Per "riformare" la prescrizione basta depenalizzare di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 25 febbraio 2017 Il problema risiede nel codice di procedura del 1989 e nell’aumento esponenziale, seguito all’onda giustizialista di "mani pulite", di nuove fattispecie penali. Il tema della prescrizione del reato, a cadenza periodica, torna di attualità. Pochi giorni fa, in Corte d’Appello a Torino, il presidente del collegio penale Paola Dezani è arrivata a scusarsi per non essere riuscita a celebrare in tempo il processo a carico di un imputato accusato di stupro in danno di una bambina di 7 anni. Il fascicolo era rimasto "in sonno" per 9 anni prima che fosse fissato l’appello. Troppo tardi. Reato prescritto con conseguente indignazione generale. Fra le toghe, come abbiamo dato conto ieri su questo giornale, si è immediatamente aperto un dibattito. La Giunta esecutiva centrale dell’Anm ha espresso "sconcerto per il ritardo con cui è stato celebrato il giudizio di secondo grado". Sottolineando, inoltre, come questa vicenda giudiziaria "denoti una carenza organizzativa radicatasi negli anni ed una inadeguata valutazione delle ineludibili priorità nella trattazione dei processi, soprattutto in relazione alla gravità e alla delicatezza dei fatti da giudicare". L’organizzazione dell’ufficio, infatti, è la nuova "frontiera" su cui si gioca la credibilità della giurisdizione. Il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini, commentando la scorsa settimana la circolare tabelle, ha evidenziato come sia importante la "cultura dell’organizzazione". Argomento questo molto caro anche al ministro della Giustizia Andrea Orlando. A difesa degli uffici giudiziari piemontesi, invece, le toghe della Giunta Anm del Piemonte e della Valle d’Aosta le quali, pur ammettendo che il processo aveva avuto "una sosta davvero prolungata prima che si arrivasse alla sua trattazione", davano però la colpa dell’accaduto alle carenze di organico e al Parlamento che non ha ancora provveduto a cambiare la prescrizione. Una modifica che, come affermato anche dal presidente dell’Anm Piercamillo Davigo, dovrebbe portare allo stop della prescrizione dopo il primo grado di giudizio. Le toghe di "Area" Piemonte, in disaccordo con il solito refrain secondo cui la causa della prescrizione è sempre da ascrivere alle carenze di organico e alle mancate modifiche legislative, evidenziavano come in casi come questo però "non basta segnalare le distorsioni e le ingiustizie conseguenti alla lentezza dei processi e invocare le riforme normative necessarie". Le considerazioni fra gli "addetti ai lavori", al netto dei comunicati associativi, sono però molto diverse. Un importante presidente di sezione penale del Tribunale di Milano, premettendo come l’istituto della prescrizione sia una norma di civiltà e che non sia pensabile, in tale ottica, tenere un cittadino sotto processo tutta la vita, ha dato nei forum associativi una lettura molto precisa della questione. Subito condivisa da tanti altri magistrati. Il problema della prescrizione del reato, secondo l’alto magistrato, è dovuto essenzialmente a due fattori: il codice di procedura penale del 1989 e l’aumento esponenziale, sull’onda giustizialista seguita a "Mani Pulite", di nuove fattispecie penali che ha comportato un raddoppio dei reati. Ciò ha determinato la paralisi del sistema. Il vecchio codice di procedura penale, basato sul rito accusatorio, consentiva, a differenza dell’attuale, processi molti più veloci. E non esisteva il patteggiamento. Come ricordato dalla toga milanese, con il vecchio rito la prescrizione del reato era un evento eccezionale che comportava anche l’obbligo di una relazione formale al ministro per giustificare l’accaduto. In conclusione, per correggere un sistema processuale che fa acqua da tutte le parti non si deve, secondo il magistrato, agire sull’anello debole, cioè l’imputato, ma è necessaria una seria riforma della giustizia. Partendo da una efficace depenalizzazione. Tutto il contrario di quello che vogliono i 5Stelle che si preparano a governare il Paese. L’errore di attribuire alla giustizia un ruolo messianico produce danni di Astolfo Di Amato Il Dubbio, 25 febbraio 2017 L’estinzione per prescrizione del reato di violenza carnale in danno di una minore a Torino e la vicenda di Angelo Massaro restituiscono uno scenario poco incoraggiante. Le cronache di questi giorni hanno dato conto di due vicende di segno opposto, entrambe drammatiche ed entrambe emblematiche. Si tratta, da un lato, della estinzione per prescrizione del reato di violenza carnale in danno di una minore, che la Corte di Appello di Torino ha dovuto pronunciare per non essere stata, la giustizia italiana, capace di giudicare una vicenda di pedofilia in 20 anni. Si tratta, dall’altro lato, della vicenda relativa al povero Angelo Massaro, che innocente ha vissuto 21 anni in cella per la cattiva interpretazione di una intercettazione e per l’affidamento dato alla parola di pentiti, poi risultati inattendibili. Le due vicende, drammatiche e tristi, convergono, tuttavia, nel ricordare che la Giustizia con la G maiuscola non è di questo mondo. Dobbiamo accontentarci di una giustizia terrena, con tutti i suoi limiti e le sue enormi capacità di sbagliare. Si tratta, ovviamente, di una riflessione assolutamente banale, che tuttavia è necessario ogni volta rammentare affinché anche il tema della giustizia sia visto con animo laico. Le vicende citate indicano tutte e due che l’attribuzione alla giustizia umana di un ruolo messianico non solo è errata ma rischia di produrre, ed in effetti produce, danni incalcolabili. Questi danni si stanno, oggi, vedendo, in tutta la loro macroscopica dimensione, nel vuoto che caratterizza la politica italiana. La commiserevole vicenda del Partito Democratico, che ha vissuto una scissione, che sarà sempre ricordata soprattutto per la noia che ha suscitato negli osservatori, non è altro che il frutto di un consolidato vuoto di idee. Se si guarda con attenzione, molti degli scissionisti si sono caratterizzati, negli anni, in larga misura, per aver ridotto la loro attività politica a un rozzo giustizialismo indirizzato soprattutto nei confronti dell’avversario politico, Berlusconi, e ad un misero tatticismo per godere il più possibile dei frutti di una magistratura, che era chiamata ad eliminare l’avversario che non riuscivano a battere sul piano politico. Si è, perciò, in questi ultimi 25 anni, ripetuto, con minore profitto, lo schema che ha caratterizzato Mani Pulite e che ha consentito di eliminare, sul piano giudiziario, gli avversari politici del Pci. Anche il grillismo si è alimentato, e continua ad alimentarsi, di un giustizialismo che mette le iniziative della magistratura, gli avvisi di garanzia, gli interrogatori, al centro del dibattito e del giudizio politico. Soprattutto quando tutto questo riguarda gli altri. E anche nel campo del grillismo, difatti, come è avvenuto in certa sinistra, questo guardare alla giustizia come il momento decisivo per orientare le scelte, ha finito con il bruciare quelle potenzialità di innovazione, che ogni movimento di protesta comunque ha con sé, quantomeno per la freschezza che spesso caratterizza i suoi protagonisti. Le giravolte di Grillo nello scontro tra Uber ed i tassisti, e cioè tra le lusinghe di internet, che hanno costituito una delle spine dorsali del Movimento, e il corporativismo dei tassisti indica, alla fine, un sostanziale vuoto di idee e di valori forti di riferimento. Si tratta di un vuoto, oggi accentuato dalla incapacità di governare la globalizzazione, che si cerca, appunto, di coprire con il manto stellato della Giustizia. Ma le due vicende a cui si è fatto all’inizio riferimento indicano che il manto della giustizia umana non è affatto stellato, è pieno di lacerazioni, di toppe. Non è, perciò, capace di sostituire il vuoto di idee e, ancora di più, non è affatto capace di sostituire la Politica con la P maiuscola. La giustizia va presa per quello che è: una attività umana nella quale, come avviene per tutte le attività umane, è possibile l’errore e che, comunque, ha una funzione ben diversa dalla politica e cioè quella di dare sistemazione definitiva ai conflitti individuali. Caricare la giustizia di altre finalità significa, da un lato, accentuare le possibilità di errore e, dall’altro, sterilizzare la politica. Ed è quello che, purtroppo, è successo in Italia. Populismo e prescrizione da Giunta Ucpi camerepenali.it, 25 febbraio 2017 Evocare e accostare il tema della prescrizione al caso di Torino è quanto di più sbagliato possa essere fatto. La soluzione, come alcuni vorrebbero, starebbe nell’allungare a dismisura i tempi del processo: non bastano vent’anni per definire un procedimento di violenza sessuale? È corretto che un imputato e le persone offese debbano attendere nove anni per il giudizio di appello? L’unica certezza è che non si deve rendere il processo infinitamente lungo, dilatando i termini di prescrizione. Il Ministro Orlando, intervenendo a Palermo all’inaugurazione del Circolo "Musica e cultura 100 passi", avrebbe risposto, a degli studenti che gli ponevano delle domande sul caso di stupro prescritto a Torino, che si augura che il Senato affronti il tema della prescrizione insieme a quello della riforma del processo penale. Evocare e accostare il tema della prescrizione al caso di Torino è quanto di più sbagliato possa essere fatto, perché la vicenda piemontese non ha nulla a che vedere con la riforma della prescrizione, che anzi è antidoto contro la irragionevole durata dei processi. La soluzione, come alcuni vorrebbero, starebbe nell’allungare a dismisura i tempi del processo: non bastano vent’anni per definire un procedimento di violenza sessuale? È corretto che un imputato e le persone offese debbano attendere nove anni per il giudizio di appello? Noi crediamo di no. Riteniamo che la strada sia l’esatto contrario. Al di là della patologia del caso di Torino, che va accertata per definire ragioni e responsabilità, immaginiamo che sia quanto di più ingiusto e lontano dai principi costituzionali emettere una sentenza troppo distante dal fatto contestato. Pensiamo che nel nostro Paese, qualora si approvasse una riforma della prescrizione quale quella voluta da Anm, e caldeggiata anche dal Primo Presidente della Cassazione nel corso dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, si produrrebbero danni irreparabili. L’idea, infatti, è quella di interrompere la prescrizione dopo la sentenza di condanna di primo grado, con il rischio di rimanere condannati a vita dopo quella sentenza. I rimedi per rendere i processi ragionevolmente brevi, secondo quanto stabilito dalla Costituzione, sono diversi: le indagini, dove si prescrivono la maggior parte dei reati, devono essere limitate nel tempo, con termini che non siano "canzonatori"; è necessaria una riforma organica del codice penale evitando l’ipertrofia legislativa; occorre destinare appropriate risorse ed effettuare una riflessione seria sull’obbligatorietà dell’azione penale, divenuta ormai un feticcio che crea disparità di trattamento sul territorio nazionale. Ve ne sono anche tanti altri, di rimedi; l’unica certezza è che non si deve rendere il processo infinitamente lungo, dilatando i termini di prescrizione. Uno Bianca. Bufera sul permesso concesso ad Alberto Savi di Andreina Baccaro Corriere della Sera, 25 febbraio 2017 Non bastano a chi ha perso figli, fratelli, mariti e sorelle ventitré anni di carcere per trascorrere dodici ore fuori. Non bastano per Anna Maria Stefanini, madre di uno dei tre carabinieri uccisi dai fratelli Savi nella strage del Pilastro il 4 gennaio 1991, che dice: "Mi auguro che il giudice di sorveglianza abbia figli e capisca cosa hanno fatto queste persone alle famiglie che avevano dei figli: glieli hanno tolti. Il mio aveva 22 anni e mi rimane solo una tomba dove portare i fiori e andare a piangere. Io non ho più lacrime da piangere". Ma ventitré anni e un dichiarato percorso di pentimento bastano per i magistrati. Il presidente del Tribunale di sorveglianza di Padova che ha rigettato il ricorso della Procura è lo stesso che nel 2008 concesse il primo permesso a Marino Occhipinti, oggi in semilibertà, altro ergastolano ed ex poliziotto della banda della Uno Bianca, anche lui detenuto al Due Palazzi di Padova. Già allora il giudice Giovanni Maria Pavarin fece un accorato appello ai familiari delle vittime ad accettare un dialogo, seppur mediato, con Occhipinti, che già subito dopo il processo ha chiesto perdono per il sangue che ha contribuito a versare. "Ha fatto un percorso di recupero, si è pentito - spiegò il magistrato 9 anni fa. E alla presa di coscienza delle proprie azioni è seguito il tentativo di riscattare il male che ha fatto, facendo del bene. L’unica cosa che manca è un dialogo con i parenti delle vittime. Dialogo che non hanno mai voluto, ma che noi non smetteremo di cercare". Questo succedeva nel 2008. Oggi ad aver ottenuto il permesso premio è Alberto Savi, proprio lui che nel 2006 aveva scritto ad Anna Maria Stefanini una lettera in cui chiedeva perdono per averle ammazzato il figlio, richiesta sempre respinta. Un perdono che Savi è tornato a domandare in una lettera inviata nei mesi scorsi all’arcivescovo di Bologna Matteo Maria Zuppi. "Non credo proprio che il vescovo abbia il potere di influenzare la giustizia", ha detto Rosanna Zecchi, presidente dell’associazione dei familiari delle vittime e vedova di Primo, il pensionato che il 6 ottobre 1990 fu ucciso a sangue freddo dai fratelli di Alberto, Fabio e Roberto, perché stava annotando la targa dell’auto con cui avevano appena commesso una rapina. Secondo il difensore di Alberto Savi, invece, l’avvocato Annamaria Marin, quella lettera a Zuppi "è il piccolo pezzo di un mosaico" che ha portato i giudici a decidere per la concessione del permesso premio. "Sono cristiana - ha detto ancora Anna Maria Stefanini - ma non li perdonerò mai. Che Paese è un Paese che in cui persone che hanno ucciso 24 persone e ne hanno ferite 103 possono avere dei benefici? Devono gettare la chiave: nessun beneficio, nessun diritto. Non voglio vendetta voglio giustizia - ha detto la madre del carabiniere ucciso a 22 anni al Pilastro insieme ai colleghi Mauro Mitilini e Andrea Moneta. Hanno tolto la vita alle persone, la loro la devono passare in carcere fino alla fine. Che muoiano là dentro". E la presidente Rosanna Zecchi ha tagliato corto: "I nostri morti non hanno permessi premio. Io non credo che si siano pentiti. Mi auguro che dopo questo permesso la cosa finisca lì e che i giudici non abbiano da pentirsi ad averglielo dato". "Ogni volta che sentiamo queste cose è come se uccidessero nostro figlio di nuovo", conclude Stefanini. Il presidente del Tribunale di Sorveglianza Pavarin: "Rilevante revisione critica" di Gianluca Rotondi Corriere della Sera, 25 febbraio 2017 Il rapporto con una vittima e la percezione del male fatto. "Un lungo percorso di revisione critica e assunzione di responsabilità per l’enorme male inferto". Un cammino lungo 17 anni, quelli trascorsi nel carcere di Padova, sostenuto da un’equipe di psicologi ed educatori che, insieme al percorso di mediazione che lo ha messo in contatto con una delle vittime dei suoi reati, ha spinto il Tribunale di Sorveglianza a concedere il permesso premio ad Alberto Savi. Il primo dopo 23 anni e molti dinieghi. Per i giudici l’ex poliziotto condannato all’ergastolo non è più socialmente pericoloso "per effetto del progressivo espandersi della revisione critica operata, della percezione della enorme gravità dei reati commessi e degli ottimi risultati del percorso trattamentale", scrive il presidente del Tribunale Giovanni Maria Pavarin nel provvedimento che respinge il reclamo della Procura contro il permesso premio concesso dal magistrato di sorveglianza. I pm mettevano in dubbio l’assenza di pericolosità sociale accertata dalla perizia criminologica, firmata dal professor Giovanni Vittorio Pisapia, che definiva Savi "un delinquente occasionale reiterato" che però nel corso della detenzione "ha sviluppato una propria competenza etica che lo ha reso consapevole delle proprie azioni". Un atteggiamento strumentale a ottenere i benefici, secondo la Procura, un premio che "susciterebbe disappunto e sfiducia nelle istituzioni". I giudici hanno invece sottolineato come l’osservazione in carcere in questi anni dia conto della "progressiva consapevolezza degli atti commessi e delle indicibili sofferenze causate alle vittime". Riflessioni, quelle di Alberto Savi, ritenute "autentiche e profonde". Nella concessione del permesso ha pesato anche il rapporto costruito con una delle vittime, così come il memoriale inviato alla Sorveglianza nel 2011 nel quale Savi ha descritto i rapporti con i fratelli, l’influenza subita e il timore del loro giudizio: "Non ho ammesso i reati per fornire una versione consolatoria ai miei familiari, solo dopo l’ho fatto, anche per quelli di sangue, perché ero oppresso dalle mie menzogne", ha scritto. Nelle carte si sottolinea la "consapevolezza della irreparabile sofferenza inferta alle vittime". Un detenuto modello, insomma, che ha lavorato, seguito il cammino della fede e perfino ricevuto un encomio per lavori di manutenzione in carcere. Per questo "dopo 22 anni appare meritevole del beneficio, in quanto si è verificata una progressiva evoluzione della sua personalità grazie a una revisione critica di notevole rilevanza". Per "rispettare il comprensibile dolore delle vittime del reato" si sono scelte modalità stringenti per la visita in convento: detenzione domiciliare, niente contatti con persone diverse da volontari e religiosi". Un concetto sottolineato dal legale di Savi, avvocato Annamaria Marin: "La vicenda della Uno Bianca ha avuto conseguenze molto pesanti, era doveroso rispettare il dolore delle vittime. Savi non immagina ancora un futuro, il permesso è solo un piccolo passo di un nuovo percorso detentivo. La strada è ancora lunga". Libero Mancuso, il magistrato che lo condannò: "Il sistema è questo, per ogni reato" di Pierpaolo Velonà Corriere della Sera, 25 febbraio 2017 Libero Mancuso, ex magistrato, ora avvocato, lei da giudice condannò all’ergastolo i fratelli Savi. Come valuta il permesso premio concesso ad Alberto Savi? "Sono valutazioni che spettano al tribunale di Sorveglianza: unico titolare della questione". I parenti delle vittime sono increduli... "Capisco l’amarezza dei familiari, il loro è un dolore non risarcibile, ciò non toglie che il condannato abbia dei diritti previsti dal nostro ordinamento". Crede che Alberto Savi sia pentito? "Bisognerebbe valutare la sua personalità dopo 22 anni di detenzione. Ed è una valutazione complessa che comprende l’esame di tutti gli eventuali cambiamenti: la maturazione dell’individuo, la sua sensibilizzazione ai valori morali, la richiesta di recupero sociale". Secondo lei tutto questo c’è stato? "Il carcere è chiamato a rieducare a reinserire il condannato, qualunque sia il reato commesso. Sono valutazioni delicate che è difficile censurare quando non si hanno i medesimi elementi per valutare". Alberto Savi era ritenuto il "fratello buono". Che cosa pensa di questa definizione? "Partecipo’ "solo" all’eccidio del Pilastro, ma all’inizio negò la propria responsabilità, fu Roberto che lo accusò, e solo infine ammise. Mi sembra improprio definirlo fratello buono". Cosa pensa, oggi, di quella sentenza? "Che fu molto difficile arrivarci: erano in corso processi che vedevano imputate altre persone che non erano i Savi (i fratelli Santagata ndr). Fu un’esperienza terribile, per la città, per l’Italia: fummo messi di fronti a uno scenario che non immaginavamo possibile, una banda di poliziotti che seminava terrore a Bologna e in tutta l’Emilia-Romagna". Il sociologo Luigi Manconi: "Il dolore e la legge sono piani separati e non vanno confusi" di Valerio Varesi La Repubblica, 25 febbraio 2017 "Mi sono sempre sottratto a un confronto diretto coi famigliari delle vittime perché il loro dolore e la legge agiscono su due piani tra loro incompatibili", spiega il sociologo Luigi Manconi. Perché incompatibili? "Perché la sofferenza di un famigliare per la perdita di un congiunto non conosce una sanzione penale che possa soddisfarla. Il dolore è così grande da dover essere sempre rispettato e onorato e mai messo in discussione. Altra cosa è la legge dello Stato". Quindi? "Quindi è un errore mischiare la sofferenza dei famigliari, che comunque hanno sempre ragione, con l’agire delle leggi dello Stato. Le istituzioni rispondono a queste ultime e soltanto a queste ultime. E se la legge prevede quel beneficio lo si deve attuare. Tra l’altro arriva dopo ventitré anni di detenzione". Lei ha avuto modo di studiare il caso della banda della "Uno bianca" e, in particolare, la vicenda di Alberto Savi? "Anni fa in un’iniziativa aperta al pubblico, ebbi occasione di ascoltare Alberto Savi all’interno del carcere di Padova. Prese la parola e parlò con grande sofferenza del suo percorso di affrancamento dal crimine. Lo fece con parole che apparivano autentiche. Ovviamente non sono in alcun modo in grado di certificare l’autenticità del suo pentimento. Credo che nessuno potrà mai sapere se è sincero oppure no. Solo lui stesso può saperlo". La Procura si è opposta alla concessione del permesso. Cosa ne pensa? "Vede, esistono dei benefici previsti dalle norme, le quali dicono che il detenuto "può" usufruirne se sussistono determinati requisiti che ineriscono al comportamento, al percorso di redenzione e agli anni di pena già scontati. Sottolineo che la norma dice che "può". La cosa non è automatica. Stanti così le cose, quel "può" è opinabile a seconda del giudizio del magistrato di sorveglianza: per alcuni è sì e per altri è no". Secondo lei il permesso è troppo indulgente vista l’efferatezza dei reati commessi? "Lo Stato ha svolto il processo e ha attribuito una pena. Il colpevole l’ha scontata e la sconterà. Teniamo conto anche dell’entità del beneficio: dodici ore in una comunità dopo ventitré anni di galera. Negargli tutto ciò mi sembrerebbe del tutto superfluo vista l’esiguità del permesso. Anche perché la pena non prevede che un detenuto sia sottoposto a efferata, permanente afflizione. Si potrebbe negare una cosa del genere se si temesse che scappasse o che potesse reiterare il delitto. In questo caso, lo ripeto, mi sembrerebbe superfluo". La legge non dovrebbe contemplare le ragioni dei parenti delle vittime e quelle di una giustizia più generale? "Ribadisco che si tratta di due piani diversi e incomunicabili. Massimo rispetto per il dolore di chi ha perso un famigliare, ma le istituzioni devono rispondere alle leggi dello Stato. Pensi che i figli di Vittorio Bachelet e di Guido Rossa, entrambi uccisi dalle Brigate rosse, proposero che in sede di concessione dei benefici per i reati di terrorismo non venissero ascoltati i pareri dei famigliari. Proprio per la ragione che ho detto". Angelo Massaro: "Pensavo sempre: capiranno che è un errore. Ma son passati 21 anni" di Simona Musco Il Dubbio, 25 febbraio 2017 "Sono stato sequestrato dallo Stato italiano per un reato mai commesso". Angelo Massaro parla con il Dubbio dopo 21 anni passati in cella, cercando di farsi ascoltare ma ci hanno messo la metà degli anni che ha per dargli ragione. Oggi, a 51 anni, ha il resto della sua vita davanti. Ma la sua giovinezza l’ha passata a scontare una condanna per aver ammazzato il suo amico, Lorenzo Fersurella, ucciso il 22 ottobre 1995 in Puglia. Ventuno anni in carcere sui 24 inflitti dalla giustizia, dopo i quali è stato riconosciuto innocente. Il giorno dopo il processo di revisione celebrato a Catanzaro, Massaro racconta i suoi anni in cella, arrestato per una telefonata male interpretata dagli inquirenti. "Sette giorni dopo la scomparsa del mio amico ho telefonato a mia moglie, dicendole di preparare il bambino per portarlo all’asilo. Ho detto questa frase: "Faccio tardi, sto portando u muers" - racconta al Dubbio. Portavo dietro alla mia auto una piccola pala meccanica per fare dei lavori edili per mio padre. Questa frase l’ho detta davanti ad un’altra persona ma nessuno l’ha mai sentita". E nessuno, quel giorno, verifica cosa effettivamente Massaro stia trasportando. Fosse stato lui, avrebbero potuto beccarlo con le mani nel sacco. Invece prima di interrogarlo passano quattro mesi. "Mi chiesero se ero mai stato a San Marzano, senza spiegarmi perché", dice. L’arresto scatta sette mesi dopo quella telefonata. "Era il 16 maggio 1996. Mi stavano arrestando per aver ammazzato una persona che consideravo un fratello, l’uomo che aveva battezzato il mio figlio più grande, che avrebbe dovuto battezzare anche il piccolo, il mio compare d’anello - racconta. Sono stato privato dell’affetto dei miei figli, della possibilità di vederli sorridere, piangere, di una carezza. Ero incredulo ma avevo fiducia. Pensavo: ora ascolteranno la telefonata e capiranno". Invece prima che qualcuno capisca l’equivoco ci vuole molto tempo. Più la vicenda va avanti, più diventa grossa. "Come potevano pensare che qualcuno trasportasse un cadavere sette giorni dopo un omicidio alle 8.30 del mattino? Perché non mi hanno sentito subito? Avrei potuto di- mostrare tutta la verità subito". Nessuna risposta a queste domande. Massaro rimane fiducioso anche nel corso del processo. Al punto che la difesa rinuncia ad ascoltare testimoni, sapendo che nessuna prova può dimostrare la sua colpevolezza. "I testimoni dell’accusa non hanno dato elementi utili", spiega infatti. All’improvviso, però, l’accusa tira fuori un pentito. "Ci siamo opposti ma non è servito - racconta Massaro. Il collaboratore ha soltanto detto che secondo lui avrei potuto ucciderlo io il mio amico, tutto qua. Può bastare questo? Non credo". Per tre gradi di giudizio, invece, è bastato. In appello i legali chiedono una nuova perizia sulla telefonata e l’audizione di altri testimoni, "ma ci è stato negato". E non serve nemmeno la testimonianza dei carabinieri di Roma, che hanno spiegato come il tono di voce, nella telefonata, fosse tranquillo e come quella parola incriminata - "muers" - possa avere diverse interpretazioni. Nemmeno le sentenze hanno chiarito cosa sia accaduto quel lontano giorno di ottobre, quando Fersurella venne ucciso. "Lo stesso procuratore generale di Catanzaro ha criticato la sentenza, definendola piena zeppa di errori", racconta. Il carcere. "Ho vissuto 21 anni di incredulità e rabbia. Non ho mai accettato questa condanna, tremendamente ingiusta. Ho sempre lottato, studiato sui codici e due anni fa mi sono iscritto a giurisprudenza a Catanzaro. Mi ha portato avanti la rabbia, la sete di giustizia e verità", racconta ora come un fiume in piena. Quelli in carcere sono stati anni di abusi di potere e violazione dei diritti umani. "Il ministero della giustizia mi ha sempre considerato pericoloso e fatto girare per molte carceri. Mi hanno ritenuto insofferente nei confronti delle regole penitenziarie". E per sette anni, dal 2008 al 2015, non ha potuto vedere i suoi figli. "Il tribunale aveva certificato il loro stato di depressione causato dalla lontananza del padre da casa. Nonostante il magistrato di sorveglianza di Catanzaro abbia richiesto il trasferimento a Taranto, vicino ai miei figli - denuncia, il Dap si è completamente disinteressato". Le condizioni di vita dietro le sbarre sono state a volte intollerabili. In cella, ad esempio, mancava l’acqua "e mi lavavo con quella delle bottiglie, che ero io a comprare. E cosa è successo? Mi hanno punito con l’isolamento per lo spreco d’acqua. Questa è solo una parte delle cose subite. Ho visto gente perbene ma anche tanta violenza". La vita fuori. Angelo Massaro oggi è nella sua casa. Spaesato, felice e arrabbiato al tempo stesso. E vuole capire, vuole sapere perché sono stati commessi degli errori. "Non do la colpa a nessuno, chiedo solo che vengano fatti degli accertamenti, perché privare della libertà una persona a 29 anni è crudele e in uno stato di diritto è immorale", dice. E invita a riflettere sullo stato della giustizia in Italia, alla luce anche dei numerosi processi di revisione partiti negli ultimi anni, sintomo di un sistema da rivedere. "Chi sbaglia è giusto che paghi ma un giudice prima di condannare una persona e privarla della vita e dei sui affetti deve chiedersi se lo fa oltre ogni ragionevole dubbio - evidenzia -. Non provo rancore, voglio solo capire se questo errore poteva essere evitato". Tornare a casa è stato strano, dice. Un’emozione che richiederebbe parole nuove. Anche perché alla gioia di rivedere la moglie - che all’epoca aveva solo 22 anni - e i suoi due figli, il più piccolo dei quali era nato soltanto da 45 giorni, aumenta la sua frustrazione. "Perché ho fatto questi 21 anni di carcere?", si chiede quasi ad intervalli regolari. Perché, ripete, è il carcere ciò che non riesce ad accettare, "ma la condanna per un crimine così efferato - ha concluso -. Non potevo sopportare che mi si accusasse della morte di un mio amico, non volevo che la mia famiglia venisse additata. Ho lottato, non mi sono mai arreso. Ma spesso mi chiedo: se fosse capitato a qualcuno meno forte di me e si fosse ammazzato, chi avrebbe reso giustizia per lui?". Morte di Stefano Cucchi: sospesi dal servizio i tre carabinieri accusati di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 25 febbraio 2017 La decisione è stata presa dal comando generale dell’Arma, che ha ritenuto "doveroso" prendere questa misura "precauzionale" dopo il rinvio a giudizio per omicidio preterintenzionale da parte della Procura di Roma. I tre carabinieri accusati per la morte di Stefano Cucchi sono stati sospesi dal servizio, con lo stipendio dimezzato. La decisione è stata presa dal comando generale dell’Arma, che ha ritenuto "doveroso" prendere questa misura "precauzionale" in considerazione della "gravità dei reati contestati" e delle "circostanze dei fatti indicati nei provvedimenti della magistratura". I militari Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, entrambi con il grado di carabiniere scelto, e il vice-brigadiere Francesco Tedesco sono imputati di omicidio preterintenzionale dopo la richiesta di rinvio a giudizio della Procura di Roma, firmata dal capo dell’ufficio Giuseppe Pignatone e dal sostituto Giovanni Musarò. Per Tedesco, visto il grado superiore rispetto agli altri due, il provvedimento è stato preso dal ministero della Difesa su proposta del Comando generale. Secondo l’accusa, il 16 ottobre 2009 i tre carabinieri, "dopo aver proceduto all’arresto di Stefano Cucchi nella flagranza dei delitti di illecita detenzione e cessione di sostanze stupefacenti, e dopo aver eseguito la perquisizione domiciliare, in concorso tra loro, colpendo Cucchi con schiaffi, pugni e calci, fra l’altro provocandone una rovinosa caduta, cagionavano al predetto lesioni personali in parte con esiti permanenti, ma che nel caso di specie, unitamente alla condotta omissiva dei sanitari che avevano in cura il Cucchi presso la struttura protetta dell’ospedale Pertini di Roma, ne determinavano la morte". Avvenuta una settimana dopo l’arresto, il 22 ottobre. Ai tre militari imputati del "violentissimo pestaggio" subito da Cucchi e ricostruito attraverso l’indagine-bis conclusa nel dicembre scorso, l’omicidio preterintenzionale viene contestato con le aggravanti dei futili motivi, dell’abuso di potere e per aver "approfittato di circostanze di tempo, luogo e persona tali da ostacolare la privata difesa". Altri due carabinieri, il maresciallo capo Roberto Mandolini e l’appuntato scelto Vincenzo Nicolardi, sono accusati di calunnia perché testimoniando il falso al processo contro gli agenti della polizia penitenziaria, "implicitamente accusavano" le persone rinviate a giudizio dopo la prima inchiesta, poi assolte con sentenza definitiva. Per loro, però, al momento non è stata prevista alcuna sospensione. Carceri: due suicidi in 24 ore. Un 22enne si toglie la vita a Roma, un 43enne a Bologna Ansa, 25 febbraio 2017 Il giovane era nel carcere di Regina Coeli per resistenza, lesioni e danneggiamento ed era internato. L’uomo di 43 anni invece, detenuto al Dozza, aveva problemi di tossicodipendenza ed era stato in osservazione psichiatrica. Un detenuto italiano di 22 anni si è impiccato utilizzando un lenzuolo legato alla grata del bagno nel carcere romano di Regina Coeli. Ne dà notizia la Fns Cisl del Lazio, secondo cui il suicidio è avvenuto alle 23 nella seconda sezione, al terzo piano, dov’erano presenti 167 reclusi. Il giovane era in carcere per resistenza, lesioni e danneggiamento ed era internato. In passato era evaso dalla Rems ma ripreso e ricondotto in carcere. Il personale di custodia, intervenuto immediatamente non ha potuto salvarlo. La Fns Cisl sottolinea che Regina Coeli "ha un sovraffollamento di più di 289 detenuti: il dato detenuti presenti è attualmente 911 rispetto ai previsti 622". La triste lista di suicidi nei penitenziari italiani purtroppo si allunga. Ieri un detenuto italiano 43 enne si è suicidato nel carcere bolognese del Dozza. Il detenuto ha usato come cappio per l’impiccagione dei lacci delle scarpe legati alle grate delle finestre nel Reparto Infermeria del "Rocco D’Amato" di Bologna. A darne notizia è il Coordinatore Della Uil Polizia Penitenziari di Bologna Domenico Maldarizzi che aggiunge: "L’uomo con problemi di tossicodipendenza e con provvedimento definitivo fino al 2025, era stato in osservazione psichiatrica in altre strutture e a quanto pare non destava particolari sospetti tali da richiedere particolari accorgimenti". "Questi corpi esanimi - continua Maldarizzi - dovrebbero rappresentare macigni sulle coscienze di chi dovrebbe, potrebbe, gestire e risolvere ma non lo fa. Le 7.000 unità mancanti alla Polizia Penitenziaria, i 600 Educatori e i 500 Assistenti Sociali in meno, ed un sovraffollamento carcerario in crescita nell’ultimo periodo accompagnate dalle degradate e invivibili condizioni delle nostre prigioni, sono l’humus in cui prosperano disperazione, depressione e violenza. Forse è giunta davvero l’ora di dire a chiare lettere - conclude Maldarizzi - che la tanto reclamata e propagandata riforma della giustizia non può prescindere da una incisiva e concreta attenzione risolutiva verso il mondo penitenziario". Napoli: "Il carcere non serve per le paranze, si rischia di far diventare i minori veri boss" di Fabio Postiglione Corriere del Mezzogiorno, 25 febbraio 2017 L’ispettore capo di Polizia penitenziaria Ciro Auricchio affrontò la rivolta di Airola: "Nelle carceri minorili si studia per diventare boss. I capiclan, infatti, anche tra le quattro mura di un istituto penitenziario riescono a dettare regole. I nuovi baby-boss non hanno codici, né regole e si affermano proprio da piccoli. In carcere è difficile, quasi impossibile, recuperarli". Bambini spacciatori od organici al clan tolti ai genitori e mandati nel Nord Italia per sottrarli a un futuro criminale. I casi si ripetono negli ultimi mesi. Ed è probabile che anche la bambina di 7 anni sorpresa a spacciare con la sorella al Pallonetto, venga portata altrove. Ma è giusto? Il dibattito è aperto. L’ispettore capo Ciro Auricchio, segretario regionale dell’unione sindacale polizia penitenziaria, ha la sua idea. Ha vissuto in prima linea con i suoi colleghi tutte le emergenze del mondo carcerario, anche la rivolta organizzata dai baby-boss nel carcere di Airola. "Furono momenti duri ma che raccontano con chiarezza tutte le difficoltà che da qualche mese si vivono negli istituti penitenziari minorili della Campania - spiega. Sono centri all’avanguardia con personale qualificato, ma la situazione è diventata pericolosa per tutti". Un dato su tutti: su 60 detenuti a Nisida, di cui 52 ragazzi e 8 ragazze, solo 10 hanno meno di 18 anni, gli altri sono grandi di età, molti addirittura superano i 24 anni. La legge per la detenzione dei minorenni è stata modificata 4 anni fa, ma le ricadute sull’intero sistema si avvertono in questi ultimi anni, dopo le maxi retate che hanno scompaginato tutti i clan della Campania. Prima del 2012 a Nisida e ad Airola entravano i ragazzi con meno di 21 anni ma chi commetteva reati di camorra, già a 19 anni poteva essere trasferito a Poggioreale o Secondigliano. "Con la nuova normativa a Nisida e ad Airola possono entrare in detenzione ragazzi al di sotto dei 25 anni che hanno commesso anche reati associativi, quelli delle paranze, per intenderci. Sono boss veri e influiscono sui percorsi di recupero dei minorenni che invece, grazie agli assistenti sociali, agli psicologi e al personale degli istituti di detenzione, potrebbero realmente riuscire a farcela - dice Auricchio. Gli altri, i boss, invece disconoscono qualsiasi opportunità di recupero mostrandosi intolleranti rispetto alle attività trattamentali e rispetto ad ogni tipo di regola". Eppure le opportunità, così come spiega Auricchio, ce ne sarebbero e tante. "Se solo si pensa che i 100 agenti di polizia penitenziaria in servizio negli istituti sono formati in maniera diversa rispetto a chi invece lavora nelle carceri per gli adulti, la dice lunga sul grado di sensibilità degli operatori - spiega l’ispettore capo Ma qui non ci si trova di fronte ragazzini che hanno commesso reati gravi e vanno recuperati, ma a boss che hanno il controllo di interi rioni di Napoli e che hanno cattive influenze su chi invece vuol uscire presto di galera e rifarsi una vita". Busto Arsizio: carcere di nuovo al tracollo, 383 detenuti e pochi educatori La Prealpina, 25 febbraio 2017 I detenuti oggi sono 383 e gli educatori sono ridotti all’osso. Il direttore: torna il sovraffollamento e mancano risorse. "A quota 390 non siamo ancora arrivati, ma siamo a 383 detenuti. La media delle ultime settimane è di poco inferiore, fra i 375 e i 380. Stiamo tornando a livelli alti di presenze, il sovraffollamento si fa sentire". Orazio Sorrentini, direttore della Casa circondariale di Busto Arsizio, ammette le difficoltà segnalate dal garante dei detenuti Luca Cirigliano. Il bustese evidenziava una carenza nelle risorse per l’area trattamentale, quella che consente ai carcerati di essere accompagnati nel loro percorso di reclusione e di svolgere alcune attività che possano stimolare il reinserimento sociale. Numeri e carenze riaprono il dibattito sulla struttura di via Per Cassano, che torna a non rispettare le regole dettate dalla Corte per i diritti di Strasburgo. "Cirigliano ha ragione - dichiara Sorrentini, reduce da un incontro con gli studenti del liceo scientifico "Grassi" di Saronno - Purtroppo si sta seguendo un trend nazionale: i detenuti stanno aumentando ovunque". Quelli presenti nelle carceri italiane sono 55.856; un anno fa, il 20 febbraio 2016, erano 52.747. In Lombardia oggi sono 8.049 a fronte di una capienza di 6.106 unità. "È triste dirlo - commenta il direttore - ma è finito l’effetto della liberazione anticipata speciale, mentre sussiste quella canonica, i famosi 90 giorni ogni anno, lo sconto di un quarto di pena in caso di buona condotta. Una legge di un paio di anni fa (il decreto legislativo 146 del 2013, scaduto nel dicembre 2015) aveva consentito di concedere una liberazione anticipata più ampia: da 90 giorni per anno si era passati a 150, da un quarto a un terzo della pena. Questo aveva molto aiutato lo sfollamento". Altri riferimenti vanno alle regole della custodia cautelare: "C’erano norme che avevano inciso sul potere dei magistrati e dei pm di mantenere in custodia cautelare gli indagati, però rispetto ai 3mila detenuti in più che si contano oggi oltre 2mila sono già condannati. La custodia cautelare influisce in un caso su tre". Sorrentini fa capire di avere le mani legate: non può non accogliere i detenuti e, allo stesso tempo, non ha strumenti per cambiare le cose: "Pende su di noi una spada di Damocle pesante. Una sentenza recente della Cassazione, nel dicembre scorso, ha stabilito che la superficie che deve essere messa a disposizione di ciascuno come spazio vitale minimo deve essere al netto dell’area occupata dal letto. Se la Corte europea dice che il detenuto deve contare su tre metri quadrati, nel caso in cui per buona parte della giornata possa restare fuori dalla cella, come avviene da noi, la legge italiana esclude dal computo i mobili. Dice che ognuno deve poter calpestare tre metri quadrati. Ebbene, considerando questo orientamento, ancora non consolidato, in alcune celle saremmo fuori norma". Preso atto che il sovraffollamento torna a preoccupare, per l’area trattamentale non ci sono fondi: in teoria, il carcere bustese avrebbe, sulla carta, due educatrici. "Una, dopo due maternità, ha ottenuto il distacco a Civitavecchia. L’altra, anche lei madre, ha un distacco sindacale. Noi contiamo sul funzionario giuridico pedagogico che arriva quattro volte a settimana da Varese. Quanto all’operatrice che arriva da Bollate, vorrebbe restare con noi, è distaccata qui ormai da parecchio. Il fatto è che non ci sono fondi per assumere. Per i direttori sono più di vent’anni che non viene bandito un concorso, per gli educatori c’è stato nel 2010 dopo 15 anni che non se ne facevano. Possiamo solo sperare che mandino altri in distacco, ma Milano dice che per ora basta così. Non possiamo fare molto: vorremmo far calare il numero di detenuti e alzare quello dei poliziotti, ma non è così semplice". Novara: nominato il prima Garante dei detenuti, è l’ex direttore della Caritas di Claudio Bressani La Stampa, 25 febbraio 2017 Don Dino Campiotti ha ottenuto il voto di 24 consiglieri su 30. L’ex direttore della Caritas don Dino Campiotti è il nuovo garante dei detenuti di Novara. È stato eletto ieri dal Consiglio comunale con 24 voti su 30 presenti, mentre 3 sono andati al presidente dell’associazione Vivinovara e della sezione cittadina dell’Associazione nazionale carabinieri Roberto De Rosa e 2 a Daniela Casapieri, ex direttrice di asilo nido e di consultori famigliari, da molti anni impegnata nel volontariato (una scheda di voto era nulla). Su Campiotti si sono concentrati i consensi della maggioranza, di parte del Pd, di Io Novara e Forza Italia. La figura del garante, non retribuita, è stata istituita un anno fa dal Consiglio comunale. Un primo bando era andato deserto, al secondo tentativo le candidature sono state tre. In aula era presente il garante regionale Bruno Mellano, che in mattinata ha visitato il carcere di via Sforzesca e che ha plaudito alla nomina: "Completiamo la rete dei 12 garanti nelle città piemontesi sedi di carceri. La nostra è la prima regione a farlo. I garanti hanno la facoltà di accedere anche senza preavviso agli istituti di pena al pari dei parlamentari e dei consiglieri regionali". Lucca: il Sindaco Tambellini "nuovo carcere, non ci sono ancora condizioni" luccaindiretta.it, 25 febbraio 2017 Il carcere resta al San Giorgio. A ribadirlo, durante la maratona per l’approvazione del piano strutturale, è stato il sindaco Alessandro Tambellini. A far sorgere la discussione una osservazione di Governare Lucca che chiedeva che il piano strutturale non prevedesse la possibilità di spostare la casa circondariale. "Il carcere per ora sta in via San Giorgio - ha detto il sindaco - e per quanto ci riguarda non ci saranno nuovi carceri - in città. Il ministero si muove con previsioni di moduli standard che ripete dappertutto. A noi questi moduli non piacciono né interessano perché sono richiesti ben 5 ettari di terreno per quelle nuova costruzione di edilizia carceraria. Se partissero iniziative innovative nella rieducazione (perché a questo serve il carcere) prenderemmo in considerazione proposte del ministero, ma solo allora. Fino a quel momento la casa circondariale, per noi, rimane in San Giorgio". Nel quadro propositivo del piano strutturale, questo il tema che ha fatto nascere il dibattito, si dice infatti che il piano operativo "dovrà valutare eventuali ipotesi di delocalizzazione del San Giorgio". La lunga maratona, giunta alla sua quarta giornata di lavori, è continuata oggi con le analisi delle osservazioni e delle controdeduzioni al piano strutturale. Momento centrale l’illustrazione da parte del consigliere di Governare Lucca, Piero Angelini, dei suoi emendamenti nati da un lavoro, illustrato con tanto di slide, con il contributo "anche economico" ha detto dei consiglieri Martinelli, Macera, Lenzi e Bianchi, testo a dimostrare che esistono area agricole da regolamento urbanistico che il piano strutturare ha inserito nel perimetro del territorio urbanizzato. Vista l’impossibilità di procedere all’analisi di tutte le osservazioni e le controdeduzioni l’opposizione ha chiesto di proseguire ad oltranza, oltre il limite fissato per le 23, per analizzare almeno le osservazioni ritenute più importanti. Ma l’ipotesi, avanzata dalla consigliera della Federazione della Sinistra, Roberta Bianchi, è stata bocciata e il Consiglio si è concluso all’ora stabilita dalla conferenza dei capigruppo. Saluzzo (Cn): "La casa di Donatella", l’accoglienza per detenuti in permesso e semiliberi corrieredisaluzzo.it, 25 febbraio 2017 Sarà "La casa di Donatella" ed ospiterà i detenuti del carcere Morandi di Saluzzo in permesso premio, i detenuti in semilibertà e i famigliari in visita al loro caro recluso nel carcere cittadino: il monolocale situato al margine della città, nel fabbricato adiacente alla ex casa del custode del cimitero, è stato oggetto di una radicale pulizia, sistemazione e tinteggiatura a cura dei volontari e delle volontarie dell’associazione Liberi dentro presieduta da Biba Bonardi e martedì pomeriggio 22 marzo è stato inaugurato alla presenza dei volontari, degli amministratori comunali, il sindaco Calderoni, l’assessora Anelli e il presidente del Consiglio Momberto, del vescovo Guerrini, del direttore Leggieri e degli educatori del carcere, del garante regionale dei detenuti Mellano e della garante comunale Chiotti. "La disponibilità dell’alloggio dovrebbe far sì che il detenuto esca dal processo di infantilizzazione che avviene in carcere, per sviluppare una nuova autonomia e imparare a gestirsi in modo responsabile" ha detto la presidente di Liberi dentro. All’inaugurazione erano presenti il marito Emanuele Grosso e la figlia della compianta Donatella Girotto, prematuramente scomparsa due anni fa, che è stata una delle colonne dell’associazione di volontari penitenziari del carcere saluzzese. "Ho avuto l’onore di conoscere Donatella- ha detto la garante Bruna Chiotti - e molti detenuti ancora la ricordano: senza mai ostentare ciò che faceva, si prendeva a cuore i problemi finché trovava una soluzione, senza mollare la presa, con costanza e convinzione". L’edificio, di proprietà comunale, era abbandonato e vista la sua posizione nei pressi di un’area cimiteriale può essere usato solo come residenza temporanea. Il Comune lo ha concesso in comodato gratuito all’associazione; saranno gli educatori del carcere a filtrare le richieste dei detenuti e delle loro famiglie. Torino: FreedHome, lavorare in carcere per essere liberi di Nadia Pavoncelli happymagazine.eu, 25 febbraio 2017, 25 febbraio 2017 Il lavoro come riabilitazione e percorso costruttivo. È quanto proposto e promosso da "Freed-Home - Creativi Dentro", rete di imprese che mette assieme tredici cooperative che si muovono all’interno degli istituti penitenziari. Un progetto che offre lavoro e che fa dell’economia carceraria un punto da cui ripartire e ricominciare. Un tema delicato quanto interessante, che abbiamo sentito la necessità e la curiosità di approfondire con Gian Luca Boggia, presidente di Freed-Home e del progetto Extraliberi. "Il lavoro è uno degli elementi fondamentali perché si possa uscire dal carcere migliori rispetto a come si è entrati. Studi empirici attestano che la recidiva per i detenuti che intraprendono un percorso lavorativo in carcere si abbassi notevolmente. Parliamo, infatti, del 60-70% di diminuzione di ricadute in comportamenti scorretti dal punto di vista legislativo, per un’idea di carcere che non corrisponda a "porte girevoli" dove si esce per poi ritornare. Diversi i dati laddove questo percorso di riabilitazione lavorativa non avviene: il tasso di recidiva si abbassa, in tal caso, del 20%". Questi i numeri che Gian Luca ha riportato, ma la questione va, ovviamente, oltre i puri dati. "Vuol dire, inoltre, investire non solo sul lavoro, già di per sé cosa giusta, ma anche sulla sicurezza: donando ai carcerati una seconda possibilità si dà loro un’opportunità da portare all’esterno per allontanarsi da attività non legali, legate alla delinquenza. Riabilitare al lavoro i carcerati significa dare loro modo di imparare un mestiere, creare relazioni sane, ri-costruire un ponte con la società e un nuovo rapporto con l’esterno". Già queste ragioni sarebbero sufficienti per cogliere come l’operato di Freed-Home e di tutte le realtà che ne fanno parte sia importante, ma alla sicurezza si può, senza sbagliare, affiancare anche la tematica "costi". "Si parla spesso di quanto il sistema penitenziario sia dispendioso per l’economia italiana: parliamo di 3 miliardi di euro l’anno, pari a 140 euro al giorno per ogni detenuto. Facendo un discorso maggiormente "pratico" - spiega Boggia - meno detenuti corrispondono a meno costi". Cosa cambia per i detenuti che lavorano? Come si rapportano alle attività lavorative proposte? "L’attività lavorativa si basa sull’adesione volontaria e sull’aspetto motivazionale legato alla stessa. È raro che i detenuti si tirino indietro: lavorare per loro significa garantirsi dei guadagni, che possono scegliere di mandare alle famiglie o mettere da parte per il loro ritorno alla libertà. In generale tutti possono lavorare, ma si sceglie a chi proporre l’attività secondo alcuni criteri e in base a diversi confronti tra educatori, assistenti sociali e polizia penitenziaria. Si evitano i casi di massima pericolosità e chi sta per concludere la sua pena in carcere, in modo da permettere a chi deve restare di costruire e affrontare un percorso che sia durativo e costruttivo. Per molti, soprattutto nel caso dei più giovani o degli stranieri, si tratta del primo contatto con il mondo del lavoro sano e pulito". Quali le attività di cui vi occupate? "Le attività che proponiamo sono disparate, viste le diverse realtà da cui siamo composti e alle quali ci affacciamo. Vi sono lavori legati alla manifattura, riparazione e alla personalizzazione di capi di abbigliamento, attività spesso svolta per terzi. È il caso di Extraliberi, che vede un ambito, legato alla serigrafia e alla stampa digitale, alle quali si affaccia la sezione maschile della Casa Circondariale di Torino. Vi sono, inoltre, i processi legati alla sartoria, ai quali si dedica la sezione femminile. Non solo: la cooperativa sociale Rio Terà dei Pensieri realizza, presso la Casa Circondariale e il Carcere Femminile di Venezia, borse e accessori con materiali riciclati, cosmetici, tra cui una linea biologica, stampa serigrafica e coltivazioni in un orto biologico". Le proposte di Freed-Home riguardano, inoltre, il food. "Biscotti, birra, prodotti tipici, crema di mandorle, pistacchi, caffè, dolci, taralli, vino: con il cibo, in particolare, cerchiamo di sottolineare il rapporto tra carcere e territorio, legame che non può e non deve essere distrutto". Questi sono solo alcuni degli esempi delle eccellenze che le realtà di Freed-Home riescono a produrre, puntano alla qualità della lavorazione e dei materiali. "I nostri prodotti, oltre ad essere presenti nel negozio Freed-Home di Torino, il primo store permanente di commercio e visibilità delle produzioni carcerarie, trovano canali commerciali differenti e, in alcuni casi, vi sono anche legami con grandi nomi quali Eataly o le botteghe di Altro Mercato". Quale riscontro ottenete a livello di vendite e di percezione all’esterno? "Di sicuro si può fare meglio, possiamo e dobbiamo ancora crescere. Il negozio di Torino è ben visto e chi acquista torna a comprare da noi. Otteniamo, quindi, un buon riscontro, anche se, attualmente, parliamo ancora di una fetta di mercato di nicchia". Un mercato che sarà sicuramente accresciuto dalla realizzazione futura di siti e-commerce delle varie cooperative. Chi, attualmente, volesse conoscere meglio Freed-Home può visitare il sito. Di sicuro si noterà il linguaggio comunicativo, caratterizzato da "un’ironia necessaria per rendere accattivante la tematica". Interesse e acquisti sono, quindi, ben accetti. Vi è, inoltre, una possibilità concreta per collaborare con Freed-Home. "Diverse imprese - racconta Gian Luca - hanno scelto, per necessità, comodità o sensibilità, di delocalizzare piccole lavorazioni che non possono fare internamente". Freed-Home rappresenta una realtà interessante capace di lavorare e far lavorare, in modo consapevole e intelligente, per un ripensamento della vita dei detenuti e del sistema carcerario in toto. Benevento: "Libera Rete", studenti e giovani detenuti a confronto sui temi della legalità ntr24.tv, 25 febbraio 2017 Si è tenuto ieri mattina all’Istituto Palmieri il primo incontro di presentazione alle scuole beneventane del progetto Libera Rete. Gli studenti delle classi quinte e alcuni dei giovani detenuti che partecipano al laboratorio socio occupazionale - Francesco e Roberto detenuti ad Airola, Daniele in esecuzione esterna a Benevento - hanno colloquiato sul tema della legalità declinato sotto il duplice aspetto del lavoro e dell’ambiente. L’atto vandalico di cui è stato vittima ieri l’Istituto Rampone ha reso necessario un cambio di programma e quindi lo spostamento del primo incontro nella sede del Palmieri. Le responsabili della cooperativa Social Lab76 Maria Savoia e Jessica Ucci hanno spiegato come nasce Libera Rete. Dare ai giovani detenuti la possibilità di acquisire competenze in ambito professionale serve a scongiurare che, una volta finita la detenzione, si trovino ancora a delinquere. La scelta di creare laboratori in cui si recuperano materiali elettronici nasce dall’idea di sottrarre questo tipo di rifiuto - molto pericoloso per l’ambiente - al percorso di illegalità nel quale finisce nella maggior parte dei casi a causa di un cattivo smaltimento. L’educatore che segue i detenuti presso l’Istituto minorile di Airola, Carlo Santagata, ha fornito alcune informazioni sul processo educativo che è promosso dalle carceri minorili. Le varie scuole che partecipano alla fase di presentazione del progetto daranno vita ad un contest sul tema della legalità. È stato loro chiesto di presentare entro il 22 aprile un lavoro multimediale. Il migliore varrà alla scuola che lo ha varato un premio in materiale didattico. Prossimo appuntamento mercoledì 1 marzo al Liceo Classico di San Giorgio del Sannio. Le scuole, inoltre, raccoglieranno materiale informatico non in uso che sarà "ricondizionato" dai giovani detenuti e andrà a costituire il laboratorio informatico dell’IPM di Airola. "Ringraziamo di cuore la Dirigente Assunta Fiengo e il vicepreside Claudio Di Toro per l’immediata disponibilità ad ospitare la presentazione di Libera Rete - afferma Mariagrazia Di Meo, presidente di Social Lab76 e coordinatrice del progetto - Speriamo di poter continuare a collaborare con la scuola. Il dibattito nato stamattina è la prova che il tema legalità è molto sentito all’interno delle scuole, sia dai docenti che dai giovani". Augusta (Sr): parte la raccolta di testi per i detenuti di Brucoli di Massimo Ciccarello lanota7.it, 25 febbraio 2017 "Un libro è il migliore strumento di evasione". Marcello Mirabella ci scherza su, giocando un po’ col suo ruolo di responsabile nella biblioteca del carcere di Augusta. Ma l’iniziativa che commenta nel giardino di palazzo Vinci, il 24 mattina, è molto seria: raccogliere volumi da mettere ai disposizione dei detenuti, "per i quali il tempo della reclusione è un tempo vuoto". A contribuire a riempirglielo costruttivamente è la colletta organizzata da Cambiaugusta, che fino al 15 marzo farà della sua sede in via Umberto il punto di riferimento per le donazioni dei testi. Alla presentazione di questa sorta di "raccolta differenziata della cultura" ci sono pure il direttore del penitenziario, Antonio Gelardi, insieme ai dirigenti dell’associazione politico-culturale, Marco Stella e Roberto Meloni. Maria Amara coordina l’iniziativa, e spiega che accetteranno tutto ciò che gli amanti della lettura vogliono regalare: "Libri nuovi o usati, e anche in lingua originale, purché compatibili con le finalità della casa di reclusione". Magari "Papillon" dovrà subire qualche vaglio preventivo. Oppure no, "considerato che fra i 5 mila volumi nei nostri scaffali c’è pure il Conte di Montecristo: siamo aperti a tutto", puntualizza il bibliotecario Mirabella. D’altronde, il direttore Gelardi ha appena spiegato che "si punta su arte e cultura, per mettere in contatto i reclusi con la società esterna". Un’interazione con la città che nel passato, quando il penitenziario era dentro il castello svevo, era fatto anche di piccole attività. "Come la legatoria, la carrozzeria o i prodotti dell’orto coltivato nella fortezza", ricorda Meloni. Il trasferimento nelle campagne di Brucoli ha tagliato quel cordone ombelicale, che la direzione cerca di tenere vivo con laboratori teatrali e lavoro volontario presso scuole, Comune e enti benefici. E quanto prima pure con qualche attività sportiva, "come l’incontro di calcio con la squadra del Megara" annunciato da Stella. Insomma "Dona un libro, libera una mente" è soltanto un tassello di un programma di interazione più vasto, che ha già raccolto adesioni significative. A donare il primo volume è l’Unione cronisti, "perché i giornalisti non sono asettici osservatori esterni, ma sono parte attiva della società che raccontano". La sezione siracusana dell’Unci ha contribuito con "Il generale nel suo labirinto" di Gabriel Garcia Marques, "un giornalista che ha vinto il Nobel". Alla conferenza stampa di presentazione c’erano pure pezzi importanti del mondo politico, culturale e del volontariato. Dal maestro Marcello Guagliardo, tenore di fama internazionale e leader di Nessun dorma, al presidente del Tribunale dei diritti del malato, Domenico Fruciano. La presenza di qualche esponente di Facciamo squadra, inoltre, ha testimoniato quell’intesa politica di fondo che da qualche tempo vede assieme Cambiaugusta con alcuni movimenti. Insomma un’iniziativa per far leggere, ma anche da saper "leggere". "La Malasorte - Storie del carcere", di Pierluigi Vergineo di Mario Martino benevento.zon.it, 25 febbraio 2017 Riformare carcere e sistema penale per vincere la "malasorte". L’altro ieri, 23 febbraio 2017, presso la Sala Consiliare della Rocca dei Rettori si è tenuta la presentazione del libro "La Malasorte - Storie del carcere" di Pierluigi Vergineo. In occasione del secondo evento organizzato dall’associazione giovanile "Thesaurus", Pierluigi Vergineo, neuropsichiatra sannita presentando il suo volume "La Malasorte-Storie del Carcere" ha dato il suo approfondito e critico sguardo, ai presenti, su un tema tanto delicato quanto irrisolto: il cattivo funzionamento della macchina della giustizia in Italia. A coordinare l’incontro-presentazione è stata Candida Principe, giornalista di Emozioni in Rete, che ha introdotto il profilo dell’autore ed ha delineato l’obiettivo del libro-verità: testimoniare casi di ingiustizia, di "malasorte" appunto, per dare l’idea del corto circuito della giustizia italiana che, a detta dell’autore, parte da incongruenze del sistema penale italiano. "Dovevo essere arrestato il 10 luglio 2010" afferma Vergineo che era stato citato in una conversazione tra due persone in cui l’una suggeriva all’altra di andare dal Dott. Vergineo perché valido medico. Da questa intercettazione è iniziato un vero e proprio accanimento, un incubo, un tunnel buio, dove si resta da soli, si diventa gli ultimi e spesso si teme di restare, per sempre, emarginati". Vergineo, dopo questa affermazione, sottolinea e fa riflettere sulla assurdità e la negligenza del nostro percorso di giustizia. Infatti Vergineo fu assolto e ritenuto "pulito" dalla Cassazione. Da questo episodio personale l’autore prosegue presentando altri casi di "malasorte" come quello di un suo collega medico, morto una settimana dopo la sua assoluzione e che, in maniera preventiva, era stato arrestato ingiustamente, addirittura ancor prima che il processo finisse. Terribile non è soltanto la macchina della giustizia ma anche la vita del carcere. Infatti l’autore ha spiegato: "Il Carcere oltre che essere un luogo terribile è anche costoso. La vita del carcere è una vita molto costosa. In carcere ci sono spese di ogni genere. A ciò si aggiunge il fatto che uno stipendiato che entra in carcere perdere il suo stipendio. "Così il carcere viene a rappresentare per Vergineo "il corto circuito" della nostra società. L’autore auspica ad una riforma non solo delle carceri ma ancor prima del sistema penale e quindi del sistema di giustizia. "Il capitalismo ebbe bisogno di una rivoluzione per trovare ordine. Ora siamo nel neoliberismo più sfrenato che necessità di una rivoluzione, di un radicale cambiamento. " ha spiegato l’autore sottolineando come il corto circuito non sia solo di tipo giuridico ma legato anche all’ambito economico. Infatti il corto circuito economico generato dall’indebitamento esagerato dello Stato nei confronti delle banche, non fa altro che generare casi di morosità sui cittadini che spesso portano avanti un’economia nera. Ed economia nera sappiamo cosa comporta. Tornando sui casi di "malasorte" l’autore ricorda l’infelice caso di Antonio Varricchio, per cui la Città di Benevento detiene il record di un condannato e poi arrestato a 92 anni, per giunta sulla sedia a rotelle. L’autore, in qualità di medico allora sostenne l’impossibilità di portarlo in carcere. Tuttavia ulteriori accertamenti affermarono l’idoneità di Antonio al carcere. Il detenuto morì poco tempo dopo di ictus cerebrale. All’autore poi è stato chiesto, dalla giornalista Candida Principe, il resoconto sulla sua esperienza con gli indagati per il caso di inquinamento da rifiuti tossici. L’autore propone, ai presenti, la visione di uno spezzone del docu-film "Biutiful Cauntri". Alla fine del suo intervento il Dott. Vergineo, la parola è passata a Celeste Mervoglino, referente progetto "Limiti", realizzato dalla Solot - Compagnia Stabile e dall’associazione Motus. " Il progetto "Limiti" nasce dal bisogno di creare integrazione tra detenuti e società" spiega la referente Mervoglino. Molte le forme attraverso le quali, "Limiti" cerca di portare al riscatto sociale, i detenuti: laboratori teatrali e attività fisica su tutti. A seguire c’è stato un saggio di tali attività con la proiezione di un cortometraggio e la fondamentale testimonianza dal vivo di un detenuto in semilibertà che ha descritto ai presenti la difficoltà della vita del carcere ed ha sottolineato la presenza di un vero e proprio "muro" tra la società e i detenuti che spesso causa l’emarginazione di questi ultimi. L’intenso pomeriggio organizzato dall’Associazione Thesaurus si è chiuso con un epilogo di Vergineo sul problema del gioco d’azzardo. È stato visionato un video in cui il Dott.Vergineo intervista l’ex portiere del Benevento Calcio, Marco Paoloni, che ha rovinato la sua carriera e la sua vita per via della ludopatia. Tuttavia anche qui è emerso un ignobile caso di "malasorte". Infatti l’ex tesserato del Benevento sarebbe stato arrestato senza un reale capo di imputazione. "Questo è un processo mediatico ed un accanimento contro di me; non un vero processo. Mi hanno arrestato per il solo fatto che avevo il vizio del gioco. Non ho mai truccato partite di calcio". Prima dei saluti, un barlume di speranza e di ottimismo. Infatti sul finire Candida Principe ha chiesto delucidazione all’autore Vergineo in merito alla sua proposta di legge sulla ludopatia. L’autore ha spiegato: "Con la legge sulla ludopatia, presentata alla Commissione Regionale, si andrebbero ad aiutare e a sostenere i malati del gioco e a risolvere alle radici il problema". L’umano ridotto a "merce difettosa" fa spettacolo di Alessandra Pigliaru Il Manifesto, 25 febbraio 2017 Nel video che circola in rete ormai da ieri, tre dipendenti di un supermercato di Follonica, di cui uno dall’altra parte dello smartphone che riprende, dileggiano due donne rom, rinchiuse nel gabbiotto in cui viene riposta la "merce difettosa", i rifiuti del negozio. Nel video che circola in rete ormai da ieri, tre dipendenti di un supermercato di Follonica, di cui uno dall’altra parte dello smartphone che riprende, dileggiano due donne rom, rinchiuse nel gabbiotto in cui viene riposta la "merce difettosa", i rifiuti del negozio. E proprio come prodotti andati a male, vengono trattate le due donne, mentre urlano stipate e incredule tentando di aprire la porta che però rimane sbarrata. Oltre alla solita colata maleodorante di commenti sui social, e all’immancabile saltarci sopra del segretario leghista Matteo Salvini che propone assistenza legale agli autori del video casomai ne avessero bisogno, ciò che va in scena è una nuova grammatica del sadismo, sdoganata da un clima di violenza politica qui come oltreoceano. È un clima in cui l’orrore razzista sembra lecito, diminuibile quando è inferto a chi è più debole. Non sono solo energumeni i protagonisti - istituzionali e no - di questo sfascio che si tende a giustificare. Hanno anche volti più quotidiani, quasi innocui di trentenni che scherzano come durante un aperitivo serale mentre impediscono la libertà di due donne sequestrandole perché accusate - si intuisce - di qualche furto. È insomma una deriva, politica e sentimentale, inarrestabile in cui al senso dell’umano si contrappone l’incapacità di vedere l’altro se non immaginandone la soppressione. Disponendo liste-nere, espulsioni, carcerazioni e praticando torture. Qualsiasi cosa per infliggere a chi non può difendersi le umiliazioni più svariate, basta che siano disponibili al proprio godimento. E a quello dei migliaia dei propri contatti virtuali. Un bel supermercato anche i social, dove l’umano ridotto a merce difettosa fa spettacolo. E i gabbiotti simbolici in cui rimestare nei propri rifiuti e miserie sempre molto frequentati. I frutti di eco-reati e anti-caporalato. Buone leggi innanzitutto di Antonio Maria Mira Avvenire, 25 febbraio 2017 Buone leggi che funzionano. Attese da anni e che ora danno risultati altrettanto buoni. Come quelle per contrastare il caporalato e gli eco-reati, che proprio ieri hanno portato buone notizie. Altre leggi, però, altrettanto importanti, si perdono tra Camera e Senato, mentre la cronaca quotidiana ne conferma l’urgenza. Approvate da uno dei rami del Parlamento, si fermano per mesi e anche per anni nell’altro. Mentre normative, sulla cui urgenza sociale ci permettiamo di avere qualche dubbio, trovano spazio, tempo, persino corsie privilegiate. Ieri, due notizie ci dicono con la forza dei fatti che buone leggi si fanno, norme che provano, e riescono, a contrastare lo sfruttamento dell’uomo e dell’ambiente. Quello che, sempre ieri, papa Francesco ha ben descritto con parole nette: "Non pago il giusto ai miei dipendenti, sfrutto la gente, sono sporco negli affari, faccio riciclaggio del denaro". I sei arresti in Puglia dell’inchiesta nata dopo la morte della bracciante Paola Clemente, avvenuta nelle campagne di Andria il 13 luglio 2015, sono il frutto dell’applicazione della legge sul caporalato, approvata lo scorso ottobre. Una norma che aveva trovato forti resistenze, con conseguente (e più volte da noi denunciato) rallentamento dell’iter parlamentare. Ora però è in vigore e dà i suoi frutti di giustizia e, si spera, anche in termini di prevenzione. Così come la legge che del 2015 ha introdotto nel Codice penale i delitti ambientali, i cosiddetti eco-reati. Richiesta da anni dai magistrati più impegnati nella lotta alle ecomafie, ai quali il nostro giornale ha dato voce durante la campagna sulla "terra dei fuochi", per denunciare, anche allora, i ritardi e i rimpalli tra i due rami del Parlamento. La legge ora c’è, e funziona. Lo ha sottolineato ieri la Commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti, presentando i dati positivi della sua applicazione in quasi due anni, con molte inchieste, ma anche "gli effetti di prevenzione generale". Bene. Molto bene. È questo il Parlamento che piace ai cittadini, che fa leggi utili al Paese, soprattutto per tutelare veri interessi diffusi. Ma la cronaca ci racconta che altre norme, altrettanto necessarie, sono invece bloccate nella palude di un bicameralismo perfetto di nome ma non di fatto, tra spinte di potenti lobby e "distrazioni" politiche. Così la notizia di mercoledì sera delle durissime condanne nel processo "Black monkey" contro gli affari della ‘ndrangheta sulle slot in Emilia, non solo conferma il potere delle azzardo-mafie, ma anche della necessità di regolamentare in modo finalmente più efficace e trasparente il mondo dell’azzardo. C’è voluto il coraggio del collega Giovanni Tizian, sotto scorta per le sue inchieste, per alzare il velo su questi affari dei clan al Nord. Ma serve di più. Ad esempio quanto proposto, all’unanimità, dalla Commissione antimafia in termini di controlli e repressione. Che fine ha fatto? Sappiamo, invece molto bene, che non fanno passi avanti in Parlamento le proposte di legge sul divieto totale di pubblicità dell’azzardo, mai messe all’ordine del giorno malgrado il sostegno dell’intergruppo parlamentare coordinato da Lorenzo Basso e di tante associazioni "no slot". Così come non trova spazio la riforma generale del settore, relatrice Paola Binetti, approvata dalla Commissione affari sociali della Camera e da oltre in anno dispersa. Mentre, fuori dal Parlamento ma ugualmente ostacolata, va avanti di rinvio in rinvio l’intesa Stato-Enti locali. Si tratta di norme preziosissime, proprio come quelle infine varate e che stanno già dando risultati positivi. E tutti, almeno a parole, sottolineano l’importanza di leggi finite su binari morti, e che lì restano: il Testo unico sull’amianto, la norma sugli amministratori locali minacciati, la riforma dei beni confiscati e quella sui Comuni sciolti per infiltrazione mafiosa, perfino la riforma della Protezione civile che solo dopo il dramma dell’interminabile terremoto dell’Italia centrale, ha ripreso il suo cammino al Senato dopo quasi un anno e mezzo. Ma poi, tornata a Montecitorio, chi l’ha vista più? Per non parlare di due norme tanto importanti per passare dall’accoglienza all’integrazione dei migranti, quella sulla cittadinanza e quella sui minori non accompagnati. Testi che trovano tanti, troppi, ostacoli. Anche le leggi sul caporalato e sugli eco-reati ne avevano avuti (e i critici ancora ci sono…), ma i fatti li stanno smentendo. Buone leggi, per vere urgenze sociali. Il Parlamento, malgrado fibrillazioni politiche e spinte lobbistiche, ha ancora la possibilità di approvarne altre ancora. Per il Paese. Per il vero bene comune. Soprattutto se non perderà tempo su temi e proposte di dubbia utilità. Migranti. Lo "ius soli" divide la maggioranza: no di Ncd alla fiducia di Alessia Guerrieri Avvenire, 25 febbraio 2017 Il tema è scottante. Tanto che basta un sasso lanciato in un’intervista dal presidente del Pd, Matteo Orfini, a riaccendere il dibattito sul cosiddetto ius soli. Il punto di partenza è che il provvedimento sulla cittadinanza degli stranieri in Italia "è incomprensibilmente bloccato al Senato", fa notare il reggente del Partito democratico, che tracciando le priorità per il futuro sottolinea: "Un governo forte e autorevole come il nostro, di fronte a italiani lasciati senza diritti, può pensare ad aiutare l’approvazione con la fiducia". E da qui si apre un vero e proprio caso politico, con le opposizioni che si scagliano contro Orfini perché non avrebbe titolo d’invocare la fiducia. Ma anche all’interno delle maggioranza di governo - i cui contrasti sul tema avevano portato il provvedimento ad arenarsi da mesi a Palazzo Madama - lo slancio posto dal Pd sullo ius soli (seppure temperato da almeno un ciclo di studi compiuto in Italia) non piace proprio, con i centristi di Alfano che non lo considerano una priorità e giudicano la scelta come una provocazione per far cadere il governo. Sta di fatto che dopo 450 giorni dall’approvazione da parte della Camera, il testo "è finalmente calendarizzato al Senato". Perciò quando "arrivano le scelte di civiltà", ricorda il presidente della commissione Affari sociali di Montecitorio, Mario Marazziti (Des-Cd), non si possono fare aspettare, "o si passa dall’altra parte, quella dell’inciviltà". Così a chi appone la giustificazione che ci sono temi più importanti, il deputato replica che il voto di fiducia e le forzature non servono "se Ap mantiene i suoi impegni e non va dietro alla Lega e ai populisti". A scagliarsi con toni forti, invocando "barricate per bloccare il Parlamento", infatti, proprio il segretario del Carroccio, Matteo Salvini, che su Facebook parla di "pazzi pericolosi". Mentre Giorgia Meloni chiede al premier di chiarire se considera lo ius soli "davvero una priorità". Sul piede di guerra anche il resto delle opposizioni con il senatore Maurizio Gasparri (Fi), che ricorda ad Orfini di "non avere l’autorità per imporre l’agenda al Parlamento, né tanto meno al governo". Lo ius soli è fermo al Senato "e lì morirà - tuona - la cittadinanza facile per gli immigrati non sarà mai legge". Ad essere contrari, tuttavia, sono anche gli stessi gruppi parlamentari che sostengono l’esecutivo. La fiducia "la decide il Consiglio dei ministri" dopo un confronto, ricorda la presidente dei senatori di Centristi per l’Europa, Laura Bianconi; un dibattito che deve essere "ancor più approfondito se si tratta di provvedimenti delicati". Perciò la parlamentare invita Orfini ad "evitare forzature e fughe in avanti su provvedimenti delicati, che rischierebbero soltanto di produrre tensioni sulla maggioranza di governo". E risponde poi a Mario Marazziti, invitandolo a "preoccuparsi dei provvedimenti all’ordine del giorno della sua commissione". Ancora più diretto il capogruppo di Ap-Ncd alla Camera, Maurizio Lupi, che al reggente del Pd lancia un messaggio inequivocabile: "Si guardi allo specchio e se li voti lui certi provvedimenti a suo avviso prioritari". La legislatura non è un monocolore Pd, precisa ancora, "si faccia i conti al proprio interno e non pensi di avere degli zerbini". Ai compagni di governo ribatte a sera lo stesso presidente del Pd: "Ricordo loro che alla Camera lo hanno votato". La linea di Orfini viene sposata invece da molti parlamentati democratici. Per il deputato Khalid Chaouki la sua posizione è "ottima", perciò bisogna accelerare. E sulle polemiche "becere e strumentali" di Salvini dice che "odorano di fascismo". Anche per il collega di partito, Edoardo Patriarca la fiducia sullo ius soli "ci starebbe tutta" e si chiede perché "la destra si scandalizza", visto che "gli italiani sono favorevoli a uno ius soli temperato, proprio quello che stiamo introducendo". Libia. 27 migranti morti soffocati in un container merci di Francesco Semprini La Stampa, 25 febbraio 2017 Erano 83 stipati nel tir diretto a Kohms per imbarcarsi verso l’Italia. La mattanza continua, a terra come in mare. Sono almeno 27 i migranti africani morti mentre venivano trasportati in un container dall’entroterra libico sulle coste della Tripolitania. In attesa con tutta probabilità di imbarcarsi su qualche carretta del mare alla volta dell’Italia. A scoprire il carico di essere umani è stata la Mezzaluna rossa libica (l’equivalente della Croce rossa), secondo cui erano 83 le persone stipate nel container destinato al trasporto merci caricato e caricato su un improbabile Tir. I migranti provenivano dall’entroterra desertico diretti a Khoms, città costiera che si trova a metà strada tra Tripoli e Misurata. Quando i volontari della Mezzaluna rossa hanno aperto il container non hanno potuto far altro che rilevare i 27 decessi, di cui 13 dovuti ad asfissia e gli altri da deidratazione. In sostanza una parte dei migranti sono morti soffocati gli altri di sete. Chi è sopravvissuto ha riportato gravi ferite come fratture dovute agli scossoni subiti durante il tragitto che avviene spesso su strade impervie. Secondo un prima ricostruzione il veicolo sarebbe stato abbandonato dai trafficanti, forse in attesa dei complici che dovevano procedere all’imbarco o forse a causa di un guasto che li ha spinti alla fuga. È l’altro lato della tragedia del traffico di migranti clandestini, quello che si consuma a terra, quando i disperati si affidano alle organizzazioni criminali che dallo snodo di Aghades in Niger li portano in Libia attraverso le rotte desertiche. La mattanza continua quindi, da terra come da mare, come ad esempio il tratto di costa davanti a Zuwara, sull’altro lembo della Tripolitania quello a ridosso del confine tunisino, dove ieri sono stati ritrovati 14 corpi senza vita di migranti che avevano preso il mare su natanti di fortuna. È andata meglio agli altri 124 salvati dalle motovedette libiche prima di essere inghiottiti dalle acque del Mediterraneo. Medio Oriente. Negato il visto all’Ong Human Rights Watch: "agisce contro Israele" di Michele Giorgio Il Manifesto, 25 febbraio 2017 Omar Shakir, responsabile per Israele e territori palestinesi occupati non avrà il visto di soggiorno. Per il ministero degli esteri israeliano Hrw "non è una vera organizzazione umanitaria" e "opera in maniera evidente ed inequivocabile contro lo Stato d’Israele". "I difensori dei diritti umani internazionali e locali e gli attivisti che denunciano l’occupazione militare subiscono intimidazioni continue da parte delle autorità e della destra. Il visto di soggiorno negato al membro di Human Rights Watch è solo l’ultimo abuso in ordine di tempo. Però non ci arrendiamo". Così Yehuda Shaul, uno dei fondatori dell’ong israeliana Breaking the Silence (BtS) ha commentato la decisione del ministero dell’interno di negare il visto di soggiorno all’avvocato americano Omar Shakir, nominato da Human Rights Watch direttore dell’ ufficio in Israele e Territori palestinesi. BtS e altre ong dei diritti umani - Amnesty, B’Tselem, Adalah, Yesh Din - hanno espresso piena solidarietà a Hrw e Shakir e promesso che "nè la chiusura dei confini alle associazioni dei diritti umani e agli attivisti, nè altre misure prese dal governo israeliano contro le organizzazioni che criticano l’occupazione ci fermeranno da documentare le violazioni dei diritti umani nei territori controllati da Israele". Il visto negato a Omar Shakir è in ordine di tempo l’ultimo provvedimento restrittivo adottato dal governo Netanyahu contro individui ed organizzazioni che, spiega l’esecutivo israeliano, mantengono una linea ostile allo Stato ebraico, diffondono la "propaganda palestinese" e appoggiano il Bds, la campagna internazionale di boicottaggio di Israele. Una nuova legge inoltre permette, ai terminal di frontiera e all’aeroporto di Tel Aviv, di vietare l’ingresso ad attivisti e simpatizzanti stranieri del Bds. E sanzioni sono state decise già da tempo nei confronti delle ong israeliane che appoggiano il Bds. Il diritto di critica alle autorità israeliane per le politiche che attuano in Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme est si fa ancora più incerto se il portavoce del ministero degli esteri israeliano, Emmanuel Nachshon, arriva ad affermare che Hrw, presente in 90 Paesi, "non è una vera organizzazione umanitaria" e "opera in maniera evidente ed inequivocabile contro lo Stato d’Israele". Human Rights Watch in questi anni ha solo svolto il suo compito effettuando un’azione di monitoraggio e denuncia del tutto simile a quella che fa in altre regioni del mondo, con lo stesso linguaggio e modalità. Ha redatto rapporti critici sull’occupazione israeliana dei Territori palestinesi, denunciando anche le violazioni dei diritti umani compiute in Cisgiordania dall’Autorità nazionale palestinese e a Gaza dal movimento islamico Hamas. Lo stesso il Dipartimento di Stato americano non ha potuto fare a meno di criticare la decisione di Tel Aviv di negare il permesso a Omar Shakir. Il ministero degli esteri israeliano ha quindi addolcito la sua posizione sostenendo che i rappresentanti stranieri di Hrw potranno entrare con il visto turistico. Israele ieri ha rivolto un attacco anche al Consiglio Onu per i diritti umani che aveva criticato la condanna, che considera "eccessivamente indulgente", a 18 mesi di detenzione inflitta al soldato israeliano Elor Azaria che l’anno scorso a Hebron uccise e sangue freddo un assalitore palestinese ferito e non in grado di nuocere. "Ancora una volta - ha scritto su Facebook il ministro della difesa Lieberman - in base al metro distorto di moralità del Consiglio per i diritti umani un proiettile sparato da Azaria contro un terrorista è più grave di milioni di proiettili che uccidono innocenti in Siria, in Libia, in Iraq e nello Yemen". Egitto. Tredici mesi dalla scomparsa di Giulio Regeni, Amnesty International scrive a Eni di Riccardo Noury Corriere della Sera, 25 febbraio 2017 Alla vigilia del tredicesimo mese dalla scomparsa di Giulio Regeni al Cairo il direttore generale di Amnesty International Italia, Gianni Rufini, si è nuovamente rivolto a Eni con una lettera inviata all’amministratore delegato Claudio Descalzi. Nella lettera, Rufini ricorda come in occasione del precedente carteggio del febbraio 2016 l’amministratore delegato Descalzi avesse affermato che le risposte che la famiglia Regeni attendeva dalle autorità del Cairo erano "risposte importanti anche per noi, perché il rispetto di ogni persona è alla base del nostro operare e perché siamo impegnati nello sviluppo dell’Egitto". A 13 mesi dalla scomparsa di Giulio Regeni, Amnesty International Italia ritiene che la collaborazione tardiva e insufficiente delle autorità giudiziarie egiziane stia rallentando la ricerca della verità. L’organizzazione per i diritti umani teme fortemente il rischio che, in nome di una asserita necessità di riprendere normali relazioni diplomatiche e politiche, si finisca per accettare quella "verità di comodo" di cui l’Italia ha sempre dichiarato di non accontentarsi. Dei rapporti tesi con l’Italia non hanno risentito, nell’ultimo anno, le attività di Eni in Egitto, paese che sul profilo Twitter del responsabile della comunicazione dell’azienda è definito "un paese amico" e "molto importante per noi, che siamo parte del futuro del paese". Il futuro dell’Egitto, sottolinea Rufini, dipende anche dalla capacità e dalla disponibilità delle autorità locali di creare un ambiente nel quale i diritti umani siano rispettati e le organizzazioni della società civile possano agire liberamente per promuovere la cultura dei diritti umani e proteggere le vittime delle loro violazioni. Amnesty International Italia continua a credere che Eni, in ragione delle sue stesse valutazioni sul suo impegno in Egitto e sui positivi rapporti con le autorità, possa svolgere un ruolo importante per stimolare il governo del Cairo a fare piena luce sull’uccisione di Giulio Regeni. La richiesta verrà rinnovata nel corso di un incontro in via di organizzazione nel mese di marzo. Tunisia. Presto la fine della persecuzione verso i consumatori di cannabis di Andrea Legni dolcevitaonline.it, 25 febbraio 2017 La legge 52, ovvero la durissima norma che punisce il consumo di droga in Tunisia si appresta ad essere riformata. È quanto ha annunciato in Tv il presidente Beji Caid Essebsi. Il capo dello stato ha inoltre annunciato la convocazione del "Consiglio superiore per la sicurezza nazionale" per ottenere fin da subito una moratoria degli arresti per possesso di droga, in attesa che il Parlamento approvi una nuova legge. Secondo l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, il 53% dei detenuti in Tunisia si trova in carcere per reati legati alla droga. La legge 52 venne approvata nel 1992 con l’obiettivo di mettere in pratica la tolleranza zero verso i consumatori di zatla (come in Tunisia viene chiamato l’hashish), che tradizionalmente rappresentano una larga fascia della popolazione. L’art. 4 della legge punisce chiunque detenga, anche in modiche quantità, sostanze o piante stupefacenti con la reclusione da uno a cinque anni e con pena pecuniaria accessoria da 500 a 1.500 euro. L’art. 8 addirittura punisce con il carcere da sei mesi a tre anni e a una ammenda da mille a cinquemila dinari chiunque frequenti un luogo nel quale si consumano stupefacenti. Pene severissime che negli anni hanno reso la Tunisia, secondo molti attivisti locali, una "prigione civile". Ma la forza repressiva non risiede solo nelle pene previste ma, forse soprattutto, nella discrezionalità lasciata alla polizia nella sua applicazione, facendola diventare di fatto una delle norme principali attraverso il quale il regime di Ben Alì (al potere dal 1987 e fino alla rivoluzione del gennaio 2011) ha conservato il potere incarcerando il dissenso. La legge dà infatti alla polizia il diritto di fermare qualsiasi persona sospettata di consumo e di sottoporla, con le buone o con le cattive, ad un test delle urine. La polizia si è spesso spinta fino ad entrare nei domicili privati senza mandato giudiziario in nome della legge 52, utilizzata come scusa - come denunciato anche in un rapporto di Osservatorio Iraq - in special modo per incarcerare i giovani appartenenti ai movimenti sociali. Secondo i dati del Ministero della Giustizia, ammontano a 6.700 solo per l’anno 2016 i giovani arrestati e sbattuti in carcere con l’accusa di avere consumato cannabis, principalmente uomini. Ovvero circa un terzo dell’intera popolazione carceraria. Human Rights Watch e Avvocati Senza Frontiere hanno pubblicato recentemente dei rapporti che documentano di abusi polizieschi, arresti arbitrari, torture e violazioni dei diritti umani causate dall’applicazione della legge 52 e le pesanti conseguenze sul piano sociale risultanti dagli arresti di massa. Ma le ripercussioni sono state anche di carattere sanitario. Il pericolo di essere controllati e incarcerati per possesso di zatla ha infatti spinto molti giovani a consumare altri tipi di sostanze pesanti, molto pericolose ma che sfuggono ai controlli delle urine utilizzati in Tunisia, in particolare il Subutex, un sostituto all’eroina indecifrabile dalle analisi. Il cui consumo è riesploso nuovamente in corrispondenza al giro di vite che ha colpito duramente la vendita di cannabis in questo inizio 2017. L’annuncio del presidente ha scatenato un ampio dibattito, ma in base alle prime dichiarazioni quasi tutta la ampia coalizione (che comprende anche il partito islamista Ennahda) che sostiene Essebsi pare sorprendentemente favorevole alla riforma. Nel frattempo un collettivo di hacker tunisini ha attaccato ieri la home page del sito ufficiale del ministero del Lavoro e della Formazione professionale, sostituendola con un messaggio a favore dell’abolizione della legge 52 e chiedendo che la moratoria, in attesa della nuova legge, venga trasformata in un vero indulto che permetta la scarcerazione immediata dei migliaia di cittadini detenuti per consumo di cannabis. Stati Uniti. Trump revoca piano Obama per ridurre carceri private Reuters, 25 febbraio 2017 La nuova Casa Bianca di Donald Trump prosegue lo smantellamento dell’eredità Obama: dopo la revoca del permesso ai transgender di libera scelta dei bagni delle scuole, ha ritirato anche l’ordine di ridurre gradualmente i contratti con gli operatori privati di carceri. La decisione del segretario alla Giustizia Jeff Sessions rafforza i timori che il suo obiettivo non sarà quello perseguito da Obama di ridurre il numero dei detenuti. Da un’indagine dello scorso anno emerse che le prigioni gestite da privati sono più pericolose. L’accertamento mise in luce che nelle carceri private ci sono più incidenti legati alla sicurezza e incolumità dei detenuti. Immediate le reazioni dei difensori dei diritti umani, secondo cui la detenzione è una responsabilità sociale e non può essere affidata a società basate sul profitto che prosperano su condizioni inumane. "Dare il controllo delle prigioni a compagnie for-profit è una ricetta per gli abusi e l’abbandono", ha commentato David C. Fathi, direttore della American Civil Liberties Union’s National prison project. "Gli Usa potrebbero essere trascinati in un nuovo boom di prigioni federali, alimentato in parte dalla persecuzione di immigranti irregolari che entrano nel Paese", ha aggiunto. Turchia. Carceri piene dopo il tentato golpe, nuovo sconto di pena ai detenuti Ansa, 25 febbraio 2017 Dopo aver già rilasciato in anticipo alla fine dell’estate 36 mila detenuti per reati minori, la Turchia è pronta a fare altro spazio nelle sue carceri, rese sovraffollate dagli almeno 44 mila arresti seguiti al fallito golpe del 15 luglio. I detenuti condannati a meno di 10 anni e con almeno un mese di buona condotta potrebbero essere trasferiti in "prigioni aperte", cioè centri di detenzione con sorveglianza minima. Lo ha annunciato il premier Binali Yildirim, sottolineando che dalla misura saranno esclusi i condannati per terrorismo, crimine organizzato e abusi sui minori, e che non ci saranno comunque sconti di pena. "C’è un certo sovraffollamento legato alla lotta al terrorismo", ha spiegato, commentando il nuovo regolamento, approvato mercoledì dal ministero della Giustizia.