Quanto conta per "i cattivi" la sensazione di essere trattati come esseri umani Il Mattino di Padova, 27 febbraio 2017 Anna, una studentessa di una scuola padovana entrata di recente in carcere, scrive alle persone detenute che ha incontrato: "Vi esorto a credere in ciò che fate, perché, vi assicuro, lascia il segno: e per un uomo non c’è soddisfazione più grande di aver lasciato un insegnamento che migliori la coscienza di altre persone. Grazie delle vostre testimonianze, me le porterò sempre nel cuore". Il progetto di "incontro" tra le scuole e il carcere che si svolge a Padova da anni non ha davvero eguali in Italia, e questa studentessa ne ha colto in pieno il senso: le persone detenute non hanno paura di umiliarsi raccontando il disastro della propria vita, perché hanno la sensazione con il loro racconto di potersi rendere utili, di poter dare un contributo alla comprensione del MALE, e di restituire quindi un po’ di bene alla società. Le due testimonianze che seguono sono "particolari": una è di un detenuto che per la prima volta ha parlato con gli studenti, l’altra di un "veterano" del progetto, e tutte e due ne fanno capire fino in fondo il senso e il valore. La mia prima volta Per la prima volta entro nell’auditorium dove si svolgono gli incontri con gli studenti e vorrei provare a trasmettervi un’emozione vissuta. L’auditorium è pieno di ragazzi, l’emozione è tanta, man mano però quell’emozione diventa disagio e questa sensazione non l’avevo mai provata. Mi sento un estraneo in mezzo a quelle persone, così tante persone ero abituato solo a vederle nelle corti di giustizia dove sono sempre stato giudicato. Non riesco ad alzare gli occhi e guardare quei volti che sanno di giustizia e di innocenza. No, non sono pronto. Allora esco più di una volta dalla sala. Il peso è troppo. Rientrando per l’ennesima volta e sedendomi provo ad ascoltare i miei compagni che si raccontano, vedo i volti attenti dei ragazzi, ed ecco che qualcosa dentro di me nasce, credo sia il primo senso di colpa che fiorisce. Guardi quei ragazzi, provi a metterti nei loro panni, ma quei panni sono intrisi di purezza, i miei sentimenti si bloccano, non capisco. È solo uno il sentimento che emerge, il sentimento di padre, e allora, alzando lo sguardo, tutti quei volti si trasformano nel viso di mio figlio e come per magia iniziano a cadere i bulloni che mantenevano salda quella mia armatura fatta solo di sofferenze. Provo a parlare, voglio provare a parlare. Prendo il microfono, la voce non esce. Ancora sto dando spazio a quella cattiveria che mi ha abitato per anni, ma questa volta la guardo andare via con disprezzo e con timida fierezza, nella consapevolezza dell’importanza di non deludere tutte quelle facce che assomigliano a mio figlio. E allora in quel momento si azzera tutto. Oggi il mio pensiero è rivolto a quella società che per il mio passato ha sofferto. Le scuse penso che siano solo una presa in giro perché si deve dimostrare di essere cambiati prima di chiedere scusa. Non vi nascondo che è dolorosissimo per me, perché se si ha la consapevolezza dell’errore commesso si soffre di più, è un fardello che si porta, ma io so benissimo che questo fardello non mi lascerà mai. A me non importa di questo peso, è giusto, lo devo portare perché spero così di aiutare a ritrovare la giusta strada persone che come me si sono perse. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stato il mio intervento dove parlavo di mio figlio, forse il sentimento che ho esternato ha toccato gli studenti, li ha turbati, non so, so solo che quando si sente la sofferenza nessuno rimane impassibile, specie le persone che appartengono a quel mondo "normale", un mondo di cui una volta facevo parte anch’io. Poi succede qualcosa che una persona come me non si aspetterebbe, una professoressa si alza e mi viene ad abbracciare. Lì per lì rimango impietrito, non vi nascondo che mi sono emozionato, ma quella emozione era diversa, cercavo per pudore di nasconderla ma è come se non volesse nascondersi. Lei non lo sa e forse non lo saprà mai che mi ha fatto sentire umano e parte della società, quella società che ti tende la mano, ed io le mani le tendo entrambe, una dopo l’altra per provare a rimediare a quegli errori che ho commessi in quell’età in cui si dovrebbe essere spensierati della vita. Vorrei dire grazie a tutte quelle persone che hanno ideato questo progetto perché mi stanno dando la possibilità di provare a cambiare più di qualche idea e forse anche qualche pagina di vita. Grazie ancora. Poi volevo ringraziare un mio amico che mi ha dato una mano ad esprimere questo mio pensiero su carta, grazie amico mio. Aniello Taddeo Un progetto che è motore potente di riflessione È stupefacente il potere di riflessione che il progetto con le scuole ideato dalla redazione di Ristretti Orizzonti "Il carcere entra a scuola. Le scuole entrano in carcere" può indurre in noi detenuti. Per impegni scolastici quest’anno non sto partecipando assiduamente a questo progetto, e devo ammettere che mi mancano gli studenti, mi mancano le loro domande e mi manca la sensazione dell’essere trattato come essere umano da sconosciuti. La mancanza è tale che sento il bisogno di andare a farmi raccontare dai miei compagni, soprattutto quelli che partecipano da poco, quello che provano durante gli incontri. Ascoltare le loro emozioni mi fa ricordare le mie prime volte, e la cosa stupefacente è che a distanza di anni ancora mi donano motivo di riflessione e di confronto con i miei compagni. Oggi notavo lo sguardo di un compagno quando mi raccontava l’abbraccio a fine incontro di una professoressa, era diverso da tutti quelli che ho sempre visto nella quotidianità delle nostre giornate. Ha detto che si è sentito un essere umano. Un altro mio compagno molte volte agli studenti dice: "con le vostre domande ci fate sentire colpevoli". Queste persone erano come me, prive di sensi di colpa e incapaci di mettere in discussione il proprio passato in maniera critica. Eravamo abili a darci giustificazioni per ciò che avevamo fatto, scaricando esclusivamente alle istituzioni le responsabilità per una vita passata a delinquere. Ma ecco che dei perfetti sconosciuti, come gli studenti che partecipano a questo progetto, hanno il potere di stravolgere, di ribaltare le nostre convinzioni su cui ci siamo costruiti tutto un mondo. Una delle innumerevoli cose che ho dovuto cambiare nel mio modo di essere, è stato dare il giusto significato alle parole e non manipolarle a mio piacimento per sentirmi nel giusto, per sentirmi un individuo onesto e, nell’ambiente che mi ha caratterizzato, una persona "con onore". Oggi sono in grado di chiedermi cosa c’era di onorevole e anche di onesto in quello che facevo, e so anche rispondermi dicendomi che non c’era proprio niente con delle caratteristiche tali da poter significare queste due parole, ovvero onesto e onorevole. Queste riflessioni per molti possono risultare scontate oppure banali, per me non lo sono, proprio per lo stile di vita e l’ambiente che mi hanno caratterizzato in giovane età. Un ambiente dove l’essere considerato come un ragazzo "onorevole" e onesto era la base per intraprendere quello stile di vita. Il cambiamento, per un detenuto, è una messa in discussione del proprio passato, ma di fondo deve esserci una forma di coerente consapevolezza se si vuole arrivare a riacquistare una credibilità perduta per il reato. Ogni piccolo passo verso il cambiamento ha il suo tempo, e trovo molto entusiasmante notare e vivere i primi passi dei miei compagni come li ho vissuti io in questo interminabile percorso di vita. Tutto parte dal confronto, dalla comunicazione, dall’ascolto che il progetto con le scuole inevitabilmente induce nelle persone. Sono convinto che questo progetto farà parte della mia vita per sempre, perché il mio cambiamento non finirà mai, sarà una continua evoluzione in positivo della mia persona e soprattutto una continua messa in discussione, imparando anche ad ascoltare l’altro. Lorenzo Sciacca Carceri, 3 suicidi in 4 giorni: un ragazzo evaso dalla Rems. "Non si cura così!" Redattore Sociale, 27 febbraio 2017 Suicidi si sono registrati a Napoli Poggioreale, Bologna e Regina Coeli, In meno di 2 mesi già dieci detenuti si sono tolti la vita (937 dall’anno 2000). Antigone e Stop Opg: "Se un ragazzo va via da una Rems non si deve parlare di evasione. Non si butta una vita in galera". Il testo dell’ultima lettera inviata al fratello. Napoli Poggioreale, Bologna e Regina Coeli a Roma: sono le carceri italiane nelle quali, negli ultimi quattro giorni, tre detenuti si sono tolti la vita in cella. A far clamore, da ultimo, anche il caso del suicidio avvenuto nel carcere di Regina Coeli, con un 22enne evaso per tre volte dalla Rems di Ceccano (Frosinone) e condotto in carcere per resistenza e danneggiamento. Il giovane si è impiccato utilizzando un lenzuolo legato alla grata del bagno. Il Garante dei detenuti del Lazio, Stefano Anastasia, ha subito dichiarato: "Questo ragazzo era scappato da una Rems (strutture che hanno sostituito gli Opg) e a lui erano contestati solo reati di resistenza a pubblico ufficiale e lesioni. Reati tutto sommati irrilevanti e legati al fatto che era andato via dalla Rems. E allora mi chiedo, perché non è stato riportato alla Rems? Perché si trovava in carcere? Questo suicidio si poteva evitare". Sulla stessa lunghezza d’onda i radicali italiani, che affermano: "Si muore in carcere, perché si ‘evadè da una misura di sicurezza che non dovrebbe esistere. La battaglia, sacrosanta contro gli Opg, che dopo la loro chiusura ha spostato l’attenzione su quanto avviene delle Rems, deve ora lasciare il posto a un più deciso intervento di riforma, che abroghi le misure di sicurezza. Sono queste infatti lo strumento attraverso il quale il malato psichiatrico continua a essere oggetto di segregazione ed esclusione sociale". Antigone e StopOpg: "Fatto che ci addolora e ci indigna". Patrizio Gonnella (Antigone) e Stefano Cecconi (campagna Stop Opg), in merito proprio al ragazzo che si è tolto la vita dopo la fuga dalla Rems, affermano: "Non si cura mettendo le persone dietro le sbarre. Si cura affidando le persone, e ancor più i ragazzi, al sostegno medico, sociale, psicologico dei servizi del territorio. Se un ragazzo va via da una Rems non si deve parlare di evasione. Non si butta una vita in galera". Un fatto questo che avviene a pochi giorni dalla chiusura definitiva degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari e che dimostra quanto ancora si debba fare in questa direzione. "Non sappiamo ancora bene la storia accaduta nel carcere di Regina Coeli, ma ogni suicidio è una sconfitta, una disfatta per lo Stato che aveva in custodia la persona". "Speriamo che non si torni in modo burocratico sull’argomento di come prevenire i suicidi. I suicidi - concludono Antigone e Stop OPG - non si prevengono togliendo lenzuola, pantaloni, coperte. I suicidi si prevengono con l’ascolto, con la presa in carico delle biografie, con la cura, non con la custodia". L’ultima lettera al fratello. Nella giornata di ieri, inoltre, Antigone è stata contattata proprio dalla madre del giovane ragazzo suicidatosi nella tarda serata di venerdì presso il carcere di Regina Coeli. "La donna ci ha inviato l’ultima lettera che suo figlio aveva spedito al fratello lo scorso 16 febbraio, affinché fosse resa pubblica", sottolinea l’associazione. Nella lettera emergono con chiarezza la difficoltà psicologiche di cui soffriva il ventiduenne che fa riferimento anche all’ipotesi di suicidarsi. "Dopo aver letto questa lettera - dichiarano Patrizio Gonnella (presidente di Antigone) e Stefano Cecconi (campagna Stop Opg) - dobbiamo ribadire quanto già affermato. Il punto nel caso specifico non riguarda la prevenzione dei suicidi in carcere. Non dobbiamo interrogarci se fosse giusto che quel ragazzo avesse in cella con sé le lenzuola o altri oggetti che avrebbe potuto utilizzare per togliersi la vita. Il punto è che persone, ancor più così giovani, con problematiche di questo tipo, devono essere affidate al sostegno medico, sociale, psicologico dei servizi delle ASL territoriali e non messe dietro le sbarre di una cella. Non possiamo trattare persone con problemi di salute come se fossero dei criminali pericolosi. Dobbiamo quindi interrogarci sul perché questo non sia avvenuto. Dobbiamo farlo affinché casi come questo del ventiduenne non tornino a ripetersi". Suicidi in carcere: già 10 nel 2017. I dati sulle morti in carcere, secondo lo speciale Dossier "Morire di carcere" di Ristretti Orizzonti, parlano già di 20 morti nell’anno in corso, di cui 10 suicidi (dato aggiornato a oggi, 26 febbraio). È già un record, se pensiamo che in tutto lo scorso anno si sono tolte la vita in cella 39 persone (su 110 morti). In totale, dal 2000 sono ben 937 i suicidi in carcere, 2.626 le morti complessive. Il picco di suicidi si è avuto nel 2009, con 72 persone che si sono tolte la vita. Il Sappe: "Persistono drammi umani dietro le sbarre". Il Sindacato autonomo di Polizia penitenziaria (Sappe) torna a denunciare la crescente tensione nelle carceri del Paese. Spiega il segretario, Donato Capece: "Tre suicidi in quattro giorni tra le sbarre di tre penitenziari italiani evidenziano come i problemi sociali e umani permangono (eccome!) nelle carceri del Paese, lasciando isolato il personale di Polizia penitenziaria (che purtroppo non ha potuto impedire i gravi eventi) a gestire queste situazioni di emergenza. Il suicidio è spesso la causa più comune di morte nelle carceri. Gli istituti penitenziari hanno l’obbligo di preservare la salute e la sicurezza dei detenuti, e l’Italia è certamente all’avanguardia per quanto concerne la normativa finalizzata a prevenire questi gravi eventi critici. Ma il suicidio di un detenuto rappresenta un forte agente di stress per il personale di polizia e per gli altri detenuti. Per queste ragioni un programma di prevenzione del suicidio e l’organizzazione di un servizio d’intervento efficace sono misure utili non solo per i detenuti ma anche per l’intero istituto dove questi vengono implementati. È proprio in questo contesto che viene affrontato il problema della prevenzione del suicidio nel nostro Paese. Ma ciò non impedisce, purtroppo, che vi siano ristretti che scelgano liberamente di togliersi la vita durante la detenzione". E continua: "Negli ultimi 20 anni le donne e gli uomini della Polizia penitenziaria hanno sventato, nelle carceri del Paese, più di 21 mila tentati suicidi ed impedito che quasi 168 mila atti di autolesionismo potessero avere nefaste conseguenze. Il dato oggettivo è che la situazione nelle carceri resta allarmante. Altro che emergenza superata! Contiamo ogni giorno gravi eventi critici nelle carceri italiane, episodi che vengono incomprensibilmente sottovalutati dall’amministrazione penitenziaria. Ogni 9 giorni un detenuto si uccide in cella mentre ogni 24 ore ci sono in media 23 atti di autolesionismo e 3 suicidi in cella sventati dalle donne e dagli uomini del Corpo di polizia penitenziaria. Aggressioni risse, rivolte e incendi sono all’ordine del giorno e i dati sulle presenze in carcere ci dicono che il numero delle presenze di detenuti in carcere è in sensibile aumento. E il Corpo di Polizia penitenziaria, che sta a contatto con i detenuti 24 ore al giorno, ha carenze di organico pari ad oltre 7 mila agenti". Dirigere le carceri? In sei casi su dieci a farlo è una donna di Linda Laura Sabbadini La Stampa, 27 febbraio 2017 "La nostra ricetta: fermezza, umanità e fiducia". In Italia fra i direttori di carcere le donne sono la maggioranza: il 60%. "Vinciamo di più i concorsi, come succede in magistratura" dice Silvana Sergi, che dirige Regina Coeli, 905 detenuti, tutti uomini. Della situazione delle carceri si parla troppo poco nel nostro Paese. Continuiamo ad avere indici di affollamento non sostenibili, con 19 detenuti in più ogni 100 posti disponibili effettivi, cioè eliminando le celle non utilizzabili. E non perché abbiamo più detenuti degli altri, ma perché utilizziamo meno misure alternative alla detenzione e abbiamo troppi detenuti in attesa di giudizio (35%). Troppi suicidi, anche se diminuiti rispetto al passato, troppe carenze igieniche, troppe mancanze nell’assistenza post-carcere, troppe recidive. Il Garante dei detenuti, Mauro Palma, fondatore di Antigone che compie 26 anni in questi giorni, vigila su questo e richiede un drastico miglioramento. E Rita Bernardini, radicale, è in sciopero della fame da giorni, per stralciare la riforma penitenziaria dalla riforma della giustizia penale e accelerarne l’approvazione. Siamo lontani dall’applicare il nostro dettato costituzionale, ed è lungo il cammino per trasformare le carceri da "scuola di violenza e di odio" a "scuola rieducativa e di riscatto", pur restando fermo il principio della giusta pena e che questa venga scontata. Gli istituti sono 190, in media con 280 detenuti. Solo il 29% dei detenuti lavora, e nella grande maggioranza dei casi (85%) per l’Amministrazione penitenziaria. Le attività di formazione e cultura non sono adeguatamente sviluppate; gli educatori, in gran parte donne, sono troppo pochi (4 per carcere), solamente il 70% di quelli previsti dalla legge. Soltanto in 87 carceri c’è la possibilità di effettuare colloqui nei giorni festivi, qualcuno di più lo consente nel pomeriggio, ma con limitazioni. Il diritto all’affettività va esteso. Le persone che vivono in carcere sono 54 mila 653 alla fine del 2016. Tra questi le donne sono una piccolissima minoranza, il 4,4%. Al contrario, fra i direttori di carcere le donne sono sei su dieci. Regina Coeli, diretto da Silvana Sergi, è un carcere difficilissimo, perché circondariale, con alto affollamento, detenuti in attesa di giudizio, anche con gravi problemi psicologici, che in molti casi non dovrebbero stare in carcere, con flussi in entrata continui. Ma in un mondo così maschile questa presenza così ampia di direttori donna può favorire un salto di qualità? Secondo Sergi, "per fare il direttore bisogna avere una visione a 360 gradi e curare le relazioni, come quotidianamente fanno le donne. Non abbiamo voglia di primeggiare. Il rispetto dai detenuti arriva, non perché usi il pugno di ferro. Ci vuole fermezza, unita a umanità e fiducia". Donata Francescato, psicologa di comunità, sostiene che nello stile di leadership ci sono valori maschili - più legati all’io e al potere - e valori femminili - più legati al "noi" e all’universalismo -, che nella pratica non si incardinano schematicamente su uomini e donne, ma che "in media sono più diffusi tra gli uni e le altre rispettivamente". "Sono innamorata del mio lavoro - dice Sergi - si può incidere tanto per il bene comune e il volontariato è prezioso". A Regina Coeli le celle sono aperte dalle 9 alle 19, e numerosi sono i progetti avviati con l’associazionismo, ma non basta, la situazione è molto dura. Il direttore di un carcere è condizionato dai problemi strutturali del sistema penitenziario, ma può fare la differenza. "Bisogna essere creativi, tessere reti con associazioni, imprese, fare lavoro di squadra con tutto il personale e i volontari" afferma Ida Del Grosso, che dirige Rebibbia femminile, precedentemente volontaria in carcere. Racconta le storie delle detenute: le rom obbligate dai mariti a rubare, con figli piccoli che stanno nel nido dell’Istituto; le latino-americane, corriere della droga, senza famiglia alle spalle; le africane coinvolte nello sfruttamento della prostituzione; le italiane in gran parte tossicodipendenti, con tanti casi di violenza subita in famiglia. Le madri sono coraggiose, ma con il senso di colpa della lontananza dai figli. Ne parla con passione. Crede molto nelle esperienze lavorative esterne, che vorrebbe più frequenti. "Una donna ha imparato a fare giardinaggio e una volta uscita è stata assunta in un vivaio. Collaboriamo anche con l’Accademia di Francia in questo campo". Le celle sono aperte dalle 8 alle 20. Importante l’incontro con le scuole: "Cerco di creare una interazione vera dentro/fuori, non passiva, fra una classe di studenti di Rebibbia e una esterna. Con il doppio risultato che le detenute crescono nel confronto e ai ragazzi cadono i pregiudizi verso chi sta in carcere". Donne così sono un pilastro fondamentale in una nuova strategia di carcere aperto, dentro e fuori, e di rilancio delle misure alternative alla detenzione. Non solo loro, basta pensare a Massimo Parisi attuale direttore di Bollate e allo storico Direttore di Gorgona, Carlo Mazerbo, dove i detenuti producevano vino per l’etichetta della famiglia dei Marchesi dei Frescobaldi, e a tanti altri operatori e volontari invisibili. Gli Stati generali dell’esecuzione penale, voluti dal ministro Orlando e dall’Amministrazione penitenziaria, hanno spinto su questa strada, un segno di speranza. Misure alternative con polizza. Condanne a lavori di pubblica utilità: copertura Inail di Daniele Cirioli Italia Oggi, 27 febbraio 2017 La novità prevista nella legge di Bilancio 2017 è illustrata in una circolare dell’Istituto. I condannati per guida in stato d’ebbrezza a lavori di pubblica utilità vanno assicurati all’Inail. Come pure i tossicodipendenti condannati per lievi reati sulle droghe e gli imputati ammessi alla prova in un processo penale. La novità, prevista dalla legge Bilancio del 2017, è illustrata dall’Inail nella circolare n. 8/2017. La condanna alla "pubblica utilità". La novità tocca l’ambito applicativo del lavoro di pubblica utilità, che l’art. 1, comma 86, della legge n. 232/2016 (Bilancio 2017) ha esteso a nuove ipotesi, quale misura "di riparazione in favore della collettività". Due le caratteristiche del lavoro di pubblica utilità, previste dall’art. 1, comma 1, del decreto 26 marzo 2001 (recante norme per la determinazione delle modalità di svolgimento del lavoro di pubblica utilità): a) il lavoro di pubblica utilità consiste nell’attività non retribuita a favore della collettività da svolgere presso Stato, regioni, province, comuni o presso enti o organizzazioni di assistenza sociale o di volontariato, a norma dell’art. 54, comma 6, del dlgs n. 274/2000; b) il lavoro di pubblica utilità ha ad oggetto: • prestazioni di lavoro a favore di organizzazioni di assistenza sociale o volontariato operanti, in particolare, nei confronti di tossicodipendenti, persone affette da infezione da HIV, portatori di handicap, malati, anziani, minori, ex detenuti o extracomunitari; • prestazioni di lavoro per finalità di protezione civile, anche mediante soccorso alla popolazione in caso di calamità naturali, di tutela del patrimonio ambientale e culturale, ivi compresa la collaborazione a opere di prevenzione incendi, di salvaguardia del patrimonio boschivo e forestale o di particolari produzioni agricole, di recupero del demanio marittimo e di custodia di musei, gallerie o pinacoteche; • prestazioni di lavoro in opere di tutela della flora e della fauna e di prevenzione del randagismo degli animali; • prestazioni di lavoro nella manutenzione e nel decoro di ospedali e case di cura o di beni del demanio e del patrimonio pubblico ivi compresi giardini, ville e parchi, con esclusione di immobili utilizzati dalle Forze armate o dalle Forze di polizia; • altre prestazioni di lavoro di pubblica utilità pertinenti la specifica professionalità del condannato. Le nuove ipotesi. In un primo tempo, il lavoro di pubblica utilità era limitato ai procedimenti di competenza del giudice di pace. Successivamente il suo ambito applicativo è stato esteso alle seguenti ipotesi: a) sentenza di condanna per reati in materia di violazione del Codice della strada previsti dall’art. 186, comma 9-bis (Guida sotto l’influenza dell’alcool) del dlgs n. 285/1992; b) sentenza di condanna per reati in materia di violazione del Codice della strada previsti dall’art. 187 comma 8-bis (Guida in stato di alterazione psico-fisica per uso di sostanze stupefacenti) del medesimo del dlgs n. 285/1992; c) sentenza di condanna per reati di violazione della legge sugli stupefacenti, ai sensi dell’art. 73, comma 5-bis (Produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti o psicotrope) del dpr n. 309/1990; d) ordinanza di sospensione del processo penale con messa alla prova dell’imputato, ai sensi dell’art. 168-bis del codice penale, introdotto dalla legge n. 67/2014. Alle nuove ipotesi, la legge di Bilancio 2017 ha esteso la tutela assicurativa dell’Inail, con oneri a carico dello Stato entro il limite delle risorse assegnate a uno specifico fondo e adeguato a 7,9 milioni di euro sempre dalla legge di Bilancio 2017 (fondo già operativo per i lavori di pubblica utilità svolti da detenuti e internati, da beneficiari di ammortizzatori e da stranieri richiedenti asilo). La polizza assicurativa Inail. L’assicurazione va attivata dai soggetti promotori dei progetti di pubblica utilità, vale a dire i soggetti che hanno stipulato con il ministero della giustizia o con i presidenti dei Tribunali delegati le convenzioni per i lavori di pubblica utilità. Soggetti promotori, come detto, possono essere lo Stato, le regioni, le province, i comuni, le aziende sanitarie, gli enti o organizzazioni di assistenza sociale, sanitaria e volontariato, anche internazionali, che operano in Italia. Oltre all’attivazione, sui soggetti promotori grava anche la gestione della copertura assicurativa. L’attività svolta a titolo gratuito nell’ambito del lavoro di pubblica utilità, è tutelata qualora rientri tra le attività protette (art. 1, dpr n. 1124/1965, il T.u. Inail). Il premio è di 258,00 euro annuali per soggetto (euro 0,86 per ogni giornata lavorativa effettivamente prestata). L’Italia maglia nera d’Europa. In 62 anni 642 procedure per violazioni delle norme Ue di Eden Uboldi Italia Oggi, 27 febbraio 2017 La relazione della Corte di giustizia. La Francia, la Grecia e il Belgio seguono a ruota. Dall’anno della sua fondazione, nel 1952, al 2015, sono stati presentati davanti alla Corte dei giustizia dell’Unione europea 642 ricorsi per inadempimento contro l’Italia. Nella "Relazione annuale 2015. Attività giudiziaria", rapporto redatto dalla Corte che offre una sintesi dell’andamento dell’organo, emerge questo dato, che vede primeggiare l’Italia per numero di ricorsi causati dalla mancata applicazione delle norme europee. Seguono rispettivamente la Francia con 416 ricorsi, la Grecia con 400, al quarto posto il Belgio che ne totalizza 383 mentre al quinto si posiziona la Germania con 282. Il ricorso per inadempimento, procedimento disposto dall’articolo 258 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (Tfue), è parte di un più ampio controllo sulle infrazioni compiute dagli stati membri. Infatti, individuata una potenziale violazione, in seguito a denunce da parte di cittadini europei, Ong, associazioni o da parte di un altro stato membro (caso raramente verificatosi) ma anche di propria iniziativa, la Commissione attua una serie di strumenti precontenziosi: un primo scambio di informazioni tramite il sistema Eu Pilot, con cui si instaura un dialogo informale fra le parti, l’invio di una lettera di costituzione in mora, atto che sancisce l’inizio formale della procedura di infrazione e poi di un parere motivato, a cui conformarsi entro un determinato termine. Solo a questo punto il caso passa in sede giudiziaria. Quando deferisce uno stato alla corte per l’inadempimento degli obblighi di notifica delle misure di recepimento di una direttiva, la Commissione può anche proporre sanzioni pecuniarie ai sensi dell’articolo 260, paragrafo 3, del Tfue. Di fronte a una reiterata inerzia dello stato anche in seguito alla pronuncia della corte, prosegue la procedura di infrazione, secondo quanto stabilito dall’articolo 260, paragrafo 2, del Tfue: una nuova lettera di costituzione in mora e una proposta, che la corte può comminare, di pagamento di sanzioni pecuniarie sotto forma di somma forfettaria e o penalità per giorno o per un altro periodo stabilito. La maggioranza dei ricorsi riguardano la violazione di norme europee in materia di fiscalità e dogane, trasporti e ambiente. Per quest’ultimo settore la Commissione, nel dossier "Riesame dell’attuazione delle politiche ambientali dell’Ue" pubblicato a inizio mese, indica come principale debolezza le notevoli divergenze regionali. Denunce per infrazioni, gli italiani al primo posto L’Italia è il paese da cui provengono più denunce da parte di cittadini contro l’amministrazione statale o locale per potenziali infrazioni al diritto Ue. Secondo il report della Commissione "Controllo dell’applicazione del diritto dell’Unione europea. Relazione annuale 2015", nel corso dell’anno sono state presentate contro l’Italia 637 denunce da parte di cittadini: la maggior parte delle quali relative a occupazione, affari sociali e inclusione (286 denunce), fiscalità e unione doganale (69 denunce) e mercato interno, industria, imprenditorialità e pmi (64 denunce). Si tratta di circa il 18% di tutte le denunce complessivamente registrate contro tutti gli stati membri. Nel "Manuale di risposta alle infrazioni Ue", stilato dalla Rappresentanza Permanente d’Italia presso l’Unione europea (Italrap), si osserva che la gratuità e la facilità delle segnalazioni, per via telematica, l’obbligo di esamina da parte della commissione con relativa risposta entro 2 mesi e l’atteggiamento particolarmente critico degli italiani nei confronti delle istituzioni sono gli elementi che favoriscono la proliferazioni di segnalazioni, che spesso si configurano come una strada parallela ai ricorsi nazionali, con una procedura che, passando per Bruxelles, ritorna nel circuito nazionale evitando o sovrapponendosi a un confronto diretto con questo. Ma come sottolineato nel 2014 da Giorgio Perini, funzionario della Italrap, durante il "Secondo ciclo di seminari specialistici sulle politiche europee", il prevalere dei casi di inosservanza delle norme europee rispetto a quelli relativi alla trasposizione delle direttive nel diritto interno fa supporre che il record di infrazioni è da imputare principalmente ai comportamenti delle amministrazioni pubbliche. Secondo l’Italrap gli obiettivi devono essere la collaborazione tra gli organi centrali dello Stato, le regioni e le province autonome e il miglioramento del dialogo diretto con i cittadini. Infatti una risposta rapida e adeguata, sia a livello giudiziario che non, con i cittadini permetterebbe di limitare ulteriori rivendicazioni in sede europea, mentre un gioco di squadra fra stato e enti sub-statali potrebbe influire in senso positivo sia nella fase d’applicazione degli obblighi europei che nella fase precontenziosa davanti alla Commissione. Ma le infrazioni pendenti sono scese sotto quota 80 Al momento le procedure di infrazione pendenti nei confronti dell’Italia sono in calo: secondo i dati disponibili sulla piattaforma Eur-Infra sono solo 72. Già nel luglio 2016 l’abbassamento sotto le 80 era stato definito "un record storico" da parte della Rappresentanza permanente d’Italia presso l’Unione Europea. Questo risultato è stato possibile grazie alla istituzione o al potenziamento di organi con competenze ad hoc e a una normativa che ha snellito l’iter di legiferazione in materia europea. Con il Dpcm del 28 luglio 2006, presso il Dipartimento per le politiche europee, è stato costituita la Struttura di missione con il compito di prevenire l’insorgere del contenzioso in sede europea e a rafforzare il coordinamento delle attività necessarie alla risoluzione delle procedure di infrazione. Precedentemente quattro differenti uffici dell’allora Dipartimento per le politiche comunitarie erano competenti sulla trattazione delle procedure: una frammentazione che da una parte non permetteva una comprensione del fenomeno a livello nazionale e dall’altra non permetteva una trattazione omogenea. Incisiva anche la legge 234/2012 che, modificando la legge 11/2005, ha introdotto al posto della legge comunitaria, con cadenza annuale, la legge europea e la legge di delegazione europea. Per quanto riguarda il rapporto con gli enti sub-statali l’art. 40 statuisce che nelle materie di loro competenza le regioni e le provincie autonome recepiscono direttamente le direttive, mentre nelle materie di legislazione concorrente si devono attenere ai criteri stabiliti dallo stato, che in caso di inerzia può adottare i provvedimenti di attuazione, sostituendoli (art. 41). Con l’art. 43 è stato previsto il diritto di rivalsa dello Stato quale deterrente nei confronti delle Regioni o altri enti pubblici responsabili di violazioni del diritto Ue. Inoltre, la legge ha istituito il Comitato interministeriale per gli affari europei (Ciae) con l’obiettivo di concordare le linee politiche del Governo nel processo di formazione della posizione italiana, nella fase di predisposizione degli atti dell’Unione europea. Infine significativo il ruolo della Rappresentanza permanente che diventa figura chiave per l’interlocuzione Italia-Europa, grazie a un team specializzato. La giustizia civile è lenta e frena la crescita di Roger Abravanel Corriere della Sera, 27 febbraio 2017 La normativa fallimentare può migliorare, ma la gestione dei tribunali conta di più: i crediti non performing delle banche riducono il valore delle garanzie. Quasi tre anni fa Matteo Renzi chiese a Mario Barbuto di replicare su tutti i tribunali italiani l’approccio che lo aveva portato a ridurre drasticamente i tempi della giustizia civile al Tribunale di Torino (quella penale è molto più difficile da migliorare). Barbuto è adesso in pensione e la settimana scorsa, nella sede di questo quotidiano, ha riassunto l’esperienza di questi tre anni. Ha subito confermato che la giustizia civile sta migliorando. L’arretrato delle cause aperte che era di 5 milioni e 700 mila cause nel 2009, era già sceso a 4 milioni quando egli arrivò nel 2014 e nel 2016 è sceso ulteriormente a 3 milioni e 800 mila cause. Il merito? Barbuto non se lo prende e sostiene che ciò avviene perché gli italiani stanno diventando sempre meno litigiosi, dato che la normativa scoraggia a iniziare le cause rendendole più costose e aumentano le conciliazioni al di fuori dei tribunali. Le 250 mila cause di lavoro all’anno si riducono poi per merito della riforma Fornero e del Jobs act. Così succede che i tribunali hanno meno da fare e iniziano a smaltire l’arretrato. Ma, a parte la riduzione del loro carico di lavoro, i tribunali sono diventati più efficienti? L’analisi dei dati pubblicati dal ministero non offre spunti positivi. Appare infatti che, per il contenzioso più complesso (fallimenti, cause commerciali ecc.), i tre anni necessari nel 2014 per il primo grado di giudizio sono scesi di soli due mesi nel 2016. Aggiungendo i tempi di Appello e Cassazione, arriviamo a 10 anni, più del doppio che in Francia e Germania. L’arretrato ultra-triennale nel 2016 era ancora un terzo del totale e la produttività dei tribunali è addirittura peggiorata: nel 2104 le cause in primo grado erano 2 milioni e 600 mila e nel 2016 sono state 2 milioni e 200 mila, con lo stesso numero di magistrati. La giustizia civile è però soprattutto iniqua. L’indagine guidata da Barbuto nel 2015 dimostrava che ci sono 27 tribunali dove la giustizia è veloce e ci sono poche cause ultra-triennali e altri 100 dove invece è molto lenta e le cause vecchie sono moltissime. Chi risiede nelle città con 27 tribunali eccellenti è favorito rispetto a chi risiede nelle città dove ci sono i 100 tribunali scarsissimi. Ma non è solo un tema di iniquità. Il sindacato dei magistrati (Anm) sostiene da sempre che il problema sia la carenza di risorse (magistrati e cancellieri) e lo ha reiterato con veemenza nella recente inaugurazione dell’anno giudiziario. Lo studio smentisce questa tesi, dimostrando che ci sono degli ottimi tribunali che scarseggiano di risorse e pessimi che ne hanno a sufficienza. Ma allora cosa determina che un tribunale sia efficiente e uno no? Non sono le risorse. Non è la litigiosità perché oramai gli italiani sono allineati alla media europea. Non è il contesto "meridionale" perché il tribunale di Marsala in Sicilia è risultato tra i 27 migliori e tra i 100 peggiori ci sono molti tribunali del Nord. Non sembra neanche necessario introdurre procedure complicate e informatizzazione avanzata: Barbuto ha ricordato che molti suoi ex colleghi lo accusano di "avere scoperto l’acqua calda" e ha ammesso che il suo metodo è incredibilmente semplice. Si parte dal misurare l’anzianità delle cause, poi si applicano regole che impediscono ritardi inutili come definire una data limite oltre la quale un accordo non è più possibile. "Alla fine conta la leadership di chi guida il tribunale" riassume Barbuto, ricordando che Gioacchino Natoli quando era presidente del tribunale di Marsala (poi divenuto presidente della Corte di Appello di Palermo e oggi suo successore al Ministero) ha ottenuto risultati eccellenti in soli tre anni, rendendo trasparente l’anzianità delle cause, dando obbiettivi ai suoi magistrati, distribuendo il carico di lavoro e motivando le persone. Chi scrive non può non notare che, se la situazione è questa, 100 persone continuano a bloccare il Paese, perché la giustizia civile è il primo motore dell’economia: un esempio molto attuale sono i crediti non performing di molte banche italiane che, per colpa della lentezza dei tempi dei fallimenti riducono il valore delle garanzie e rendono fragili molte banche. La normativa fallimentare può ancora migliorare, ma la gestione dei tribunali conta molto di più. Come se ne esce? Con più meritocrazia nei tribunali italiani, come sostenuto da chi scrive ormai da 10 anni. Se oggi ci sono dei bravi presidenti di tribunale è solo perché persone come Barbuto e Natoli hanno un innato senso del dovere: in magistratura non si fa carriera in base al merito, ma per anzianità. Purtroppo non sembra esista la volontà di cambiare. Alla recente inaugurazione dell’anno giudiziario, la più polemica di sempre, l’Anm ha protestato non solo per la carenza di risorse ma anche per la riduzione dell’età pensionabile da 75 a 70 anni dei magistrati voluta dal governo che avrebbe "decapitato i vertici della magistratura". Il pretesto è stata l’eccezione per i vertici della Cassazione, che costituirebbe un "attentato alla autonomia della magistratura". L’Anm ha ragione a rivendicare l’autonomia della magistratura e forse anche a sostenere che a 75 anni si può ancora essere dei validissimi magistrati come dimostra il caso di Mario Barbuto. Ma il principio non vale per tutti. Se i 27 presidenti di tribunale eccellenti che arrivano ai 70 anni vengono mantenuti in servizio (magari per aiutare i presidenti di tribunali in difficoltà), ne beneficeranno tutti. Ma bisognerebbe anche mandare a casa a 70 anni (magari anche prima?) i vertici che hanno risultati pessimi. La miglior garanzia per l’autonomia della magistratura è la meritocrazia, non la gerontocrazia. Custodia cautelare, sì al carcere anche per gli ultrasettantenni di Luigi Perfetti lultimaribattuta.it, 27 febbraio 2017 La custodia cautelare in carcere può essere disposta anche nei confronti degli anziani con più di 70 anni di età, finora risparmiati da questo provvedimento. Lo ha stabilito, sia pur in particolari ed eccezionali situazioni, la Corte di Cassazione, Sezione Sesta Penale, presieduta dal giudice Franco Ippolito, con sentenza del 20 febbraio 2017. In questa occasione la Corte ha stabilito la legittimità della custodia cautelare in carcere applicata a un anziano arrestato dai Carabinieri per possesso di cocaina (20 bustine delle quali aveva cercato di disfarsi lanciandole dal balcone di casa, dopo l’arrivo dei militari). Ad aggravare la situazione già di per sé pesante, il fatto che l’ultrasettantenne - al momento del controllo - si trovasse già agli arresti domiciliari per altri due (distinti) reati, sempre per questioni di droga. Insomma, un irriducibile. Per questo motivo, di fronte all’ennesimo episodio di detenzione di sostanze stupefacenti per fini di spaccio e per di più durante i domiciliari, i giudici hanno deciso che l’unica soluzione per placare il l’attitudine a delinquere dell’anziano fosse la custodia cautelare in carcere. Nella fattispecie, la Corte ha ritenuto che l’uomo rientrasse nell’ambito dell’art. 275 comma 4 codice di procedura penale che, di fronte della elevata probabilità di reiterazione del delitto, dispone il trasferimento nelle patrie galere. In tal senso la Corte ha richiamato un altro precedente per il quale si è ravvisata la "sussistenza delle esigenze cautelati di eccezionale rilevanza - atte a giustificare l’adozione della custodia cautelare in carcere nei confronti di una madre con prole di età inferiore a tre anni - nella quantità di precedenti penali e giudiziari per delitti della stessa specie (furti anche in abitazione) che ne evidenzino l’esclusiva e sistematica abitualità alla commissione di delitti contro il patrimonio, di guisa che sia impossibile fronteggiare l’eccezionale pericolosità sociale con misure diverse dalla custodia in carcere" (così la sentenza n. 2240/2006 della Sezione 5). Dunque, di fronte ad un anziano delinquente irriducibile i rimedi sono estremi. E l’anagrafica non conta. Anche perché, spesso, da parte di taluni individui c’è un consapevole approfittarsi del vantaggio dato dalla "veneranda età" proprio per continuare a svolgere incessantemente la propria attività criminale. Misure cautelari: se le esigenze cambiano modificabili con modalità meno gravose di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 27 febbraio 2017 Corte di cassazione - Sezione V penale - Sentenza 13 febbraio 2017 n. 6790. In tema di misure cautelari, quando le esigenze cautelari risultano attenuate ovvero la misura applicata non appare più proporzionata all’entità del fatto o alla sanzione che si ritiene possa essere irrogata, al giudice è consentito, ai sensi dell’articolo 299, comma 2, del Cpp, non solo di sostituire la misura con un’altra meno grave ovvero di disporre l’applicazione della misura applicata con modalità meno gravose (come letteralmente previsto dalla norma), ma anche di provvedere "applicando congiuntamente altra misura cautelare o interdittiva", con il solo limite del favor rei, nel senso che le misure congiuntamente applicate non possono determinare una condizione di maggiore afflittività per l’imputato. Lo ha detto la Cassazione con la sentenza n. 6790 del 13 febbraio 20176. I principi di proporzionalità e di adeguatezza - Tale soluzione interpretativa è in linea con i principi di proporzionalità e di adeguatezza, nonché con quello del "minor sacrificio della libertà personale", che risultano fortemente valorizzati dal recente intervento di modifica della disciplina delle misure cautelari realizzato con la legge n. 47 del 2015 (da queste premesse, secondo la Corte, il giudice ricorrendo le condizioni di attenuazione delle esigenze di cautelari, legittimamente aveva provveduto a sostituire la misura degli arresti domiciliari con quelle, congiuntamente applicate, dell’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria e dell’obbligo di dimora nel comune di residenza). La disciplina del cumulo delle misure cautelari - La legge n. 47 del 2015 ha innovato profondamente la disciplina del cumulo delle misure cautelari: con la modifica all’articolo 275, comma 3, del Cpp (la custodia cautelare in carcere può essere disposta soltanto quando le altre misure coercitive o interdittive, "anche se applicate cumulativamente", risultino inadeguate), sancisce il superamento del profilo caratteristico della previgente disciplina, che limitava la possibilità del cumulo ad alcune ipotesi di provvedimenti cautelari adottati nella fase dinamica delle vicende modificative o estintive del titolo cautelare: con l’innovazione detta possibilità si estende anche alla "fase genetica" della vicenda cautelare; mentre, con la modifica dell’articolo 299, comma 4, del Cpp (fermo quanto previsto dall’articolo 276, quando le esigenze cautelari risultino aggravate, il giudice, su richiesta del pubblico ministero, sostituisce la misura applicata con un’altra più grave ovvero ne dispone l’applicazione con modalità più gravose o "applica congiuntamente altra misura coercitiva o interdittiva") si colloca la disciplina del cumulo delle misure cautelari (coercitive o interdittive) sul piano del principio di proporzionalità e di quello di adeguatezza, quest’ultimo in particolare correlato alla "gamma" graduata delle misure previste dalla legge. Per la Cassazione queste indicazioni normative non limitano gli spazi per una più ampia applicabilità congiunta di più misure cautelari. Ciò lo si desume valorizzando la ratio delle modifiche introdotte dal legislatore nel 2015, ispirate ad assicurare una più pregnante tutela al principio del "minor sacrificio della libertà personale", legittimando così un’interpretazione che, in linea anche con i principi di proporzionalità e di adeguatezza, consente di ritenere che la collocazione della modifica in tema di cumulo nel corpo del solo comma 4 dell’articolo 299 non è di ostacolo all’applicabilità congiunta di altre misure cautelari anche nel caso della sostituzione della misura di cui al comma 2 dello stesso articolo 299 del Cpp. Proprio attraverso tale lettura sistematica, infatti, la Corte ritiene che sia attribuito anche al giudice che provveda a sostituire la misura, quando le misure cautelari risultano attenuate ovvero la misura applicata non appare più proporzionata all’entità del fatto, il potere di "applicare congiuntamente altra misura coercitiva o interdittiva". In tale evenienza, piuttosto, precisa il giudice di legittimità, l’applicabilità cumulativa delle misure incontra un duplice limite: nell’ipotesi di cui all’articolo 299, comma 2, del Cpp, il limite del favor rei, nel senso che le misure congiuntamente applicate non possono determinare una condizione di maggiore afflittività per l’imputato; su un piano generale, l’ulteriore limite in forza del quale il cumulo deve riguardare solo misure applicate nei contenuti coercitivi o interdittivi previsti dalla legge, in quanto i principi di legalità e di tassatività ostano - oltre che all’estensione dell’operatività della norma che prevede le singole misure a casi diversi da quelli tassativamente indicati dalla stessa - all’individuazione (e all’applicazione) di contenuti diversi da quelli tipici di ciascuna tipologia di misura cautelare. La resistenza a più pubblici ufficiali integra un unico reato di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 27 febbraio 2017 Corte di cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 27 gennaio 2017 n. 4123. In tema di resistenza a pubblico ufficiale, integra un unico reato, e non una pluralità di reati avvinti dalla continuazione, la violenza o la minaccia posta in essere nel medesimo contesto fattuale per opporsi al compimento di uno stesso atto di ufficio o di servizio, anche se nei confronti di più pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio. Lo ha ribadito la Cassazione con la sentenza della sesta sezione penale n. 4123 del 27 gennaio scorso. Unico reato o tanti reati - La Cassazione, riprendendo una tesi di recente espressa in giurisprudenza (sezione VI, 9 maggio 2014, Proc. gen. App. Genova, in proc. Pastore) non condivide l’orientamento, finora consolidato, secondo cui, invece, la resistenza o la minaccia adoperata nel medesimo contesto per opporsi a più pubblici ufficiali non configura un unico reato di resistenza ai sensi dell’articolo 337 del Cp, ma tanti reati di resistenza - che possono essere uniti dal vincolo della continuazione - quanti sono i pubblici ufficiali in azione, giacché l’azione delittuosa si risolve in altrettante e distinte offese al libero espletamento dell’attività da parte di ogni pubblico ufficiale coinvolto (tra le altre, sezione VI, 22 giugno 2006, Proc. gen. App. Campobasso in proc. Mastroiacovo; nonché, più di recente, sezione VI, 17 maggio 2012, Proc. gen. App. Brescia in proc. Momodu). A supporto, già nella sentenza Pastore (ripresa da quella in esame), la Corte aveva valorizzato il bene tutelato dall’articolo 337 del Cp, che è rappresentato dalla regolare attività dell’amministrazione, mentre l’offesa al pubblico ufficiale rappresenta un danno collaterale, sì che non può farsi discendere dal numero di pubblici ufficiali coinvolti una pluralità di reati, pur se l’offesa al bene primario rimane indiscutibilmente unica. Vale solo precisare che la tutela rispetto alle più gravi offese ai diritti individuali che possano accompagnarsi alla condotta violenta o minatoria tipica del reato di resistenza è comunque garantita dalle norme che tutelano espressamente l’integrità fisica, onde, in caso di violenza o minaccia che si accompagni a condotte lesive in danno di più pubblici ufficiali, vi sarà una unica violazione dell’articolo 337 del Cpe tanti reati di lesioni quanti sono i soggetti che ne riportano nel contesto incriminato. Ha chiuso l’ultimo degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari: e adesso? di Sandro Iannaccone wired.it, 27 febbraio 2017 Raggiunto l’obiettivo della chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari su tutto il territorio nazionale. Il loro nome ufficiale è piuttosto incolore. Si chiamano Ospedali Psichiatrici Giudiziari, abbreviato in Opg. Ma sono più noti con il nome di manicomi criminali. E da venerdì 24 febbraio, una giornata che il ministro della Salute Beatrice Lorenzin ha definito "storica", sono solo un ricordo del passato. O quasi: a brevissimo dovrebbero essere dimessi gli ultimi cinque pazienti ancora detenuti nell’ultimo Opg in chiusura, quello di Barcellona Pozzo di Gotto, in Sicilia. Si conclude così una storia che era cominciata nel 1975, quando gli ospedali psichiatrici giudiziari entrarono a far parte del sistema penale italiano soppiantando i vecchi manicomi, e che sarebbe dovuta in realtà finire già quattro anni fa. Il 17 gennaio 2012, infatti, la Commissione giustizia del Senato aveva approvato la chiusura degli Opg entro il 31 marzo 2013, poi prorogata una prima volta al primo aprile dell’anno seguente e una seconda volta, definitivamente, al 31 marzo 2015. A sollecitare la necessità di una legge per chiudere gli Opg erano stati, tra le altre cose, una serie di scandali che a partire dal 2010 avevano portato alla luce le gravi condizioni cui erano soggetti, con pochissime eccezioni, i detenuti degli istituti italiani. Nel momento in cui la legge entrò in vigore, due anni fa, erano presenti sei Opg sul territorio nazionale, attivi in cinque regioni (Lombardia, Emilia Romagna, Toscana, Campania e Sicilia) e ospitanti circa 700 detenuti. Per 250 di essi era previsto, dopo la chiusura degli istituti, l’inserimento all’interno di percorsi terapeutici personalizzati. I restanti 450, invece, sono confluiti nelle cosiddette Rems, ovvero Residenze per l’esecuzione della misura di sicurezza sanitaria, strutture più piccole, ad alta sicurezza e progettate per garantire ai detenuti che soffrono di malattie mentali l’attivazione di percorsi terapeutico-riabilitativi efficienti, evitando di ripetere gli errori-orrori degli Opg. Al momento, in Italia sono attive 30 Rems, e a breve dovrebbero essere attivate altre due residenze in Toscana e Sicilia, per un massimo di 1500 pazienti ospitati. Effettivamente, quello della riabilitazione è un aspetto cruciale. Perché la qualità del trattamento dei detenuti con malattie psichiatriche può fare la differenza rispetto alla ripetizione di comportamenti criminali. In particolare, il lavoro Viormed, un ampio studio epidemiologico (il primo del suo genere in Italia e in assoluto uno dei più importanti mai realizzato a livello internazionale), condotto dall’équipe di Giovanni de Girolamo, già direttore scientifico dell’Irccs Fatebenefratelli di Brescia, ha svelato che i pazienti psichiatrici con una storia di violenza non commettono atti violenti con maggiore frequenza di pazienti che non hanno una storia di violenza, a patto che il trattamento sia garantito, come avviene nelle strutture residenziali. Per un anno, con cadenza quindicinale, gli esperti hanno monitorato 140 pazienti di strutture residenziali, di cui circa la metà con una storia di comportamenti violenti, inclusi molti pazienti in precedenza reclusi in carceri od ospedali psichiatrici giudiziari, tramite strumenti standardizzati che permettevano di valutarne l’aggressività. "I risultati del nostro studio", spiega de Girolamo, "evidenziano che quando il trattamento è garantito, come può avvenire in strutture residenziali, il rischio di nuovi comportamenti violenti diminuisce in maniera vistosa, e non è diverso da quello esibito da pazienti che non hanno mai commesso atti di violenza". "Attualmente è in corso la seconda parte dello studio, su un campione più ampio di persone, tutti pazienti ambulatoriali. I risultati della prima parte, infatti, non possono essere automaticamente estesi a pazienti ambulatoriali, per due motivi essenziali", continua il medico: "in costoro il trattamento non è garantito, ossia il paziente può anche sospenderlo, e ciò può determinare una destabilizzazione sul piano clinico; inoltre, per i pazienti ambulatoriali non è scongiurato il rischio di abuso di sostanze o di alcool [che naturalmente non sussiste per i pazienti detenuti nelle Rems, nda], che da solo rappresenta il più importante fattore di rischio per i comportamenti aggressivi e violenti". I primi risultati di questa seconda parte dello studio sono attesi a metà 2017. In ogni caso, tornando alla questione del passaggio da Ospedali psichiatrici giudiziari a Residenze per l’esecuzione della misura di sicurezza sanitaria, è bene evidenziare che, accanto alle luci paventate da Lorenzin e da Franco Corleone, commissario unico nominato dal governo per la chiusura degli Opg, che nella sua relazione di fine mandato ha parlato di "passo storico", ci sono ancora delle ombre. Come, per esempio, il timore che le Rems possano diventare semplicemente dei nuovi manicomi con un altro nome. "Per evitarlo", ha detto lo stesso Corleone al Sole 24 Ore, "va applicata la legge 81, soprattutto nel principio per cui la misura di sicurezza ha un termine e non può superare la durata della pena massima per il reato compiuto. Quando entra una persona, quindi, lo psichiatra sa qual è il giorno dell’uscita e quindi lavora dimensionando l’intervento terapeutico sulla durata necessaria. E fino a ora questo ha funzionato, evitando così gli ergastoli bianchi". De Girolamo, però, ha sollevato altre criticità nel passaggio da Opg a Rems, arrivando addirittura a definirlo, sulle pagine della rivista Psicoterapia e Scienze umane, una occasione perduta", dal momento che "non ha tenuto conto degli insegnamenti della legge 180/1978: ha enfatizzato in modo irrealistico le virtù terapeutiche delle nuove Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, non ha previsto un’adeguata formazione degli operatori della salute mentale nel valutare e trattare i pazienti a rischio di comportamenti violenti e non ha predisposto standard uniformi sul territorio nazionale né l’attivazione di un adeguato monitoraggio". Sulla chiusura degli Opg e le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza di Enrico Magni (Psicologo-Psicoterapeuta) leccoonline.com, 27 febbraio 2017 Nel silenzio generalizzato, nel disinteresse mascherato sia della dirigenze sanitaria locale sia dei politici locali si sta avviando una nuova riforma che coinvolge e coinvolgerà i cittadini di questo territorio: è l’apertura delle Rems e la chiusura degli OpG. La questione è ampia e complessa. C’è la tendenza a tenere lontana la problematica perché è poco conveniente alla politica e alla società normalizzata. Gli OpG sono stati l’espressione perversa e mostruosa della parte rimossa di tutti noi senza distinzione di ceto, classe e fede religiosa. Due sono le leggi di riferimento che permettono il superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari. La legge N. 9 del 2012 (disposizioni superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari) e la Legge N. 81 del 30 maggio 2014 che ridefinisce alcuni istituti normativi riguardanti il passaggio da Opg alle Residenze per l’Esecuzione della Misura di Sicurezza Sanitaria (REMS). Gli ex OPG sono stati degli istituti nei quali la misura di sicurezza detentiva è stata prevista (art. 222) per gli autori di reato non imputabili per infermità psichica (e quindi non punibili) o internati per misure di sicurezza (art.211), dopo aver scontato la pena disciplinata (art. 219) e riservata in questo caso agli autori di reato socialmente pericolosi e semi-imputabili (e quindi soggetti a pena, per quanto diminuita). Gli OpG si chiudono, si aprono le REMS regionali, anche se gli articoli del Codice Penale restano immutabili. I soggetti considerati incapaci di intendere e di volere (art. 85 c.p.) o con vizio parziale di mente (art.89 c.p) e riguardante la pericolosità sociale (l’art. 203 c.p ) saranno i nuovi ospiti delle REMS. C’è però una modifica sostanziale da parte della Legge 81 e interessa il concetto della pericolosità sociale, introducendo tre criteri di merito. La valutazione della pericolosità sociale va effettuata sulla base delle qualità soggettive della persona, non sulla condizioni di vita individuale, familiare e sociale del reo; la sola mancanza di programmi terapeutici individuali non può essere posta a fondamento esclusivo del giudizio di pericolosità; inoltre è introdotto un termine massimo di durata delle misure di sicurezza detentive, che non possono protrarsi oltre ad un tempo pari al massimo edittale della pena comminata per il reato commesso. Queste modifiche rappresentano il chiaro segnale di un cambiamento nell’approccio del legislatore, mostrano, in particolare, l’intento di relegare la misura di sicurezza detentiva per i non imputabili (e per i semi imputabili) ad un ruolo di ultima ratio, limitando il numero di casi di ricovero e la durata della misura stessa. Ci sono aspetti profondi che necessitano di essere ulteriormente approfonditi, oltre a modificare alcuni articoli del codice penale che contengono ancora delle definizioni terminologiche oggettive, altri aspetti critici sono presenti e coinvolgono la funzione della cura e la custodia del soggetto. È il solito dilemma presente ma sollecita profonde riflessioni: la cura è legata al concetto dell’autodeterminazione dell’individuo, la custodia coinvolge la sicurezza, la coercizione. È una questione aperta. Come è aperta la responsabilità di chi deve gestire la struttura. Ci sono aspetti normativi e organizzativi che vanno sciolti. Il soggetto in cura è anche lo stesso soggetto attore di un reato. Un altro elemento fattuale è che queste strutture REMS sono collocate sempre in zone fuori da ambiti urbani, sono entità nascoste, separate dal contesto sociale, soggette ad essere silenti allo sguardo dell’opinione pubblica. Altro dato importante è che nelle carceri sono presenti soggetti con disturbi mentali che però, a causa del reato compiuto e/o delle condizioni, non sono mai stati sottoposti ad una valutazione peritale psicopatologica e quindi non accedono alla struttura REMS ma restano in carcere. Inoltre c’è il rischio che il soggetto con la custodia cautelare finisca in carcere in attesa di sentenza se non c’è un nesso causale tra riconoscimento della patologia mentale e reato. Le REMS sono in carico alle Regioni che devono rispondere a due criteri: quello della territorialità di appartenenza del soggetto e quello della cura. Roma: la lettera da Regina Coeli "qui impazzisco… ciao fratellone, addio mamma" di Rinaldo Frignani Corriere della Sera, 27 febbraio 2017 La lettera del ragazzo suicida in cella. "Io qui sto impazzendo, ma me la sono cercata. Fratellone mio, ora ti lascio con la penna ma non con il cuore. Ci rincontreremo, addio". Questo un brano della lettera scritta il 16 febbraio scorso dal carcere di Regina Coeli da Valerio G., il ragazzo di 22 anni morto suicida venerdì sera nella sua cella dove si è impiccato con un lenzuolo annodato alla grata della finestra di un bagno e dove era stato rinchiuso qualche giorno prima con l’accusa di violenza e resistenza a pubblico ufficiale e danneggiamento. Il giovane, con gravi problemi psichici, era evaso tre volte, fra novembre e dicembre scorsi (il 30 novembre, il 12 e il 19 dicembre), dalla Rems di Ceccano, nel frusinate, una delle strutture di assistenza per detenuti problematici che hanno preso il posto delle case di detenzione psichiatriche. A rendere nota la missiva è stata ieri l’associazione Antigone. La lettera - una pagina scritta a mano con una calligrafia incerta e tremante che avrebbe passato il controllo di sicurezza della corrispondenza in uscita da Regina Coeli - era diretta alla madre: in essa e Valerio raccontava tutto il suo disagio, anche in relazione alla conclusione di una relazione sentimentale qualche tempo fa, e faceva capire abbastanza chiaramente le sue intenzioni di farla finita. Nel frattempo si indaga sulla decisione del magistrato che, dopo l’ultimo arresto da parte dei carabinieri (che avevano rintracciato il ragazzo), ha deciso di farlo rinchiudere in carcere e di non portarlo in una struttura d’accoglienza specializzata. Per Patrizio Gonnella di Antigone e Stefano Cecconi della campagna Stop Opg, "non si cura mettendo le persone dietro le sbarre, ma affidandole - e ancor più i ragazzi - al sostegno medico, sociale e psicologico dei servizi sul territorio. Se un giovane si allontana da una Rems non si deve parlare di un’evasione, e non si butta una vita in galera". Sotto il punto di vista organizzativo e sulle carenze nelle carceri interviene anche Massimo Costantino, segretario generale aggiunto della Fns Cisl Lazio per il quale "purtroppo appare evidente come, seppur ci siano stati interventi legislativi nelle carceri, rimangono i soliti problemi, sia legati al sovraffollamento sia alla carenza di personale della Penitenziaria. A distanza di tre anni dal decreto "svuota carceri" - sottolinea ancora il sindacalista - gli istituti, a livello nazionale e regionale, sono tornati in sovraffollamento, con 191 strutture che ospitano 55.381 detenuti invece di 50.174, con un esubero di 5.207. E anche se l’istituzione del Dipartimento di Giustizia minorile e di comunità è apprezzabile, i risultati concreti tardano ad arrivare". Si torna a parlare dei morti in cella e delle cause. I dati della Fns Cisl Lazio registrano già dieci suicidi a livello nazionale e nove decessi per altri motivi. Nelle strutture regionali sono stati tre, due casi di suicidio a Regina Coeli e a Velletri, il 23 febbraio e il 7 gennaio, e una morte per malattia a Cassino lo stesso giorno. Nel 2015 i suicidi furono complessivamente 43, con 123 decessi totali dietro le sbarre, l’anno successivo il dato scese leggermente: 39 e 120. Sulmona: detenuto 60enne morto in cella, aperta indagine per stabilire le cause infocilento.it, 27 febbraio 2017 È stato trovato morto venerdì nella sua cella del carcere di massima sicurezza di Sulmona Bruno Noschese, 60 anni di Battipaglia. Il capo indiscusso della camorra della Piana del Sele appartenente al clan Giffoni, potrebbe essere deceduto per un infarto ma sul caso è stata aperta un’inchiesta e disposta l’autopsia. Noschese da circa tre anni non era più al regime del 41bis, anche grazie ad un pronunciamento della Cassazione che aveva annullato - per un problema tecnico-giuridico legato all’estradizione dalla Spagna dove era stato per diversi mesi latitante - la condanna definitiva all’ergastolo, tramutandola in 21 anni di reclusione. Roma: a Regina Coeli e Rebibbia troppi detenuti "grave degrado" di Rinaldo Frignani Corriere della Sera, 27 febbraio 2017 Mille reclusi in più nei penitenziari del Lazio. I sindacati: "Il reparto G9 della struttura sulla Tiburtina va chiuso". Centocinque detenuti in più rispetto alla fine del 2016. Un sovraffollamento che aumenta nonostante le misure che dovrebbero portare alla riduzione della popolazione carceraria. Ma nel Lazio - e di conseguenza a Roma - gli effetti di questa rivoluzione non si sentono affatto. E i dati non lasciano molto spazio all’immaginazione se non a quella negativa di strutture affollate dove i servizi, sia per i reclusi sia per gli agenti della Penitenziaria che anche per i volontari che operano dietro le sbarre, risentono di questa situazione. Il suicidio di un ragazzo nella tarda serata di venerdì scorso a Regina Coeli è solo l’ultimo episodio di una lunga serie che comprende anche aggressioni ai poliziotti, rivolte, risse ma anche spaccio di droga e utilizzo vietato di telefonini. È quanto denuncia la Fns Cisl Lazio che ha calcolato come al 31 gennaio scorso i detenuti nei quattordici istituti penitenziari del Lazio fossero 6.211 rispetto a una capienza massima complessiva di 5.235, quindi con quasi mille reclusi in più rispetto a quelli previsti. Fra le situazioni più preoccupanti ci sono quelle di Rebibbia Nuovo Complesso (surplus di 223 detenuti), Rebibbia femminile (+111) e Regina Coeli (+301), Velletri (+177), Civitavecchia (+102), Cassino (+90), Frosinone (+117) e Viterbo (+177). In aumento anche la popolazione carceraria a Rieti (+25) e Latina (+44). Proprio in quest’ultimo penitenziario il sindacato rileva a livello nazionale una violazione del limite di presenze addirittura del 120% che colloca la struttura fra le dieci più affollate d’Italia, al nono posto della classifica con 120 reclusi su un massimo di 76. Preoccupa anche la situazione di Rebibbia Nc con un 119% di sovraffollamento. In questo caso la Fns Cisl Lazio ha chiesto "la chiusura del Reparto G9, poiché degradante per i detenuti e insalubre anche come posto di servizio per il personale di polizia penitenziaria". Sul fronte degli organici degli agenti risulta una carenza di 465 unità: sono 3.587 invece dei previsti 4.052, con problematiche che si riversano anche sul loro lavoro. Ma c’è di più: sempre più di frequente gli agenti rinvengono oggetti e stupefacenti all’interno delle celle. Fra gli ultimi episodi quelli avvenuti nel carcere Lazzaria di Velletri e nella Terza casa circondariale di Rebibbia. In quest’ultimo caso, ad esempio, il marito di una detenuta ha provato a far entrare droga durante un colloquio ma è stato bloccato: "Volevo festeggiare il suo compleanno con un regalo speciale", avrebbe detto agli agenti che lo hanno denunciato. Situazioni che si verificano con una certa frequenza come anche l’aumento di reclusi che si trovano nelle carceri laziali "per ordine e sicurezza", provenienti da altri istituti, soprattutto abruzzesi in seguito ai danni provocati dai recenti terremoti. "Si tratta di persone con problemi gravi, alcune anche molto famose perché protagonisti di importanti casi di cronaca degli anni passati", conferma il sindacato. Roma: tra le sbarre del Cie di Ponte Galeria 97 donne, sono raddoppiate in un mese di Valeria Pacelli Il Fatto Quotidiano, 27 febbraio 2017 Una mattina trascorsa tra le migranti costrette in una gabbia: non ci sono criminali, solo sans papiers La promessa di Minniti: "I nuovi centri saranno completamente diversi". I nuovi Cie saranno completamente diversi". È stato l’impegno del nuovo ministro dell’Interno Marco Minniti a gennaio, poco dopo il giuramento. Il decreto legge è stato approvato a febbraio, ma nel frattempo, nel Centro di identificazione ed espulsione (Cie) di Ponte Galeria, nella periferia di Roma, nulla è cambiato. Anzi: il numero delle sue ospiti, tutte donne, è raddoppiato. Il 6 gennaio scorso, si contavano 48 persone di tutte le nazionalità, oggi ce ne sono 97. La maggior parte (45) sono nigeriane, alcune delle quali vittime della tratta e con alle spalle terribili storie di sfruttamento e prostituzione. Anche loro, come le 9 che vengono dalla Cina Popolare, le 16 dal Marocco o le 4 dall’Ucraina, passano le proprie giornate in una gabbia costruita all’interno di un’altra gabbia. Siamo nella periferia romana, in una struttura architettonica costruita con sbarre alte e sottili, più utili a fare da stendini che a trattenere queste donne. Che non sono soggetti pericolosi: ad oggi nessuna delle ospiti viene dal carcere. Sono tutte persone senza documenti, irregolari, che sono state fermate per strada. L’incremento delle presenze sarebbe il risultato di una maggiore attività di controllo delle forze dell’ordine su tutto il territorio italiano. E così dentro quella gabbia resta anche chi ad esempio ha perso il lavoro e non può rinnovare il permesso di soggiorno. Su 97, 63 donne sono richiedenti asilo, cercano una protezione internazionale e attendono la decisione del tribunale. Oggi ci sono state alcune udienze, altre sono fissate durante tutto il mese di marzo. Intanto in questo Centro - l’unico in Italia destinato alle sole donne (la sezione maschile è chiusa) - si vive con le infradito ai piedi nonostante il freddo, tra vestiti stesi e quattro mura sulle quali si vedono ancora i segni di chi è passato prima. Alcune si trovano qui da novembre scorso, come una donna che ha i figli e una zia in Italia: è stata fermata come altre perché senza documenti e adesso ha fatto richiesta di asilo. Un’altra invece è entrata nel centro con la sorella, che è però andata via. C’è anche chi ha bisogno di cure mediche. Sabato mattina, proprio durante la visita dei giornalisti e di alcuni esponenti della Commissione dei diritti umani al Senato, una donna si è sentita male. È stata soccorsa da un medico avvertito da un’amica in lacrime: la ragazza potrebbe soffrire di crisi epilettiche. Ma è solo una delle emergenze quotidiane che possono capitare a Ponte Galeria, in quello che viene vissuto, da chi è costretto a starci, come un carcere, e dove tanti operatori lavorano con la speranza "di fare qualcosa", per rendere quella permanenza forzata meno umiliante. È proprio sulla riforma dei Cie che Minniti ha investito buona parte del suo nuovo corso al Viminale, con il decreto legge "Disposizioni urgenti per l’accelerazione dei procedimenti in materia di protezione internazionale, nonché misure per il contrasto dell’immigrazione illegale". Cambia prima di tutto il nome: si chiameranno "Centri di permanenza per il rimpatrio". Ad oggi quelli aperti sono quattro: oltre Roma, ci sono Torino, Brindisi e Caltanissetta. Il decreto legge però prevede l’apertura di un centro per ogni Regione, per una capienza totale di 1600 ospiti su tutto il territorio nazionale. L’obiettivo è la riduzione delle dimensioni delle strutture: centri molto più piccoli che potranno contenere al massimo 100 persone e che si troveranno preferibilmente fuori dai centri urbani ma vicini ad aeroporti o porti per agevolare i rimpatri. Dovranno ospitare per lo più soggetti ritenuti pericolosi. Per ora non è cambiato nulla: a Ponte Galeria non è arrivata alcuna comunicazione ufficiale, nemmeno una circolare per disporre il nuovo corso. C’è stato un accordo con l’Autorità anticorruzione, che ha stabilito delle linee guida per creare un contratto che sia valido per tutti i futuri centri ed evitare così difformità. Questa settimana dovrebbero partire le direttive inviate alle diverse prefetture, mentre sono in corso gli incontri con gli enti locali per individuare le strutture da destinare ai futuri centri. Nel frattempo a Ponte Galeria, i giorni passano senza che cambi nulla, senza che gli ospiti svolgano alcuna attività. C’è una sala dove di tanto in tanto viene trasmesso qualche film, ma di cinema queste donne ne hanno visto ben poco finora. Continuano a raccontarsi le proprie sofferenze e le proprie storie, che spesso hanno tratti molto simili, mentre attendono di tornare libere da quella che percepiscono come una galera. E vivere tra le sbarre in una struttura grigia, piena di gabbie, non aiuta di certo. Potenza: tenta il suicidio al carcere minorile, salvato in extremis dalla Polizia penitenziaria oltrefreepress.com, 27 febbraio 2017 Una serie di provvedimenti restrittivi di natura penale che negli ultimi tempi hanno colpito un detenuto ristretto presso l’Istituto Penale per Minorenni "Emanuele Gianturco" di Potenza, hanno probabilmente generato uno stato di declino psicologico, già di per sé precario, e quindi proprio ieri sera, intorno alle 20,00, è stata sfiorata la tragedia. A darne notizia è Saverio Brienza, Segretario Regionale del S.A.P.Pe. Basilicata (Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria), che fa luce sull’evento di venerdì sera, quando un detenuto minorenne di nazionalità macedone, nella sua camera detentiva, ha tentato di togliersi la vita legandosi con un lenzuolo alle grate del bagno. È stata la prontezza degli agenti di Polizia Penitenziaria che nell’accorgersi della criticità non ha esitato ad intervenire con determinazione salvando il minore in extremis da morte certa. Il detenuto, con problemi di natura psichiatrica ed in carcere per numerosi reati contro la persona, subito dopo l’intervento posto in essere dalla Polizia Penitenziaria è stato trasportato con la massima urgenza presso l’Ospedale San Carlo di Potenza dove è attualmente in stato di ricovero in discrete condizioni cliniche. Nel concludere, il Segretario Regionale Brienza plaude la Polizia Penitenziaria di Potenza intervenuta, che con l’episodio di ieri sera ha evidenziato, ancora una volta, le migliori qualità professionali, aggiungendo un altro eroico gesto che va ad annoverare i tanti interventi che i Baschi Azzurri pongono in essere per salvare i detenuti che ogni pochi giorni tentano di togliersi la vita nelle carceri italiane e chiede all’Amministrazione della Giustizia Minorile e di Comunità di procedere secondo la vigente disciplina in materia di ricompense al personale del Corpo di Polizia Penitenziaria, auspicando che l’intervento posto in essere dai poliziotti potrebbe essere giudicato meritevole di promozione al grado superiore per meriti eccezionali. Donato Capece, segretario generale del Sappe, denuncia la gravità costante della situazione penitenziaria: "Ogni 9 giorni un detenuto si uccide in cella mentre ogni 24 ore ci sono in media 23 atti di autolesionismo e 3 suicidi in cella sventati dalle donne e dagli uomini del Corpo di Polizia Penitenziaria. Aggressioni risse, rivolte e incendi sono all’ordine del giorno e i dati sulle presenze in carcere ci dicono che il numero delle presenze di detenuti in carcere è in sensibile aumento. Ed il Corpo di Polizia Penitenziaria, che sta a contatto con i detenuti 24 ore al giorno, ha carenze di organico pari ad oltre 7.000 Agenti". "Da quando sono stati introdotti nelle carceri vigilanza dinamica e regime penitenziario aperto sono decuplicati eventi gli eventi critici in carcere", concludono i sindacalisti del Sappe. "Se è vero che il 95% dei detenuti sta fuori dalle celle tra le 8 e le 10 ore al giorno, è altrettanto vero che non tutti sono impegnati in attività lavorative e che anzi trascorrono il giorno a non far nulla. Ed è grave che sia aumentano il numero degli eventi critici nelle carceri da quando sono stati introdotti vigilanza dinamica e regime penitenziario aperto. Nell’anno 2016 ci sono infatti stati 39 suicidi di detenuti, 1.011 tentati suicidi, 8.586 atti di autolesionismo, 6.552 colluttazioni e 949 ferimenti. E questo deve fare capire in quali condizioni sono costretti a lavorare i poliziotti penitenziari di Potenza, spesso vittime loro stessi della follia delinquenziale di certi detenuti". Verona: incarico da 533mila euro per la residenza dei detenuti malati psichiatrici di Alessandro Lerbini Il Sole 24 Ore, 27 febbraio 2017 A Nogara bando per i servizi tecnici di ingegneria e architettura relativi alla redazione del progetto definitivo ed esecutivo per la realizzazione di una Rems. Incarico di progettazione da oltre mezzo milione di euro in provincia di Verona. L’Azienda Ulss 9 Scaligera - sede di Legnago - manda in gara i servizi tecnici di ingegneria e architettura relativi alla redazione del progetto definitivo ed esecutivo e pratiche accessorie per la realizzazione di una Rems (Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza) presso il Csp "Stellini" di Nogara. L’importo del bando è di 533mila euro. Al momento la struttura provvisoria può ospitare 16 pazienti infermi di mente autori di reati. La Rems definitiva troverà posto all’interno di un fabbricato di nuova costruzione all’interno dello Stellini e sarà dotato di 40 posti letto per i malati psichiatrici veneti in regime di detenzione, prima ricoverati negli Ospedali Psichiatrici giudiziari (Opg), chiusi per decisione del Governo. Lo staff di assistenza è composto da medici psichiatri, psicologi criminologi, educatori professionali, terapisti della riabilitazione, infermieri, operatori socio sanitari ed assistenti sociali. Il bando rimane aperto fino al 7 aprile. Padova: laurearsi in carcere, al carcere Due Palazzi inizia l’anno accademico di Federica Cappellato Il Gazzettino, 27 febbraio 2017 Giovedì l’Università di Padova inaugura l’anno accademico per gli studenti detenuti al Due Palazzi. In tutto una cinquantina di uomini, giovani e meno giovani, la maggior parte con pene importanti da scontare, finanche all’ergastolo. L’opportunità esiste dal 2003, è aperta a tutti i reclusi dei poli penitenziari del Nord Est e intende offrire la concreta possibilità di "farsi una cultura", valorizzata da un titolo accademico spendibile un domani fuori dalle mura carcerarie. La cerimonia del 2 marzo si svolgerà alla presenza del rettore Rosario Rizzuto e del provveditore regionale Enrico Sbriglia, previsti interventi del direttore del carcere Ottavio Casarano, la coordinatrice del progetto carcere dell’Università Francesca Vianello, e il professor Giuseppe Mosconi che relazionerà su "Oltre la pena: la giustizia riparativa". Quindi si procederà alla consegna della tessera universitaria alle dodici matricole, neoiscritti al polo universitario carcerario, da parte dei tutor di Ateneo. Il cabarettista Andrea Di Marco concluderà l’incontro con uno spettacolo comico-musicale. Esempio reale che al Due Palazzi ci si può cingere il capo d’alloro è la storia di uno straniero dimezza età con una pena molto significativa da espiare, diventato ingegnere informatico con la tesi "Sistema mobile per la gestione di un magazzino", frutto dell’approfondimento dell’esperienza di tirocinio compiuta all’interno di una realtà produttiva veneta che confeziona nastri adesivi. Una commissione ha appurato che il candidato "ha acquisito nella maniera più assoluta, pur in una condizione di effettiva limitazione della libertà, tutte le competenze necessarie per ottenere l’attestato di laurea. Lo studente ha dimostrato così di voler davvero prendere in mano la propria vita per ricostruirla partendo dalla cultura e dalla formazione, prendendo parte a uno stage, previsto dal corso di laurea frequentato, in una azienda dove ha dimostrato serietà nello svolgimento dei compiti assegnati tanto da aver concluso il periodo di tirocinio con un giudizio di pieno merito". I docenti a titolo gratuito scelgono di svolgere alcune lezioni al Due Palazzi grazie a un protocollo d’intesa siglato tra Ateneo e amministrazione penitenziaria. Isernia: "Violenza assistita e minori", il 7 marzo se ne parla con il Sottosegretario Ferri cblive.it, 27 febbraio 2017 Si intitola "Violenza assistita e minori" il convegno promosso dall’Ufficio Scolastico del Molise con l’Istituto di Istruzione Superiore "Cuoco - Manupella" di Isernia per fare il punto su un fenomeno ancora poco riconosciuto e che il mondo della scuola vuole affrontare in termini di dialogo, apertura e prevenzione. Un evento che l’Ufficio Scolastico Regionale del Molise ha voluto promuovere in occasione della Giornata internazionale della donna, per offrire un punto di vista diverso sul fenomeno della violenza, affrontato anche rispetto alle conseguenze che riguardano i minori. L’appuntamento è in programma all’Auditorium della Provincia di Isernia, in via Berta, il 7 marzo, alle ore 8,30. Sarà presente anche il Sottosegretario di Stato alla Giustizia, Cosimo Maria Ferri, che verrà per un saluto istituzionale e terrà un intervento sul tema del convegno. La violenza assistita sui minori è una forma di violenza domestica che si realizza nel caso in cui il minore è obbligato, suo malgrado, ad assistere a ripetute scene di violenza sia fisica che verbale tra i genitori o, comunque, tra soggetti a lui legati affettivamente, che siano adulti o minori. Al convegno parteciperà anche Gloria Soavi, Presidente nazionale del Cismai (Coordinamento Italiano Servizi maltrattamenti all’Infanzia). Soavi condurrà il dibattito con studenti e docenti. Da 20 anni i Centri Cismai lavorano per riconoscere e fermare il maltrattamento e l’abuso all’infanzia. Secondo i dati Cismai sono 100.000 i bambini vittime di maltrattamento e abuso all’infanzia. La presenza del Sottosegretario Ferri è stata fortemente voluta dal Dir. dell’Ufficio Scolastico del Molise, Anna Paola Sabatini, per fare il punto sulle tutele di legge per i minori esposti a violenza assistita. Milano: l’audioteca per i detenuti arriva anche a San Vittore di Paolo Foschini Corriere della Sera, 27 febbraio 2017 Mattarella premia il progetto di Mussida, fondatore Pfm: i brani da abbinare agli stati d’animo. Tecnica, passione, preparazione atletica, coraggio. Queste, secondo Piero Angela, sono le qualità che hanno permesso ad Angelo d’Arrigo di vincere la sua sfida. Bisognerebbe aggiungere lo studio, la determinazione e la poesia. Ma di quale sfida stiamo parlando? Volare come un uccello e poi insegnare a volare agli uccelli. Un’impresa al limite tra possibile e impossibile raccontata in un libro, In volo sopra il mondo, appena uscito per Fandango. D’Arrigo è un personaggio incredibile e quel che racconta nella sua autobiografia appare incredibile a ogni pagina. Eppure, è vero. Nato a Catania nel 1961, maestro di volo, istruttore di sci, guida alpina: spinto dall’ambizione di levarsi in cielo come gli uccelli, si laurea all’Università dello Sport di Parigi, si appassiona al deltaplano e al parapendio, diventa due volte campione mondiale di deltaplano a motore, finché decide di lasciare l’agonismo per dedicarsi al volo libero. Unisce la ricerca aeronautica con quella ornitologica mettendosi a studiare, sul modello di Konrad Lorenz, l’etologia dei rapaci: è il progetto "Metamorphosis", che lo porta in viaggio nei 5 continenti, dall’Australia alle Ande, in luoghi spesso impervi dove segue le migrazioni e convive con gli uccelli, partecipando alla loro crescita. "Genitore di volatili", si definisce. Che un progetto rivolto ai detenuti delle carceri italiane sia premiato addirittura con la Medaglia d’Oro della Presidenza della Repubblica sarebbe già una notizia. Diventa una notizia doppia se nel progetto che si è meritato un’attenzione del genere c’è di mezzo la musica: non divisa per generi ma per "stati d’animo", con migliaia di brani raccolti in forma di audioteca e un software capace - semplifichiamo - di abbinare il tuo umore a quel brano. Notizia tripla se il progetto diventa alla fine - come è successo - una realizzazione concreta prima in quattro carceri poi in Dopo aver stupito il mondo nel 2001 attraversando in volo libero il Sahara e il Mediterraneo sulla rotta dei falchi migratori, dopo aver sorvolato l’Etna in eruzione, nel 2002, in deltaplano guida, per oltre 5.300 chilometri dal Circolo polare artico al Mar Caspio, un branco di gru siberiane in via di estinzione. Nel 2004 vola sopra l’Everest affiancando un’aquila e salendo a oltre 9 mila metri in volo libero. Stessa sfida poco dopo sulle vette dodici, da un capo all’altro d’Italia: l’ultima (per ora) audioteca della lista la inaugurano domani a San Vittore. Ecco, questo che ora è stato premiato con la medaglia del presidente Sergio Mattarella è il progetto "CO2" ideato da Franco Mussida, fondatore della Pfm nonché molte altre cose, dapprima e da sempre "Grazie presidente, il suo riconoscimento va a tutti i direttori, gli agenti e i detenuti" dell’Aconcagua: obiettivo scientifico, il reinserimento del condor nella Cordigliera delle Ande. Imitando il volo dell’albatro si avventura poi nella traversata della Calotta polare antartica. Tutto questo d’Arrigo racconta nel suo libro, dove confluiscono gli appunti di diario presi durante le varie escursioni. Ma è un libro postumo, perché d’Arrigo è morto il 26 marzo 2006 a Comiso nel corso di una manifestazione in con il suo Cpm Music Institut di Milano e poi con il patrocinio del ministero della Giustizia che l’ha fatto proprio. "Caro presidente", comincia la sua lunga lettera di ringraziamento. Con un grazie "in primo luogo alla Siae" attraverso cui sin dall’inizio tanti "artisti, musicisti e compositori" hanno potuto partecipare al progetto. E poi al ministero, all’università di Pavia, ai ragazzi del Cpm, "ai direttori, agli agenti e ai detenuti" di tutti gli istituti coinvolti: "È a tutte queste persone che lei, Presidente, ha voluto assegnare la sua personale Medaglia". Ricordando che "i detenuti suo onore: il deltaplanista dei record - il Condor - stava volando su un biposto con un generale dell’aeronautica di grande esperienza, ma il velivolo è impazzito precipitando in un uliveto. Una beffa. Ciò detto, rimane fuori l’intuizione geniale: dopo attente analisi del Codice di Madrid, utilizzando materiali leggerissimi e sperimentando le sue invenzioni nella Galleria del vento Fiat, d’Arrigo ha realizzato e fatto volare una "Piuma" stranieri oggi arrivano a essere anche l’80 per cento del totale, come a Venezia", Mussida anticipa che il software delle audioteche è in corso di traduzione in otto lingue. E scrive: Inaugurazione Franco Mussida con i detenuti di Ancona per il progetto C02 "Chi conosce le problematiche della detenzione sa che la vera elaborazione dei delitti commessi passa attraverso una positiva metamorfosi interiore, e in questo processo la bellezza può svolgere un ruolo determinante". Nel "rispetto delle leggi e della giustizia - conclude - ma unendo a tale fermezza azioni di sensibilità umanistica: credo che la diffusione di CO2 possa anche raccontare cosa voglia dire essere Italiani ed europei in un periodo in cui l’Europa pare l’ultimo baluardo assediato di un umanesimo imbarbarito". Iran. Ricercatore dell’Università di Novara in carcere ha iniziato lo sciopero della sete di Barbara Cottavoz La Stampa, 27 febbraio 2017 Cresce la paura per la salute di Ahmadreza Djalali, accusato di aver collaborato con "Paesi nemici": da venerdì una nuova protesta contro la detenzione. Ahmadreza Djalali è un medico iraniano esperto di medicina dei disastri. Ha vissuto e lavorato a Novara con i ricercatori del Crimedim dal 2012 al 2015. "La sua vita è in pericolo": cresce di ora in ora l’ansia per la sorte di Ahmadreza Djalali, 45anni, il medico iraniano incarcerato a Teheran con l’accusa di aver collaborato con Paesi nemici. Djalali è un ricercatore in medicina dei disastri e ha lavorato e vissuto anche a Novara: quando è stato arrestato, il 25 aprile in occasione di un convegno a cui era stato invitato dall’Ateneo di Teheran, collaborava ancora con il Crimedim, il centro di ricerca dell’Università del Piemonte Orientale. Gli appelli internazionali - Venerdì ha cominciato lo sciopero della sete e da giorni aveva ripreso a rifiutare il cibo. La scorsa settimana, infatti, aveva ripreso a nutrirsi regolarmente: lo aveva probabilmente confortato la mobilitazione internazionale che si era creata in tutto il mondo per lui. Da Novara i suoi colleghi dell’Upo e gli amici che aveva incontrato negli anni trascorsi in città, dal 2012 al 2015, avevano lanciato una petizione per la sua liberazione raccogliendo oltre 200 mila firme. La senatrice novarese Elena Ferrara con il collega Luigi Manconi avevano incontrato l’ambasciatore iraniano a Roma da cui in seguito avevano avuto rassicurazioni sul fatto che le indagini a carico di Djalali erano ancora in corso e non era stata decisa nessuna condanna a morte, come era stato minacciato in precedenza. Il 6 febbraio Amnesty International inoltre aveva lanciato un’azione urgente chiedendo la sua liberazione e denunciando che il medico, detenuto nella prigione di Evin a Teheran, era stato in isolamento per mesi e si trovava in condizioni fisiche non buone, avendo già avuto due collassi e problemi ai reni. Si erano impegnati per la sua liberazione anche la Svezia, dove abitava dall’inizio del 2016 con la moglie Vida e i due figli, Ario di 5 anni e Amitis di 14, dopo aver lasciato Novara, e il Belgio, con cui collaborava. Ricusato il suo avvocato - Questa attenzione internazionale forse aveva illuso tutti. Nei giorni scorsi, portato davanti al giudice, Djalali si è visto ricusare di nuovo il suo avvocato e non ha ottenuto la fissazione di una data certa del processo. Quindi ha deciso di riprendere lo sciopero della fame che aveva cominciato il 26 dicembre e interrotto solo la settimana scorsa e ha annunciato di voler rifiutare anche l’acqua a partire da venerdì. Mercoledì la commissione Diritti umani del Parlamento ha avanzato una nuova sollecitazione al ministero degli Esteri perché l’Iran possa garantire almeno una corretta difesa in giudizio. Ma fino a ieri sera non ci sono stati riscontri. "Siamo molto preoccupati per lui perché lo sciopero della sete ha conseguenze molto pesanti sul fisico - ha detto il professor Francesco Della Corte, direttore del Crimedim di Novara. È una situazione angosciante". Luca Ragazzoni, amico e collega del centro di ricerca novarese: "È in pericolo la sua vita". Sri Lanka: l’assalto a un bus per il trasporto di detenuti causa 7 morti Associated Press, 27 febbraio 2017 Sette persone sono rimaste uccise in Sri Lanka nell’attacco a un bus di detenuti nei pressi della città meridionale di Kalutara. Tra le vittime, oltre a due agenti, figura anche il capo di una banda criminale, Aruna Udayashantha, probabile obiettivo dei killer. Si tratta del secondo assalto a un bus di detenuti nell’ultimo anno: a marzo 2016 l’obiettivo dell’assalto era un uomo incarcerato con l’accusa di aver assassinato un politico.