Giustizia e comunicazione di Donatella Stasio questionegiustizia.it, 26 febbraio 2017 Esiste anche una "contaminazione positiva" tra magistratura e media o, se si preferisce, tra giustizia e comunicazione. Una contaminazione "necessaria" e "doverosa", perché la giustizia - per come spesso viene rappresentata e per come si rappresenta - non suscita nell’opinione pubblica quel sentimento di fiducia, che è un bene vitale per una democrazia moderna, al di là delle critiche che ad essa si possono muovere come potere, come servizio, come funzione È del 21 novembre 2016 il libro bianco pubblicato dall’Unione delle camere penali sull’informazione giudiziaria in Italia, con il quale i penalisti tornano a denunciare il "circo mediatico giudiziario" e l’impostazione "apertamente colpevolista" dell’informazione giudiziaria, riscontrata nel 29% delle testate monitorate, a fronte del 3% di quelle "apertamente innocentiste", nonché nel 40,2% dei titoli, mentre il 48,9% è neutro, anche se la neutralità comunque manderebbe, sia pure non intenzionalmente, un messaggio di implicita responsabilità dell’imputato. Questa "impostazione colpevolista" dell’informazione giudiziaria sarebbe frutto della "contaminazione" negativa tra procure e stampa. Un punto di vista piuttosto diffuso e sintetizzato da Luciano Violante con una ormai famosa battuta: "La vera separazione delle carriere da fare sarebbe quella tra pm e giornalisti". Giusta o sbagliata che sia questa analisi - che forse tradisce essa stessa un’impostazione colpevolista - non vi è dubbio che magistratura e stampa siano due poteri che si qualificano essenzialmente per la loro indipendenza (il concetto di libertà di stampa implica infatti anche quello di indipendenza). E l’indipendenza, a sua volta, si qualifica attraverso la professionalità e la responsabilità. È questo che fa della magistratura e della stampa, non solo due pilastri dello Stato costituzionale di diritto, ma anche due protagoniste fondamentali della contemporaneità. E uso questa parola - protagonista - nel suo significato proprio, cioè di chi svolge un ruolo di primo piano nelle vicende della vita, e non nel significato deteriore di protagonismo, inteso come atteggiamento presenzialista per motivi di immagine personale. Due significati opposti, che tuttavia hanno finito per confondersi nella percezione (negativa) dell’opinione pubblica, per molteplici ragioni, tra le quali c’è anche quella (sostenuta appunto dalle Camere penali) di un rapporto non sempre chiaro tra questi due poteri "indipendenti", che non dovrebbero "contaminarsi" l’uno con l’altro ma mantenere una "giusta distanza", come avviene rispetto al potere politico e a quello economico-finanziario. Esiste, però, anche una "contaminazione positiva" tra magistratura e media o, se si preferisce, tra giustizia e comunicazione. Ed è di questa che vorrei parlare. Una contaminazione "necessaria" e "doverosa", perché la giustizia - per come spesso viene rappresentata e per come si rappresenta - non suscita nell’opinione pubblica quel sentimento di fiducia, che è un bene vitale per una democrazia moderna, al di là delle critiche che ad essa si possono muovere come potere, come servizio, come funzione. Prevalgono sentimenti e atteggiamenti diversi che vanno dalla santificazione alla denigrazione; ma soprattutto, prevale il senso di estraneità, particolarmente pericoloso in un passaggio storico come quello attuale, di generale disorientamento politico-istituzionale, che è poi la fonte del populismo dilagante. Di questa realtà la magistratura deve farsi carico, non certo per strizzare l’occhio al consenso popolare ma per "dovere istituzionale". Non può fare spallucce o semplicemente delegare ad altri (i media) il compito di comunicare, inteso come dovere alla trasparenza e alla comprensibilità del proprio agire. Di qui la sua necessaria "contaminazione" con la comunicazione. Di questa necessità, lo voglio dire, Bruti Liberati ha saputo farsi interprete nei diversi ruoli che ha svolto durante la sua lunga carriera in magistratura. E lo ha fatto senza mai abdicare al suo ruolo istituzionale, ma con la consapevolezza di svolgere anche un ruolo sociale. Vorrei ricordare, in proposito, le parole di Pino Borrè, un magistrato che, al di là degli incarichi ricoperti, è stato un grande protagonista nella formazione culturale della magistratura in funzione di quel "ruolo sociale" che, già negli anni 50, Piero Calamandrei considerava centrale, chiamando il giudice ad essere partecipe e interprete della società in cui vive e della complessità dei suoi problemi. Scriveva Borrè, nel gennaio del 1986: "La professionalità del magistrato è funzionale al corretto esercizio dell’indipendenza… è antidoto contro le tentazioni di scorciatoie e contro i pericoli di casualità e soggettivismo… è condizione perché i provvedimenti giurisdizionali, anche i più coraggiosi ed innovativi, non siano sterili fughe in avanti e possano aspirare all’accettazione sociale… esige che l’operato dei magistrati sia socialmente comprensibile, trasparente e controllabile e infine che l’impegno non si trasformi in protagonismo…; la professionalità è capacità di rispetto delle regole procedimentali, è misura, garanzia di razionalità, coscienza del limite…". Ecco, queste parole - che fanno leva sulla professionalità - sintetizzano efficacemente i doveri di una magistratura indipendente, consapevole di svolgere un ruolo sociale; che non vive in un iperuranio imperscrutabile né si percepisce come casta ma semmai come servizio e funzione, oltre che come potere; che non rincorre il consenso popolare ma si fa carico dell’accettazione sociale delle proprie decisioni per scongiurare il pericolo di una giustizia fai da te, e che al tempo stesso ha piena contezza della necessità di essere comprensibile, trasparente e controllabile, affinché il cittadino non si senta, rispetto alla giustizia, uno "straniero", come il Mersault dell’omonimo libro di Camus, ma sviluppi un senso di appartenenza che gli consenta di farsi un’opinione, se del caso anche critica, ma il più possibile "informata". La professionalità è certamente la chiave per assolvere questo compito, anzi: questo dovere di comunicare. Che non è, quindi, soltanto "affare nostro", cioè di noi giornalisti, anche se ovviamente il nostro ruolo è tutt’altro che secondario o subordinato (ne parlerò brevemente dopo). Ecco perché, secondo me, il tema della comunicazione della giustizia sulla giustizia è un tema ineludibile, finora troppo sottovalutato o temuto, con il quale ogni magistrato - giudice o pm - deve misurarsi, non solo con gli strumenti "ordinari", a cominciare dalla motivazione dei propri provvedimenti, ma anche attraverso altre forme di comunicazione che, a prescindere da quella veicolata dai media, raggiungano in modo corretto l’opinione pubblica. Non è un parlar d’altro, se è vero - com’è vero - che in altri Paesi (dal Belgio alla Romania) il dovere di comunicare è considerato ormi una specifica competenza del magistrato, più che mai del magistrato dirigente. Quindi è stato istituzionalizzato. In Italia, però, è un terreno scivolosissimo e me ne sono accorta da quando - ormai tre anni fa - ho cominciato ad occuparmene in varie sedi (compresa la Scuola superiore della magistratura), riscontrando resistenze e diffidenze da parte dei magistrati, soprattutto giudici. In parte come reazione alla sovraesposizione del ventennio berlusconiano, in parte come chiusura corporativa rispetto ad un ambito non considerato "proprio". Non a caso, un sondaggio commissionato dalla Scuola della magistratura rivela che soltanto il 20% dei magistrati intervistati considera la comunicazione una competenza da acquisire o da approfondire. Quindi, la strada è ancora lunga e difficile, tanto più in questa fase storica, nella quale - come ha osservato lo stesso Bruti Liberati - "soffia di nuovo un vento di chiusura corporativa, pericolosamente coniugato al populismo giudiziario". Eppure, proprio questa fase storica chiama di più alla responsabilità di comunicare. Pensiamo solo alla grave crisi economica che sta attraversando il nostro Paese ormai da anni. I magistrati sono chiamati direttamente in causa su più fronti, la sovraesposizione è inevitabile e il rischio di strumentalizzazioni, polemiche o semplicemente di confusione e disorientamento è elevatissimo. La crisi li interroga, ad esempio, sul rapporto tra crescita economica e livello di protezione dei lavoratori, su quale debba essere il punto di equilibrio tra tutela della libertà di impresa e diritto alla salute. Già in occasione di provvedimenti di sequestro preventivo riguardanti grandi imprese o di pronunce di enorme impatto sulle finanze dello Stato - come quelle della Consulta sulla legittimità costituzionale del blocco dell’indicizzazione delle pensioni - si è discusso delle loro ricadute economiche e finanziarie, non senza polemiche. Uno dei temi del dibattito pubblico, sollevato anche in sedi istituzionali, è quello delle compatibilità economiche, cioè dell’esigenza che il giudice si faccia carico delle conseguenze sistemiche delle proprie decisioni. Diventa poi sempre più pressante il problema della velocità dell’economia e della lentezza della giustizia. Di quale sia l’impatto sull’economia e sulle imprese, in un sistema in crisi di competitività, di una giustizia che riesce ad essere incisiva solo in sede cautelare, nell’ambito di un processo infinito e in presenza di un alto tasso di imprevedibilità delle decisioni. Così come resta aperto il fronte della lotta alla corruzione, dei rapporti tra prevenzione e repressione. Per non parlare delle "nuove disuguaglianze" generate dal nuovo assetto economico e sociale, tema al quale Magistratura democratica ha dedicato il suo ultimo Congresso nazionale e sul quale c’è un’ampia letteratura, tra cui voglio ricordare il libro pubblicato nel 2012 dal politologo Vittorio Emanuele Parsi, intitolato La fine dell’uguaglianza. Come la crisi economica sta distruggendo il primo valore della nostra democrazia. Ecco: quale ruolo avranno i giudici per bloccare la crescita delle disuguaglianze? Qualunque siano le risposte - e solo a voler considerare questo specifico contesto - dovranno essere - in ogni ambito, da quello associativo, più politico, a quello giurisdizionale, peraltro anch’esso politico sia pure in un senso diverso - comprensibili all’opinione pubblica, al di là della mediazione giornalistica. Quindi, la "comunicazione giudiziaria" avrà un ruolo sempre più centrale nella vita democratica del nostro Paese. E dovrà misurarsi con modalità, tempi e linguaggio diversi da quelli cui è abituata. Ovviamente non voglio eludere il tema del ruolo, della qualità, e della responsabilità di chi, per mestiere, fa informazione, in particolare informazione giudiziaria, cioè di come i media restituiscono all’esterno la realtà complessa della giustizia: delle manipolazioni, forzature, strumentalizzazioni, e quant’altro. Dico spesso che è il tono che fa la musica, e non c’è dubbio che l’intonazione mediatica sulla giustizia risenta, nella migliore delle ipotesi, di una semplificazione dello spartito giudiziario più funzionale alle leggi del mercato che a quelle dell’informazione. A ciò non è estraneo lo sviluppo delle tecnologie, in sé positivo per la diffusione dell’informazione, e quindi per il suo potenziale di libertà, ma spesso foriero, purtroppo, di manomissioni della realtà, come già rilevava negli anni 60 Hanna Arendt nel saggio Verità e politica. La velocità con cui oggi viaggia l’informazione sulle più diverse piattaforme, e il linguaggio imposto da alcune di esse, ha, di per sé, un potenziale distorsivo e distruttivo della verità dei fatti e della loro complessità, che non va sottovalutato. Oggi la comunicazione vive più che mai dell’istante e rinuncia all’argomentazione oltre che alla riflessione. Ma nella velocità si consuma troppo spesso la manipolazione. Bisogna poi fare i conti con una deriva populista del linguaggio, politico e mediatico, che rende più difficile distinguere tra realtà e finzione e quindi la conoscenza e il formarsi di un’opinione libera, perché informata. Tutto questo - al di là delle accuse di contiguità - implica una seria autocritica da parte di chi fa informazione, proprio per non abdicare a quel ruolo di "protagonista della contemporaneità" di cui parlavo all’inizio. Un ruolo che io rivendico in pieno, respingendo la rappresentazione dei media come resocontisti o, peggio, come raccatta-carte. L’informazione è testimonianza e narrazione. Ma richiede un approccio culturale che va oltre il resoconto e che implica capacità critica, poiché i suoi obiettivi sono la conoscenza e la comprensione dei fatti. In un libro pubblicato da Einaudi qualche tempo fa e intitolato Fondata sulla cultura, Gustavo Zagrebelsky scrive che "la conoscenza delle cose apre alla loro interpretazione, ma l’interpretazione dà un senso alle cose stesse, le fa conoscere come manifestazioni di senso. Per questo, interpretare è sempre prendere posizione". Il giornalista, quindi, è interprete dei fatti, perché deve dare un senso ai fatti. L’interprete, spiega sempre Zagrebelsky, "ha occhi per ciò che è stato, per ciò che è, e per ciò che sarà, e in questa sequenza sta il suo prendere posizione". Ebbene, in questa sequenza sta anche "il prendere posizione" dell’informazione. È un punto delicato, poiché solitamente dal giornalista si pretende il contrario, cioè di non prendere posizione. Gli si chiede di essere neutrale, per non correre il rischio di essere, o apparire, fazioso, tifoso. Ma "prendere posizione" e "tifare" non sono la stessa cosa. E la pretesa di neutralità - che talvolta è anche una rivendicazione di categoria - rischia spesso di essere un alibi, un’ipocrisia o addirittura un’intimidazione indiretta per sottrarci o farci sottrarre alle nostre responsabilità. Che però presuppongono professionalità, rigore e spirito critico. Questi sono i nostri strumenti del mestiere, cioè di una corretta informazione giudiziaria che non cerca sponde - né fa da sponda a nessuno - ma, semmai, interlocutori. E che si pone essa stessa come interlocutrice autorevole. Il rischio di un approccio diverso è il conformismo e l’autoreferenzialità. Un "conformismo di casta", certamente rassicurante, ma deleterio per l’opinione pubblica e, dunque, per la qualità della democrazia, che dipende anche dalla qualità dell’informazione. In questo senso, stampa e magistratura corrono lo stesso rischio. E in tempi di "crisi" - economica, politica, istituzionale, etica, di legalità - questo è un rischio che la democrazia non può permettersi. L’intervento è stato tenuto nel convegno Magistratura e società svoltosi in occasione della premiazione di Edmondo Bruti Liberati come laureato benemerito del 2016 dell’associazione Algiusmi (Milano, 28 novembre 2016) Dov’è la legge contro la tortura? di Roberto Saviano L’Espresso, 26 febbraio 2017 Renzi si era impegnato a introdurre il reato nel codice italiano. Ma tutto è fermo per i ricatti dei partiti di destra Ci sono messaggi che vanno lanciati nel mare, come messaggi nelle bottiglie. Li scrivi, li arrotoli e aspetti, soprattutto speri. Speri che qualcuno li trovi, li raccolga. Non solo, speri che qualcuno si appassioni, senta la necessità di fare sua una tua battaglia, capendo che c’è qualcosa da guadagnare e tanto ancora da perdere. Ci sono volte in cui è necessario litigare con il potere, in cui è necessario stanarlo sapendo che il potere ha dalla sua tutto, che ha dalla sua molto. Intanto ha il consenso, quello di chi l’ha legittimato, votandolo e quello di chi lo voterà. Sapendo che litigare con il potere non porta mai vantaggi perché il potere è strutturalmente fatto per avere consenso. Non esiste politica senza compromesso, possiamo accettarlo se si dà al compromesso un’accezione che non sia necessariamente quella di mortificazione di idee e prassi virtuose. Ma ormai dobbiamo fare i conti con una tristissima realtà: non esiste compromesso che non serva ad ampliare la base elettorale. I voti, il numero di voti, ora e subito, qui e adesso. Solo questo conta. E più conta questo, più il voto diventa effimero, ce lo hai adesso per perderlo domani. Ci sono polemiche che è necessario fare perché la politica si assuma responsabilità, perché ammetta di aver fallito, sbagliato, ignorato. Ed è necessario farle perché, anche se sembrano riferite ai massimi sistemi, in realtà racchiudono precise indicazioni sul futuro. Matteo Renzi, nell’aprile del 2015, quando la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo condannò l’Italia per non avere ancora introdotto il reato di tortura, quando da Strasburgo definirono ciò che nel 2001 era accaduto alla Diaz e a Bolzaneto tortura, promise che il suo governo avrebbe introdotto il reato di tortura, si prese un impegno importante, che avrebbe reso giustizia a chi di tortura era morto, ma anche alle forze dell’ordine che in Italia vedono macchiata e compromessa la loro rispettabilità e la passione per un lavoro duro e logorante, fatto spesso senza adeguata retribuzione, in condizioni difficili, senza mezzi, senza benzina, senza divise invernali. Introdurre il reato di tortura in Italia non è una concessione, ma una necessità ed è criminale non averlo ancora fatto perché sono soprattutto le forze dell’ordine ad aborrire i giustizieri solitari, quelli che ignorano leggi e tribunali, che processano, giudicano e nel caso condannano. Che ignorano l’esistenza di un sistema carcerario (anch’esso in condizioni assai critiche) che però non avrebbe la funzione di punire ma di recuperare e reinserire chi ha sbagliato nella società. Badate che non sto descrivendo un mondo ideale, non sto sognando a occhi aperti, ma sto dicendo che tutto ciò che si discosta da quanto ho appena descritto è illegale. L’iter della legge che punisce il reato di tortura e il fallimento del governo Renzi, hanno molto a che fare con il dibattito di questi giorni. Hanno molto a che fare con un partito che si crede storicamente progressista, ma che è ostaggio di forze politiche (urlanti, ma assai deboli, rappresentative di poco o nulla) oscurantiste, retrograde e irresponsabili. La storia di questo reato negato, di un reato che fa vittime, ma che non esiste, è la storia delle alleanze improponibili. E quindi, se è vero che politica è compromesso, che è trovare la quadra, è anche vero che non può sempre essere compromesso al ribasso e ai danni di chi chiede diritti e di chi non ne ha. E allora ci riproviamo a chiedere responsabilità, non più a Renzi, ma a chi ha maggiori competenze e forse anche volontà di ascoltare. Patrizio Gonnella, presidente dell’Associazione Antigone, Antonio Marchesi, presidente di Amnesty International Italia, Luigi Manconi, presidente di A Buon Diritto e Antonio Gaudioso, segretario generale di Cittadinanzattiva hanno scritto una lettera importantissima al Ministro della Giustizia Andrea Orlando. Gli hanno chiesto di adottare la legge sul reato di tortura, nell’interesse di tutti. Gli hanno raccontato come è stata trattata in Senato, gli hanno suggerito come evitare che la legge, nuovamente modificata, ritorni alla Camera per nuova discussione. Ne va del rapporto degli italiani con la politica, ne va del senso di giustizia che ormai da cittadini non riusciamo più a scorgere. Bisogna mettere fine a questa stagione politica marchiata a fuoco dai ricatti degli Alfano, dei Gasparri, dei Salvini. E l’introduzione del reato di tortura nel Codice penale italiano ci sembra un buon modo per iniziare. Roma: 22enne suicida a Regina Coeli. "Era malato psichiatrico non doveva stare in cella" di Rinaldo Frignani Corriere della Sera, 26 febbraio 2017 In meno di tre settimane era evaso tre volte dalla Rems di Ceccano, una Residenza di riabilitazione per pazienti con problemi psichiatrici gestita con la collaborazione del ministero della Giustizia. E tutte le volte Valerio G., 22 anni, era stato ripreso dopo pochi giorni. Finché venerdì il giovane, arrestato di nuovo poco tempo fa per resistenza e lesioni a pubblico ufficiale e danneggiamento, è stato trovato morto nella sua cella nella seconda sezione del carcere di Regina Coeli. Si è tolto la vita impiccandosi con un lenzuolo alla grata del bagno. Inutile l’intervento del personale della polizia penitenziaria avvisato da altri detenuti: gli agenti hanno cercato di rianimare Valerio, che però era già deceduto. "Questo ragazzo era scappato da una Rems e a lui erano contestati soltanto reati di resistenza a pubblico ufficiale e lesioni. Reati tutto sommati irrilevanti e legati al fatto che era andato via dalla Rems. E allora mi chiedo, perché non è stato riportato lì? Perché si trovava in carcere? Questo suicidio si poteva evitare", è il duro atto d’accusa del Garante dei detenuti del Lazio, Stefano Anastasia. Sarà l’autopsia, domani, a stabilire le cause della morte e anche se il giovane avesse assunto qualche medicinale o sostanza che possano aver favorito la decisione di togliersi la vita. Secondo il segretario generale aggiunto della Cisl Fns Massimo Costantino, tuttavia, l’ennesimo suicidio in un carcere romano ripropone i problemi di assistenza collegati al sovraffollamento che nella struttura che si affaccia sul lungotevere è attualmente di 289 detenuti in più rispetto alla capienza massima, che è di 622. "Pur apprezzando le nuove normative in tema di esecuzione penale - spiega Costantino - e con l’istituzione del nuovo Dipartimento di giustizia minorile e di comunità, i risultati concreti tardano ad arrivare e nelle carceri resta il sovraffollamento". L’accusa del Garante: "Non doveva stare in penitenziario" "Perché Valerio si trovava in carcere? Questo suicidio si poteva evitare". Stefano Anastasia, Garante dei detenuti del Lazio, non usa mezzi termini per descrivere il caso del ventenne che venerdì sera si è tolto la vita nella sua cella nel carcere di Regina Coeli impiccandosi con un lenzuolo annodato alla grata di un bagno. Una morte avvolta nel mistero, non tanto per la dinamica - sulla quale comunque sta indagando approfonditamente la polizia penitenziaria - quanto piuttosto sui motivi che hanno spinto il ragazzo, affetto da gravi problemi psichiatrici, a farla finita. Un carcere dove il sovraffollamento attuale, secondo i dati resi noti dalla Cisl Fns con il segretario generale aggiunto Massimo Costantino, è di 289 detenuti che portano il totale dei reclusi a 911 rispetto alla capienza ufficiale di 622. Lì il ragazzo era stato portato qualche settimana fa dopo tre evasioni dalla Rems di Ceccano, nel frusinate. Esattamente il 30 novembre, il 12 e il 19 dicembre scorsi. Una lunga serie di fughe senza controllo da una di quelle strutture specializzate che hanno sostituito le case di detenzione psichiatriche, con una vigilanza limitata. Secondo Anastasia "a questo ragazzo erano stati contestati solo reati come resistenza a pubblico ufficiale e lesioni, tutto sommato irrilevanti e legati proprio al fatto che era andato via da una di quelle strutture. E allora, mi chiedo, perché non è stato riportato in una Rems? Aveva problemi significativi dal punto di vista psichiatrico - spiega ancora il Garante dei detenuti -, e quindi era incompatibile con il regime carcerario, questo non va bene. Ho già parlato con la direttrice di Regina Coeli, mi ha raccontato quello che è successo, è stata lei a dare la notizia ai familiari. Voglio capire se portare una persona fuggita da Rems in carcere sia una prassi che può essere superata. La misura cautelare - conclude Anastasia - in situazioni come queste deve essere l’ultima spiaggia". Gonnella (Antigone) e Cecconi (Stop Opg): "fatto che ci addolora e indigna" "Il suicidio del ragazzo di 22 anni avvenuto a Regina Coeli non solo ci addolora ma ci indigna anche". A dichiararlo sono Patrizio Gonnella (Antigone) e Stefano Cecconi (campagna Stop Opg) in riferimento al suicidio avvenuto nella tarda serata di ieri nel carcere romano dove il giovane era stato condotto dopo essere andato via da una Rems. "Non si cura mettendo le persone dietro le sbarre - proseguono Gonnella e Cecconi. Si cura affidando le persone, e ancor più i ragazzi, al sostegno medico, sociale, psicologico dei servizi del territorio. Se un ragazzo va via da una Rems non si deve parlare di evasione. Non si butta una vita in galera". Un fatto questo che avviene a pochi giorni dalla chiusura definitiva degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari e che dimostra quanto ancora si debba fare in questa direzione. "Non sappiamo ancora bene la storia accaduta ieri sera nel carcere di Regina Coeli, ma ogni suicidio è una sconfitta, una disfatta per lo Stato che aveva in custodia la persona". "Speriamo che non si torni in modo burocratico sull’argomento di come prevenire i suicidi. I suicidi - concludono Antigone e Stop Opg - non si prevengono togliendo lenzuola, pantaloni, coperte. I suicidi si prevengono con l’ascolto, con la presa in carico delle biografie, con la cura, non con la custodia". Sempre nella giornata di ieri un altro detenuto di 43 anni si era tolto la vita nel carcere bolognese della Dozza, a completare una giornata tragica che ha portato il numero di suicidi nelle carceri italiane, dall’inizio del 2017, a 10. Ascoli Piceno: botte nel carcere di Marino del Tronto, la Procura indaga di Luigi Miozzi Corriere Adriatico, 26 febbraio 2017 Dopo l’omicidio Mestichelli da accertare presunti casi di maltrattamenti. La sentenza emessa dal Gup di Ascoli Anna Maria Teresa Gregori per l’omicidio di Achille Mestichelli, oltre a condannare il venticinquenne tunisino Mohamed Ben Alì a sedici anni di reclusione, mette nel mirino anche il carcere di Marino del Tronto. Il rinvio degli atti al Pm, così come si apprende dal dispositivo, solleva dei dubbi sulle presunte violenze subite da alcuni detenuti all’interno della casa circondariale di Ascoli e che sarebbero emerse nel corso del procedimento penale. I faldoni - Tanto che il giudice per le udienze preliminari ha deciso di inviare tutti i faldoni del processo al Dipartimento della polizia penitenziaria che ora sarà chiamato a valutare la condotta degli agenti. Bisognerà ora attendere i novanta giorni che il Gup si è riservato per depositare le motivazioni per conoscere gli elementi che hanno indotto il magistrato ad aprire di fatto una nuova inchiesta che dovrà accertare come sono andati realmente i fatti e ciò che eventualmente è accaduto dietro i cancelli del cancelli del carcere. Le testimonianze - Di certo, da quanto si apprende, c’è che da alcune testimonianze raccolte nel corso del processo sarebbe emerso che alcuni detenuti sarebbero stati oggetto di comportamenti violenti da parte degli agenti di polizia penitenziaria. La sentenza, inoltre, dà lo spunto per l’avvio di altre tre inchieste: quella nei confronti dei compagni di cella per valutare il loro concorso nell’omicidio di Mestichelli; un’altra nei confronti di alcuni testi che avrebbero reso falsa testimonianza; e una terza nei confronti del personale medico e paramedico che soccorse Achille Mestichelli. Entro novanta giorni il Gup depositerà le motivazioni della sentenza e a quel punto sia il Pm che la difesa di Mohamed Ben Alì avranno quarantacinque giorni di tempo per presentare ricorso davanti ai giudici della corte d’appello di Ancona. L’avvocato del condannato Mauro Gionni, ha già annunciato la volontà di impugnare la sentenza. Cosa che quasi certamente farà anche la Procura. Padova: il Garante dei diritti dei detenuti che non c’è di Francesca Vianello off-line.news, 26 febbraio 2017 Mentre a livello nazionale è stata finalmente istituita e sta cominciando a lavorare la figura del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, il Comune di Padova continua da anni a disdegnare l’invito a formalizzare la corrispondente figura locale, ormai presente da tempo in quasi tutti gli altri capoluoghi veneti (dal 2010 a Vicenza, a Verona e a Rovigo, dal 2013 a Venezia, dal 2014 a Belluno). Alcuni anni or sono, negli anni di governo del Pd, di fronte ad uno sparuto Consiglio comunale e ad un sindaco annoiato, un cartello di realtà e di associazioni molto diverse tra loro - per finalità, professionalità e modalità di lavoro - non è riuscito, nonostante l’impegno, a portare il tema all’attenzione della città. L’esperimento di concertazione - che nel 2011 ha portato all’audizione congiunta di realtà quali la Camera penale di Padova, i Giuristi democratici, l’Associazione Antigone, Ristretti Orizzonti, Acli, Beati i Costruttori di Pace, Cgil Padova e Cgil Funzione pubblica Padova - rimasto deluso, ha respinto i referenti delle singole realtà verso le proprie specifiche attività e i propri principali interessi, lasciando ancora una volta i detenuti ristretti negli Istituti di Padova sprovvisti di una necessaria figura di garanzia e di trasparenza. Il successivo governo cittadino ha chiuso anche i pochi canali di comunicazione che ancora rimanevano tra le realtà impegnate sul carcere e alcuni singoli consiglieri particolarmente sensibili: il tema politicamente non paga, il tema è controproducente, il tema è utile solo ad essere strumentalizzato ai fini di alimentare l’insicurezza. E, si consideri il paradosso, paiono essere soprattutto quelle amministrazioni che maggiormente si dichiarano attente al tema della legalità, a respingere le richieste al mittente, a non concedere spazio, a rifiutare il confronto. Intanto 800 persone sopravvivono sul territorio cittadino, fantasmi residenti in quel di Padova e rinchiusi nelle locali Case circondariale e di reclusione, laddove dovrebbero starcene - per legge - al massimo 600. Con buona pace delle leggi cosiddette "svuota carceri" e degli allarmi ad esse legati, continuano a registrarsi, all’interno degli istituti ancora sovraffollati, sistematiche e quotidiane violazioni dei diritti fondamentali delle persone private della libertà personale: carenza di spazi e servizi, risorse inadeguate per la tutela della salute, limitazioni ingiustificabili nell’accesso all’istruzione, alla formazione e al lavoro. Spesso non si tratta di cattiva volontà degli operatori a cui queste persone si trovano affidate: a volte, in condizione di restrizione della libertà, è sufficiente l’indifferenza per produrre situazioni irrecuperabili di malasanità e disperazione. Né si tratta, di solito, di mancanza di professionalità o di umanità - anche se lavorare continuamente sotto pressione, in ambienti inadeguati, con doppi e tripli turni, mette a dura prova qualunque operatore. Si tratta soprattutto del rifiuto del carcere ad aprirsi al monitoraggio esterno, a connettersi con gli standard normativi della società libera, a prendere sul serio la propria funzione di rieducazione alla legalità. Come si può pensare che prenda seriamente i diritti degli altri chi si vede istituzionalmente e sistematicamente negare i propri diritti fondamentali? Dal 2011 ad oggi, inoltre, qualcosa è cambiato. I luoghi di privazione della libertà sul territorio si sono diversificati e moltiplicati, incrementando nuove forme di restrizione della libertà personale che sommano ad un controllo costante dei movimenti l’impedimento all’azione e a qualunque progettualità esistenziale. A qualche mese dalla chiusura di quello che per un anno è stato un luogo di isolamento e di negazione dei diritti nel pieno centro della città, l’ex caserma Prandina, non si può che guardare con sollievo ai tanti amministratori del territorio che stanno denunciando la politica fallimentare della concentrazione dei migranti. Allo stesso tempo, però, rimane l’urgenza di garantire, anche nelle sedi dell’accoglienza diffusa (poco meno di 2000 i posti offerti dalle diverse cooperative e associazioni che hanno risposto all’ultimo bando della Prefettura) - e a maggior ragione nella speranza che essa diventi il modello prevalente - visite di garanzia atte a promuovere un’accoglienza realmente inclusiva, dignitosa e trasparente nella sua gestione. La figura del garante dei diritti delle persone private della libertà personale può farsi carico, così come già avviene a livello nazionale, anche di questa nuova realtà, ovvero del monitoraggio del soddisfacimento dei bisogni materiali, delle necessità mediche e sanitarie, dell’accesso all’informazione giuridica e alla formazione linguistica di persone comunque limitate nella propria libertà di movimento, nella misura in cui sono soggette ad una procedura che non consente loro di allontanarsi dal territorio. Anche se fatica enormemente a trovare sponde politiche e canali di comunicazione, esiste una parte della città sensibile ai temi della tutela dei diritti di tutti, della costruzione di un’accoglienza adeguata dell’immigrazione, della riattivazione delle risorse sociali del territorio, di una comunicazione pubblica improntata all’analisi dei fenomeni sociali e alla trasparenza della loro gestione. Una simile sensibilità, se adeguatamente canalizzata e dotata di opportuni strumenti, può costituire un antidoto alle più recenti derive xenofobe e giustizialiste e promuovere la costruzione di una città aperta, solidale e multiculturale. Non è detto che sia vero, come spesso viene sostenuto, che la politica dell’accoglienza appartiene alla città immaginata dai ceti più abbienti, dai cosiddetti intellettuali e da chi si trova al riparo di una posizione più agiata. Magari siamo di fronte all’ennesimo pregiudizio: la fitta rete del volontariato del carcere e non solo, le pratiche diffuse di accoglienza di chi si confronta sul territorio con i migranti (Lampedusa insegna) e più in generale con le marginalità, l’esteso numero dei lavoratori del sociale consapevoli dei disastri prodotti dalle politiche emergenziali (in primis sui migranti, ma anche sulle proprie condizioni di lavoro) non possono che costituire un bacino importante di riconoscimento per un progetto politico che decidesse finalmente di cambiare rotta. L’istituzione del garante comunale dei diritti delle persone detenute o limitate nella libertà personale rappresenterebbe sicuramente un primo passo nella giusta direzione. Napoli: record di "arresti facili", lo scorso anno sono state 174 le ingiuste detenzioni di Angelo Agrippa Corriere del Mezzogiorno, 26 febbraio 2017 I dati del 2016. Il ministro Costa: "Ormai è una vera patologia". Angelo Massaro, 51 anni, tarantino, ha trascorso 21 anni dietro le sbarre prima di essere scagionato del tutto dall’infamante accusa di omicidio. Ma anche chi non ha conosciuto il carcere, come il consigliere regionale ed ex presidente del Pd campano, Stefano Graziano, ha dovuto attendere quasi un anno (e i tempi, dicono, sono stati abbastanza rapidi) prima di veder sfumare prima le accuse di concorso esterno in associazione camorristica e poi di corruzione elettorale. Tanto che ora ha annunciato un’azione di risarcimento a tutela della propria reputazione rovinata "da una campagna mediatica e politica particolarmente aggressiva". I dati, purtroppo, parlano chiaro. Nel 2016 sono state 1.001 le ordinanze emesse dagli organi giurisdizionali relativi ai pagamenti effettuati per riparazioni di ingiuste detenzioni ed errori giudiziari, pari a una cifra netta di 42.082.096 euro. Nel 2015, le autorizzazioni totali erano state 1.188; 1.012 nel 2014; 761 nel 2013; 823 nel 2012; 1.720 nel 2011; 1.329 nel 2010. Il numero maggiore di ordinanze nel 2016 per ingiuste detenzioni riguarda il distretto della Corte d’appello di Napoli (145) seguita da Catanzaro (104), Catania (76), Bari (73), Roma (69), Lecce (58), Palermo (52), Salerno (48), Milano (46), Messina (44), Reggio Calabria (36), Ancona (34), Bologna (28), Torino (23), Genova (23), Potenza (19), Venezia (17), Perugia (17), L’Aquila (17), Firenze (13), Caltanissetta (12), Brescia (11), Trieste (6), Taranto (4), Campobasso (4), Cagliari (3), Sassari (3), Trento (2). Per errori giudiziari, le ordinanze sono state 7 quelle emesse nel distretto della Corte d’appello di Perugia e una ciascuno emessa in quelle d’Appello di Brescia, Venezia, Catanzaro, Reggio Calabria e Catania. Negli ultimi 25 anni (dal 1992 al 2016) sono stati pagati importi pari a 648.351.034 euro per ingiuste detenzioni e 43.383.663 euro per errori giudiziari, per un totale pari a poco meno di 700 milioni di euro. "Troppo spesso - ha commentato l’ex viceministro della Giustizia e attuale ministro per gli Affari regionali, Enrico Costa - si considerano fisiologici gli errori giudiziari e le ingiuste detenzioni. Invece, è un fenomeno patologico della nostra Giustizia, di cui occorre comprendere le cause per affrontarle e risolverle". Taranto: innocenti in carcere, le storie di chi è riuscito a ottenere giustizia di Mario Diliberto Quotidiano di Puglia, 26 febbraio 2017 Tre casi di sentenze ribaltate grazie alla revisione. "Vorrei trovare un pulsante da schiacciare. Per riavvolgere il nastro della mia vita e ripartire. Del risarcimento non so cosa farmene. Purtroppo quel tasto non esiste". Parlava così il tarantino Domenico Morrone nell’aprile di dieci anni fa, dopo aver scontato quasi sedici anni di reclusione da innocente. Lo avevano condannato per un feroce duplice omicidio. Ma lui con quella spietata esecuzione non c’entrava. Morrone scuoteva la testa quel giorno, mentre passeggiava nelle strade del rione Tamburi, vicino al suo modesto appartamento popolare. Da quella casa era stato portato via in manette nel 1991. Venne arrestato e condannato per l’assurdo omicidio di due ragazzi, crivellati di proiettili davanti allo loro scuola. Con quella feroce esecuzione, però, il mite pescatore tarantino non aveva niente a che fare. Nel rione era conosciuto perché sognava di aprire una pescheria e per l’abitudine di rimproverare i ragazzi che seminavano scompiglio con i motorini. Dopo lo sconcertante delitto, però, contro di lui si concentrarono una serie di testimonianze che prevalsero sul suo alibi. "Eppure la verità era sotto gli occhi di tutti, ma nessuno voleva vederla" - spiegava con sorprendente pacatezza subito dopo il verdetto che lo riabilitava e con il quale la Corte di Appello di Lecce cancellava la condanna definitiva. A scagionarlo, dopo quei sedici anni patiti da innocente, arrivarono le rivelazioni di due collaboratori di giustizia. Quel giorno nel rione a sparare fu un killer della mala. Uccise quei ragazzi per lavare con il sangue delle vittime l’onta dello scippo subito dalla madre. Idealmente sotto i suoi colpi di pistola, però, cadde anche lo sventurato Morrone, rinchiuso in carcere appena 25enne e tornato libero a 41 anni, con una vita fatta a pezzi. Il risarcimento incamerato non lo ha consolato. Dopo la morte della mamma, che lo aveva sostenuto con coraggio durante i tanti anni di ingiustizia, ha scelto di provare a ripartire lontano dalla città. In Italia, però, il suo nome è diventato sinonimo di errore giudiziario. Un cortocircuito che ha colpito anche Angelo Massaro, il 51enne fragagnanese che solo pochi giorni fa è stato affrancato dall’accusa di essere l’assassino di Lorenzo Fersurella, trovato cadavere in una discarica. Secondo gli inquirenti, era stato proprio Massaro ad eliminare quello che era un suo grande amico. Il delitto venne inquadrato come un regolamento di conti nel mondo della droga, complice una intercettazione decifrata male dal dialetto. Per 21 anni Massaro ha sostenuto nelle aule di giustizia di "non essere uno stinco di santo, ma di non aver ucciso il suo amico". Pochi giorni fa ha avuto ragione, con la decisione della Corte di Appello di Catanzaro che lo ha assolto dall’omicidio. Il suo nome insieme a quello di Morrone sono scolpiti nel libro nero della giustizia a Taranto. Un capitolo in cui, in realtà, la giustizia si trasforma in ingiustizia. In quelle pagine nere, sulle quali pochi amano indugiare, è inciso anche il nome di Giovanni Pedone, condannato da innocente per uno degli episodi più cruenti della guerra di mala che insanguinò Taranto a cavallo degli anni ‘90. Pedone venne indicato come uno degli autori materiali della strage della Barberia, agguato scattato in città vecchia e nel quale morirono quattro persone. Doveva scontare trent’anni per quadruplice omicidio. Dopo sette anni trascorsi in cella ed una furiosa battaglia a colpi di carte bollate, saltò fuori la verità. Determinante per rivedere quel verdetto risultò la scelta di collaborare di uno dei componenti del commando che seminò morte e terrore nella barberia del "centro storico". Lasciando sul terreno, peraltro i cadaveri di quattro innocenti. Proprio come Pedone e gli altri rinchiusi in cella per scontare delitti commessi da altri. Venezia: "il lavoro ha reso il carcere più umano", l’ex direttrice chiede meno burocrazia Corriere del Veneto, 26 febbraio 2017 "Auspico uno snellimento della burocrazia all’interno delle carceri in modo da rendere più agevole l’avvio di progetti come quelli avviati in questi anni da Il Cerchio". L’ex direttore del Carcere femminile della Giudecca Gabriella Straffi è intervenuta ieri nel dibattito organizzato per i vent’anni della cooperativa raccontando, lontana dalle polemiche, le difficoltà e le sfide incontrate nella direzione della casa circondariale. L’avvio dei progetti che hanno reso il carcere della Giudecca un modello in Italia in quanto ad attività e lavoro non è stato cosa semplice. "Sottolineo l’importanza del ruolo del direttore delle carceri e la necessità di una sua sempre maggiore responsabilizzazione. Credo nel mio mandato di essermi presa il massimo delle libertà possibili", ha aggiunto Straffi che poi ha ringraziato Il Cerchio per le attività svolte. "L’esperienza di questa cooperativa ha cambiato il volto del carcere, non solo ha portato all’interno il lavoro ma ha creato i presupposti per rendere il carcere parte integrante della città, il lavoro lo hanno reso più umano e trasparente" ha concluso l’ex direttrice. Avellino: nel carcere di Ariano Irpino grave carenza di personale di Vincenzo Grasso Il Mattino, 26 febbraio 2017 Manca personale di polizia penitenziaria, di assistenti e personale di supporto per la rieducazione dei detenuti, difficoltà nella gestione del nuovo padiglione, dove vengono attivati i nuovi sistemi di carcerazione aperta e criticità strutturali nella vecchia ala. Sono questi gli elementi negativi che una delegazione regionale dell’Organizzazione Sindacale Autonoma di Polizia Penitenziaria, capeggiata dal segretario regionale, Vincenzo Palmieri, dal presidente regionale, Giuseppe Acampa, e dal segretario provinciale, Ettore Sommariva, ha riscontrato nel corso della visita alla casa circondariale di Ariano Irpino, intitolata, proprio nei giorni scorsi, alla memoria del Sovrintendente Pasquale Campanello, massacrato dalla camorra con 14 colpi di arma da fuoco la sera dell?8 febbraio 1993 mentre faceva ritorno a casa nel comune di Torrette di Mercogliano. "Da tempo - spiega Vincenzo Palmieri - stiamo monitorando la situazione di Ariano Irpino. In provincia è quella che presenta maggiori preoccupazioni. Lo sanno bene anche le autorità centrali. A fronte di piccoli passi in avanti nel miglioramento della struttura, ci sono, tuttavia, ancora passi indietro per quanto attiene l’organizzazione interna e la sicurezza. Ai circa 400 detenuti presenti devono far fronte poco più di 170 agenti di polizia penitenziaria; troppo pochi per poter garantire tutti i servizi, da quelli di vigilanza a quelli di traduzione o di assistenza alle attività interne al carcere. Quando viene meno la sicurezza, viene meno anche la possibilità di assicurare ai detenuti percorsi educativi alternativi. Abbiamo rappresentato tutto ciò al Direttore del carcere, Gianfranco Marcello, che ha manifestato tutta la sua collaborazione e disponibilità a rappresentare presso l’amministrazione centrale le richieste del nostro sindacato. Certo, non ci fermiamo qui; siamo intenzionati ad aprire una vertenza anche a livello nazionale". Per il Presidente regionale dell’Osapp, Giuseppe Acampa, anche l’opinione pubblica dovrebbe prendere coscienza di quanto accade nella casa circondariale di Ariano e altrove. Nessuno può restare indifferente. In carcere ci sono essere umani, anche se colpiti da condanne per fatti gravi, che vanno trattati nel rispetto della propria dignità, ma ci sono anche operatori che vanno tutelati maggiormente. "Ci stiamo battendo - precisa Acampa - per il riordino delle strutture carcerarie e per la riforma che dovrebbe investire l’intero settore. Al momento si contano solo elementi di criticità. I tagli lineari alla spesa per la manutenzione ordinaria e gli interventi straordinari ha colpito quasi tutti gli istituti penitenziari; ma si capisce bene che così non si va da nessuna parte. Anche i detenuti sono costretti a vivere in condizioni di disagio e senza poter partecipare ad alcune importanti attività di formazione culturale e professionale". Anche se aperto da poco più di qualche anno, il nuovo padiglione del carcere arianese è già alle prese con problemi di manutenzione e di ristrutturazione. "Purtroppo - precisa Ettore Sommariva - il carcere di Ariano Irpino è rimasto abbandonato a se stesso per anni. Adesso viene nuovamente interessato da alcuni interventi, ma si tratta sempre di poca cosa rispetto alle esigenze che le organizzazioni sindacali hanno evidenziato da anni". Reggio Calabria: il Garante dei detenuti "ridurre la distanze tra carcere e società" avveniredicalabria.it, 26 febbraio 2017 Carceri, è il tempo dei bilancio a Reggio Calabria. A redigerlo il Garante per i diritti dei detenuti, Agostino Siviglia. Tanti i dati emersi, tra criticità e "buone prassi". "Entrambe le carceri reggine, "Arghillà" e "Panzera", seppur in maniera contenuta rispetto al recente passato, - scrive il Garante - soffrono un progressivo sovraffollamento penitenziario". In tal senso desta particolare interesse il "progressivo incremento di detenuti stranieri, in gran parte scafisti di fede islamica, ovvero detenuti di etnia sinti, tossicodipendenti e detenuti sottoposti a terapia psichiatrica, ragion per cui una simile frammistione detentiva - sottolinea Agostino Siviglia - desta preoccupazione in termini di sicurezza, non senza sottacere il concreto rischio di fenomeni di radicalizzazione del terrorismo". Non solo lacune: ad Arghillà, infatti, i detenuti iniziano a rimettersi in gioco proprio all’interno delle mura carcerarie: "In positivo, vale la pena di evidenziare che l’istituto è munito di una piccola falegnameria nella quale sono impiegati alcuni detenuti specializzati nella realizzazione di manufatti in legno", da qui l’invito del Garante Siviglia, "considerata la disponibilità in tal senso espressa dalla Direzione, i detenuti potrebbero realizzare beni strumentali da destinare alla fruizione dell’intera comunità esterna". Un’opportunità che si muove nella direzione dei tanti protocolli interistituzionali siglati. "In tale ottica, si è promossa e realizzata, in questa prima fase, una complessiva copertura normativa, mediante la stipula e sottoscrizione di tre convenzioni fra il Comune di Reggio Calabria e le competenti Amministrazioni della Giustizia". Un’attività quella del Garante che sta iniziando a sensibilizzare i carcerati. Come si evince dai numeri: "Oltre 100 le richieste di colloquio personale". A tal proposito vi è un’emergenza nell’emergenza: "Particolare ed autonoma attenzione nello svolgimento delle funzioni intra moenia è stata dedicata alla condizione detentiva e trattamentale delle donne detenute e madri: in più occasioni l’intervento del Garante - si legge nel report annuale - ha consentito di fornire un orientamento giuridico-penitenziario al fine di favorire il mantenimento dei rapporti con il proprio nucleo familiare e, in particolare, con i figli in tenera età". Non solo attività interna alle carceri. Anzi: "L’obiettivo primario perseguito è incentrato sul tentativo di accorciare le distanze fra il carcere e la società. Per far questo si è puntato sulla proposta e realizzazione di una modalità di intervento sistemica, - conclude il Garante Siviglia - capace di mediare compiutamente fra gli spazi e le condizioni di privazione e di isolamento del detenuto e la comunità esterna Napoli: al carcere di Poggioreale un progetto a doppia finalità educativa ottopagine.it, 26 febbraio 2017 L’Associazione "La Mansarda Onlus" presieduta da Samuele Ciambriello, propone, nella casa circondariale di Poggioreale, un progetto a doppia finalità educativa: "Liberi di pensare" che ha come scopo quello di invogliare i detenuti nella lettura libera, coinvolgendoli con i testi preposti, alternando questa alla visione di alcuni cortometraggi sulla genitorialità e l’essere solidali.. I volontari hanno presentato in questo mese il testo di Salvatore Striano "La tempesta di Sasà", (ed.Chiarelettere), nei Padiglioni Avellino e Firenze presso la casa Circondariale di Poggioreale, i corti "Stella" di Gabriele Salvatores e "La pagella" di Alessandro Celli. "Risultati immagini per la tempesta di Sasà Salvatore striano recensione", Salvatore Striano, uomo nato e cresciuto nel cuore di Napoli, racconta la sua esperienza di vita nel celebre testo sopra citato, Libero di mostrare le sue cicatrici senza nascondersi da esse. Una vita piena di ostacoli e di pericoli, dei quali, lui stesso è stato spesso e volentieri l’artefice. Mostra come la Letteratura, nel suo caso in particolare i romanzi di Shakespeare e di Eduardo De Filippo, possano rappresentare lo spiraglio di luce necessario per combattere la monotonia dei giorni sempre uguali all’interno di una cella. Striano dimostra che nella vita non è mai Troppo Tardi per cambiare il Proprio destino, basta non demordere e farsi abbattere dalle avversità della vita. Martedì 28 Febbraio 2017 alle ore 14:30 si terrà all’ interno dell’istituto penitenziario di Poggioreale, la presentazione del testo, coinvolgendo l’autore del libro in un dibattito vivo con i detenuti dei Padiglioni Avellino e Firenze. Per l’occasione, oltre l’autore, saranno presenti il direttore del carcere Antonio Fullone, il presidente dell’associazione La mansarda Samuele Ciambriello e Luca Sorrentino, presidente della Cooperativa Aleph Service. Palermo: "Poesia dentro", l’iniziativa incanta i detenuti del carcere Ucciardone madoniepress.it, 26 febbraio 2017 Grande emozione nella Casa di reclusione Ucciardone, per l’evento "Poesia Dentro". La manifestazione, curata delle associazioni "I Narraturi di Cefalù", fondata da Antonio Barracato, per valorizzare la lingua siciliana e "Muovi l’Arte", di cui Barracato è presidente. Protagonisti, oltre lo stesso Barracato, le poetesse Monica Appresti di Partinico e Pina Granata di Campofelice di Roccella. I tre poeti hanno recitato i propri versi, in vernacolo e in lingua italiana. Grande l’emozione, soprattutto quando a vestire i panni da poeti, sono stati gli ospiti della struttura detentiva. Alcuni di loro hanno letto i propri versi intensi di emozioni, di speranza, amore e libertà perduta e da ritrovare. La direttrice della Casa, Rita Barbera, ha salutato l’evento con queste parole: "Credo nella cultura e nella sua forza rieducativa. La poesia qui è ben accetta. Le raccolte poetiche sono tra le più lette dai nostri ospiti. In questi anni abbiamo cercato di ampliare l’offerta formativa per i nostri ospiti e speriamo di ampliarla sempre i più". Le porte del carcere sono state aperte per tante attività rieducative e culturali. Di recente è stato fatto un laboratorio teatrale che ha avuto molto successo ed ha visto protagonisti i detenuti. Presente anche il comune di Cefalù, rappresentato dall’assessore Antoniella Marinaro. I vari momenti poetici sono stati accompagnati ed intervallati dalle note musicali della chitarra di Serafino Barbera mentre Vincenzo Liberto, con la sua tastiera, ha proposto dei brani della tradizione musicale italiana. A condurre l’evento è stata Miriam Cerami. Cambiamo rotta: è ora che i governi dicano ai migranti la verità di Fabrizio Gatti L’Espresso, 26 febbraio 2017 Bisogna andare alle radici dell’emigrazione e delle cause che la alimentano. Tendere la mano in Africa, ma anche avere il coraggio di battere i pugni sul tavolo a Bruxelles per denunciare la politica estera di Paesi amici che produce miseria, consegna folle di clienti ai trafficanti e non smette di farlo. "L’Italia? È un paradiso ad appena quattro settimane dal Gambia, tre settimane dal Mali, due dalla Nigeria. E costa poco arrivarci: l’equivalente di trecento euro, non di più. Oggi non è come prima che le barche affondavano. Adesso non ci sono più pericoli perché la guardia costiera ti prende in mare e ti porta in salvo. Poi per due anni ti aiuta lo Stato italiano, giusto il tempo di ricevere il permesso di soggiorno e trovare un buon lavoro. Oppure te ne vai a Parigi, Berlino, Londra. Una volta che sei in Europa non ci sono più confini". Ecco la nostra fotografia. Siamo l’isola che non c’è. Il racconto è vero. Dicono così ai loro clienti i trafficanti e i promotori della sfida che vale la vita. Da Est a Ovest, dall’Eritrea al Senegal. Una narrazione che ha un unico scopo: sfruttare la miseria, la paura, l’insicurezza e fare soldi. La realtà è dalla loro parte. Siamo entrati in uno dei 30 centri allestiti in Libia per rinchiudere i clandestini. Gabbie di lamiera in cui vivono 1.400 migranti trattati come animali. "Fateci uscire di qui, stiamo morendo" Nel 2016 ce l’hanno fatta 181.436 persone. Dall’inizio del 2017, in meno di due mesi, siamo già a quota diecimila. E non è vero che il flusso sul fronte orientale si sia fermato, come Bruxelles vuole far credere per promuovere il suo "immigration compact" contro gli sbarchi, il patto pagato miliardi alla Turchia. L’Unhcr, l’agenzia delle Nazioni Unite, ha contato in Grecia dal primo gennaio 1.864 nuovi arrivi e, in proporzione al numero di abitanti, italiani e greci sono alla pari. Ma i viaggi, tutti i viaggi, hanno origine nelle parole: dall’idea che ci siamo fatti della destinazione. E noi, con i nostri funzionari prefettizi, i programmi di governo, il ministero degli Esteri, la nostra intelligence, abbiamo mai provato a rovesciare questa narrazione? Ad andare là, nei mercati all’aperto, nelle stazioni di autobus, davanti alle agenzie dove si vende il futuro, nelle chiese e nelle moschee, a raccontare come stanno davvero le cose? E magari a proporre un percorso di vita alternativo? La risposta ovviamente è no. Non abbiamo mai mandato nessuno. Cambiare rotta significa partire finalmente da qui: da quello che avremmo dovuto dire quindici anni fa e non abbiamo mai osato pronunciare. Significa andare alle radici dell’emigrazione e delle cause che la alimentano. Significa tendere la mano in Africa, ma anche avere il coraggio di battere i pugni sul tavolo a Bruxelles per denunciare la politica estera di Paesi amici (e dovremmo metterci anche la nostra), che produce miseria, consegna folle di clienti ai trafficanti e non smette di farlo. Credete davvero che dietro l’emigrazione di massa ci siano soltanto passatori e organizzazioni criminali? Pensate che colpendo loro si possa magicamente fermare il flusso? Questo nostro breve viaggio, dai camion del Sahara a ogni singolo giaciglio dei 174.912 stranieri che l’Italia sta oggi ospitando nelle sue varie strutture di accoglienza, dimostra un’altra verità: dietro l’emigrazione ci siamo noi europei. La Francia prima di tutto. Poi la Gran Bretagna. E, per una piccola parte, anche noi italiani. Senza la collaborazione di Parigi, di Londra ma anche delle nostre imprese, prima fra tutte l’Eni, siamo destinati a fallire. E con le frontiere europee chiuse, diventeremo il Cara dell’Unione, fin tanto che l’Europa unita resisterà. Poi saranno semplicemente affari nostri. Il governo dell’ex ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, nel suo probabile anno di lavoro fino alle prossime elezioni, avrebbe dovuto osare molto di più. Avere presidente del Consiglio il capo della diplomazia e agli Esteri il ministro dell’Interno uscente promette, almeno sulla carta, il massimo delle competenze. Il piano per ridurre gli sbarchi varato in questi giorni e supportato, a parole, dal Consiglio europeo riunito a Malta è invece un tuffo nel passato. L’accordo con il premier di Tripoli e dintorni, Fayez al-Serraj, non tiene conto che il governo libico sostenuto dalle Nazioni Unite (e dall’Italia) conta in Libia come Obama sotto la presidenza Trump. Cioè quasi nulla. Mentre il programma ufficializzato in settimana dal ministro dell’Interno, Marco Minniti, per l’apertura in ogni regione di un centro di detenzione, ora ribattezzati Centri di permanenza per il rimpatrio, darà lavoro a molte imprese (per la costruzione delle strutture) e alle cooperative italiane (per la gestione). Ma si scontra, come vedremo, con i numeri delle persone da rimpatriare. Senza considerare le violazioni, già prevedibili, delle norme internazionali sulla protezione e la sicurezza di uomini e donne. La Libia non può certo considerarsi un Paese affidabile ed è già alle prese con un gran numero di profughi interni. Le varie milizie della guardia costiera libica stanno di solito dalla parte dei trafficanti. E stabilire un solo grado di giudizio per il diritto d’asilo, come prevedono i nuovi decreti, è un auspicio che, secondo qualunque bravo avvocato o magistrato, si scontra con i principi costituzionali. Il governo Gentiloni ha insomma imboccato la stessa strada percorsa più volte dal 2004 dai governi di Silvio Berlusconi e qualche volta da Romano Prodi. Ha preferito affrontare la questione dai suoi effetti e non alla radice. Il risultato di oltre dieci anni di rapporti esclusivi con Tripoli è davanti a noi: gli sbarchi annuali sono esplosi dai quindicimila di allora ai numeri di oggi. Avanti di questo passo, cosa accadrà tra dieci anni? Andare in Africa a raccontare come stanno davvero le cose non è un’operazione difficile o pericolosa. Bisognerebbe prima di tutto far sapere che il viaggio non dura quattro settimane: secondo un’indagine del 2016 pubblicata dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), il 67 per cento delle persone arrivate in Italia ha impiegato quasi un anno. E non costa l’equivalente di trecento euro, visto che già per il passaggio in barca dalla Libia i trafficanti chiedono fino a milleseicento dollari. È vero, i morti in mare non fanno effetto: i 4.733 del 2016 sono il 2,6 per cento delle persone sbarcate vive. Quindici anni fa in proporzione le vittime erano molte di più: si toccava il dodici per cento. E comunque morire di miseria a casa o durante il viaggio non fa differenza, secondo il punto di vista di chi parte. Testimoni autorevoli sarebbero invece i sopravvissuti rapiti e torturati nei covi dei trafficanti o nelle celle libiche e poi ritornati indietro, grazie ai piani di rimpatrio finanziati dall’Oim o da organizzazioni non governative. Le loro delusioni non sono fredde statistiche compilate in Europa, ma storie credibili. Qualche associazione lo sta facendo. Sono però piccole gocce. Nel 2015 l’Espresso aveva già raccontato cosa sapessero di noi gli emigranti accampati nelle stazioni degli autobus a Niamey, capitale del Niger, il primo Stato che si incontra a Sud della Libia. Queste le parole di uno di loro, Ebrima Sey, 32 anni, in viaggio dal Gambia, Stato di appena un milione e ottocentomila abitanti, poco più di Milano, ex colonia britannica, 11.929 sbarcati nel 2016, 8.123 nel 2015, 793 dall’inizio dell’anno: "Quello che so dell’Italia è che è un Paese pacifico", dice Ebrima Sey, "di gente pacifica. Anni fa ho sentito che il papa, quello che poi è morto, ha detto che le persone che soffrono la fame vanno aiutate, non vanno mandate indietro. È una frase che è rimasta nella mia testa da tanto tempo. Io non riesco ad aiutare me stesso, mio figlio, mia moglie. Ma so che se arrivo in Italia, la mia vita non sarà più una sopravvivenza. So che è possibile avere documenti e trovare un lavoro". Forse l’Italia era così dieci anni fa. Nessun trafficante ovviamente racconta che oggi siamo il Paese dove il 40 per cento dei coetanei di Ebrima e dei più giovani è senza lavoro. Siamo l’approdo che sulle cartellette per le riunioni dei loro manager, le multinazionali definiscono "no hope country", nazione senza speranza. Dal primo gennaio 2014 l’Italia ha assorbito pacificamente in tre anni l’arrivo di 505.378 stranieri via mare. Poco più di centomila sono riusciti a raggiungere altri Paesi europei. Il resto pone domande sul loro e nostro futuro che ci riguardano direttamente. Una premessa è comunque obbligatoria: quanti fuggono da guerra, regimi o situazioni di pericolo hanno sempre diritto d’asilo. Le commissioni territoriali, applicando le norme internazionali, non riconoscono però la povertà, la disoccupazione, la rapina delle risorse energetiche tra i motivi di protezione umanitaria. Così lo Stato italiano va a prendere fin quasi sotto costa in Libia decine di migliaia di profughi ogni anno. Ma una volta portati in salvo in Italia, a più del 60 per cento di loro nega la possibilità di rimanere come cittadini con diritti e doveri. Sono fantasmi la cui richiesta di asilo è stata respinta e che per questo non potranno essere assunti, affittare casa, ambire a diplomarsi o laurearsi, sposarsi, o semplicemente registrarsi a qualunque attività pubblica. Persone ridotte a vivere nelle baracche, nelle fabbriche abbandonate, a lavorare in nero: le commissioni territoriali hanno prodotto 55.423 fantasmi nel 2016, 41.503 nel 2015, 14.217 nel 2014, 9.175 nel 2013. Un totale di 120.318 immigrati dichiarati irregolari che, almeno sulla carta, dovrebbero essere trattenuti e rimpatriati grazie alle nuove strutture di detenzione da costruire in ciascuna delle venti regioni: "Per complessivi 1.600 posti che sorgeranno fuori dei centri abitati ma vicino ad "hub" di comunicazione stradale", come è scritto nel comunicato del Viminale. Se questa doveva essere la fine scontata, non sarebbe costato meno fermarli via terra prima che attraversassero il Sahara? Una volta arrivati in Libia, infatti, è troppo tardi. Da lì non resta che scappare. Abbiamo provato a immaginare spese e tempi di rimpatrio utilizzando l’Airbus 340, lo stesso modello dell’aereo presidenziale che il premier Matteo Renzi ha a suo tempo affittato da Etihad e caricato sul bilancio statale al modico prezzo di 40 mila euro al giorno. Considerati i 359 posti dell’Airbus nella versione passeggeri, per riportare a casa gli oltre 120 mila stranieri respinti finora servono 1.011 viaggi. Tra ore di volo di andata e di ritorno fanno 2.022 giorni, cioè cinque anni e mezzo di attività senza nemmeno un giorno di riposo. I protocolli di sicurezza prevedono che ogni straniero rimpatriato sia accompagnato da due agenti. Calcolando mille euro a testa il costo medio per passeggero di un volo a Sud del Sahara, ciascuna persona da rimpatriare occupa dunque tre posti: il suo, più i due poliziotti di scorta. La spesa di tutta l’operazione raggiungerebbe così la bellezza di 300 milioni e 954 mila euro. Oltre alle indennità di missione, il costo dei trasporti a terra verso gli aeroporti e così via. È molto più di quanto i trafficanti libici hanno incassato dagli stessi 120 mila per lasciarli salire sui barconi (181 milioni). Con una banale premessa: senza accordi bilaterali e buone relazioni tra i Paesi, non si rimpatria nessuno. Ovviamente le parole senza alternative pratiche non servono a nulla. Tempo fa avevamo raccontato come l’Università di Torino e l’Ong "Terre solidali" fossero riuscite a creare venti posti di lavoro con un micro credito di 25 mila euro a sostegno di iniziative imprenditoriali stabili affidate alle donne in Niger, Paese chiave nel traffico di migranti verso la Libia. Venti posti di lavoro sono venti famiglie africane: centoquaranta persone che non avranno bisogno di emigrare. Giusto per fare un calcolo a spanne: prendiamo la super tangente di un miliardo e 28 milioni di euro (1.092 milioni di dollari) incassata da politici e faccendieri nella confinante Nigeria, di cui è accusata l’Eni per il giacimento di petrolio Opl245. Con un impiego legale e giusto, i soldi di Eni avrebbero potuto creare 822.400 posti di lavoro nella regione. Siamo così scesi alla radice di tutta la questione. La Farnesina ha annunciato per il 2017 l’apertura dell’ambasciata italiana a Niamey, la capitale del Niger. A questo punto i governi italiani che verranno non potranno più fingere di non vedere. Il Niger è un Paese potenzialmente ricco. È il quarto esportatore al mondo di uranio. Solo dal 2013 due quintali vanno alla Cina. Tutto il resto, da sempre, tra le quattro e le quattro tonnellate e mezzo l’anno, viene letteralmente prelevato dalla Francia in base a un accordo di difesa del 1961, tuttora in vigore. Come conferma il bilancio 2015, la società di Stato francese "Areva" è esentata dal versamento a Niamey di qualunque forma di imposte sulla sua attività estrattiva. E grazie all’uranio del Niger, la Francia produce un terzo della sua elettricità: un terzo delle città francesi, delle industrie, degli ospedali e dell’energia che Parigi vende all’estero è praticamente alimentato dallo Stato africano. Senza incassare imposte, però, il Niger non ha risorse per investire in infrastrutture. Così soltanto il tre per cento dei nigerini ha accesso all’elettricità. Ogni black out nell’unico grande ospedale pubblico del Paese è un picco sui registri dell’obitorio: quando si fermano i ventilatori, nei reparti è una strage di bambini e anziani uccisi dal caldo. Un coraggioso presidente eletto democraticamente, Mamadou Tandja, nel 2006 aveva tentato di ridiscutere il dossier sull’uranio: improvvisamente il Nord del Niger si è trovato sotto l’attacco di una rivolta tuareg armata dalla Libia di Gheddafi e sostenuta da Parigi. Poi nel 2010 il solito colpo di Stato ha tolto di mezzo Tandja e la speranza. La Francia la ritrovi anche dietro il caos libico e il generale Khalifa Haftar, nemico del governo sostenuto dall’Onu e dall’Italia. Sono parole di Jean-Pierre Chevènement, già ministro francese della Difesa e dell’Interno, in un’intervista a "Le Figaro": "Nel 2011 noi abbiamo distrutto la Libia... sotto la guida di Sarkozy. Abbiamo violato la risoluzione delle Nazioni Unite, che ci dava il diritto di proteggere la popolazione di Bengasi e ci siamo spinti fino al cambiamento del regime". Di solito in un sistema legale chi rompe paga. Il colonialismo ha solo cambiato faccia. L’emigrazione di massa ne è il risultato. Gentiloni, Alfano, Minniti, se ne hanno il coraggio, di questo dovrebbero discutere a Parigi, a Bruxelles. E al di là del Sahara. Sudan: Italians for Darfur "la situazione dei diritti umani continua a peggiorare" di Riccardo Noury Corriere della Sera, 26 febbraio 2017 Il Rapporto annuale di Italians for Darfur sui diritti umani in Sudan descrive una situazione in forte peggioramento: ai conflitti vecchi (quello in Darfur va avanti da 14 anni) se ne sommano di nuovi, come quelli negli stati del Sud Kordofan e del Nilo Azzurro; la malnutrizione e le malattie sono in aumento, così come continua a salire il numero dei sudanesi bisognosi di assistenza umanitaria: oltre cinque milioni, la maggior parte dei quali è in Darfur. A complicare le cose è la guerra civile in Sud Sudan, in corso quasi ininterrottamente dal dicembre 2013 che ha causato milioni di sfollati interni e ha costretto circa 300.000 persone a rifugiarsi proprio nel Sudan. In altri termini: persone in fuga da un conflitto che cercano riparo in un paese in conflitto. La libertà di stampa è fortemente repressa, quella di manifestazione pacifica inesistente e continuano i casi di persecuzione religiosa ai danni dei cristiani. Il 2016 è stato anche l’anno degli attacchi con le armi chimiche, lanciati (come avevamo raccontato qui) dalle forze armate sudanesi nella regione del Jebel Marra. Attacchi negati dal governo ma confermati tanto da immagini satellitari quanto da testimonianze delle vittime e dalle fotografie (vedi sopra) dei corpi esposti alle sostanze chimiche. Nonostante questa situazione drammatica, lo scorso anno l’Italia è stata protagonista di una clamorosa violazione del diritto internazionale, rimandando in Sudan 40 potenziali richiedenti asilo sulla base di un accordo tra forze di polizia dei due paesi. Non dimentichiamo che il presidente del Sudan è ricercato dalla giustizia internazionale per crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio.