogni caso stiamo valutando le azioni di tutela anche legale delle persone internate nell’Opg. Per il Comitato nazionale Stop Opg: Stefano Cecconi, Giovanna Del Giudice, Maria Grazia Giannichedda, don Giuseppe Insana, Elvira Morana Messina: dove andranno i detenuti dell’Opg di Barcellona? messinaoggi.eu, 28 febbraio 2017 Sindacati sul piede di guerra dopo la notizia del possibile ricovero presso le Cta messinesi. "Non sono adeguate". Scoppia la nuova grana degli ex ricoverati dell’Opg di Barcellona Pozzo di Gotti che l’Asp di Messina intenderebbe dislocare nei centri di Messina. Sull’argomento c’è da registrare la dura presa di posizione dei sindacati che chiedono anche l’intervento del prefetto di Messina. "Le scriventi organizzazioni sindacali - si legge in una nota inviata al direttore generale dell’Asp di Messina e per conoscenza all’assessore regionale alla Salute e al Prefetto di Messina - hanno appreso per vie informali che codesta Amministrazione intenderebbe ricoverare gli ultimi 12 pazienti dell’ex Opg di Barcellona PG presso le 4 Cta pubbliche della provincia di Messina". Le Cta (Comunità terapeutiche assistenziali), sono strutture sanitarie che ospitano soggetti con disturbi psichici. "Premesso che già alcuni pazienti dell’ex Opg sono già stati ricoverati nelle Cta dell’Azienda - prosegue la nota a firma di Pippo Calapai e Mario Salvatore Macrì (Uil-Pfl) e Pietro Pata (Anaao-Assomed), le scriventi organizzazioni ritengono che ulteriori ricoveri ad alto impatto assistenziale, necessitano di uno specifico modello organizzativo non riscontrabile ad oggi nelle Cta. Si chiede, pertanto un’urgente convocazione al fine di definire un percorso assistenziale che tenga conto delle necessità degli operatori sanitari coinvolti e dei pazienti, quest’ultimi difficilmente gestibili in strutture aperte come le Cta, nelle quali non vi sono adeguati sistemi di sorveglianza previste nelle Rems (strutture residenziali assistenziali) che potrebbero mettere a repentaglio l’integrità fisica di operatori o di altri pazienti ricoverati nella stesa struttura. E nell’attesa della convocazione si chiede di soprassedere da qualsiasi iniziativa in merito". Udine: la Fns-Cisl lancia l’allarme "troppi detenuti con problemi psichiatrici" ilfriuli.it, 28 febbraio 2017 Nella casa circondariale di via Spalato sono 132 i carcerati a fronte dei 93 previsti. La denuncia del sindacato. Martedì scorso 21 febbraio, nel carcere di Udine, un detenuto nordafricano, dopo aver effettuato un colloquio con lo psicologo, al rientro in cella ha aggredito il personale di Polizia Penitenziaria, restava ferito un Sovrintendente che veniva medicato all’ospedale. I fatti - riporta una nota della Fns-Cisl del Fvg - sono avvenuti all’interno di un reparto dove sono ristretti numerosi detenuti affetti da patologie psichiatriche. Quest’ultimo episodio si aggiunge a quello di alcune settimane fa a Trieste, sempre con l’aggressione del personale da parte di un detenuto con patologie psichiatriche. Tali eventi si sono intensificati - denuncia il sindacato - da quando sono stati chiusi gli ospedali psichiatrici giudiziari senza essere sostituiti da strutture idonee, riversando sui carceri quanto uscito dai manicomi, essendo le Residenze territoriali insufficienti per numero di posti. La segreteria regionale Fns-Cisl esprime gli auguri di pronta guarigione al collega ferito e la piena solidarietà con chi opera quotidianamente in condizioni difficili e con scarsi mezzi a tutela della sicurezza del personale. Nel carcere friulano sono presenti 132 detenuti a fronte dei 93 previsti, il personale di Polizia penitenziaria presente conta 117 unità contro i 125 previsti e preoccupa l’età sempre più avanzata del personale. La struttura parzialmente ristrutturata ha bisogno di rafforzare il sistema di telecamere per la sorveglianza interna - conclude la mota -, anche se la presenza di un reparto con detenuti affetti da patologie mentali rende difficile la realizzazione di quelle attività trattamentali cui i detenuti hanno diritto e la piena realizzazione di quella modalità custodiale a "porte aperte" che si sta faticosamente imponendo come standard a livello nazionale che consentirebbe un risparmio di personale e l’alleggerimento dei carichi di lavoro. Parma: Via Burla è una città nella città, "no" all’aumento dei detenuti di Paolo Scarpa (Candidato alle Primarie Pd) parmapress24.it, 28 febbraio 2017 A Parma esiste una città nella città che troppe volte tendiamo a ignorare: il carcere di via Burla. È il penitenziario di massima sicurezza più importante dell’Emilia Romagna e ospita 580 detenuti, dei quali molti sottoposti al regime previsto per i reati di mafia. Non molti parmigiani sanno che nel carcere di Parma è in corso la costruzione di un nuovo padiglione destinato ad accogliere altri 200 detenuti. Qualche giorno fa ho incontrato alcuni rappresentanti sindacali della polizia penitenziaria che mi hanno spiegato come l’aumento della popolazione di detenuti è destinato ad aggravare le difficoltà che già affliggono il personale di sorveglianza. Una cronica carenza di organico determina ricadute negative tanto sulla qualità del lavoro degli agenti e sui loro diritti di lavoratori, quanto sull’efficacia del mandato. La lunga e importante cultura dell’inserimento sociale e lavorativo dei detenuti, che da oltre 20 anni trovano accoglienza nel tessuto produttivo rappresentato dalla cooperazione sociale, è un patrimonio comune da custodire e valorizzare. Parma deve essere vicina agli agenti della penitenziaria che svolgono un lavoro imprescindibile. La presenza di un carcere di massima sicurezza, inoltre, richiede uno sforzo maggiore in termini di sicurezza esterna. Dobbiamo, di concerto con i nostri parlamentari, sollecitare il Governo affinché garantisca maggiore presidio da parte delle forze dell’ordine. Milano: Cristina e la Casa per battere la violenza "l’arte di ascoltare imparata dalla nonna" di Paolo Di Stefano Corriere della Sera, 28 febbraio 2017 Cristina Carelli, coordinatrice della Casa di accoglienza delle donne maltrattate, a Milano, nella sede di Porta Romana. Ha studiato Matematica, poi ha scelto le scienze dell’educazione. Prima ha lavorato con i bambini disabili nelle scuole, poi in comunità con le donne che hanno subito violenze. La Casa è il primo centro antiviolenza in Italia. "C’è stato un fatto doloroso che mi ha messo in contatto con il dolore delle persone. Non mi va di raccontarlo, avevo 26 anni e sono cambiata". Cristina Carelli ricorda quella svolta con un sorriso malinconico che qua e là si accende di luce. "Ho cominciato a studiare matematica, ho fatto tanti esami, ero una ragazza con la testa tra le nuvole, ma sin da piccola sono sempre stata l’avvocata delle cause perse, era quella la mia prima aspirazione". Dall’astrazione della matematica al lavoro nel sociale il passo è lungo ma tutt’altro che impossibile. Infatti Cristina lo compie presto e di slancio: "Mi sono messa a studiare scienze dell’educazione per affiancare le persone nella quotidianità: ho iniziato dai minori disabili, con difficoltà di linguaggio o autistici". Per un decennio — erano gli anni Novanta — lavora in comunità e collabora ai progetti di integrazione delle scuole per l’infanzia: "I bambini mi hanno insegnato a creare dei ponti tra persone apparentemente separate da enormi barriere. Mi ricordo che in una classe c’era un bambino che muoveva solo le braccia e non riusciva a parlare ma aveva una vitalità eccezionale: con i suoi compagni, che avevano tre anni come lui, siamo riusciti a inventare delle incredibili strategie di gioco adagiandolo su un tappeto per il divertimento suo e degli altri". Oggi Cristina coordina la Casa di Accoglienza delle Donne Maltrattate, un luogo storico di Milano nato nel 1986, primo centro antiviolenza in Italia. La nuova sede, in Porta Romana, si affaccia sul cortile interno di un vecchio palazzo ben tenuto: Le parole non bastano, recita un manifesto appeso su una parete. Un lavoro politico, lo chiama, intendendo per politica l’impegno a cambiare la società attraverso le singole storie che incontra: "Non ho mai fatto pace con la violenza e credo che ogni percorso verso la libertà rimetta in equilibrio la terra". Un papà dirigente d’azienda, una madre casalinga e "femminista ante litteram"; ma soprattutto è stata la nonna materna, Lucia, la sua guida morale: "Era molto povera, aveva fatto la quinta elementare, ha lavorato a Crema come sarta, riconosceva la poesia di un fiorellino nel cemento e mi portava con sé per andare a vederlo. Quando studiavo al liceo, mi chiedeva di parlarle di letteratura e di filosofia... Era una donna curiosa, giusta, accogliente, capace di ascoltare le confidenze delle nipotine: mie e di mia sorella". La vita di Cristina Carelli, che si definisce femminista della seconda ondata e rimane fedele al pensiero della differenza di genere, è per le donne: "Lavorare ai diritti e al rispetto, che non sono ancora riconosciuti, quando si parla di violenza sulle donne, se ne parla con troppe ipocrisie maschili". Per quattro anni ha affiancato nella quotidianità le madri ospitate nelle case a indirizzo segreto (oggi gli appartamenti della Casa sono 7): "Facevo assistenza alle donne con bambini, che spesso, se hanno subito violenza, non trovano abbastanza energia nel gestire la vita quotidiana, sono troppo concentrate sulla protezione fisica di sé e dei figli e dimenticano la cura, le relazioni eccetera. Erano giovani maltrattate in famiglia, dal padre, da un fratello o da un partner. È stata l’esperienza più dura, perché tendevo a giudicare le madri, ritenendole in qualche modo responsabili della sofferenza dei figli. Solo dopo ho capito che dovevo tenermi lontana dal giudizio". Accoglienza è una parola chiave. Cristina racconta che le ragazze, in genere, arrivano da sole o accompagnate da un’insegnante: "Con loro spesso diventi una specie di figura materna sostitutiva: le loro madri sono coinvolte nel silenzio, sono minacciate e temono per la vita propria e delle persone intorno. Ma il dato che emerge sempre più è che sono tanti i ragazzini violenti, dunque è importante fare un lavoro di prevenzione nelle scuole discutendo delle relazioni, dei modelli, degli stereotipi e della doppia morale diffusa: incontrando i ragazzi delle prime superiori e cercando di metterli in gioco, capisci però che sanno fare passaggi velocissimi". Undici o dodici ore di lavoro al giorno. Cristina comincia alle nove del mattino e chiude in tarda serata con una lunga camminata per attraversare la città fino a casa. Dove ci sono i libri da leggere per piacere (ultimo il diario di Doris Lessing), la poesia (leggere, ma anche scrivere versi: "Una forma di libertà e di pulizia"). E il giorno dopo, di nuovo: le urgenze, le scuole, i progetti, la gestione della Casa con 11 dipendenti e 50 volontarie. Ci sono le telefonate a cui rispondere: "Sono tante le giovani che chiamano per chiedere se quello che stanno vivendo è violenza…". Il momento più difficile, spiega Cristina, in genere è il primo impatto: "Le donne che arrivano qui spesso non parlano, sono diffidenti, aggressive, hanno vergogna, temono di essere etichettate, sono preoccupate di proteggere le loro storie. Poi, quando si sentono più rassicurate e si è stabilito una specie di patto di alleanza, valutando insieme le possibili vie d’uscita e le soluzioni di sicurezza, la loro emotività si esprime nel pianto o nei malesseri psicosomatici: lo stomaco, gli arti, il mal di testa… Il corpo è lo specchio delle loro emozioni". Un lavoro che potrebbe fare anche un uomo? "Impossibile, neanche un uomo molto empatico e sensibile potrebbe mai: c’è una dimensione di genere che apre le porte in entrambe le direzioni. Ho incontrato uomini eccezionali, capaci di ascolto, ma più sono sensibili e più ammettono che non sarebbero in grado di capire fino in fondo una donna maltrattata. Ho diversi amici maschi, tre in particolare, con cui condividiamo la visione della vita, sono generosi e disponibili, con loro parlo tanto del mio lavoro, e si va sempre a finire lì...". Sorride di sé più che dei suoi amici che devono, dice, "sorbirsi le mie fissazioni". Non chiedetele della famiglia, perché la famiglia di Cristina è la Casa, dove "la vita è molto condivisa". Sente la continuità con la sua famiglia d’origine, ma si dice molto critica sul familismo italiano: "Odio la retorica dei rapporti familiari, l’iperprotettività nei confronti dei propri figli e il menefreghismo rispetto agli altri: è uno scandalo, uno scandalo da cui nasce anche la violenza. Io non riesco a essere spettatrice, anche se a volte, di fronte a certe situazioni mi chiedo: chissà come ha fatto questa donna a resistere, a uscirne e a riprendersi la vita...". Prato: una ludoteca per i minori in visita ai genitori detenuti di Patrizia Scotto di Santolo stamptoscana.it, 28 febbraio 2017 Inaugurata a Prato la stanza ludoteca per i colloqui dei minori in visita al genitore nel carcere della Dogaia della città toscana. Il Direttore della casa circondariale di Prato Vincenzo Tedeschi, ha ringraziato i presenti in sala: "la detenzione non può essere intesa come lo sconto di una pena, ma un recupero attraverso gli affetti della famiglia che migliorano la qualità della vita", ha detto. "Un progetto, quello delle stanze dedicate, dice la Presidente del Soroptimist Club di Prato, Anna Tofani, "fortemente voluto dalle socie del club service della città, che hanno sposato il progetto nazionale del biennio 2015-17,per l attenzione ai diritti umani e alle problematiche delle fasce deboli, in questo caso i minori, per ridurne i disagi e la sofferenza provocata dai genitori reclusi. Un modo per incidere sulla tutela della genitorialità, rimettendo mano ad una stanza che era stata realizzata più di 15 anni fa ma che mostrava i segni del tempo, e che grazie alla collaborazione delle soroptimiste l’avvocato Elena Augustin e l’architetto Mariella Corsi, ha visto il compimento, con la messa in opera dei disegni realizzati con le tempere e vernici offerte gratuitamente dall’impresa Baldi". Gli autori che hanno decorato le pareti sono tre detenuti Emanuele, Dimitri e Zangh che emozionati hanno apertamente mostrato ai presenti in sala, la propria soddisfazione perché "abbiamo fatto questo bel lavoro per i bambini che potranno giocare contenti". Parole di apprezzamento all’iniziativa sono state espresse dalla Vicepresidente nazionale e socia del Club Soroptimist di Prato, l’avvocatessa Anna Edy Pacini, che ne ha sottolineato l’importanza rifacendosi alla Carta Italiana dei Diritti dei Figli dei Detenuti che arriva dall’Onu, "La Carta riconfermata lo scorso 6 settembre a Roma, prescrive un sistema di prassi a tutela dell’interesse superiore del minore, al quale deve essere garantito il mantenimento del rapporto con il genitore detenuto, in un legame affettivo continuativo". I numeri dicono che in Europa i bambini con genitori detenuti sono 2,5 milioni, decine di milioni nel mondo, in Italia circa 100 mila bambini varcano i cancelli di un carcere -"sono i figli dei detenuti", conclude l’avvocatessa Pacini, - "costretti a vivere fin da piccoli l esperienza dei colloqui, delle perquisizioni, delle grate, e del rimbombo delle pesanti porte blindate". Ma il carcere pur essendo un luogo che i bambini avvertono minaccioso e potenzialmente estraneo, è pur sempre un luogo che devono frequentare per mantenere vivo il legame con il proprio genitore ma anche per la loro crescita e sensibilità psico-emotiva. Infatti le relazioni affettive figlio-genitore non devono essere legate al reato commesso ed alla rispettiva colpa, perché anche se in carcere, il padre o la madre continuano ad amare il proprio figlio e viceversa. In virtù di questo principio il Soroptimist International club di Prato ha inteso creare un ambiente più idoneo dei luoghi comuni destinati ai colloqui degli adulti in modo da rendere meno traumatizzante questi momenti per il minore, e di conseguenza la sua visita in carcere può diventare anche un incontro con la legalità se passa attraverso la consapevolezza del rispetto della persona e dei suoi diritti. Milano: Papa Francesco in città il 25 marzo, saluterà i detenuti a San Vittore Il Sole 24 Ore, 28 febbraio 2017 "Non sarà una visita blindata", quella di Papa Francesco a Milano, il prossimo 25 marzo. Lo ha assicurato Luciana Lamorgese, prefetto di Milano. "La visita del Papa è l’occasione per confermare ancora di più la città come luogo di incontro di popoli e culture", ha detto l’arcivescovo di Milano Angelo Scola, nella conferenza stampa per aggiornare su quanto si sta organizzando a Milano e Monza per la visita di Bergoglio il 25 marzo. Per l’arrivo del papa a Milano, il cardinale ha composto una preghiera e sono stati realizzati degli spot, uno dei quali con Giacomo del trio Aldo, Giovanni e Giacomo, per dargli il benvenuto in città. "C’è grande attesa e stiamo facendo un grande lavoro di squadra tra tutte le istituzioni", ha aggiunto il presidente della Regione Roberto Maroni. "Il Papa vuole incontrare la realtà poliforme di Milano - ha detto il sindaco Giuseppe Sala - e noi dobbiamo metterci al servizio del Santo Padre perché la visita funzioni al meglio". Papa Francesco arriverà alle 8 all’aeroporto di Linate e lascerà alle 18.15 circa lo stadio di San Siro dove sarà accolto da 80mila persone e dai cresimandi, accompagnati dalle loro famiglie. Nella mattinata, alle 11, il Papa sarà al Duomo di Milano per l’Angelus. Lì incontrerà i sacerdoti. L’evento centrale della visita lombarda del Pontefice sarà l’Eucaristia al parco di Monza (area ex Ippodromo), dove, ha spiegato Luciana Lamorgese, sono attese 600mila persone. Imponente la macchina organizzativa. È stato calcolato che la visita costerà 3,25 milioni di euro. Tra i desideri del Papa durante la sua visita a Milano c’è quello di salutare i detenuti di San Vittore uno per uno. "Ed è un desiderio che sarà esaudito", ha detto oggi il portavoce della curia milanese nella conferenza stampa di presentazione della visita di Bergoglio a Milano e Monza il 25 marzo. Ci sarà un utilizzo imponente di volontari (3.700 messi a disposizione dalla curia, 1.300 dalla protezione civile per Monza e 1.400 per Milano), 2.500 parcheggi per gli autobus, 20.000 parcheggi per biciclette, 7 entrate al parco di Monza regolate da metal detector. Brindisi: "Cineforum Ristretto", film su tematiche sociali per i detenuti brindisireport.it, 28 febbraio 2017 Ha preso il via in questi giorni il "Cineforum Ristretto", organizzato dal Csv Poiesis, in collaborazione con un gruppo di associazioni locali, presso la Casa Circondariale di Brindisi. L’attività, coordinata dalla delegazione "Volontariato e Giustizia" del Csv, permetterà ad un gruppo di quindici detenuti di visionare film su tematiche "importanti" quali la condivisione delle diversità, la libertà, l’amicizia, la legalità ed il rispetto per le donne. "Il progetto del Cineforum Ristretto - afferma la presidente Isabella Lettori - è scaturito dalla necessità di attivare un canale di comunicazione tra i detenuti e la società civile il cinema inteso come strumento di rieducazione e risocializzazione, nel percorso di riabilitazione della vita carceraria". Oltre al Csv Poiesis sono sei le associazioni coinvolte nel progetto: Il Segno Mediterraneo, Aiace, Club Unesco Brindisi, Libera Brindisi, Auser Brindisi e Cabiria Mesagne, per un totale di 16 volontari impegnati nelle attività. Gli incontri, che dureranno due ore e si svolgeranno il lunedì ed il mercoledì fino al prossimo 28 giugno, prevedono una discussione finale. Catania: Premio Gianfranco Troina, la prova scritta che unisce liceali e giovani detenuti ennapress.it, 28 febbraio 2017 Venerdì 3 marzo presso l’Aula 1 e 2 del Monastero dei Benedettini di Catania si terrà la settima edizione del premio "Gianfranco Troina" promosso dall’associazione "Gianfranco Troina" all’interno del progetto "Vincere L’Indifferenza". Il concorso letterario che consiste nello svolgimento di una prova scritta vede coinvolti studenti di penultimo e ultimo anno di scuola media secondaria superiore di Catania, Acireale, Giarre e Siracusa oltre i giovani detenuti all’Ipm "Bicocca" di Catania. I ragazzi ristretti nell’Ipm che parteciperanno potranno avvalersi della giornata di martedì 7 marzo per sostenere lo scritto, mentre i liceali che si contenderanno l’ambito premio proverranno dai seguenti istituti di scuola superiore: "Cutelli", "Galilei", "Principe Umberto ", Convitto "Cutelli", "Lombardo Radice", "Boggiolera" "Spedalieri", "Savoia" di Catania," Leonardo" di Giarre, "Michele Amari" di Giarre, "Einaudi" di Siracusa, " Fermi" di Paternò, "Rapisardi" di Paternò, "Gulli e Pennisi" di Acireale, "Archimede" di Acireale, "Secusio" di Caltagirone, "Concetto Marchesi" di Mascalucia. La commissione valutatrice sarà composta da rappresentanti del mondo accademico, giornalistico e della cultura del panorama siciliano. "Siamo molto soddisfatti - commenta la prof.ssa Eletta Perotto, docente e coordinatrice del progetto "Vincere l’Indifferenza" - di essere giunti alla settima edizione di questo importante premio che mira a far emergere il meglio dei nostri ragazzi, anche coloro che sono in stato di detenzione e che hanno sempre dimostrato grande valore e capacità meritorie. Il mio ringraziamento come ogni edizione - conclude Perotto - va al prof. Giancarlo Magnano, Prorettore e Presidente della Commissione di valutazione del premio "Gianfranco Troina" che ha sposato con vigore ed entusiasmo questa iniziativa fin dagli albori". Palermo: giovani detenuti attori del Teatro Pagliarelli di Salvatore Parlagreco siciliainformazioni.com, 28 febbraio 2017 L’Associazione Baccanica continua il percorso di formazione teatrale all’interno della sezione maschile del carcere Pagliarelli. Un condensato di energie e conoscenze, un lavoro costante quello con i detenuti, che produce un teatro vivo. Così, a contribuire alla crescita artistica dei futuri attori l’Associazione Baccanica invita l’attrice Patrizia D’Antona, il regista Claudio Collovà e Armando Punzo regista e fondatore della Compagnia della Fortezza nel carcere di Volterra. "Il percorso formativo che si vuole proporre - racconta la regista Daniela Mangiacavallo, ideatrice del Progetto Evasioni/ Teatro Legalità e Cultura - vuole essere uno scambio culturale, un’opportunità per i giovani attori di poter conoscere e apprendere diversi linguaggi teatrali, di abitare uno spazio che non è il loro, di avere la possibilità di conoscere maestri e attori, registi del teatro contemporaneo. Accrescere in loro l’interesse verso qualcosa che prima d’ora non pensavano mai di poter fare, il teatro in questo è straordinario". L’iniziativa è realizzata grazie ai finanziamenti della Regione Sicilia, Assessorato della Famiglia, delle Politiche Sociali e del Lavoro, nell’ambito del Programma A.P.Q. "Giovani Protagonisti di sé e del Territorio (CreAzioni Giovani), linea di intervento n. 3 Giovani e Legalità". Il 28 febbraio Patrizia D’Antona, regista e attrice palermitana, condurrà una sessione di laboratorio sulla voce. "Un incontro che permetterà di indagare nel proprio potenziale creativo, attraverso letture di prosa e poesia - spiega la regista - ogni testo sarà un pretesto, una maniera indiretta per indagare la forza delle parole e l’universalità delle emozioni umane. Insieme agli attori non professionisti lavoreremo con il respiro, la voce, il ritmo, esplorando lo spazio e le sue coordinate, improvvisando individualmente e in gruppo". Artista con una forte vocazione alla scrittura drammaturgica e una particolare attenzione ai temi mitologici di cui narra ed evoca vicende e storie. Ultimo dei suoi lavori "Ecuba Millevoci". Il 2 marzo Claudio Collovà, regista e autore teatrale condurrà una sessione di laboratorio sull’esistenza in scena. "Il teatro ha una funzione importantissima perché riduce le distanze tra le persone - dice Collovà - mette in contatto persone con anime diverse, crea una vera e propria compagnia\comunità con un solo obiettivo. Sono tutti valori fondamentali specie per persone che vivono in spazi di reclusione. Ho grande ammirazione per il lavoro di Daniela Mangiacavallo e per tutte le persone che si dedicano con tanta passione e professionalità alle evasioni: si tratta di navigare lontano ogni giorno dalla realtà durissima delle carceri verso una possibilità di visione altra. Sono molto felice di incontrare la sua compagnia e lavorare insieme. Non posso che raccontare loro la mia esperienza e mettermi a servizio di chi in questo momento vive situazioni di grande difficoltà. Il teatro non è la soluzione per tutto ovviamente, ma quando è fatto bene dona piccoli spazi di libertà di azione e di pensiero, in un luogo costruito per recludere e separare, regala un altrove che non può che fare bene. Spero che le Istituzioni un giorno ne capiscano il valore definitivamente". Il 28 e 29 aprile sarà la volta di Armando Punzo, celebre regista che dirige la Compagnia della Fortezza all’interno della Casa di Reclusione di Volterra, un pioniere in Italia. Portando in tournée i suoi detenuti attori ha vinto ben due premi Ubu, gli Oscar del teatro. "Quando mi avvicinai 22 anni fa al carcere l’ho fatto solo perché volevo fare del teatro vero, quello ufficiale non lo era più - spiega Punzo - io non penso al teatro come terapia, quello è un effetto collaterale. E questo è stato il segreto, fare del teatro senza pensare al carcere, ha fatto in modo di liberare gli uomini dal carcere. Puntare sull’arte, sulla riflessione su se stessi, mettere a confronto persone senza cultura con Beckett e Shakespeare, le arricchisce a tal punto da cambiare la vita". Per il 7 e 8 giugno previsto invece lo spettacolo finale. I giovani attori varcheranno, così, una soglia che gli permetterà di disinnescare quelle corazze, che in un carcere sono costretti a indossare, permettendo loro di ritornare ad essere uomini padroni di una personalità. Una legge sul fine vita, necessità improrogabile di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 28 febbraio 2017 Dopo il caso Englaro, la via crucis del dj Fabo ripropone drammaticamente lo stesso dilemma che angoscia le coscienze di tutti, sostenitori e detrattori del principio per cui in ultima istanza deve essere la persona a decidere sul destino del proprio corpo. Otto anni fa, quando l’Italia fu scossa dalla tragedia di Eluana Englaro, nell’opinione pubblica si diffuse la convinzione che fosse necessaria una legge sul "fine vita" e la politica, dopo aver dato di sé un pessimo spettacolo con contorno di risse e invettive in Parlamento, aveva promesso che in tempi rapidi avrebbe approvato una norma detta sul "testamento biologico" equilibrata ed efficace. Dopo otto anni la via crucis del dj Fabo ripropone drammaticamente lo stesso dilemma che angoscia le coscienze di tutti, sostenitori e detrattori del principio per cui in ultima istanza deve essere la persona a decidere sul destino del proprio corpo e sulla possibilità di mettere fine a sofferenze vissute come insopportabili. Ma nel frattempo la legge sul "fine vita" è sepolta sotto montagne di carte e di progetti, rimpallata tra Commissioni della Camera e del Senato, sostanzialmente accantonata, sospesa, umiliata, rimandata sine die. Solo che stavolta non è la solita lentezza burocratica della politica a frenare il corso di una legge che da otto anni attende invano di affiorare alla luce. È piuttosto il desiderio non detto di non scegliere, di evitare strappi, di non introdurre nell’agenda politica un tema controverso, incandescente, sovraccarico di troppe passioni. Politicamente "divisivo", come usa dire adesso. Né il caso dj Fabo e neanche quello di Eluana, bisogna sottolinearlo, rientrano nella casistica in discussione nei progetti riguardanti il "testamento biologico". Nel caso Englaro mancava l’elemento fondamentale del "testamento biologico", cioè una dichiarazione autenticata del soggetto che avrebbe dovuto decidere di morire quando la vita fosse diventata un’atroce tortura. Quest’ultimo caso si configura invece non come eutanasia in senso stretto, ma come una forma di "suicidio assistito" che non avrebbe spazio nemmeno nella versione più larga e "liberale" dei progetti attualmente in esame. Ma esiste nella realtà, nell’esperienza di tutti, nei drammi che si consumano in silenzio una gamma vastissima di condizioni che rendono necessaria una legge equilibrata, ragionevole, non oltranzista, non marcata da una logica estremista del "tutto o niente". C’è un’immensa "zona grigia", come è stata definita, che non ha bisogno di norme perentorie, non lascia allo Stato un superpotere normativo che va a intromettersi nella vita dei cittadini e delle famiglie in uno dei momenti più dolorosi e tristi della vita, ma che pure deve lasciare spazio alla libera determinazione degli individui che sentono la loro vita soffocare in una condizione straziante di sofferenza inutile, che degrada l’esistenza. Si è anche sostenuto che è meglio nessuna legge anziché una legge troppo invadente che non rispettasse la sfera di autonomia delle famiglie in collaborazione con i medici. Ma poi esiste un momento della decisione in cui deve essere chiaro chi ha l’ultima parola, sia pur entro limiti accettabili, senza che questo momento supremo possa essere deciso di volta in volta da un giudice investito di una funzione supplente rispetto a una legge che non c’è. Se dunque per una volta la politica si mostrasse adulta e seria, se venissero dismesse le bandiere delle guerre di religione e si arrivasse in tempi brevi a una legge sostenuta da una larga maggioranza trasversale, come è giusto che sia nelle grandi scelte eticamente sensibili, si potrebbe pensare che la politica sia capace di impegnarsi in qualcosa di nobile in ciò che resta della legislatura. I cittadini, di tutti gli orientamenti, apprezzerebbero questa prova di serietà. "Ma davvero anch’io sono straniero?". Storie di italiani senza cittadinanza di Carlo Lania Il Manifesto, 28 febbraio 2017 Ius soli. Nella scuola più multietnica di Roma, dove i ragazzi di seconda generazione non conoscono la parola "differenza". "Ma davvero siamo stranieri?". Yusra aveva solo 5 anni quando raccontò alla mamma che a scuola la maestra aveva detto che in classe c’erano dei bambini stranieri. "Ma anche noi lo siamo", fu la risposta della donna. "Noi? E da quando?" replicò Yusra costernata per la scoperta appena fatta. Per Basim, che avrà 18 anni nel 2026, il problema è invece decisamente più pratico. Qualche giorno fa ha raccontato in famiglia che i suoi compagni mangiano panini al prosciutto e forse è per questo che sono più grandi di lui. "Noi siamo musulmani e non mangiamo maiale" gli hanno spiegato i genitori. "Ma io parlo italiano", ha ribattuto lui con decisione. Per Yusra e Basim quello di "straniero" è un concetto difficile da capire. E come per loro, nati a Roma da genitori marocchini, anche per gli altri studenti della scuola Daniele Manin all’Esquilino, il quartiere più multietnico della capitale. Il 50% degli 800 bambini e ragazzi iscritti ha genitori immigrati e il 90% è nato a Roma. Insieme ai coetanei italiani nelle classi siedono bambini e bambine che hanno le loro radici in Marocco, Costa d’Avorio, Senegal, Colombia, Filippine, Perù, Cina, Egitto, Siria, Palestina, Madagascar, Afghanistan ma che se gli chiedi cosa si sentono ti rispondono tutti nel modo più semplice: italiani. Perché questo sono. Abituati a condividere intere giornate - la scuola è un tempo pieno dalle 8 alle 16 e comprende materna, elementari e medie - a mangiare, studiare e giocare insieme, non percepiscono neanche lontanamente le presunte differenze che invece fanno paura agli adulti. Sono abituati a scegliersi per affinità e interessi e non per paese di origine delle famiglie. Per questo "straniero" è una parola che per loro significa poco o niente. "Non chiamatemi straniero perché vuol dire estraneo e io non sono un estraneo", si è sfogato un giorno uno di loro. Sono circa un milione i bambini nati in Italia da genitori stranieri o arrivati da piccoli nel nostro Paese. Perfettamente integrati (ammesso che sia corretto parlare di integrazione per un italiano in Italia) vanno a scuola, tifano per le squadre delle città in cui vivono e delle quali parlano il dialetto. Italiani per tutti ma fantasmi per la legge che, ancorata al vecchio e ormai superato principio dello ius sanguinis (sei italiano se i tuoi genitori sono italiani) impedisce di riconoscerli per quello che sono, cittadini come tutti gli altri. "Fino a più di dieci anni fa le famiglie italiane portavano via i figli dalla scuola perché non volevano che stessero nella stessa classe con bambini di origine straniera. Eravamo diventati la classica scuola con solo bambini di origine straniera" spiega la preside del Manin, Valeria Ciai. Le cose cominciarono a cambiare nel 2003 quando il preside dell’epoca, Bruno Cacco, decise di dare alcuni locali della scuola in gestione ai genitori perché costituissero un’associazione. "L’idea fu: imparate a convivere tra genitori perché i vostri figli possano imparare da voi", spiega Ciai. Fu un successo e le iscrizioni cominciarono a crescere anche tra gli italiani. Oggi all’associazione sono iscritte 341 famiglie ma praticamente tutte partecipano alle attività pomeridiane che prevedono momenti di studio anche per gli adulti. "Ci sono mamme che insegnano la propria lingua di origine ad altri genitori, così ad esempio abbiamo corsi di arabo o spagnolo" racconta Francesca Valenza, una delle mamme che fa parte dell’associazione. "Dopo gli attentati di Parigi con gli studenti più grandi delle medie abbiamo fatto una riunione in palestra" ricorda Rita Arseni, una delle insegnanti. "I ragazzi si sono passati il microfono e hanno raccontato le loro esperienze, anche violenze subite dalle famiglie nei paesi di origine. Alcuni arrivano da zone in cui c’è la guerra e nessuno di loro ha giustificato i terroristi". "Io vengo dal Marocco, e quindi sono straniera", dice Fatiha Mansouri, un’altra mamma. "I miei figli però sono nati qui in Italia eppure sono costretti a sentirsi stranieri nel loro paese. Ecco, la cittadinanza ti toglie di dosso una parola che oggi suona come un insulto: straniero". "Le cose stanno cambiando in peggio e le campagne contro gli immigrati finiscono col riflettersi anche nella scuola" commenta preoccupata la preside Ciai. "Per la prima volta quest’anno abbiamo avuto una flessione nelle iscrizioni". "Il problema - conclude l’insegnante Rita Arseni - sorge quando i ragazzi escono da qui e vanno alle superiori dove l’idea di diversità si ripresenta proprio nel momento in cui affrontano l’adolescenza, il momento del riconoscimento del proprio sé. Noi gli diamo gli anticorpi per riuscire a superare anche queste difficoltà sperando che siano sufficienti". Migranti nel Mediterraneo chi ha paura delle Ong? di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 28 febbraio 2017 Accusa di Frontex e magistrati: "complici con gli scafisti". Il 3 febbraio scorso a La Valletta, a Malta, si è tenuto un vertice dei paesi Ue riguardante l’accordo con la Libia per fermare il flusso dei migranti che sfidano il mediterraneo centrale su barche di fortuna per arrivare, se va bene, sulle coste italiane. Si tratta dell’unica rotta rimasta praticabile dopo l’accordo dell’Ue con la Turchia di due anni fa che ha sigillato il corridoio balcanico. Tra i punti affrontati nella discussione maltese, è emersa anche l’esigenza di controllare l’attività e la natura delle Ong che soccorrono i migranti in difficoltà proprio al largo delle coste libiche. In realtà lo scorso anno l’agenzia europea Frontex aveva redatto un rapporto, reso pubblico dal Financial Times nel quale si adombravano dubbi, per non parlare di vere e proprie accuse, circa l’attività delle Ong. Secondo Frontex si poteva pensare ad accordi tra scafisti e organizza- zioni umanitarie, i mercanti di esseri umani infatti spingevano i barconi a partire proprio perché sapevano della presenza delle navi di soccorso. Il rapporto parlava infatti di "chiare istruzioni prima della partenza sulla direzione da seguire per raggiungere le imbarcazioni delle Ong, le cui navi spesso si spingerebbero vicino la costa libica come dei taxi". Inoltre, e la cosa sarebbe ancora più grave, i migranti sarebbero istruiti a non fornire le proprie generalità o i luoghi di provenienza per non tradire gli stessi scafisti durante la fase di debriefing. Organizzazioni non governative come Medici senza Frontiere avevano immediatamente risposto respingendo l’accusa al mittente parlando di se stesse come "non la causa, ma una risposta ad una crisi umanitaria" provocata proprio da Frontex che non riusciva a prevenire le morti di migranti in mare. Le Ong hanno messo in evidenza come le navi umanitarie operino fin sotto le acque libiche intercettando i barconi prima dell’Sos e dei naufragi che solo nel 2016 hanno visto affogare 5mila persone. La polemica ora però si arricchisce di un nuovo elemento, la Procura di Catania infatti ha aperto un’inchiesta, per il momento solo conoscitiva, sulle attività di soccorso in mare da parte di Ong nel Canale di Sicilia. La notizia è stata resa nota dal quotidiano la Repubblica a cui ha risposto il 17 febbraio il procuratore Carmelo Zuccaro. Il magistrato ha spiegato che si vuole capire "chi c’è dietro tutte queste organizzazioni proliferate negli ultimi anni, da dove vengono i soldi che hanno a disposizione e soprattutto che gioco fanno". Attualmente operano nel mediterraneo diverse organizzazioni, da Msf passando per Save the Children (quasi 3000 naufraghi tratti in salvo nel 2016), Sea Watch o il progetto Moas. Le ultime due sono proprio il tipo di orng sotto la lente d’ingrandimento della procura siciliana. Si tratta infatti di iniziative nate da privati cittadini che hanno impiegato capitali propri e che vivono grazie a donazioni come nel caso dei tedeschi di Sea Eye e Jugend Rettet o degli spagnoli di Proactiva Open Arms. Al momento comunque non esistono notizie di reati e l’autorità giudiziaria ha precisato che non vengono messe in discussione "organizzazioni di chiara fama" delle quali si manifesta apprezzamento per il "grande lavoro per l’impegno e la professionalità". L’indagine e il monitoraggio della Procura catanese è portato avanti "insieme a Frontex e alla Marina militare", un punto che lascia nell’aria il sospetto che forse non sarebbero tanto graditi eventuali testimoni sullo sviluppo dell’accordo con la Libia sul quale proprio le Ong hanno sollevato più di una critica. Il capo di Stato maggiore, generale Claudio Graziano, ha fatto intendere che i militari sono pronti a gestire la situazione. Le sue parole non lasciano dubbi: "A terra siamo impegnati con circa 300 uomini, è un messaggio di sostegno alla Libia, e quindi contribuisce alla stabilità del Paese. E, indirettamente, aiuta anche nella lotta contro il terrorismo. E poi c’è già un grosso impegno contro la rete degli scafisti, nel controllo delle vie di comunicazione per contrastare il traffico degli essere umani, controllare il flusso dei migranti, con le missioni Mare Sicuro e Sophia". L’Unione Europea: "detenere i migranti da rimpatriare" di Carlo Lania Il Manifesto, 28 febbraio 2017 Misure più severe anche per i profughi ai quali è stata respinta la richiesta di asilo. Di ufficiale non c’è ancora niente ma l’Unione europea si prepara a varare un nuovo giro di vite nei confronti dei migranti. Il presidente della Commissione Ue Jean Claude Juncker ha convocato per oggi pomeriggio una riunione straordinaria proprio per parlare delle nuove misure da inserire nelle raccomandazioni agli Stati membri previste per domani. E se le anticipazioni circolate ieri saranno confermate non verrà solo chiesto ai governi di privare della libertà i migranti irregolari in attesa che vengano rimpatriati nei rispettivi paesi di origine, ma sono previste anche forti limitazioni per i cosiddetti spostamenti secondari dei rifugiati, che verranno obbligati a restare nel paese di primo sbarco anche una volta presentata la richiesta di asilo. A quanto sembra niente da fare, invece, per quanto riguarda un’eventuale procedura di infrazione per quei paesi che si sono rifiutati di accogliere quote di migranti. Sebbene l’ipotesi sia circolata, alla fine pare essere prevalsa ancora una volta la decisione di non fare nulla. Per quanto si tratti solo di raccomandazioni, quindi niente altro che indicazioni per gli stati membri, la volontà espressa da Bruxelles non lascia dubbi. L’Unione europea vuole rendere più celeri e più certi i rimpatri degli irregolari, preoccupata soprattutto dalla tornata di elezioni che si susseguiranno a partire dal 15 marzo prossimo (prima Olanda, poi praticamente a ruota Francia e Germania). La via che la Commissione indica ai governi è quindi chiara: detenere gli irregolari procedendo così verso una modifica della direttiva sui rimpatri del 2008 che prevedeva il trattenimento solo come extrema ratio e in caso di pericolo di fuga. Un concetto, quest’ultimo, che adesso si vuole ampliare per consentire la detenzione. Va detto che senza aspettare Bruxelles qualche governo si è già mosso da solo. Tra questi c’è l’Italia, che con il decreto immigrazione firmato dai ministri degli Interni e della Giustizia, Minniti e Orlando, e attualmente all’esame del parlamento, ha istituito i Centri per i rimpatri estendendo la possibilità di trattenere il migrante fino a 135 giorni (contro gli attuali 90). Il governo tedesco ha invece da poco varato un disegno di legge che rende più semplici le espulsioni dei richiedenti asilo la cui domanda è stata respinta. Il testo prevede che siano rinchiusi in appositi centri fino a 10 giorni (ora sono 4), mentre l’obbligo del braccialetto è previsto per chi mente sulla propria identità o commette reati. Le autorità, infine, potranno accedere ai contenuti dei cellulari per accertare l’identità e il paese di provenienza del migrante. Tutto questo in attesa che si arrivi alla riforma del regolamento di Dublino, le cui prime bozze continuano a penalizzare Italia e Grecia. La Commissione insiste proprio su questo punto prevedendo una restrizione sui movimenti secondari dei rifugiati e degli stessi minori non accompagnati. In tutto questo nessuna sanzione, come detto, è stata decisa nei confronti di chi finora ha ignorato l’obbligo di accogliere quote di migranti da Grecia e Italia. La scorsa settimana una tabella della Commissione Ue metteva in evidenza come fino al 20 febbraio l’Ungheria - che secondo i piani dovrebbe accogliere 1.294 profughi entro settembre 2017 - non avesse messo a disposizione neanche un posto. Praticamente la stessa cosa hanno fatto gli altri tre paesi Visegrad: Polonia (100 posti sui 6.182 previsti, accolto ancora nessuno) repubblica Ceca (50 su 2.679, accolti 12 dalla Grecia) e Slovacchia (40 posti offerti su 886, accolti 16). Di sanzioni, però, per ora non se ne parla. I servizi segreti: il "terrore" si annida dentro i confini dell’Unione di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 28 febbraio 2017 Relazione del Dis al governo: rischio di campagne terroristiche dimostrative, in corrispondenza degli arretramenti militari del Califfato. Italia potenziale bersaglio dell’Isis, ma anche via di fuga verso l’Europa per militanti presenti in Libia. Il pericolo maggiore è in casa, dentro i confini dell’Unione europea: singoli aspiranti "martiri" o piccoli commando già presenti sul territorio, pronti a entrare in azione. Addestrati nei teatri di guerra o teleguidati da lì. È già successo, può succedere ancora: "Tra le "lezioni apprese" dagli eventi terroristici del 2016 vi è proprio la comprovata capacità, da parte dei soggetti ricercati, di circolare anche per mesi nello "spazio Schengen" senza essere individuati. Aspetto, questo, che accentua il pericolo rappresentato dai foreign fighters e dalla possibilità che gli stessi, una volta rientrati in territorio europeo, possano ricevere linee guida e indirizzi operativi attraverso contatti virtuali con soggetti basati nel quadrante siro-iracheno o in altri Paesi". La relazione - La relazione annuale "sulla politica dell’informazione per la sicurezza" predisposta dal Dis, l’organismo che coordina l’attività dei servizi segreti italiani, conferma lo stato d’allerta per il terrorismo di matrice islamica, sul quale si concentra l’attenzione degli apparati. Il documento è stato presentato oggi nella sede del governo, a palazzo Chigi, per la prima volta alla presenza del presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, con la partecipazione dei ministri competenti e dei vertici dei Servizi: i direttori del Dis Alessandro Pansa, dell’Aise Alberto Manenti e dell’Aisi Mario Parente. Nel mirino il Vecchio Continente - L’evoluzione del quadro internazionale, che vede lo Stato islamico chiamato Daesh in difficoltà nelle terre di provenienza, fa ritenere che questa crisi possa aumentare il rischio di azioni in altre aree: a cominciare dal "Vecchio Continente", che diventa il bersaglio preferito per "intimidire il nemico mostrando la capacità di colpirlo dall’interno, fornendo un’ulteriore prova di forza ai propri sostenitori". È accaduto e può continuare ad accadere, proprio a causa del "multiforme registro operativo di Daesh cui hanno fatto riferimento sia cellule strutturate, formate anche da foreign fighters di rientro dal campo siro-iracheno, in grado di realizzare attacchi coordinati e complessi, sia "lupi solitari" o microgruppi auto-organizzati, ispirati o cooptati sul web". A proposito dei "combattenti stranieri", la relazione mette in guardia dal pericolo che l’arretramento dello Stato islamico in Siria e in Iraq "possa determinare uno spostamenti di combattenti in altri teatri di jihad, ma anche un rientro nei Paesi di provenienza di mujaheddin di origine europea". Attentati - L’analisi dei servizi di sicurezza è basata sullo studio degli attentati realizzati nel 2016 e sull’attività di prevenzione, che ha portato a "numerose pianificazioni sventate o fallite, e all’aumento delle segnalazioni concernenti progettualità offensive da perpetrare in territorio europeo"; di qui l’allarme: "le valutazioni di intelligence fanno ipotizzare ulteriori, cruente campagne terroristiche in corrispondenza degli arretramenti militari del Califfato". In questo quadro preoccupante, l’Italia "potrebbe costituire una via di fuga verso l’Europa per militanti del Califfato presenti in Libia o provenienti da altre aree di crisi, una base per attività occulte di propaganda, proselitismo e approvvigionamento logistico, nonché una retrovia o un riparo anche temporaneo per soggetti coinvolti in azioni terroristiche in altri Paesi, come verosimilmente accaduto nel caso dell’attentatore di Berlino, Anis Amri". Italia bersaglio dell’Isis - Ma il nostro Paese potrebbe anche rientrare tra gli obiettivi diretti della campagna jihadista. La Relazione ricorda "la pressante campagna intimidatoria, le immagini allusive che ritraggono importanti monumenti nazionali e figure di grande rilievo, tra cui il Pontefice". "Tema dominante si è confermato quello dell’attesa della conquista di Roma, motivata anche dal ruolo assunto dal nostro Paese nella lotta internazionale al terrorismo e nella stabilizzazione delle aree di crisi, prima fra tutte la Libia". Per gli analisti, "i principali profili di criticità appaiono ancora riconducibili alla possibile attivazione di elementi "radicalizzati in casa", dediti ad attività di auto-indottrinamento e addestramento su manuali on-line, impegnati in attività di proselitismo a favore di Daesh e dichiaratamente intenzionati a raggiungere i territori del Califfato". Al riguardo, "sempre più concreto si configura il rischio che alcuni di questi soggetti decidano di non partire - a causa delle crescenti difficoltà a raggiungere il teatro siro-iracheno ovvero spinti in tal senso da "motivatori" con i quali sono in contatto sul web o tramite altri canali di comunicazione - determinandosi in alternativa a compiere il jihad direttamente in territorio italiano". Caporalato, se il sindacato abbandona i braccianti al loro destino di Luigi Covatta Il Mattino, 28 febbraio 2017 Ci sono piaghe sociali che ogni tanto salgono agli onori della cronaca in occasione di qualche tragedia, e che di conseguenza trattiamo come se fossero calamità naturali e non conseguenza di comportamenti e di intrecci di interessi che potrebbero essere validamente contrastati da comportamenti ed interessi opposti. A un anno e mezzo dalla morte di Paola Clemente - la bracciante tarantina che ogni mattina veniva trasportata nei vigneti del Tavoliere per guadagnare due euro all’ora - abbiamo per esempio (ri)scoperto che nelle nostre campagne vige ancora il caporalato. Ovviamente lo sapevamo già un anno e mezzo fa. Ma ci siamo voltati dall’altra parte, in attesa che venisse approvata 1’ ennesima legge ad hoc, e soprattutto che la giustizia facesse "il suo corso". C’è da chiedersi, però, perché anche in questo caso si sia dovuti ricorrere alla giustizia non solo - com’è ovvio - per sanzionare comportamenti criminali, ma anche per condurre le indagini sul caso. Quello del lavoro in agricoltura, infatti, è uno dei settori produttivi più normati, anche in considerazione della peculiarità delle prestazioni (che tra l’altro giustifica l’erogazione di generose indennità di disoccupazione). E comunque pullula di sindacati (anche datoriali) e di istituti di vigilanza (a cominciare dall’Inps, che quelle indennità eroga). Per di più i fatti non si sono svolti in una periferia isolata e desolata, ma in una regione come la Puglia: che giustamente vanta, rispetto alle altre regioni meridionali, un primato in materia di sviluppo, e che peraltro da almeno dodici anni è amministrata da forze politiche che dovrebbero essere particolarmente attente ai problemi del lavoro. È possibile che in tutti questi anni nessuno di questi soggetti sia stato capace di negoziare soluzioni che stroncassero (o almeno arginassero) il fenomeno del caporalato? Eppure non si trattava di scrivere il trattato di Yalta. I sindacati dei lavoratori, che fra l’altro attraverso i loro patronati detengono l’anagrafe degli impiegati nel settore, non potevano per esempio chiamare in causa le controparti per ottenere un più efficace controllo dei comportamenti delle imprese? O collaborare con le agenzie di lavoro interinale, anche per metterle al riparo dalle truffe che dicono di avere subito? E l’amministrazione regionale, il cui presidente ha efficacemente difeso dalla mannaia della legge Boschi le competenze devolute alle regioni con la riforma del Titolo V della Costituzione, perché non le ha usate per perseguire i caporali? Da questo episodio, in realtà, derivano due considerazioni. La prima è che non sempre la quantità di norme e di enti delegati ad applicarle garantisce la qualità delle relazioni sociali. Spesso, anzi, aiuta chi sa aggirarle. La seconda chiama in causa i sindacati. Io non so quante energie (e risorse) abbia speso la Federbraccianti pugliese per promuovere il referendum sul Jobs act. So però che con la metà di quelle energie (e di quelle risorse) avrebbe potuto risparmiare alla Procura di Trani l’onere di condurre un’inchiesta. E so anche che proprio nella Federbraccianti pugliese mosse i suoi primi passi di sindacalista Giuseppe Di Vittorio, che seppe tutelare gli interessi dei lavoratori in condizioni ben più problematiche di quelle odierne: per non parlare della Federbraccianti siciliana, che osò sfidare avversari ben più temibili di qualche banda di imbroglioni da quattro soldi; o della Coldiretti, che negli anni 50 si impegnò a regolare una faccenda complessa come fu la riforma agraria. Ora però la Coldiretti si occupa di mercati "a chilometro zero", e la Federbraccianti non si chiama più così. Si chiama Flai, e fa parte di un sindacato che invece di negoziare le condizioni del lavoro di oggi tutela i "diritti" conquistati da chi ha negoziato quarant’anni fa: e di conseguenza la difesa sul campo dei lavoratori la appalta alla magistratura. Del resto non è la prima volta che il sindacato svolge i propri compiti in outsourcing: fino al "decreto di san Valentino" del 1984, per esempio, aveva di fatto appaltato all’Istat - che fissava i punti di contingenza - anche l’esercizio della propria autorità salariale. Si dirà che con queste osservazioni si vogliono mettere in discussione gli immortali principi dello Statuto dei lavoratori. Si dimentica però che, all’epoca, Gino Giugni non a caso si sforzò di mantenere lo Statuto entro i limiti della legislazione di sostegno al sindacato, e che alcune tutele individuali come quelle previste dall’articolo 18 vennero introdotte da emendamenti parlamentari (dei quali peraltro Giugni non era convinto, tanto da proporne qualche anno dopo il superamento). Ma soprattutto si dimentica che il sindacato, privilegiando i "diritti" rispetto al negoziato, oggi abbandona a se stessi non solo i braccianti, ma altre centinaia di migliaia di lavoratori che operano nei settori più diversi a monte e a valle della new economy, della smart economy e delle altre decine di anglicismi con cui in Italia si definiscono le imprese che sfruttano l’innovazione tecnologica: dai call center alla logistica, dall’e-commerce all’editoria cartacea e digitale. Per loro infatti non ci sono ancora "diritti": ma, se qualcuno le negoziasse, ci potrebbero almeno essere quelle tutele che avrebbero salvato la vita di Paola Clemente. Io e l’uomo Plasmon nel carcere egiziano di Mario Vattani Tempi, 28 febbraio 2017 L’ex console italiano al Cairo ricorda l’incontro con Fioravante Palestini, l’icona del Carosello che passò vent’anni all’inferno. La sua vita è diventata un libro. Sono passate quasi due ore da quando abbiamo lasciato la periferia del Cairo e intorno a noi tutto è diventato color sabbia, quando sento che la macchina svolta a sinistra su una strada secondaria dissestata. Ora costeggiamo un canale zeppo di rifiuti. Devo essermi appisolato, e adesso ho la gola secca per il sole, la polvere e il calore. L’autista mi informa che tra poco saremo al carcere. Eccolo, sembra un piccolo castello medievale circondato da un alto muro in mattoni color tufo, nascosto in un’oasi. Parcheggiamo fuori dal grande portone di ferro arrugginito, facendo manovra molto lentamente per non urtare le buste di verdure, vestiti e detersivi posate a terra dalle donne che attendono l’orario della visita. Questo caldo asfissiante rende gli odori ancora più densi e appiccicosi, come se venissero assorbiti dalle pareti delle narici, dalle mucose della gola, per non andare più via. È la prima volta che vedo una prigione egiziana. È il 1998, e da meno di un mese sono il console d’Italia al Cairo, per questo oggi sono venuto a far visita all’unico detenuto italiano in Egitto. Devo assicurarmi che stia bene, e far capire ai responsabili che noi ci occupiamo del nostro connazionale, e che ci aspettiamo che le condizioni di detenzione non mettano a rischio né la sua salute, né la sua capacità psicologica di gestire la prigionia. Cercando di cacciare via le mosche che mi hanno assalito non appena sono sceso dall’auto, mi avvicino alla fila dei familiari, accompagnato dall’autista egiziano che oggi mi farà da interprete con i guardiani, ma subito un forte colpo di clacson, accompagnato dallo sferragliare di un motore, ci costringe a saltare un rigagnolo puzzolente, e a spostarci da davanti al portone. È una vecchia camionetta della polizia, si indovina dalla vernice blu scuro scrostata. In cima alla fiancata si notano due piccoli finestrini, dalla cui grata sporgono decine di dita umane, quelle dei prigionieri che probabilmente non hanno altro appiglio a cui tenersi durante il viaggio. Con un ultimo scossone il furgone si ferma davanti al portale della prigione, che si apre con un rumore lamentoso. Ne escono un paio di guardie carcerarie dall’uniforme trasandata color khaki, portano un bastone che somiglia a un mezzo manico di scopa, e fanno segno a tutti noi visitatori di stare lontano. Quando lo sportello posteriore della camionetta viene aperto, iniziano a scendere i prigionieri, vestiti con una tuta blu. Le guardie li colpiscono sul sedere e sulle gambe con il bastone per farli filare dentro di corsa, e intanto quelli scendono uno dopo l’altro, ma sembrano non finire mai. È impossibile che fossero così tanti in un furgone così piccolo. Mentre aspetto, cerco di prepararmi mentalmente all’incontro. Anche se l’ultimo rapporto del mio predecessore appariva positivo, non oso immaginare in che condizioni troverò quest’uomo chiamato Fioravante Palestini, originario di Giulianova, detenuto in Egitto da diciotto anni. Continuo ad arrovellarmi, asciugandomi il sudore dalla fronte e dal cranio, anche mentre lo aspetto nell’area destinata agli incontri. Poi, in mezzo al caos che mi circonda, distratto dal caldo e dal viavai dei familiari, dagli abbracci delle madri, dal pianto delle figlie, vedo all’improvviso avvicinarsi una figura molto più alta delle altre. È lui. Capelli neri corti e pettinati, ben rasato, Palestini cammina lentamente con la schiena dritta, il che rende il suo fisico ancora più imponente. Mi accorgo che mentre mi alzo in piedi sto sorridendo per il sollievo. Lui mi saluta con garbo. "Signor console, grazie di essere venuto". Fioravante Palestini, detto Gabriellino, è l’uomo Plasmon. Quello che molti di noi ricordano ancora dai tempi di Carosello, quando dandoci le spalle scolpiva il nome della nota marca di biscotti sul capitello di una grossa colonna. La polizia egiziana lo cattura nel 1983 sulla nave Alexandros G, mentre si accinge a passare il canale di Suez con un carico di 230 chili di eroina. Palestini sopravvive a venti e più anni di galera in Egitto, e ora è rientrato a Giulianova, al suo mare Adriatico, che lui è capace di attraversare da solo, in pattino, fino alla sponda orientale. È finalmente uscito il libro che racconta la sua storia: L’Uomo Plasmon. La storia di Fioravante "Gabriellino" Palestini, un biglietto di andata e ritorno dall’inferno (Lìbrati), scritto dal giornalista Ivan Di Nino in due anni di lavoro e approfondite ricerche storiche e giudiziarie. È un racconto che attraversa senza mezzi termini, con la freddezza equilibrata di una telecamera, un inquietante mondo criminale di cui riconosciamo nomi e personaggi, per poi arrivare ad un luogo più alto, dall’atmosfera rarefatta, dove governano la solitudine, la resistenza e la libertà. Turchia. "Piango e non scrivo", il grido del giornalista dal carcere di Erdogan di Marco Ansaldo La Repubblica, 28 febbraio 2017 Yucel, corrispondente tedesco di Die Welt, è in cella da 14 giorni. Merkel preme per la liberazione, ma l’arresto è stato convalidato. "Non posso scrivere. Il cibo è schifoso. Da bere solo acqua, nemmeno un tè o un caffè. Non posso fumare. Ma il riscaldamento funziona. So degli articoli su di me, dell’hashtag "Free-Deniz". Mentre mi trovo qui, tutto mi tocca, e le lacrime mi salgono agli occhi. Grazie, grazie a tutti". Il corrispondente del quotidiano tedesco Die Welt Deniz Yucel, 43 anni, è in prigione in Turchia da 14 giorni, tempo limite per trasformare il suo fermo in arresto definitivo o in scarcerazione. Ieri è stato ascoltato per la prima volta da un magistrato e in serata il suo arresto è stato a sorpresa convalidato, mentre le autorità tedesche speravano nella liberazione. Le accuse contro di lui parlano di "propaganda terroristica" e di "associazione terroristica". Lui si difende dicendo di avere scritto un’inchiesta sul collettivo di hacker turchi RedHack, capaci di diffondere alcune e-mail di Berat Albayrak, ministro dell’Energia e genero del presidente Recep Tayyip Erdogan, sul controllo di gruppi editoriali e l’influenza dell’opinione pubblica. Ora il giornalista, che ha doppio passaporto, tedesco e turco, e per il quale la Germania a partire dalla cancelliera Angela Merkel si è mossa, non può incontrare nessuno tranne i suoi avvocati. Ed è a loro che ha consegnato oralmente il suo diario dalla prigione di Istanbul: "Il corrispondente deve mandare qualcosa al suo giornale. Non siamo mica qui per divertirci. L’immagine della mia cella: sopra, orologio con bandiera turca sul quadrante; a destra, termosifone con cibo di conserva da riscaldare; davanti, sbarre di metallo ovunque. Matita e quaderno sono vietati. I libri, se politici, "inutili". Luce: dal corridoio lampeggia costantemente la stessa lampadina al neon. In cella è debole: troppo chiara per riuscire a dormire, troppo scura per leggere. A volte, si ascoltano i rumori dalla strada. Altrimenti silenzio, e nessuna luce del giorno. "La mia prigione misura 2,10 metri per 3,5. Tagliata perfettamente per quando ci si sdraia. Altezza 4 metri. Ci stanno 2 materassi spessi, 4 coperte, nessun cuscino. Tre pareti in cemento di colore giallo-grigio, una di sole sbarre d’acciaio. Ci stiamo dentro in 2-3 persone, anche in 4. L’aria è pessima, mefitica, puzza per gli odori dei corpi. Gli agenti dicono: "Così vuota come negli ultimi giorni non è mai stata da subito dopo il golpe. Avreste dovuto vedere, qui, quando ci stavano in 5 per ogni cella". Riscaldamento: anche quando fuori faceva più freddo, qui non l’ho mai sentito. È riscaldata bene. La mia cella è l’unica davanti all’orologio del corridoio: i detenuti chiedono sempre l’ora, e io mi domando se sia buono o pessimo vedere con quanta lentezza passano i secondi. Con i medici devo combattere per ogni minuto di attenzione e per ogni medicina. La cosa buona è che per ora ho vinto tutte le battaglie. Cibo: al mattino una pappa di pane tostato freddo con dentro formaggio o wurstel. A mezzogiorno e cena, cibo di conserva. Dall’aspetto sempre uguale e dal sapore sempre ugualmente schifoso. Fagioli, patate, carne. Il peggio non è il gusto, ma l’odore. Acqua in bottigliette da 0,5 litri per 3 volte al giorno. Se lo si chiede, anche di più. Mai però un caffè o un tè. Fumo: vietato (per me personalmente la cosa peggiore dall’inizio). Quando sono stato portato fuori per farmi visitare dal dottore i poliziotti fumavano e allora ho chiesto di farlo anch’io. Le toilette in corridoio sono 4 per 70 detenuti. Cinque volte al giorno c’è la fila, a due-tre celle per volta. Se lo si chiede e l’agente ne ha voglia, si può fare una scappata pure nel frattempo. L’acqua c’è, ma niente carta igienica, e le toilette non vengono pulite. In corridoio le docce sono 4: in 9 giorni ne ho fatte 2. Quando si solleva questo argomento rispondono: "Mica è un albergo questo". Ah no, e io invece che pensavo... Non esistono specchi. Il mio compagno di cella mi ha detto: "Ora assomigli a Karl Marx". Sono un giornalista straniero, uno che ha resistito al potere, e qui vengo guardato con rispetto dagli altri. So degli articoli su di me, e le lacrime mi salgono agli occhi. Questo, qui non deve succedere. Ma fa così bene. Così incredibilmente bello sapere che non sono solo, né dimenticato. Grazie, grazie a tutti". Le Filippine si stanno trasformando nel "regno del terrore" di Giulia Pompili Il Foglio, 28 febbraio 2017 È stato diffuso sui social network ieri il video dell’esecuzione di Jirgen Kantner, skipper settantenne di nazionalità tedesca, rapito a novembre tra le isole Sulu e Laparan, territorio filippino, a metà strada con Sabah, la regione della Malaysia nella parte più settentrionale del Borneo. Il gruppo, affiliato allo Stato islamico di Abu Sayyaf, aveva chiesto per il rilascio di Kantner un riscatto di 600 mila dollari. L’ultimatum è scaduto domenica scorsa, e secondo le autorità filippine Kantner sarebbe stato decapitato intorno alle 15 e 30, ora locale, dello stesso giorno. A novembre Kantner si trovava nelle acque del sud delle Filippine dove opera Abu Sayyaf. Durante l’attacco al suo yatch, la moglie, Sabbie Merz, venne uccisa. L’altro ieri, poco dopo la diffusione del video, il consigliere per la Sicurezza nazionale di Manila, Jesus Dureza, ha confermato la morte dell’ostaggio tedesco: "Condanniamo con forza la barbara decapitazione di un’altra vittima di rapimento", si legge in un comunicato ufficiale, "fino all’ultimo tutte le Forze armate filippine hanno cercato strenuamente di salvargli la vita. Abbiamo fatto tutti del nostro meglio. Ma senza risultati". Lo schema che Abu Sayyaf segue ormai da decenni è quello del rapimento - soprattutto di stranieri - per finanziare le sue attività. Attualmente, secondo le Forze annate di Manila, il gruppo avrebbe in ostaggio 19 stranieri, tra cui vietnamiti, indonesiani e un olandese, e almeno 7 filippini. Nel 2016 Abu Sayyaf ha ucciso due ostaggi canadesi, Robert Hall e John Ridsdel, mentre il norvegese Kjartan Sekkingstad è stato liberato nel settembre dello scorso anno "a seguito del pagamento di un riscatto". Fino a poco tempo fa il gruppo islamista del sud delle Filippine, un tempo legato ad al Qaida, veniva definito il "bancomat" dei gruppi ribelli della zona, per lo schema infallibile di rapimenti a scopo di estorsione, in una sorta di banditismo che serviva anche ad accattivare il favore della popolazione locale. Ma il legame con lo Stato islamico ha cambiato le finalità del gruppo, che ora ha una guerra più internazionale da combattere e finanziare. Guardare a quello che sta succedendo nel sud delle Filippine, con il potere degli estremisti islamici che cresce incontrollato - e l’ammissione di Dureza lo conferma - serve a dare una nuova prospettiva alle presidenza di Rodrigo Duterte. Venerdì scorso è stata arrestata a Manila Leila de Lima, senatrice ed ex funzionaria dei diritti umani, considerata il volto dell’opposizione a quelli che sono considerati i "metodi squadristi" dell’Amministrazione al governo. Da anni De Lima denuncia le violazioni dei diritti umani da parte di Duterte, compresa la sua "guerra alla droga", testimoniata dalla maggior parte delle testate internazionali, e le esecuzioni sommarie che non sono state mai smentite nemmeno dallo stesso presidente. Dal luglio dello scorso anno sarebbero state uccise più di 7 mila persone. De Lima è stata accusata di aver preso soldi da un signore della droga, accuse che lei nega, e venerdì, quando si è consegnata alla polizia, ha detto: "Non saranno in grado di farmi tacere o impedirmi di lottare per la verità e la giustizia, contro le uccisioni quotidiane e la repressione del regime di Duterte". De Lima parla esplicitamente di un regime che sarebbe stato imposto a Manila sin dal giugno del 2016, quando Rodrigo Duterte ha vinto le elezioni presidenziali. Mentre l’America non si è espressa formalmente sulla vicenda, e la Cina deve ancora trovare un accordo con Manila per portarla definitivamente fuori dalla sfera d’influenza americana, i fedeli cattolici, che formano il terzo più grande paese cattolico del mondo, hanno protestato nelle strade della capitale. La scorsa settimana più di ventimila cattolici hanno sfilato per le strade di Manila contro la "sanguinosa guerra alla droga" di Duterte, condannata anche dalla Conferenza episcopale filippina. Kazakhstan. Carcere e violenze contro attivisti e giornalisti dissidenti asianews.it, 28 febbraio 2017 Arrestato un blogger kazako per aver cercato di intervistare un manifestante. Repressa la libertà di stampa nei media dell’opposizione. Ashkat Bersalimov, blogger kazako, è stato arrestato il 23 febbraio per aver cercato di intervistare un uomo che voleva appellarsi per il rilascio di Zhanbolat Mamay, giornalista incarcerato l’11 febbraio con l’accusa di riciclaggio di denaro e appartenenza al gruppo criminale di Mukhtar Ablyazov, politico dissidente kazako. Bersalimov dovrà scontare una condanna a 15 giorni per aver svolto una manifestazione non autorizzata. Mamay, editore kazako del giornale d’opposizione Sayasi Qalan-Tribuna, è stato processato perché ritenuto connesso allo scandalo bancario legato ad Ablyazov. Le accuse mosse contro il giornalista sarebbero basate sulla testimonianza di Zhaksylyk Zharimbetov, rifugiato politico rapito tre settimane fa in Turchia dai servizi d’intelligence kazaki. Egli, insieme a suo cugino è accusato di aver aiutato Ablyazov ad appropriarsi di circa 550 milioni di dollari Usa di proprietà della Btk. Durante il processo, Mamay ha dichiarato: "In vita mia non sono mai stato coinvolto in affari o operazioni finanziarie. Considero queste accuse motivate da ragioni politiche intenzionate a reprimere il mio attivismo politico in quanto giornalista e a chiudere il Tribuna". Non è la prima volta che le autorità di Astana operano rappresaglie processando attivisti, giornalisti e oppositori del governo. Secondo il codice penale nazionale (art. 193, sezione 3), Mamay rischia fino a sette anni di carcere. Al giornale, che in passato ha già subito atti di repressione è stato imposto di pagare anche una multa ben oltre la propria disponibilità economica (tra gli 8 e i 15mila euro). Le preoccupazioni sulla sorte dell’editore sono cresciute dopo una fuga di notizie in cui si afferma che da quando è detenuto, Mamay sia stato oggetto di violenze fisiche e psicologiche. Il 23 febbraio, il Consiglio indipendente - cioè il gruppo nazionale sulla prevenzione della tortura - ha dichiarato di aver visitato la struttura in cui Mamay è detenuto e ha affermato che "al contrario della normale procedura, la salute del detenuto è stata trascurata. Egli ha anche subito violenze fisiche e psicologiche da parte dei detenuti nella stessa cella. L’uso della violenza contro di lui è cessato solo quando la questione è diventata di dominio pubblico". Gli attivisti per i diritti umani affermano che di solito gli inquirenti collocano i sospettati in cella con detenuti pericolosi come forma di intimidazione. Durante una conferenza stampa, i membri del Consiglio anti-tortura hanno richiesto che Mamay venga trasferito in un’altra cella per proteggere la sua incolumità.