Chiuso l’ultimo Opg, ora c’è il rischio dei mini-Opg di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 24 febbraio 2017 Serve modificare il Codice penale sulle misure di sicurezza provvisorie e le infermità sopravvenute. Per il Comitato StopOpg da sempre impegnato nella chiusura degli istituti serve "una nuova fase, assegnando alle Rems un ruolo utile, ma residuale e puntando sui servizi di salute mentale e del welfare locale". Con il trasferimento gli ultimi pazienti dell’ex Opg di Barcellona Pozzo di Gotto è stato raggiunto l’obiettivo dall’entrata in vigore della legge di due anni fa che prevedeva il superamento definitivo degli ospedali giudiziari. Le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) che dovrebbero sostituire quella che è stata chiamata una delle vergogne del nostro sistema giudiziario e sanitario sono state attivate in quasi tutte le Regioni (rimangono ancora da aprire quelle di Caltagirone e di Empoli) e hanno visto transitare più di 900 persone e uscirne circa 400, a dimostrazione che il sistema è in via di funzionamento e che le Rems non sono un carcere a vita. "Un segnale positivo - ricorda il commissario unico per il superamento degli Opg Franco Corleone - che porta a pensare che queste residenze siano delle strutture tendenzialmente aperte e, contrariamente agli Opg, non prevedono una presenza senza fine, con quella tragica pratica che era definita come ergastolo bianco". Ma le criticità non mancano. In un recente convegno "Dopo il superamento degli Opg. Quali criticità e quali prospettive" organizzato dalla Commissione igiene e Sanità a Palazzo Madama è emerso che per evitare un ritorno al passato, secondo le indicazioni emerse, bisogna rafforzare il territorio dando impulso ai Dipartimenti di salute mentale e creare una cabina di regia regionale forte che dialoghi con gli enti locali. Soprattutto occorre una modifica al codice penale sulle misure di sicurezza provvisorie e le infermità sopravvenute (questo per evitare che vengano ospitati nelle Rems persone con "misure di sicurezza provvisoria" dell’autorità giudiziaria e non con uno "stato di infermità" accertato in via definitiva). Una revisione della legge che operi anche un rinnovamento "lessicale", perché le parole "Opg" e "internati" sono rimaste nero su bianco, nelle pagine del nostro codice penale. Il rischio che si ripresenti la logicità manicomiale anche nelle Tems non è remoto. Anche lo stesso commissario Corleone ha puntato i riflettori su questa criticità spiegando che "serve una modifica del codice penale per quanto riguarda le misure di sicurezza provvisorie e le infermità sopravvenute. Deve anche cambiate l’atteggiamento dei magistrati di cognizione che ancora prevedono il ricovero in Rems anche quando non né necessario andando contro la stessa legge. C’è poi un problema con perizie spesso "stravaganti e sciatte": il proscioglimento per incapacità di intendere e di volere va dato con rigore. Per questo credo che i magistrati debbano sempre chiedere un doppio parere. Ci sono poi grandi criticità per le donne che sono poche e rischiano di vivere in situazioni di promiscuità e di non ricevere le cure adeguate". Proprio sul discorso del superamento della logica manicomiale intervengono i Radicali Italiani per voce del tesoriere Michele Capano: "È del tutto fuori luogo il trionfalismo con cui il ministro Lorenzin, annunciando l’avvenuta chiusura degli Opg, parla di "grande traguardo" sul fronte dei diritti umani e della salute mentale. Da un lato le neonate Rems replicano lo stesso schema di segregazione proprio degli Opg, dall’altro deve essere chiaro che solo l’abolizione delle misure di sicurezza (dalle Rems alla libertà vigilata), e dell’inafferrabile concetto di "pericolosità sociale" che le sorregge, segnerebbe una svolta: una svolta utile a fare rivivere la stagione riformatrice degli anni 70, approdando finalmente a quella cultura della "convivenza delle differenze" che rappresentò il nucleo dell’esperienza psichiatrica e civile di Franco Basaglia". La possibilità che le Rems rischino di diventare dei mini Opg è una delle più forti preoccupazioni del Comitato Stop Opg che in questi anni ha svolto un ruolo fondamentale e che non per nulla in questi mesi ha fatto un "viaggio attraverso le Rems" che intende continuare. Stefano Cecconi, Giovanna Del Giudice, Denise Amerini e Patrizio Gonnella di Antigone, ringraziando per il loro ruolo decisivo il sottosegretario alla Salute Vito De Filippo (ora all’Istruzione), che ha presieduto l’organismo di coordinamento per il superamento degli Opg e il Commissario Franco Corleone, oggi scrivono che "con la chiusura definitiva degli Opg possiamo aprire una nuova fase, assegnando alle Rems un ruolo utile ma residuale, e puntando decisamente al potenziamento dei servizi di salute mentale e del welfare locale, costruendo così concrete alternative alla logica manicomiale, per affermare il diritto alla salute mentale e alla piena e responsabile cittadinanza per tutte le persone, senza distinzione, come vuole la nostra Costituzione". I componenti di Stop Opg ritengono positiva la decisione del governo di mantenere attivo un organismo istituzionale di monitoraggio sul superamento degli Opg, che chiedono sia aperto al contributo della società civile e nel quale si rendono da subito pronti a partecipare. Il problema delle persone psichiatriche recluse - Il superamento degli Opg e la loro sostituzione con le Rems potrebbe però creare la percezione che la salute mentale in carcere non sia più un problema. Invece esiste. Sparsi nelle patrie galere ci sono centinaia di detenuti con problemi psichiatrici. Solamente nella regione Calabria risultano ristrette 600 persone con problemi psichiatrici, senza un trattamento adeguato alle loro condizioni. E a farne le spese - oltre ai detenuti stessi che non vengono seguiti dai medici e operatori sanitari sono i poliziotti penitenziari che fanno servizio nei reparti detentivi. È emblematico il caso che negli ultimi due ex Opg appena chiusi, quello di Montelupo e Barcellona Pozzi di Gotto, da tempo trasformati in carcere, sono ospitati comunque dei detenuti con problemi psichiatrici. L’emergenza psichiatrica nelle carceri potrebbe esplodere da un momento all’altro se non si predispongono misure adeguate. Nelle carceri ‘ normalì permangono molti detenuti con patologie mentali per i quali non sarà prevista alcuna struttura alternativa. Non solo. La legge per la chiusura degli Opg contiene una norma che prevede che alcuni ristretti finiscano la pena detentiva in carcere. Quindi ne sono stati aggiunti altri a partire dell’entrata in vigore della legge approvata l’anno scorso. Tramite uno studio recente condotto dall’agenzia regionale di Sanità della Toscana, si è scoperto un dato che desta preoccupazione: sui circa 16 mila reclusi delle carceri di Toscana Veneto, Lazio, Liguria, Umbria, ben oltre il 40% è risultato affetto da almeno una patologia psichiatrica. Questi detenuti costituiscono una miscela esplosiva in un contesto di detenzione degradante. Esiste un forte disagio perché si realizza una tortura ambientale: il carcere continua ad essere la frontiera ultima della disperazione e dei drammi umani. Proprio per questo - come già ricordato da Il Dubbio - la senatrice Maria Mussini, vicepresidente del Gruppo Misto e membro della commissione giustizia del Senato, aveva presentato due emendamenti importanti per risolvere il problema delle sezioni psichiatriche delle carceri che non sono in grado di garantire i trattamenti terapeutici necessari. StopOpg, viaggio nelle Rems. "Forti differenze territoriali, manca una regia" di Giovanni Augello Redattore Sociale, 24 febbraio 2017 Da fine 2015 ad oggi il comitato nazionale per la chiusura degli Opg ha visitato i due terzi delle strutture attive in Italia. Ecco cosa hanno trovato. "In alcune sbarre alle finestre e metal detector, ma anche strutture che funzionano bene, tanto da non sembrare neanche Rems". Sbarre alle finestre, ingressi sorvegliati da guardie armate e metal detector, ma anche strutture ben inserite nel contesto sociale e in collegamento con le altre realtà sanitarie o di salute mentale del territorio. Il nuovo mondo delle 30 residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (le Rems) sparse in tutta Italia, a Opg ormai chiusi, è ancora molto variegato. A raccontarlo è il viaggio, ancora in corso, del comitato nazionale StopOpg che da fine 2015 sta raggiungendo tutte le Rems attive per comprendere quello che sarà il futuro della riforma che ha portato alla chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari. Un percorso che ha visto il comitato visitare quasi i due terzi delle strutture aperte. All’appello mancano le Rems della Puglia, della Basilicata e le ultime aperte in Piemonte, Liguria e Marche. "Il viaggio ha permesso di accedere dei fari e rendere attraversabili dei luoghi che altrimenti, per mandato legislativo, potevano e possono ancora diventare quello che non vogliamo, cioè dei mini-Opg", spiega Stefano Cecconi, di StopOpg. Il quadro che emerge è contrastante. Se da un lato ci sono Rems che preoccupano, ce ne sono altre che sembrano funzionare davvero. "Sul territorio abbiamo trovato situazioni diversissime - racconta Cecconi. Alcune Rems, come nel Lazio, hanno marcati tratti custodialistici: sbarre alle finestre, ingresso sorvegliato da guardia armata, metal detector, regolamenti piuttosto rigidi e magistrati che concedono permessi per le uscite con qualche difficoltà. Poi abbiamo trovato situazioni in cui le Rems, e nemmeno per un disegno particolarmente ragionato, sono strutture che non sembrano nemmeno Rems". È il caso di Mondragone, L’Aquila e Trieste, spiega Cecconi. "Abbiamo trovato strutture inserite naturalmente nel contesto sociale, mescolate ad altre strutture sanitarie o di salute mentale - continua. Situazioni in cui il regolamento è applicato con una prevalenza nettissima della parte sanitaria e il rapporto tra dipartimenti di salute mentale e la magistratura sono dialettici, collaborativi e non subiscono l’imposizione del magistrato. Situazioni in cui le persone vivono buona parte della loro giornata fuori dalla Rems o comunque in contatto con persone che vengono dalla comunità evitando di ridurre la Rems a istituzione totale". Fa ben sperare anche l’impegno degli operatori. "Abbiamo trovato personale motivato - racconta Cecconi - e disposto a rimettere in discussione il proprio lavoro e quello che potranno diventare le Rems. In alcune c’è anche un alto numero di dimissioni, un turnover importante che segnala un buon rapporto tra Rems e dipartimenti di salute mentale". Con la chiusura degli Opg, però, il rischio di un calo d’attenzione è reale e preoccupa anche l’assenza di una regia nazionale, soprattutto ora che il Commissario unico per la chiusura degli Opg non c’è più. Il secondo mandato affidato a Franco Corleone, infatti, è scaduto nei giorni scorsi e non è stato prorogato proprio per aver raggiunto gli obiettivi fissati con la sua nomina. "Serve istituire a livello nazionale e far evolvere l’organismo di monitoraggio sul superamento degli Opg - spiega Cecconi. Il loro superamento, infatti, non si risolve con la loro chiusura e nemmeno con l’apertura delle Rems. Bisogna istituire un organismo di monitoraggio e coordinamento formato da Regioni, ministero della Salute, della Giustizia, magistrature e società civile. Finché c’è stato il commissario c’era una figura unica che metteva insieme i diversi attori, ora è il ministero della Salute che ha la competenza, ma si intreccia con le funzioni del ministero della Giustizia. Pur essendo regolate da atti sanitari, la Rems sono influenzate dalle decisioni del magistrato. Per questo serve un organismo di coordinamento a livello nazionale". Padre Occhetta: non serve intimidire con pene esemplari, ma lavorare per il recupero agensir.it, 24 febbraio 2017 "Ristabilire la giustizia non significa intimidire attraverso pene esemplari. Bisogna lavorare per il recupero". È la "giustizia riparativa" di cui ha parlato il gesuita padre Francesco Occhetta, scrittore de "La Civiltà Cattolica" e autore del volume "La giustizia capovolta" (edizioni Paoline), intervenendo oggi a Firenze al seminario nazionale di pastorale sociale organizzato dall’Ufficio Cei per i problemi sociali e il lavoro, che dedica la giornata odierna ai "conflitti". Occhetta è partito dal riconoscimento del contesto delle carceri italiane, dove "nei 195 istituti penitenziari, a settembre 2016, erano presenti quasi 54.000 detenuti, a fronte di una capienza regolamentare di 49.480". Tra i detenuti "il tasso di recidiva all’inizio del 2015 era pari al 69%", mentre quanti scontano pene alternative al carcere hanno un tasso di recidiva del 19% "perché c’è una maggiore cura della persona". E, in termini economici, "l’abbattimento della recidiva di un punto percentuale permetterebbe allo Stato di risparmiare 51 milioni di euro". Il modello "tradizionale" - ha osservato il gesuita - è quello della "giustizia retributiva, al quale la legge garantisce due fondamentali princìpi: la certezza della pena e la sua proporzionalità alla gravità del danno causato". Vi è poi il modello di "giustizia rieducativa", in cui "chi commette reati deve essere rieducato (psicologicamente) per dimostrare il cambiamento della propria personalità e dei propri comportamenti". Mentre la "giustizia riparativa" integra "i modelli classici e pone al centro dell’ordinamento il dolore della vittima", ché è invece "il grande dimenticato del nostro ordinamento". Questa - ad avviso di p. Occhetta - "è l’unica via per potersi riconciliare e, a livello sociale, con questo modello decomprimiamo e umanizziamo". Tre storie di giustizia ingiusta che troveranno poco spazio nella Repubblica dei pm di Claudio Cerasa Il Foglio, 24 febbraio 2017 Taranto, Torino, Napoli. Le post verità di Davigo su giustizia, gogna e velocità dei processi smontate con tre storie anti fake news nell’Italia delle post verità - dove il capo dei magistrati italiani, Piercamillo Davigo, può dire con serenità che nel nostro paese non esiste alcun problema legato alla gogna mediatica, alla lentezza della giustizia, alla produttività dei pm, alla reiterazione degli errori giudiziari, alla sovrapposizione tra magistratura e politica e all’abuso delle intercettazioni telefoniche - capita che ogni tanto le notizie fuffa, le fake veline, debbano fare i conti con i fatti e persino con le notizie vere. In un paese come il nostro, dominato da un’alleanza perversa tra magistratura, politica e opinione pubblica - che ha reso accettabile il fatto che ci siano partiti che si presentano agli elettori con il profilo da portavoce delle procure (il Movimento 5 stelle) e che ha reso ammissibile che ci siano magistrati che usano il consenso costruito nelle procure per arrivare alla guida di importanti istituzioni della Repubblica (Pietro Grasso), di importanti città (Luigi de Magistris), di importanti regioni (oggi Michele Emiliano, domani forse Antonino Di Matteo) e forse un giorno anche di importanti partiti (ancora Michele Emiliano) - è difficile e persino eretico parlare di giustizia ingiusta. Ogni volta che si ricordano i numeri dei disastri della magistratura (negli ultimi venticinque anni sono stati spesi 648 milioni per errori giudiziari e ingiusta detenzione, 42 milioni solo nel 2016, AD, Anno Davigi) si viene accusati di concorso esterno in associazione anti procure e si capisce che è molto più comodo e molto meno rischioso trasformare i giornali in una buca delle lettere per i pm. Eppure, a volte, la cronaca è più forte persino delle Post Piercamillo Verità Davigo. Prima notizia, notizia di ieri. Taranto. Un uomo condannato a ventiquattro anni di carcere per omicidio, dopo aver scontato quasi tutta la sua pena, è stato assolto per non aver commesso il fatto. L’uomo era stato arrestato sulla base (a) di una dichiarazione di un collaboratore di giustizia che sosteneva di aver appreso da altri del presunto coinvolgimento dell’uomo del delitto e (b) di un’intercettazione telefonica che lo avrebbe inchiodato per una frase chiara detta in dialetto al telefono con la moglie sette giorni dopo l’omicidio: "Tengo stu muert". I magistrati avevano interpretato la frase come se "muert" significasse "il morto". Ma ad appena vent’anni dall’inizio della detenzione, come direbbe Davigo, giustizia è fatta e gli inquirenti (anche grazie a una serie di interrogazioni parlamentari voluta dai Radicali) hanno scoperto che l’uomo al telefono non disse "muert" ma disse "muers", che in dialetto pugliese significa solo materiale ingombrante. In un paese normale, la notizia farebbe scalpore e rappresenterebbe un’occasione importante per interrogarsi sui metodi d’indagine dei magistrati italiani, che spesso si accontentano di una dichiarazione de relato o di un mozzicone di intercettazione per sbattere un uomo in galera per vent’anni o per sputtanarlo sulle prime pagine dei giornali. Sappiamo però che questo non accadrà anche perché il capo dei magistrati sostiene che gli errori giudiziari non esistono e che quando esistono non sono colpa dei magistrati: ovviamente, la colpa è sempre di coloro che "imbrogliano i magistrati". Nulla o quasi si dirà dunque del caso di Taranto, che dovrebbe far riflettere sui tempi della giustizia italiana almeno come il caso del processo di Torino, dove non sono bastati vent’anni per condannare un uomo accusato di aver violentato la figlia della sua compagna nel 1997 - anche qui la colpa naturalmente non è mai della produttività dei magistrati ma è sempre o dei tempi della prescrizione o della mancanza di risorse per lavorare, ed è un peccato che Post Piercamillo Verità Davigo non ricordi un fatto semplice. Ovvero che la magistratura non ha le risorse che meriterebbe anche perché l’aumento del budget della giustizia registrato nell’ultimo decennio è stato assorbito completamente dall’aumento del costo degli stipendi dei giudici a fine carriera, cresciuto negli ultimi quattro anni del 37 per cento, aumento più grande di tutta Europa, come certificato dall’ultimo rapporto per la Commissione per l’efficacia della giustizia dell’Unione europea. Oggi non si parlerà di questo - la colpa dei disastri della casta dei magistrati è sempre colpa della casta della politica, si sa - così come non si parlerà neppure di un altro caso di cronaca che scaldò molto i cuori un anno fa, quando la Direzione distrettuale antimafia di Napoli indagò Stefano Graziano, consigliere regionale e presidente del Pd campano, con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa e corruzione elettorale. Il vice Davigo, Marco Travaglio, dedicò un duro editoriale al caso - "il presidente del partito di Renzi in Campania preferiva la subalternità alla camorra, per la precisione al clan dei Casalesi" - e utilizzò non proprio le stesse guarentigie da vice Rocco Casalino adottate oggi per il dottor Raffaele Marra. Sempre in quei giorni, Roberto Saviano su Repubblica scrisse che la vicenda simboleggiava "la resa del Pd al meccanismo criminale" e sempre in quei giorni, il Movimento 5 stelle condannò "la Gomorra del Pd" e tutta la classe dirigente grillina cercò di dimostrare che un politico del Pd indagato per camorra era il simbolo di un partito colluso con la camorra. Pochi mesi dopo quelle indagini, la Dda di Napoli chiede l’archiviazione per il concorso esterno in associazione mafiosa per Graziano e invia gli atti alla procura di Santa Maria Capua Vetere per valutare gli elementi per l’ipotesi di voto di scambio. Ieri anche questa ipotesi è stata archiviata ma immaginiamo che oggi Travaglio, Di Maio e Saviano abbiano cose più importanti di cui scrivere. Sono tre storie queste - Taranto, Torino, Napoli - che apparentemente non hanno nulla in comune ma che in realtà ci dicono una cosa semplice: che nell’Italia del processo mediatico- giudiziario - un’Italia coccolata dai magistrati politicizzati con le truppe di spalatori di fango quotidiano al seguito - non solo non esiste il garantismo, ma non esiste neppure un’opinione pubblica sufficientemente attrezzata per ricordare ogni giorno che la gogna mediatica, la lentezza della giustizia, la produttività dei pm, le reiterazioni degli errori giudiziari e gli abusi delle intercettazioni sono una verità che forse meriterebbe le prime pagine dei giornali più delle fake news contenute nelle veline delle procure. Condannato per una parola fraintesa viene assolto dopo 21 anni di carcere di Michele Pennetti Corriere della Sera, 24 febbraio 2017 L’incredibile odissea di Angelo Massaro, 51 anni, scarcerato con revisione del processo. Pena di 30 anni per un delitto mai commesso. Il suo avvocato: "È ancora sotto choc". "Ho sentito Angelo stamattina, appena uscito dal carcere di Catanzaro. Era ancora sotto choc, come se fosse in preda a una piccola crisi di panico. Comprensibile, dopo 21 anni passati ingiustamente in cella". Parola di Salvatore Maggio, l’avvocato tarantino che ha portato avanti (e vinto) la battaglia di Angelo Massaro, 51enne di Fragagnano, Comune a una quindicina di chilometri di Taranto, assolto dalla Corte d’Appello di Catanzaro "per non aver commesso il fatto" dall’omicidio di Lorenzo Fersurella, ucciso nell’ottobre del 1995, e dal reato di occultamento di cadavere. L’uomo era stato condannato in via definitiva a 30 anni di reclusione (per cumulo di pene). Poi, però, la Corte di Cassazione aveva accolto la richiesta di revisione del processo avanzata proprio dall’avvocato Salvatore Maggio. L’appello dei Radicali e le lettere al blog - La storia di Angelo Massaro, arrestato sulla base di una intercettazione telefonica e di una dichiarazione di un collaboratore di giustizia che sosteneva di aver appreso da altri del presunto coinvolgimento dell’uomo nel delitto, era stata oggetto anche di una interrogazione parlamentare dei Radicali. Massaro, arrestato il 15 maggio 1996, è stato in carcere a Foggia, Carinola (Caserta), Taranto, Melfi e Catanzaro. Nei 20 anni di detenzione è stato spesso lontano dalla residenza di famiglia e quindi dalla moglie e dai due figli. Dal carcere Massaro ha scritto lettere di sensibilizzazione al blog "urla dal silenzio", al ministero della Giustizia, al dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, all’associazione Antigone e all’associazione Bambini senza sbarre. Il giorno del delitto era in un posto diverso - Il difensore di Massaro è riuscito a dimostrare che il suo assistito si trovava in una località diversa da quella dalla quale scomparve la vittima, depositando atti, testimonianze e le intercettazioni di un altro procedimento giudiziario. Nel 2011 Massaro era stato assolto dall’accusa di un altro omicidio avvenuto nel 1991. Ora il legale presenterà domanda di risarcimento per ingiusta detenzione. Il termine in dialetto equivocato - Massaro è stato scarcerato dopo la sentenza, ma non ha ancora raggiunto la sua famiglia. Il legale ha dimostrato che Massaro era stato condannato per una parola equivocata. "A una settimana dall’omicidio, colloquiando con la moglie - spiega l’avvocato - aveva detto, in dialetto, "tengo stu muert", ma in realtà voleva intendere "muers", cioè un materiale ingombrante attaccata al gancio di un autovettura e che stava trainando. Poi ho trovato un certificato da cui risultava che il mio assistito si trovava al Sert quando sparì Fersurella. Insomma, tutta una serie di elementi che non erano stati presi in considerazione. Sono contento per essere riuscito a dimostrare l’innocenza di una persona ed è una grande soddisfazione per lui, per la sua famiglia e per quello che è stato fatto". In cella 21 anni da innocente "Salvato da studio e yoga" di Carlo Vulpio Corriere della Sera, 24 febbraio 2017 Taranto, l’uomo è stato assolto dopo una condanna per omicidio. Fu incastrato da un’intercettazione in dialetto interpretata male. Sua moglie Patrizia festeggia oggi (ieri, ndr) il compleanno, 43 anni, ventuno dei quali trascorsi ad aspettarlo, a crescere i loro due figli, Raffaele e Antonio, e a peregrinare da un carcere all’altro: Foggia, Carinola, Rossano Calabro, Melfi e infine Catanzaro. Lui, Angelo Massaro, 51 anni, di Fragagnano, Taranto, è appena uscito dal carcere di via Tre Fontane e ha trovato lì Patrizia, che lo ha abbracciato e in silenzio lo ha aiutato a caricare le sue poche cose su una station wagon molto usata. È già sera, ci allontaniamo da quei muri ostili, scegliamo un posto più defilato per parlare e finalmente lo troviamo nella sala del biliardo di un bar della frazione di Santa Maria, a Catanzaro Lido. Sappiamo, lo ha scritto il Quotidiano di Lecce, che Angelo Massaro, condannato ingiustamente per un omicidio mai commesso, quello di Lorenzo Fersurella, ammazzato a San Giorgio Jonico il 10 ottobre 1995, dopo ventuno anni di galera è stato riconosciuto innocente grazie alla revisione del processo, in cui hanno fermamente creduto i suoi avvocati, Salvatore Maggio e Salvatore Staiano. Ma non sappiamo che già un’altra volta Massaro è stato vittima di un altro clamoroso errore giudiziario, perché ritenuto l’autore di un altro omicidio, quello di Fernando Panico, avvenuto a Taranto nel 1991. Anche allora, Massaro fu arrestato, condannato a 21 anni, incarcerato per un anno e poi giudicato definitivamente innocente e risarcito dallo Stato con 10 milioni di lire. "Non pensavo che quattro anni dopo avrei vissuto lo stesso incubo - dice Angelo Massaro - per una intercettazione telefonica in cui dicevo a mia moglie, in dialetto, "tengo stu muert", cioè "ho questo morto, questo peso morto", un Bobcat che trasportavo nel carrello agganciato all’auto e che dovevo lasciare prima di andare a prendere mio figlio per accompagnarlo a scuola". Massaro era intercettato per fatti di droga - che lo stavano rovinando, perché la assumeva e poi l’ha anche spacciata, ma paradossalmente proprio questa vicenda, conclusasi con la sua condanna definitiva a 10 anni, lo ha salvato dalla seconda ingiusta condanna per omicidio. "Ho sbagliato ed era giusto che pagassi, ma se non ci fosse stato il processo per spaccio di droga, dal quale abbiamo tratto gli elementi che mi hanno scagionato dall’accusa di omicidio, oggi per tutti io sarei un assassino". Certo, adesso Massaro chiederà il risarcimento per ingiusta detenzione, come fece undici anni fa, sempre a Taranto, Domenico Morrone, 15 anni di galera per un duplice omicidio mai commesso e poi riconosciuto innocente e risarcito con 4,5 milioni di euro, forse la cifra record per questo tipo di performance della giustizia italiana. "Ma nessun risarcimento mi ridarà i miei anni perduti - dice lui - e mi consolerà delle afflizioni patite. Non ho visto i miei figli per sette anni consecutivi, dal 2008 al 2015. Ho condiviso celle minuscole con detenuti ammalati di Aids, tubercolosi, epatite C, senza che nessuno mi avesse avvertito. Mi sono stati negati i permessi più semplici, come quelli per il battesimo e la prima comunione dei miei bambini. E ora anche la beffa finale. Appena avremo finito di parlare, devo presentarmi in Questura perché mi hanno anche imposto la sorveglianza speciale. È questo il carcere che rieduca? Dalla galera, esce carico di odio anche un cagnolino docile". Massaro in carcere si è diplomato da geometra e si è poi iscritto a Giurisprudenza, facoltà in cui ha già superato cinque esami con voti alti. "Studiare mi è servito tanto - dice -, ma sono stati lo yoga, la meditazione e lo sport a non farmi impazzire, a farmi chiudere un capitolo della mia vita sbagliata e a sopravvivere alla persecuzione giudiziaria, che non auguro a nessuno". Chissà se qualche giornale chiederà scusa a Stefano Graziano definito "camorrista" di Piero Sansonetti Il Dubbio, 24 febbraio 2017 Sono due casi diversi: uno è di mala- giustizia e l’altro è di malo-giornalismo. Li metto insieme solo perché più o meno da una trentina d’anni, forse un po’ di più, giornalismo e magistratura hanno molto spesso intrecciato i propri destini, e anche le proprie capacità di "colpire". E questo ha creato un po’ di guasti. Esaminiamo questi due casi. Il caso Graziano e il caso Massaro. Stefano Graziano è un militante di sinistra ed è stato importante dirigente del Pd in Campania. In agosto fu indagato con accuse gravissime: concorso in associazione camorristica e corruzione. Un paio di mesi dopo è stata esclusa l’associazione camorristica, ieri è stata esclusa anche la corruzione. Anzi, hanno detto i giudici, tutti i suoi atti politici e amministrativi erano volti a difendere i beni pubblici. Graziano in aprile fu costretto a dimettersi dal suo incarico di leader del Pd campano, lo scandalo fu grande e probabilmente contribuì in modo molto, molto pesante a determinare la travolgente sconfitta politica subita dal Pd, a Napoli, alle elezioni di giugno. Vogliamo dare un’occhiata ai titoli dei giornali del 27 aprile scorso? Il titolo principale della prima pagina del Corriere della Sera non lasciava scampo: "Voti e camorra, bufera sul Pd". Che messaggio consegna al lettore questo titolo? Un messaggio inequivocabile: Il Pd ha a che fare con la camorra. Appena più sfumata Repubblica: "Il presidente del Pd in Campania indagato per camorra e voti". Sempre titolo principale di prima. Molto simile il titolo del Messaggero, che però dà un po’ meno risalto alla notizia, dedicandogli il secondo titolo della prima pagina. Più netto invece il Giornale: titolo in testata e spietato: "Il consulente di Renzi indagato per camorra". Poi c’è il Fatto Quotidiano, che titola più o meno come gli altri: "Campania, indagato il leader Pd, voti per favori ai boss casalesi". L’editoriale di Marco Travaglio è intitolato in modo lieve lieve: "Gomorra della nazione", con riferimento a quel "partito della nazione" che si diceva allora fosse il disegno politico di Renzi. Come dire: il vero partito di Renzi è Gomorra, cioè il Pd è camorrista. La lettura delle prime righe dell’articolo lascia atterriti. Travaglio nota che Renzi nei giorni precedenti aveva affermato l’indipendenza del Pd dalla magistratura (intenzione che a Travaglio sembra una cosa pessima) e commenta: "Si capisce il perché: il presidente del Pd in Campania preferiva la subalternità alla camorra, per l’esattezza al clan dei Casalesi". Punto: caso chiuso. Graziano è un picciotto dei casalesi. Facciamo una scommessa: io penso - e spero di sbagliarmi che nessuno dei giornali che ho citato - tantomeno il Fatto e a maggior ragione Marco Travaglio - chiederà scusa. Io non dico di fare come vorrebbe Grillo (che recentemente sostenne che quando un giornale scrive una cosa sbagliata poi il direttore deve chiedere scusa pubblicamente con il capo coperto di cenere): però, certo, qualche riga, e un bel titolo grosso in prima pagina per correggere il clamoroso errore di aprile sarebbe cosa giusta. I giornalisti dovrebbero forse capire che a nessuno di noi piace sentirsi dare del camorrista gratuitamente. E forse dovrebbero capire anche che non è detto che un se un magistrato ha un sospetto sulla probità di una persona, questo fatto di per se basti a farci sentire sicuri che quella persona è un mascalzone. Non solo i magistrati sbagliano, talvolta (forse un po’ più di talvolta), ma è persino possibile che non sbaglino (nel senso che esistano effettivamente degli indizi, e dunque sia giusto aprire una indagine) ma che poi tutti gli indizi cadano e l’innocenza appaia chiara e limpida. Se i giornali hanno trasformato i sospetti del magistrato in certezza di colpa, hanno combinato un bel guaio. Hanno inquinato la verità. E questa è la ragione per la quale chiedere dimissioni immediate per chiunque sia coinvolto in un’inchiesta non è un esercizio di democrazia ma è un esercizio di quella nuova ideologia che è stata battezzata "giustizialismo". E che impera nel nostro giornalismo. Giustizialismo è democrazia sono incompatibili. Poi c’è il caso Massaro. Con il quale abbiamo aperto l’edizione di oggi del Dubbio. È una storia di terribile malagiustizia che ha determinato, per inettitudine dei magistrati, la rovina della vita di un uomo innocente. L’origine di questa mala- giustizia è un caso di mala- intercettazione e di malo- pentitismo. Il povero Massaro, sospettato, a causa delle accuse infondate di un pentito, dell’omicidio di un suo amico, è stato intercettato mentre diceva al telefono a sua moglie, in dialetto pugliese " devo trasportare o muers", che pare voglia dire "l’oggetto ingombrante", e quest’oggetto, come hanno confermato molti testimoni, era uno slittino. Gli investigatori hanno pensato che avesse detto "o muert", il morto, e gli è sembrato sufficiente per sbatterlo in cella per una vita intera. Ora Massaro è uscito e ha potuto riabbracciare suo figlio che aveva visto l’ultima volta quando era nato solo da un mese. Il piccolo adesso ha 21 anni. Nessuno pagherà per questo errore tragico, nessuno neppure indagherà sulle ragioni dell’errore, perché esiste una legge non scritta che dice che se l’azione di un professionista crea un danno grave, il professionista viene indagato, se però questo professionista è un magistrato, non viene indagato. Ma non è neanche questo l’aspetto essenziale di questa tristissima vicenda. L’aspetto essenziale è che bisognerà prima o poi rendersi conto che l’uso "a pioggia" delle testimonianze dei pentiti e delle intercettazioni, non solo viola spesso i principi del diritto e del garantismo, ma porta ad autentici ribaltamenti della verità e della giustizia. Non è vero che moltiplicare all’infinito le intercettazioni garantisce un miglior risultato nella lotta al crimine. Porta invece, probabilmente, a un aumento forse insopportabile degli errori giudiziari. Rigore nel filtro in appello: inammissibilità se non si "risponde" al giudice di primo grado di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 24 febbraio 2017 Corte di cassazione - Sezioni unite - Sentenza 23 febbraio 2017 n. 8825. L’appello, come il ricorso in Cassazione, è inammissibile per difetto di specificità dei motivi se non sono esplicitamente enunciati e argomentati i rilevi critici rispetto alle ragioni di fatto o di diritto sulle quali si fonda la sentenza impugnata. Mentre non è causa di inammissibilità riproporre questioni già esaminate in primo grado, tenendo conto delle motivazioni. Le Sezioni unite (sentenza 8825), chiariscono se e a quali condizioni e limiti, una carente specificità dei motivi di appello comporti l’inammissibilità dell’impugnazione. Un problema che riguarda uno dei più delicati snodi del sistema processuale penale: l’ampiezza del "filtro" basato sulla dichiarazione di inammissibilità (articolo 591, comma 2 del Codice di procedura penale). Il contrasto era sulla necessità, o meno, di valutare con "minore rigore" la specificità dei motivi di appello rispetto a quelli di ricorso in Cassazione. Necessità sostenuta dall’indirizzo meno restrittivo, in nome del cosiddetto "favor impugnationis" o in considerazione delle differenze tra i due giudizi. Una difformità di vedute, che non interessa la "specificità intrinseca" dei motivi, la cui mancanza è certamente causa di inammissibilità dell’appello. Sono così inammissibili gli appelli fondati su considerazioni generiche e astratte o non pertinenti al caso concreto. Le diverse soluzioni indicate dai giudici di legittimità riguardano la "specificità estrinseca" e dunque la esplicita correlazione dei motivi di impugnazione con le ragioni di fatto o di diritto alla base della sentenza impugnata. Le Sezioni unite scelgono la tesi meno "permissiva" secondo la quale la "specialità estrinseca" è riferibile anche all’appello oltre che al ricorso in Cassazione. Una scelta non ostacolata neppure dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo in tema di equo processo. Strasburgo ammette, infatti, la possibilità di porre requisiti di ammissibilità delle impugnazioni, richiamando l’ampia discrezionalità degli Stati sulla configurazione dei mezzi di impugnazione e dei conseguenti giudizi. Per le Sezioni unite il principio del favor impugnationis, può operare solo all’interno dei limiti fissati dal Codice di rito (articoli 581, comma 1 lettera c) e 597 comma 1). Il giudice d’appello può esercitare la "piena cognizione" solo se l’impugnazione è proposta nel rispetto del Codice di procedura(articolo 581) e la riforma della decisione è realmente possibile solo se vengono fornite le ragioni idonee a sovvertire le valutazioni del primo giudice. I giudici respingono l’"accusa" di un uso strumentale della norma finalizzato a una generalizzata "deflazione dei carichi di lavoro". La valorizzazione del requisito delle specificità estrinseca dei motivi di appello consente, al contrario una selezione razionale delle impugnazioni. Affermare la necessità di una correlazione dei motivi di appello con la sentenza impugnata è in linea anche con il disegno di legge di riforma del codice penale e di rito. Un intervento che si muove su una duplice direzione: la costruzione di un modello legale di motivazione in fatto della decisione di merito, che si accorda con l’onere di specificità dei motivi di impugnazione, e un intervento sui requisiti formali di ammissibilità resi coerenti da tale modello. Viene messo in atto un collegamento sistematico tra l’articolo 581 e l’articolo 546 (sui requisiti della sentenza) ancora più stretto di quello esistente, confermando che l’obbligo di specificità dei motivi di impugnazione "è direttamente proporzionale alle ragioni di diritto e degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata, con riferimento ai medesimi punti". Procure: entro il 31 dicembre adeguamento alla privacy sulle intercettazioni di Antonello Cherchi Il Sole 24 Ore, 24 febbraio 2017 Le procure della Repubblica avranno tempo fino al 31 dicembre prossimo per adeguarsi alle misure salva-privacy delle intercettazioni. Lo prevede un provvedimento del Garante della privacy pubblicato sulla Gazzetta del 23 febbraio, disponibile oggi. Le proroghe, dunque, si accumulano. Non si tratta, infatti, della prima, dopo che il 18 luglio 2013 l’Autorità della riservatezza aveva impartito a tutte gli uffici inquirenti una serie di misure "stringenti" per mettere sotto chiave i dati raccolti durante le intercettazioni e blindare la loro trasmissione. Catena di proroghe - Il Garante aveva concesso ai tribunali diciotto mesi per mettersi al passo con le prescrizioni: entro inizio 2015, pertanto, l’adeguamento avrebbe dovuto essere completato. Invece, già a metà del 2014 il ministero della Giustizia si rese conto che non ce l’avrebbe fatta e chiese e ottenne una prima proroga al 30 giugno 2015, salvo poi riaggiornare il cronoprogramma al 2016 e ora chiedere ancora tempo. Proroga che il Garante ha di nuovo concesso rilevando che dagli atti trasmessi dalla Giustizia. L’indagine del Garante - L’operazione aveva preso le mosse da un’indagine a campione effettuata dall’Authority nel 2012 presso alcune procure di medie dimensioni: Bologna, Catanzaro, Perugia, Potenza e Venezia. Quei controlli, poco digeriti dagli uffici giudiziari, avevano evidenziato diverse pecche nelle attività di intercettazione, criticità che mettevano a rischio il contenuto delle informazioni raccolte. Per questo l’anno successivo il Garante aveva deciso di mettere nero su bianco gli interventi da adottare per proteggere le intercettazioni e di coinvolgere la totalità degli uffici inquirenti. Le misure prescritte - Le misure riguardavano sia i centri di intercettazioni telecomunicazioni (Cit) situati presso ogni procura, sia gli uffici di polizia giudiziaria delegata all’attività di ascolto. In particolare, l’Autorità aveva prescritto sia interventi di sicurezza fisica, sia di sicurezza informatica. Riguardo al primo ambito, gli uffici giudiziari avrebbero dovuto, tra l’altro, regolamentare e tracciare l’accesso, attraverso badge individuali o dispositivi biometrici, ai locali in cui sono custoditi i server per la registrazione dei flussi elettronici o telematici intercettati e in quelli in cui sono installati i terminali per la ricezione di quei flussi. Ascolti protetti - Per quanto, invece, riguarda le misure informatiche, il Garante aveva chiesto di annotare su registri informatici inalterabili tutte le attività di intercettazione, limitando solo ai casi necessari la masterizzazione e l’eventuale duplicazione dei contenuti ascoltati, operazioni che devono essere effettuate da personale abilitato. Inoltre, le registrazioni trasferite su supporti rimovibili (per esempio, i Cd) devono essere protette con tecniche crittografiche e i contenitori o i plichi utilizzati per trasportare quei supporti devono essere anonimi, cioè evitare indicazioni che consentano ad estranei di risalire al contenuto dell’intercettazione, e il loro trasporto deve essere affidato esclusivamente alla polizia giudiziaria. Infine, lo scambio di dati fra autorità giudiziaria e gestori di servizi internet deve avvenire attraversi sistemi basati su protocolli di rete sicuri e in modo cifrato. Misure finora adottate solo in parte. Sorveglianza a prova di prevedibilità di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 24 febbraio 2017 Corte europea dei diritti dell’Uomo - Grande Sezione - Sentenza 23 febbraio 2017 - Ricorso n. 43395/09. Le misure di prevenzione possono essere applicate, ma a patto che la legge fissi in modo chiaro le condizioni, per garantirne la prevedibilità e per limitare un’eccessiva discrezionalità nell’attuazione. Lo ha stabilito la Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo con la sentenza di parziale condanna all’Italia pronunciata ieri (ricorso n. 43395/09). A rivolgersi a Strasburgo, un cittadino italiano colpito per due anni da una misura di sorveglianza speciale di pubblica sicurezza e obbligo di soggiorno secondo la legge n. 1423/1956, poi modificata dal Dlgs n. 159/2011. Prima di tutto, la Grande Camera, il massimo organo giurisdizionale della Cedu, ha stabilito che la misura di prevenzione della sorveglianza speciale imposta al ricorrente non era equiparabile a una privazione della libertà personale, con la conseguenza che non è stato violato l’articolo 5 della Convenzione europea sul diritto alla libertà personale. Detto questo, però, Strasburgo ritiene che l’applicazione di misure che comportano l’obbligo o il divieto di soggiorno deve essere valutata in relazione all’articolo 2 del Protocollo n. 4 sulla libertà di circolazione. È vero - scrive la Grande Camera - che le misure avevano un fondamento nella legge, ma la loro applicazione era legata a un apprezzamento in prospettiva dei tribunali nazionali tanto più che la stessa Corte costituzionale non ha identificato con certezza la nozione di "elementi di fatto" o i comportamenti specifici da classificare come indice di pericolosità sociale. Così, non è stato rispettato il requisito della prevedibilità sia con riferimento ai destinatari delle misure di prevenzione, sia per le condizioni richieste. Quello che non convince la Corte è l’applicazione di misure preventive senza che gli individui possano sapere con chiarezza quali comportamenti, ritenuti pericolosi per società, possono far scattare l’applicazione dei provvedimenti. Di conseguenza, poiché la legge in vigore all’epoca della vicenda non aveva indicato con precisione le condizioni di applicazione e, tenendo conto dell’ampio margine di discrezionalità concesso alle autorità nazionali competenti, l’Italia ha violato la Convenzione, con un’evidente ingerenza nel diritto alla libertà di circolazione. Tanto più che al ricorrente non era stato imputato un comportamento o un’attività criminale specifica perché il tribunale competente aveva soltanto richiamato il fatto che aveva frequentazioni assidue con criminali importanti. La decisione, così, è stata fondata sul postulato di una tendenza a delinquere. Di qui la conclusione che la legge in vigore all’epoca dei fatti non offriva una garanzia adeguata contro ingerenze arbitrarie. La Corte, invece, ha respinto il ricorso per violazione delle regole sull’equo processo e sull’assenza di rimedi giurisdizionali effettivi. Professionisti, antiriciclaggio solo con l’incarico di Marco Mobili e Giovanni Parente Il Sole 24 Ore, 24 febbraio 2017 Riscritto l’obbligo di invio delle Sos. Revisione del sistema sanzionatorio: si rischia di pagare dall’1 al 40% dell’operazione non segnalata o segnalata fuori tempo massimo all’Uif (Unità di informazione finanziaria). Oneri più stringenti anche per il settore dei giochi, inclusi quelli online. È un restyling a tutto tondo quello operato sull’antiriciclaggio dallo schema di decreto legislativo approvato "salvo intese" ieri in prima lettura dal Consiglio dei ministri. Dopo le trattative serrate degli ultimi giorni con tanto di vertici al Mef, il testo - ora destinato a raccogliere i pareri delle Camere - prevede una limitazione dell’adeguata verifica da parte degli studi. Fermi restando gli obblighi di identificazione, il professionista che esamina la posizione giuridica del cliente o svolge attività di patrocinio e consulenza è esonerato dal passarlo ai raggi X ai fini antiriciclaggio fino al momento del conferimento dell’incarico. In ogni caso ci sarà un’adeguata verifica light nelle situazioni di basso rischio di riciclaggio o di finanziamento al terrorismo. Tra le controparti considerate a basso rischio figurano le società quotate, le Pa, i clienti residenti in aree geografiche white list (Stati Ue, Paesi dotati di efficaci sistemi antiriciclaggio o limitato livello di corruzione). Al contrario, il livello di guardia sarà più alto quando i clienti sono connotati da fattori di rischio rilevanti: è il caso di rapporti continuativi o prestazioni professionali eseguiti in circostanze anomale, di società schermo o attività economiche con elevato utilizzo di contante. Proprio sui pagamenti in contante oltre la soglia dei 3mila euro effettuati tramite intermediari bancari e finanziari, la disponibilità della provvista viene spostata a tre giorni dalla disposizione ossia dal rilascio dell’attestazione dell’avvenuto pagamento cash. Inoltre si specifica che per le rimesse di denaro all’estero il limite massimo è di mille euro. Arriva poi il registro dei trust. L’istituto che produce effetti rilevanti ai fini fiscali sarà obbligato a iscriversi in una sezione speciale del registro delle imprese. E le informazioni sulla titolarità effettiva dovranno essere rese note dal fiduciario o da un altro soggetto per suo conto esclusivamente in via telematica e senza versamento dell’imposta di bollo. Filo diretto tra l’Uif e la Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo (Dna). L’unità dovrà, infatti, assicurare la trasmissione di dati, dichiarazioni e analisi delle segnalazioni arrivate dal nucleo valutario della Guardia di Finanza relative alla criminalità organizzata. All’agenzia delle Dogane e Monopoli spetterà l’obbligo di inviare alla Dna tutte le correlazioni tra flussi merceologici a rischio e flussi finanziari sospetti. Nello scambio incrociato di dati il decreto apre alla Dia (Direzione investigativa antimafia) i database dell’Anagrafe tributaria relativi ai professionisti. È poi espressamente vietato a tutti i soggetti chiamati al rispetto dei limiti antiriciclaggio di avere sede in Paesi terzi rispetto all’Unione europea ad alto rischio. Novità anche per i concessionari e distributori del gioco. Questi ultimi sono tenuti a identificare tutti i clienti che effettuano giocate superiori a partire da 2mila euro (stesso limite anche per i casino). Per le video lottery (Vlt) sono tenuti all’identificazione nel caso di giocata dai 500 euro in su. Tra le novità in materia di sanzioni penali, fornire dati e informazioni false per l’adeguata verifica della clientela farà scattare la reclusione da sei mesi a tre anni e la multa da 10mila a 30mila euro. Nei confronti degli operatori che prestano servizi di rimessa in denaro senza esserne autorizzati scatterà la confisca degli strumenti utilizzati per commettere il reato. Inoltre, per le violazioni gravi, ripetute e sistematiche le sanzioni amministrative pecuniarie nei casi di mancata verifica della clientela da parte dei professionisti sono aumentate fino al triplo. Le sanzioni base, invece, oscilleranno da 3mila a 50mila euro. Stesso discorso per le violazioni degli studi in materia di obblighi di conservazione. Capitolo a parte (e totalmente rinnovato rispetto al primo testo messo in consultazione dal Mef) è quello dedicato alle sanzioni amministrative in caso di mancata segnalazione delle operazioni sospette (Sos). Si va dall’1 al 40% del valore dell’operazione non segnalata o segnalata con ritardo. Per le violazioni ripetute si applicherà una sanzione massima pari almeno a un milione di euro o al doppio del vantaggio conseguito (qualora sia determinato o determinabile). Intanto ieri la commissione Finanze della Camera ha approvato una risoluzione. "Per quanto riguarda il settore dei money transfer - spiega il presidente Maurizio Bernardo - saranno poste in essere azioni per assicurare l’applicazione di un regime uniforme per tutti gli operatori del mercato italiano". Il binomio giustizia-carità di Pierluigi Dovis lavocedeltempo.it, 24 febbraio 2017 La riflessione del direttore della Caritas Diocesana di Torino. Si tende a pensare che i valori della "carità" e della "giustizia" appartengano a mondi diversi. Pierluigi Dovis contesta questo pregiudizio: sono un binomio da tenere insieme. Ci sono temi che stanno da sempre al confine. Guardati da una prospettiva sembrano abitare uno spazio, osservati dall’altra paiono passare dall’altra parte della frontiera. Sono come gemelli eterozigoti che condividono molti tratti comuni, ma che si differenziano in quelli più caratterizzanti l’identità. È il caso che interessa il binomio "giustizia e carità". Tornarci su dopo le migliaia di pagine scritte da valenti teologi e moralisti, giuristi, filosofi e sociologi, economisti e anche da qualche raro uomo politico parrebbe esercizio inutile, o perlomeno noioso. Invece si tratta di tema tremendamente scottante e di una attualità vivissima. Ne sanno qualcosa intere popolazioni o parti di esse stremate dalla ignavia di classi dirigenti che sembrano galleggiare in mondi paralleli. Potrebbero portarne testimonianza coloro che, espulsi dal mercato del lavoro, si sono trovati a fare i conti con un deficit che è soprattutto di dignità. Ce lo dicono con sofferenza tanti operatori umanitari nazionali ed internazionali che si vedono caricati di una missione suppletiva che assorbe risorse sempre e solo "donate" e quasi mai pianificate da una programmazione gestionale del bene comune. Ma se guardiamo con attenzione alle scelte politiche, amministrative e del cosiddetto sentire comune ci accorgiamo che anche tra noi, nel qui ed ora, quel binomio è ancora lontano dall’essere interpretato con lungimirante coerenza. La lunga crisi economica, la non meno forte e pericolosa crisi politica cui stiamo assistendo impotenti ed estromessi, la fluidità di una cultura in cambiamento e sempre più ancorata alla opinione di chi ha i mezzi, hanno messo in luce quanto poco siamo riusciti ad interpretare il ruolo generativo della giustizia e lo specifico profetico della carità. Salvo alcune lodevoli eccezioni, il problema viene bellamente mascherato con gli intenti di collaborazione e di sinergia, talora buonistici talaltra troppo pragmatici anche solo per essere credibili. Così, nel silenzio del non pubblicamente detto, pensiamo: "Quanto la giustizia non riesce a fare (o non può o non vuole fare), lo compia la carità". Carenza di risorse, difficoltà organizzative, revisioni di sistema stanno esaltando la carità come elemento suppletivo o addirittura sostitutivo della giustizia. E così, spesso con il benestare anche degli operatori del privato sociale, la carità dovrebbe colmare il gap della giustizia, facendoci stare tutti interiormente tranquilli nella più assoluta confusione. Confondere i ruoli non giova a nessuno e, soprattutto, non cura la dignità di persone e società. Ci sono beni e doveri che sono propri della giustizia e senza i quali nessuna "umanità" può prendere forma. Beni che attengono alla dignità profonda delle persone, e non solo dei "cittadini", che vanno messi a disposizione in virtù dello stesso bene comune che sostiene la vita civile di un consesso umano. Sono le opportunità di fondo che occorrono alle persone per poter costruire la propria vita mettendo in gioco se stessi: libertà, istruzione, possibilità di una sopravvivenza anche nei tempi difficili, pari opportunità senza egualitarismo spersonalizzante, esercizio della scelta religiosa, difesa della vita, possibilità di cura della salute, accesso alle risorse comuni, autodeterminazione. E solo per fare alcuni esempi. Di tali necessità siamo tutti convinti. Ma, troppo spesso, solo a parole. Le opportunità di contro non sono riducibili a pie esortazioni: sono scelte, decisioni, programmazioni, visioni, azioni concrete, priorità. Che spesso non ci sono. Come un reddito minimo che tenga sopra il livello di sussistenza tutte le persone in modo che queste possano attivarsi nel percorso di crescita. O come alcuni livelli essenziali di prestazioni e servizi che la collettività non può prevedere solo nell’ambito sanitario. Non possiamo accettare passivamente che la fruizione di un diritto sia legata alla maggiore o minore facilità di reperire le risorse economiche necessarie. Come non si può più accettare che servizi e opportunità dovute per dignità siano messe in campo solo grazie alla carità di qualcuno. Fare tutto ciò "per carità" non è la stessa cosa. Perché la carità offre beni relazionali, oggetti di fraternità, occasioni di umanizzazione, calore di incontri. Carità è dono gratuito di sé stessi prima che di cose e servizi. La solidarietà è "compimento" e non sostituzione perché, innestandosi sulla giustizia, le offre quella dimensione ricca che fa dell’inclusione sociale vera famigliarità, delle opportunità di crescita attivatori di responsabilità, dei servizi punti di partenza verso un farsi carico complessivo di sé, dei progetti veri cammini comuni di comunione e condivisione. Senza la carità la giustizia è imperfetta, sempre. Ma senza la giustizia la carità necessariamente decade e si appiattisce sulle dimensioni di una operatività che non è bella concretezza ma minimalismo, sostituzione, delega impropria. Purtroppo così non si pensa nemmeno nelle stanze dei bottoni. Lo ha confermato pochi giorni fa il dispositivo di una sentenza della Corte di Cassazione, che ha condannato una donna indigente rea di essersi appropriata di alcuni pezzi di formaggio in un supermercato torinese. Nulla da eccepire sulla decisione. Ma nella motivazione giace un tema che delude. Stando a quanto i giornali hanno riportato verrebbe detto che "alle esigenze delle persone che versano in tale stato è possibile provvedere per mezzo degli istituti di assistenza sociale, per esempio la Caritas". Così sprofondiamo in una ottica riparatrice che, forse, tura le falle di un sistema aprendone altre sempre più grandi, rinunciando ad andare alle cause. La lotta alla povertà non si fa con la carità, ma con la giustizia sorretta dalla carità. Se mancano le condizioni di dignità non possiamo continuare a mettere cerotti, rattoppi nuovi su vestiti logori e senza consistenza. Carità e giustizia sono le due facce di una sola responsabilità che va assunta e condivisa da tutta la società, a partire dalle sue istituzioni. La giustizia non investe per creare "assistiti" ma per rendere autonomi, liberare, generare. La vera carità sostiene il percorso di liberazione e lo rende profondo, onnicomprensivo, comunitario, condiviso. La prospettiva è quella che cinquantadue anni fa fu scritta in uno dei più scomodi documenti del Concilio Vaticano II, la Gaudium et Spes: "Justitia duce, caritate comite, la giustizia guida, la carità accompagna" (69). Un orizzonte difficile da digerire dalla Chiesa di allora, che tradusse il testo in italiano edulcorando il peso dei termini fermandosi alla sola inseparabilità di essi, e indigesto per molte istituzioni e gruppi politici nella situazione di oggi. Non si può accettare la supplenza passiva della solidarietà, mossa da esigenze del cuore e dell’anima, rispetto ai doveri della giustizia sociale, guidata dalla Costituzione e dall’imperativo laicamente etico della società democratica. Mentre la solidarietà sta mettendosi in gioco in maniera seria e continuativa, come nei paesi sfregiati dal terremoto in Centro Italia o nelle situazioni di marginalizzazione di tanti nuovi poveri, bisogna avere il coraggio di partire dalla giustizia e di chiedere a gran voce che questo accada sempre. Come facevano ai loro tempi i profeti dell’Antico Testamento. Si scagliavano contro le ingiustizie sociali non perché fossero degli attivisti ante litteram dei diritti umani, ma perché il loro silenzio sarebbe equivalso all’ammissione di una connivenza di Dio con quel sistema iniquo. Fare inclusione sociale dei poveri, obiettivo chiaro della Chiesa in uscita ma anche tema caro a tante culture del nostro tempo, passa necessariamente da un modo più convinto di vivere i doveri di giustizia. Sia a livello della società civile con le sue istituzioni e i suoi corpi, sia a livello della comunità ecclesiale. Tenendo tutti ben presente che la condivisione concreta non è atto di carità, ma necessità di giustizia. Con buona pace di chi vorrebbe utilizzare la giustizia come strumento per proteggere i propri interessi facendone fare le spese alla dignità di chi è più debole. Sul conflitto d’interessi dei magistrati in politica di Donatella Ferranti* Libero, 24 febbraio 2017 Gentile direttore, le scrivo in seguito alla pubblicazione su Libero del 22 febbraio dell’articolo a firma Filippo Facci "Soldi e carriere: i giudici in politica fanno i furbetti". Nell’articolo non solo si dice che io avrei goduto di "avanzamenti e scatti di carriera" come magistrato nel periodo di aspettativa come eletta in Parlamento, ma in più vengo accusata di conflitto di interessi perché starei rallentando in commissione Giustizia la proposta di legge sui magistrati in politica. Se Facci avesse semplicemente verificato quanto scrive, avrebbe saputo che tale proposta è stata in realtà assegnata alla commissione da me presieduta in congiunta con la Affari costituzionali e che le due commissioni programmano i tempi di esame del provvedimento sulla base di quanto stabilito in sede di programmazione dei lavori dalla Conferenza dei presidenti di Gruppo: ad oggi, la pdl in questione non è inserita nel calendario trimestrale dei lavori d’aula. Ciò detto, preciso per quanto mi riguarda: 1) quando mi sono candidata per la prima volta nel 2008 non esercitavo dal 1999 le funzioni giurisdizionali nell’ambito della circoscrizione elettorale (Lazio 2) che costituisce il mio collegio elettorale: in ciò anticipando le regole che dovrebbero essere introdotte dalla citata proposta di legge; 2) mentre l’allora presidente della Affari costituzionali, on. Francesco Paolo Sisto, si è autoassegnato come relatore la pdl, io ho ritenuto di nominare relatore per la commissione Giustizia l’on. Walter Verini, che non è né avvocato né magistrato; 3) per prassi instaurata dall’inizio della legislatura, proprio a garantire il ruolo super partes della presidenza, non ho mai votato in commissione alcun provvedimento. Ipotizzare che io sia in conflitto di interessi è dunque affermazione completamente infondata e falsa e lesiva della mia reputazione. Quanto poi ad avanzamenti, la mia settima valutazione di professionalità (notoriamente l’ultima nella carriera di un magistrato) è stata formalizzata nel 2009, quindi ha riguardato il periodo fuori dell’attività parlamentare. E nessuna domanda ulteriore di valutazione è stata da me proposta nel periodo di attività parlamentare. Cordiali saluti. *Presidente Commissione Giustizia della Camera La pubblicazione della Sua missiva è mera cortesia (nostra) perché nulla Le è dovuto ai sensi di nessuna legge, visto che la Sua rettifica non rettifica niente. Lei ha passato 17 anni nelle aule di giustizia (Roma, Viterbo e Cagliari) e poi 10 fuori ruolo al Csm sino al 2008, periodo in cui in ogni caso non ha svolto attività di giudice o di pubblico ministero. Poi è arrivata alla Camera, e proprio l’anno dopo il Consiglio giudiziario della corte di appello di Roma ha espresso parere favorevole alla settima e ultima valutazione della sua professionalità di magistrato: anche se Lei non praticava da 11 anni. Non ho scritto, invece, o meglio: non l’ho affatto "accusata di conflitto di interessi perché sta rallentando in commissione Giustizia la proposta di legge sui magistrati in politica". L’ho accusata, diciamo, di conflitto di interessi e basta, perché lei è un magistrato in politica e dovrebbe occuparsi di una legge sui magistrati in politica: da presidente di commissione, peraltro. Ho scritto che Lei "dovrebbe promuovere una legge che impedisca di fare quello che ha fatto lei, che sta facendo lei", e su questo non ci piove. I tempi "rallentati" di questa legge, per il resto, sono notori a tutta la stampa nazionale e a qualche collega della stessa commissione giustizia: ma è un fatto oggettivo, non un’accusa personale. In ogni caso non ho fatto che ripetere, con altre parole, quello che avevo già scritto. Le consiglio una postura meno altezzosa. Filippo Facci Sardegna: la Uil-Pa scende in piazza "condizioni disastrose nelle carceri" di Alessandro Congia sardanews.it, 24 febbraio 2017 Gli agenti della polizia penitenziaria, insieme ai sindacati di categoria, protestano con forza per le situazioni disastrose nelle carceri sarde. Ecco i motivi delle proteste, mentre lunedì 6 marzo a Uta, si terrà un sit in per denunciare il malessere tra le sbarre. "Lo avevamo annunciato nel caso non fossero arrivate delle risposte concrete da parte dei vertici dell’Amministrazione. Considerata la mancanza di interventi concreti, la Uil inizierà una serie di proteste per sensibilizzare l’opinione pubblica, la classe politica e le istituzioni e creare uno scossone per destare i vertici dell’Amministrazione dal torpore che sinora ne ha paralizzato l’operato". Michele Cireddu, rappresentante della Uil-Pa penitenziari, non usa mezzi termini per raccogliere il malumore che aleggia all’interno dei penitenziari sardi. Si inizia lunedì 6 marzo 2017 davanti l’Istituto di Uta, dove è prevista la contemporanea astensione dalla mensa del personale in servizio. Nell’Istituto, oltre le problematiche esposte, il personale deve compiere dei veri e propri salti mortali per svolgere il proprio mandato. La gestione del personale è a nostro avviso irrazionale, un solo agente deve assicurare il controllo di sezioni detentive con più di 100 detenuti, gli ordini di servizio sono praticamente irrealizzabili, i numerosi eventi critici devono essere gestiti da 1 solo responsabile della sorveglianza generale che ha anche l’incarico di coordinatore di unità operative. Tale organizzazione di fatto costringe il personale delle varie unità operative a gestire le situazioni senza il coordinamento di un responsabile in pianta stabile ed affrontare in solitudine le diverse difficoltà. L’impiego dei ruoli intermedi è peggiore persino del vecchio carcere del Buoncammino dove per ogni turno venivano impiegati più responsabili a vantaggio dell’efficienza. "L’Istituto più grande della Sardegna - dice Cireddu - ha già raggiunto un preoccupante indice di sovraffollamento, ed attualmente è gestito da 1 Direttore che a causa di contemporanei incarichi, è presente in Istituto raramente, scelta gestionale che a più riprese abbiamo definito scellerata. Sono ormai ordinari gli eventi critici nell’Istituto, dove la maggior parte dei detenuti soffre di problemi psichiatrici, il Dipartimento ha creato un vero mix esplosivo nell’Istituto cagliaritano. Il personale di Polizia Penitenziaria è costretto ad una costante emergenza, è impossibile continuare in questo modo, è a rischio l’incolumità psico-fisica degli Agenti, senza pensare al rischio concreto di responsabilità giuridiche a cui il personale è esposto a causa dell’impossibilità oggettiva di svolgere il proprio mandato. È arrivato il momento delle proteste - denuncia Michele Cireddu - che avverranno davanti ogni singolo Istituto con l’auspicio di invertire la tendenza ed evitare il tracollo totale del sistema penitenziario sardo". Relazioni sindacali inesistenti, gestione del personale senza criteri di razionalizzazione, negazione delle pari opportunità e mancata distribuzione in maniera equa dei carichi di lavoro, regole concordate disattese ed aggirate costantemente, distacchi in regione gestiti in maniera discutibile, carenza dei vari ruoli di Polizia Penitenziaria e dei direttori, il personale si sente abbandonato a se stesso. Queste sono solo alcune delle motivazioni, che hanno determinato l’inizio dei sit in di protesta che si terranno davanti ogni Istituto della Sardegna. Denunciamo le specifiche problematiche che la Polizia Penitenziaria incontra in ogni singolo istituto per dar voce al personale che vive le situazioni di disagio e di abbandono da parte dei vertici dell’Amministrazione. Ascoli: detenuto morto in carcere, condannato a 16 anni il suo compagno di cella di Antonio Villella ilmartino.it, 24 febbraio 2017 Saranno valutate anche le eventuali responsabilità degli altri carcerati, del personale medico e degli agenti della struttura carceraria. A novembre, il Giudice per le Udienze Preliminari Maria Teresa Gregori, aveva predisposto nuovi interrogatori per i compagni di cella di Achille Mestichelli, il detenuto morto nel carcere di Marino del Tronto, nel febbraio del 2015. Le testimonianze inizialmente fornite da chi era rinchiuso insieme a lui, sostenevano che il cinquantatreenne fosse deceduto a causa di un’accidentale caduta, in seguito alla quale avrebbe urtato con la testa uno sgabello. A provocare l’incidente una spinta subita durante un banale litigio con Mohamed Ben Alì, venticinquenne tunisino. Quest’ultimo oggi è stato condannato a 16 anni di reclusione per omicidio. Tuttavia questa ricostruzione contrastava con i referti dell’autopsia, che hanno evidenziato come il cinquantatreenne prima di morire, fosse stato vittima di un pestaggio. Oltre al provvedimento disciplinare nei confronti del giovane detenuto, il Giudice ha predisposto ulteriori accertamenti sugli altri occupanti della cella, nel momento in cui la tragedia si è consumata. Due di essi, connazionali del condannato, saranno giudicati per concorso in omicidio, mentre gli altri tre, italiani, per falsa testimonianza. Saranno valutate anche le eventuali responsabilità del personale medico e di alcuni agenti della struttura carceraria. I dottori verranno giudicati per omissione d’atti d’ufficio, poiché avrebbero ritardato più del dovuto la predisposizione degli esami sanitari sulla vittima. Per quanto riguarda le guardie invece, bisognerà esaminare il loro comportamento in relazione al pestaggio che la vittima ha subito pochi giorni prima della sua morte. Livorno: detenuti raddoppiati a Gorgona, ma gli agenti sono la metà di Lara Loreti Il Tirreno, 24 febbraio 2017 Un vero boom di arrivi: la protesta della polizia penitenziaria. Il numero dei detenuti è raddoppiato mentre gli agenti penitenziari sono quasi dimezzati. L’isola di Gorgona nel caos: a fronte di quasi cento carcerati, in servizio ci sono sulla carta 26 agenti, che poi però diventano ancora meno nei fatti. Lo denunciano i sindacati dei poliziotti che da settimane stanno protestano nel tentativo di far sentire la propria voce alla direttrice, all’amministrazione regionale e alla prefettura, nella speranza che il messaggio arrivi al Governo. Ma per il momento il loro grido di allarme è rimasto inascoltato. Nel frattempo i problemi non solo restano irrisolti, ma aumentano. Il focus della questione, come spiegano i rappresentanti degli agenti, gira intorno al fatto che sull’isola stanno arrivando detenuti dalle Sughere e da altri carceri di Italia "senza quell’attenta selezione che sarebbe necessaria, vista la vocazione dell’isola a far lavorare gli ospiti del carcere per favorire il reinserimento sociale a fine pena". Spesso sull’isola arrivano persone con problemi di droga o in situazioni psicologiche difficile. E non è un caso che nel giro di un mese ci siano stati cinque casi di autolesionismo. Un episodio su tutti accaduto mercoledì 22 febbraio: un detenuto ha ingoiato una pila ed è stato necessario l’intervento del personale medico e infermieristico in servizio 24 ore su 24. Un fatto simile era successo a novembre. Disagi che avevano spinto gli agenti a protestare già in autunno, quando fu organizzato uno sciopero della mensa. L’affollamento che si è creato sull’isola, inoltre, determina anche un’altra conseguenza difficile: non per tutti i detenuti non c’è la possibilità di lavorare, che è l’obiettivo principale per cui molte persone fanno la domanda di trasferimento sull’isola dell’Arcipelago toscano. Ci sono detenuti arrivati dal Sud Italia, come ad esempio da Palermo, che hanno chiesto di essere spostati in Toscana per poter imparare un mestiere e guadagnare qualche soldo in più per le famiglie. Ma poi si sono ritrovati non solo con le mani incrociate, ma anche con un altro inconveniente: la forte difficoltà nel vedere i parenti ai colloqui. Raggiungere Gorgona è tutt’altro che facile e il biglietto del treno è troppo costoso: molti di loro non se lo possono permettere. Ma i problemi non coinvolgono solo i detenuti, ma anche e soprattutto gli agenti penitenziari. In servizio ci sono pochi poliziotti che si ritrovano a gestire da soli una situazione che rischia di diventare esplosiva. È in sintesi la denuncia della Cisl Fns, rappresentata a Gorgona da Pierangelo Campolattano: "Stiamo lavorando sul fil di lana e temiamo che questo equilibrio precario possa precipitare da un momento all’altro. Nel giro di 3-4 mesi la popolazione dei detenuti è cresciuta a dismisura fino quasi a raddoppiare: noi agenti siamo 26, ovviamente soggetti a turnazione, e dobbiamo tenere a bada 100 persone. È impossibile: noi dovremmo essere almeno 35. Qui hanno fatto venire persone che non sono adatte per questo tipo di detenzione. Questo non è un carcere come gli altri: ci vogliono dei requisiti precisi. E non è un caso che i criteri di selezione siano sempre stati legati alla buona condotta, ma soprattutto alla pena lunga, che dovrebbe essere arrivata quasi alla fine". Gli altri problemi che chi vive e lavora sull’isola è costretto ad affrontare in questo periodo, sono purtroppo gli stessi già denunciati più volte dai sindacati e riportati dal Tirreno. A partire dai collegamenti con la terraferma, sempre scarsi e difficoltosi. La nave Superba, che organizza le gite a primavera e d’estate, è ferma e del vecchio traghetto Toremar non c’è ancora neanche l’ombra. Per gli agenti penitenziari sussiste anche il disagio dell’ufficio in porto a Livorno, che non esiste da due anni. Fino al 2015, infatti, la squadra navale della penitenziaria in porto aveva una guardiola tradizionale, un prefabbricato usato sede dove svolgere le operazioni di registrazione dei passeggeri diretti a Gorgona e dove depositare le armi di reparto. "Il prefabbricato è stato chiuso perché inagibile - spiega Campolattano - e da allora al posto dell’ufficio c’è quella vedetta fuori uso. Conclusione: quando i colleghi della squadra navale devono depositare le armi, devono bussare alla porta della Guardia di finanza perché sulla vedetta, ovviamente, non c’è un’armeria". Piacenza: oltre il 60% dei detenuti alle Novate è straniero di Gloria Zanardi (Forza Italia) piacenzasera.it, 24 febbraio 2017 Pur non potendo stabilire un nesso di correlazione diretta tra indici di criminalità e presenza di stranieri in città, risulta però evidente, dai dati statistici, che l’afflusso e la permanenza a Piacenza di un numero cospicuo di immigrati è foriera di episodi negativi per l’ordine e la sicurezza pubblica, soprattutto in alcune zone di Piacenza ove la concentrazione di cittadini extracomunitari è superiore. Il dato è prima di tutto culturale. Coloro che provengono da determinate etnie veicolano costumi eterodossi rispetto alla comunità ospitante che, da un lato, se positivi, portano multiculturalità ed arricchimento, dall’altro, nel caso di esasperazione e degenerazione di certi usi, portano a comportamenti che vanno oltre la civile convivenza e la legalità. È il caso, ancora una volta, di citare il Quartiere Roma, ove le forze dell’ordine hanno sempre realizzato una massiccia opera di prevenzione e repressione dei reati, ma a cui non è seguita una altrettanto adeguata opera da parte delle altre istituzioni. Non si può più ignorare che anche Piacenza non sia rimasta estranea al trend negativo degli indici di delittuosità della popolazione immigrata. Un dato significativo e incontrovertibile è la presenza negli istituti di detenzione e pena di cittadini extracomunitari sia in tutta Italia che, in particolare, a Piacenza. I dati del 2010, a livello nazionale, erano già allarmanti: circa 56 detenuti ogni cento di nazionalità straniera e, in particolare, nel nord d’Italia una media del 37% circa; inoltre un incremento della quota di stranieri sul totale dei denunciati e arrestati per reati violenti, per sfruttamento della prostituzione, per reati connessi alla droga e, con qualche rilevante eccezione, per i reati contro il patrimonio. Nel 2015, su un totale di 52.164 detenuti, 17.340 erano stranieri. Al gennaio 2017 a Piacenza, la Casa Circondariale ospita un totale di 411 detenuti di cui 260 stranieri. I fatti parlano ed è il momento che il governo centrale, nonché le amministrazioni locali si attivino concretamente con un’azione di prevenzione efficace perché la presenza di stranieri è massiccia nel nostro territorio ed in crescita. Basti pensare che nell’aprile 2011 i cittadini dei paesi terzi regolarmente soggiornanti nella provincia di Piacenza erano 22.028 per raggiungere i 25.200 nell’agosto 2016 (di cui 12269 nel comune capoluogo). Se l’analisi si sposta dai soggiornanti agli effettivi residenti nella provincia di Piacenza e vi si includono anche cittadinanze come quella rumena i numeri sono destabilizzanti: nella provincia di Piacenza, sul totale, circa un settimo sono stranieri, ben oltre la media nazionale. Al fine di prevenire il problema della delinquenza legata all’immigrazione, oltre al potenziamento del controllo della polizia municipale, l’amministrazione deve mettere in campo una strategia ben più ampia e lungimirante, intervenendo sui fattori di rischio che riguardano la comunità immigrata. Innanzi tutto occorre evitare che si formino dei veri e propri "ghetti" in alcune zone della città, come il quartiere Roma, evitando che gli insediamenti, già delle prime generazioni di stranieri, si realizzino e si concentrino in aree già critiche e caratterizzate da un alto tasso di criminalità e situazioni di disagio dovute alla vicinanza di punti sensibili (come la stazione ferroviaria). L’effetto potrebbe essere quello di traslare, magari in una forma diversa ovvero attenuata e diluita, i problemi di convivenza, dovuti ad abitudini sociali diverse, con italiani ovvero con appartenenti ad altre comunità straniere, forieri di eventuali turbative. La seconda tendenza, di cui si dovrebbe esser capace di cogliere i sintomi predittivi, è quella relativa alle condizioni di generale disagio che potrebbero acuirsi con la stabilizzazione socio-economico-lavorativa delle diverse comunità non autoctone. Occorre sensibilizzare ed incentivare le cooperative e le imprese a realizzare scelte di un certo tipo onde evitare di acuire situazioni già al limite; spesso si preferisce assumere la manodopera straniera a fronte di un netto differenziale retributivo rispetto agli italiani, senza pensare che queste circostanze, e l’assenza di reti di protezione, portano poi all’esasperazione della conflittualità emotivo-relazionale. Tutte azioni di prevenzione generale che devono essere messe in campo accanto agli altri strumenti come il posizionamento di telecamere, l’emanazione di ordinanza, il potenziamento della polizia municipale, e continuando anche nell’azione di monitoraggio, controllo e repressione dei fenomeni criminosi. Milano: carcere di Bollate, conferiti i primi attestati in Mediazione comunitaria chiesadimilano.it, 24 febbraio 2017 Al Centro San Fedele un incontro con operatori, detenuti, ex detenuti per fare il punto sulla sperimentazione. Si è appena concluso, con il conferimento degli attestati, il primo Corso di sensibilizzazione alla mediazione comunitaria, avviato nel reparto femminile del carcere di Bollate. Si tratta della prima fase che precede l’attivazione dello sportello di mediazione tra pari, come strumento per la gestione e la risoluzione dei conflitti. La mediazione carceraria tra pari è una pratica innovativa nata in America Latina circa dieci anni fa, nel carcere messicano di Hermosillo, dove nel 2005 i conflitti fra carcerati provocavano un suicidio alla settimana e un ferito grave ogni tre giorni. Dopo due anni di mediazione in carcere non si verificavano più morti a causa di liti. Sulla scia dell’esperienza di Hermosillo, il Carcere di Milano-Bollate, la Fondazione Sesta Opera e l’Associazione di Mediazione Comunitaria di Genova hanno avviato una collaborazione per attivare un progetto sperimentale. Di questo si parlerà sabato 25 febbraio, dalle 9 alle 12.30, nella Sala Ricci del Centro San Fedele (piazza San Fedele 4, Milano), durante l’incontro di Sesta Opera San Fedele Onlus, in collaborazione con Caritas Ambrosiana e Seac, nell’ambito del ciclo "Sesta opera di misericordia: visitare i carcerati". Un’occasione per fare il punto sul progetto pilota di Bollate, sentire le prime impressioni degli operatori e le testimonianze delle detenute coinvolte. L’introduzione di tale modello di gestione e risoluzione dei conflitti comprende metodologie di mediazione associativa, strategia di pacificazione e riabilitazione preventiva tramite lo sviluppo di abilità pro-sociali, al fine di favorire la convivenza pacifica all’interno del centro penitenziario e coadiuvare il processo di riabilitazione e reinserimento delle persone private della loro libertà. "In fondo il carcere abbandonato a se stesso corre il grosso rischio di essere solo un costo - ricorda Guido Chiaretti, presidente di Sesta Opera SF -. Solo con un reale ed efficace processo di accompagnamento delle persone limitate nella libertà è possibile renderlo utile abbattendo la recidiva, e quindi rendendo più sicura la nostra società, come dimostra l’esperienza di Bollate". Il corso è aperto a quanti desiderano impegnarsi in questo volontariato e agli operatori già operativi di tutte le associazioni di volontariato penitenziario. Il contributo alle spese è di 40 euro. Iscrizione a partire dalle 8.45 in sede. Info: tel. 02.86352.254 (lun-ven, 9.30-12.30); sestaopera@gesuiti.it. Lecco: a Osnago un incontro per parlare di pace attraverso la giustizia riparativa di Stefano Riva merateonline.it, 24 febbraio 2017 La testimonianza del figlio orfano di un agente della scorta di Moro. Si è svolto mercoledì 22 febbraio presso la sala civica "Pertini" di Osnago il secondo incontro del ciclo "Insieme per la pace", promosso dal comune in collaborazione con il gruppo "Progetto Osnago" e l’associazione Arché. Ospiti dell’iniziativa, moderata da Elena Rausa, padre Guido Bertagna, gesuita, e Giovanni Ricci, figlio di Domenico, agente della scorta assegnata ad Aldo Moro ucciso il 16 marzo 1978 nell’agguato di via Fani. Durante la serata sono state ripercorse - in parte - le vicende narrate ne "Il libro dell’incontro - vittime e responsabili della lotta armata a confronto", scritto da Guido Bertagna, Adolfo Cerretti e Claudia Mazzucato, mediatori in un gruppo che si occupa di giustizia riparativa. Prima dell’inizio della conferenza l’assessore alla cultura Maria Grazia Caglio ha letto un messaggio di saluto del sindaco Paolo Brivio, trattenuto a Roma da un impegno di lavoro. Subito dopo l’introduzione di Elena Rausa la parola è passata a padre Guido, che ha delineato le finalità del percorso di giustizia riparativa avviato ufficialmente nel 2008 ma che in realtà ha radici ben più lontane. "Dedicare del tempo a un ascolto profondo e attento è stato un elemento fondamentale all’interno del gruppo di giustizia riparativa. Siamo ufficialmente nati nel 2008, ma in realtà il lavoro propedeutico è iniziato alla fine degli anni novanta, nei quali si può dire che il gruppo sia effettivamente andato avanti senza essere di fatto costituito. Abbiamo raramente lavorato in piccoli gruppi, scegliendo quasi sempre degli incontri "plenari" per lavorare proprio nell’ottica dell’ascolto, che in tal modo è diventato anche il primo tema d’incontro tra le parti, ovvero i colpevoli dei reati e le relative vittime". Una necessità all’ascolto manifestata quindi da entrambe le parti coinvolte, accomunate inoltre da un altro importante bisogno. "Sia da una parte che dall’altra - ha affermato Bertagna - si è notato in modo speculare la necessità di non far rimanere il dolore sterile, ma di provvedere a farlo diventare un dolore dignitoso e comunicabile. Accanto a questo desiderio diffuso e condiviso c’è inoltre l’idea che tutti sono alla ricerca della controparte". Un obiettivo, quello della giustizia riparativa, differente da quello della giustizia tradizionale, nella quale i dolori delle parti entrano ben poco. "La giustizia tradizionale è solamente un subire - ha continuato - mentre quella riparativa ha uno sguardo particolare sulla relazione. Va inoltre considerato che un reato non è mai solamente personale, cioè non riguarda solamente il colpevole e la vittima, poiché gli effetti si riversano anche sulla società: per questo è importante coinvolgerla nei vari percorsi di giustizia riparativa. Oltre all’ascolto vero, attento e non giudicante, un altro elemento importante è sicuramente la riservatezza. Riservatezza che non significa segretezza, ma piuttosto prevenire dei comportamenti poco rispettosi nei confronti delle parti coinvolte". È stata poi la volta di Giovanni Ricci, figlio di Domenico, agente della scorta ucciso nell’agguato di via Fani, che ha raccontato com’è nata la sua esperienza all’interno del gruppo. "La mia esperienza all’interno del gruppo nasce dal desiderio di incontrare i responsabili dell’assassinio di mio padre, in quanto la giustizia penale non è stata sufficiente a eliminare il senso di rabbia, di odio, di sete di vendetta - ha esordito. Avevo saputo alla TV della strage, ma il vero trauma l’ho avuto aprendo l’edizione straordinaria de La Repubblica uscita quel pomeriggio, nel quale c’era la foto di mio padre trivellato di colpi". Una situazione terribile, che Ricci ha dovuto affrontare all’età di undici anni senza poter piangere il suo dolore. "Purtroppo - continua - le situazioni gravi sono spesso stereotipate. È permesso esternare il proprio dolore solamente nel giorno del ricordo. Dopo si resta soli, e soli per me è significato pensare a quella fotografia. Ho poi avuto un periodo di stasi, ma nel 2005 guardavo interessato il fenomeno della giustizia riparativa in Sudafrica, nel quale le vittime hanno incontrato i responsabili del loro dolore". Ricci ha quindi deciso di cercare di conoscere i responsabili del proprio dolore. "Attraverso due anni propedeutici all’incontro - spiega - nel 2011 sono così riuscito a conoscere i responsabili dell’assassinio di mio padre Domenico. Questo perché, secondo me, l’unico modo per abbattere definitivamente odio e rabbia è il confronto. Al primo incontro le ho trovate due persone normali, consapevoli di essere degli assassini. Portano sicuramente la condanna inflittagli sulla loro pelle, ma sono persone con cui si può parlare. Ho visto le mie cicatrici sanguinanti chiudersi e non sanguinare più. Ora, finalmente, non vivo una vita solamente pensando a quel giorno ma vivo ricordando la storia della mia famiglia. Questo percorso non ha fatto bene solamente a me, ma anche ai responsabili della lotta armata che in quegli anni dilagava". La lettura da parte di Elena Rausa di alcuni stralci di lettere presenti all’interno del volume, la parola è tornata al gesuita, che ha descritto la parola chiave dell’incontro, cioè il riconoscimento. "Dagli scritti emerge che l’incontro cambia le persone, ivi comprese chi lo promuove. La parola chiave è riconoscimento, ovvero la capacità dell’altro di riconoscere il cammino compiuto. Esiste quindi un presupposto di accoglienza che permette di dire all’altro ciò che sta provando, ciò che sta sentendo. Coinvolgendo anche la società, si capisce quanto una storia di questo genere sia tutt’altro che privata o privatizzabile. La società non è equidistante dalle parti ma, piuttosto, equi-prossima". In chiusura la parola è tornata a Giovanni Ricci, che ha infine espresso un pensiero sulla giustizia riparativa. "La giustizia riparativa mi ha permesso di fare delle domande agli assassini di mio padre. Nella mia vita non mi sono mancate le risposte, che sono state ottenute grazie a un confronto. A volte aspro, ma necessario per non vivere nella memoria congelata ma per vivere in una memoria che guardi al futuro". Benevento: studenti e detenuti a confronto, iniziativa di Libera Rete negli Istituti Superiori ottopagine.it, 24 febbraio 2017 Studenti beneventani e giovani detenuti da domani a confronto per affrontare il tema della legalità e del rispetto delle regole. Prende il via domani 24 febbraio dall’Istituto Rampone il percorso di presentazione del progetto Libera Rete negli Istituti Superiori di Benevento. I ragazzi incontreranno i giovani detenuti che hanno partecipato al percorso di inserimento lavorativo promosso all’interno del progetto. Alle scuole aderenti sarà chiesto di dar vita ad una produzione multimediale sul tema. Il miglior lavoro sarà premiato con la donazione di materiale didattico alla scuola. Libera Rete è promosso dalla cooperativa sociale Social Lab 76 in partenariato con Provincia di Benevento, Ufficio esecuzione penali Esterne di Benevento e Istituto Penitenziale Minorile di Airola. Libera Rete si concluderà a giugno 2017 e mira ad inserire nel mondo del lavoro 30 giovani tra i 16 e i 35 anni che scontano pene dentro e fuori il carcere. I partecipanti hanno appreso lo smontaggio e il recupero dei materiali provenienti da strumenti elettronici. La fase finale di presentazione alle scuole è patrocinata da Asia Benevento SpA. Orvieto (Pg): Salvatore Ravo porta speranza ai detenuti con colori e forme di Sara Simonetti orvietosi.it, 24 febbraio 2017 Il colore che prende forma, la forma che acquista identità, un’identità che dona abbandono, senso di appartenenza a un sé trasformato che si ritrova magicamente e felicemente catapultato in una realtà meno vile, più umana, più rassicurante. Sono le tre stagioni - molto presto diventeranno quattro - che sono uscite dalla ciclicità del calendario per entrare nell’ambiente asettico di un carcere, quello di via Roma. E qui hanno trovato ristoro e riposo donando una nuova dimensione spazio-temporale a quei sessanta detenuti che, con il progetto dell’artista Salvatore Ravo "Il colore fuori e dentro", hanno potuto sperimentare l’arte, conoscerla, scrutarla, manipolarla, amandola. È cominciata nel febbraio 2015 l’esperienza formativa che, nella casa di reclusione di Orvieto, vede all’opera un gruppo di detenuti in un laboratorio artistico promosso, a titolo di volontariato culturale e sociale, dall’associazione Aitia e curato dal pittore Salvatore Ravo, artista di spessore internazionale che da qualche anno ha scelto di risiedere a Orvieto. In totale sono stati già affrescati circa 800 metri quadrati di superficie. Il laboratorio è partito dall’esecuzione dell’estate, murale a tema marino che occupa, per 300 metri quadrati, due lati di un cortile all’aperto del primo piano dove hanno trovato posto anche giochi per bambini. A marzo dell’anno scorso è fiorita invece la primavera nel corridoio che dà accesso alle aule dei laboratori di formazione. Colori caldi, paesaggi miti e un elemento che ricorre sempre: l’acqua nel suo lento fluire che dona pace e rassicura. E poi, ecco l’autunno, ultimato a gennaio scorso, nel reparto celle: alberi, palme, foglie che giocano spinte dal vento, un fiume, l’azzurro, il marrone, il giallo. La pace, la tranquillità. Ora, ultimo capolavoro di questi giorni, la magia degli animali e dei colori che sono andati a riempire le mura grigie e prive di forma della sala colloqui. Una ventina di chili di colore in circa 150 metri quadrati di spazio per regalare "alle mogli e ai bambini dei detenuti - spiega l’artista - un luogo dinamico, piacevole e gioioso dove possano abbandonarsi ai sogni riportando a casa un ricordo non sbiadito del proprio familiare associandolo a un colore piuttosto che a una cella con delle sbarre di ferro". Quello di via Roma è un istituto di pena a custodia attenuata, quindi, organizzato proprio per offrire ai detenuti possibilità educative e di formazione. "La custodia attenuata è anche questo - aggiunge Ravo - un passaggio, una transizione, il ritorno a una vita normale grazie anche al colore, alle forme in grado di regalare un’altra possibilità facendo decantare per poi defluire tutta la rabbia accumulata nel tempo. Perché la vita ha anche altre strade, strade illuminate". Ma insieme al colore c’è anche un altro elemento da cui non si può prescindere, la musica. Ecco perché, spesso, alla realizzazione dei murales collabora un altro artista volontario dell’associazione Aitia, il maestro Francesco Pecorari che accompagna il procedere del lavoro con il suo sax. Colore, forma e musica, dunque, per dare anche a chi, nel corso della propria vita, è caduto in brutti errori, una seconda possibilità per riscattarsi, per rinascere. Padova: da marzo una ventina di preti dietro le sbarre di Toni Grossi La Difesa del Popolo, 24 febbraio 2017 Sono sacerdoti diocesani che, dopo aver visitato la Casa di reclusione di Padova Due Palazzi con le proprie comunità, condivideranno con più costanza il cammino della parrocchia del carcere guidata da don Marco Pozza. Sabato 18, la celebrazione con il vescovo Claudio che ha dato il via all’esperienza. Per la comunità diocesana ripartire dopo i mesi tormentati significa essere nella periferia delle periferie. Non solo un gesto simbolico, ma una scelta concreta, profetica per molti versi. Per il vescovo Claudio è questione di "umiltà", per ritrovare l’identità, nonostante i nostri errori. La tenue nebbia avvolge un po’ tutto, di prima mattina; è una foschia buona, che lascia presagire il sole, quello che tra qualche ora illuminerà, scaldando. Le periferie, quando sono immerse nella luce incerta e precaria, sono ancor più anonime; il traffico sfuggente, le vie quasi deserte, le villette solitarie, i palazzoni indecifrabili. Nel mezzo ci sta il carcere, quello del Due Palazzi di Padova, perso un po’ all’orizzonte, in un isolamento che sa di solitudine; quella a cui sono condannate le centinaia di detenuti che vi abitano e quelli che ci lavorano; due grandi edifici, ai margini della città, relegati. La chiesa di Padova, proprio in una mattina di nebbia provvisoria, decide di cominciare (ripartire?) da qui. C’è il vescovo, il cappellano don Marco Pozza, un gruppo di altri preti, i volontari, i catechisti e naturalmente i reclusi. Si sono dati appuntamento per riepilogare, per ritrovarsi, anzi per iniziare. "Perché in chiesa - dice don Claudio - non ci vanno i buoni, quelli che si credono tali, ma chi ha sbagliato o quanto meno sta cercando". E la comunità di chi crede, a Padova, dopo mesi di tormenti, ha bisogno di ritrovarsi in gesti di fede e luoghi di espiazione fiduciosa. Non c’è tristezza, niente rammarico, nulla che abbia il sapore della costrizione; soltanto il bisogno di riguardarsi, partendo da un luogo appartato, solo, rudemente periferico, autenticamente umile, evangelicamente tapino. L’occasione non è di circostanza, né fortuita; arriva al termine di un cammino lungo almeno un anno; da quando il carcere si è aperto a quelle comunità parrocchiali che hanno voluto, anche soltanto per qualche ora domenicale, farsi coinvolgere dalla solitudine di questo luogo per legge solitario. Nei mesi scorsi tanti gruppi hanno fatto la fila davanti alle porte della galera; si sono spogliati di tutto, hanno abbandonato il benessere e vissuto la nudità essenziale, privata anche dell’immancabile cellulare o del rassicurante portafoglio. Soltanto una visita? Un incontro? Non solo o quanto meno non soltanto. Se è vero che con lenta e insondabile tenacia un’idea si è fatta lentamente strada tra i mille impegni e le (talora) devianti incombenze di tanti parroci e cappellani. Che hanno deciso che quel luogo, quegli uomini reclusi, senza libertà e talora dignità, meritavano di più di una fugace attenzione; così, dal prossimo marzo, una ventina di preti padovani entreranno "regolarmente" (in termini di costanza e assiduità) in carcere per condividere, confortare, testimoniare, annunciare; lo faranno da fratelli. La chiesa di Padova, dunque, riparte anche da qui, dal suo essere piccola, dal fare riferimento ai "bambini" che non hanno diritti. Non un gesto simbolico, ma una scelta concreta, che definire profetica potrebbe sembrare presuntuoso, ma che di certo ha il sapore della temerarietà pastorale. Una svolta? Anche ciò potrebbe apparire azzardato, ma i tempi e le circostanze spesso forzano la mano e spingono le situazioni oltre le intenzioni. Il vescovo Claudio, rivolgendosi ai suoi (quattordici) preti presenti e a tutti gli altri, ha usato spesso il termine "umiltà"; riferendolo a uno dei grandi insegnamenti che questo tempo di tormento ha portato come dono, sofferto, non bellamente confezionato, ma non meno prezioso; una virtù che non può prescindere dall’autenticità, dal rigetto di quell’ipocrisia che trascina e coinvolge molti in giudizi e sentenze. Per questo, anche per ciò, la chiesa di Padova ha scelto la nebbia di una periferia delle periferie, un luogo difficile, in cui trovarsi e da cui riandare per una strada che "sia la ricerca della nostra identità di uomini amati, nonostante i nostri errori". La Padova che crede, in un’anonima mattinata, ha avuto coraggio; lo stesso che forse dovrebbe avere una città, una comunità, i tanti, troppi, che guardano soltanto gli altri, dimenticandosi della scandalosa misericordia. Velletri (Rm): filatelia nelle carceri, conclusioni del percorso avviato nell’estate del 2016 vaccarinews.it, 24 febbraio 2017 Previsto per oggi il momento conclusivo di un percorso avviato nell’estate del 2016. Gli esiti del lavoro svolto raccolti in un libro. Anche alla casa circondariale di Velletri (Roma) si fanno i bilanci del progetto "Filatelia nelle carceri", avviato l’estate passata con l’obiettivo di realizzare, fra l’altro, una collezione collettiva da lasciare quale testimone al circolo nato all’interno del penitenziario. Questo grazie anche alla struttura, rappresentata dalla direttrice Maria Donata Iannantuana e dalla vice Pia Paola Palmeri, nonché al presidente dell’Associazione italiana collezionisti tematici di Croce rossa "Ferdinando Palasciano" Paolo Rossi. L’appuntamento è per oggi e verrà suggellato dall’annullo speciale; una copia sarà messa a disposizione degli interessati presso l’ufficio postale cittadino, ubicato in via Martiri delle Fosse Ardeatine 2. Nello specifico, l’evento è stato denominato "Filatelia - Filatevia". Ha dato origine ad un libro, curato dal referente di Poste italiane Giovanni Vizzaccaro. Raccoglie -è l’anticipazione- tutti i lavori svolti dai detenuti che hanno partecipato al corso. Ciascun contributo è accompagnato da una citazione che ricorda e racconta lo spirito con cui gli iscritti hanno vissuto l’esperienza. "Da subito ho avuto la sensazione di avere di fronte delle persone fortemente motivate da una profonda curiosità", ammette. Durante gli incontri "abbiamo ripercorso la storia della posta, una delle più antiche istituzioni. Mi è bastato poco per capire che quel pezzettino di carta non era solo il corrispettivo da pagare per il trasporto di una corrispondenza; infatti, durante lo svolgimento delle lezioni, oltre a rinunciare al tempo di ricreazione, i miei attenti compagni di viaggio spesso evitavano anche colloqui con amici e parenti". L’approccio ha consentito di trattare tematiche di interesse culturale diverso, dalla regina Elisabetta II al Regno d’Italia, da Cristoforo Colombo fino ad arrivare agli ultimi Mondiali di calcio. "Per noi - confermano gli "allievi" - è stata ed è una nozione grande per il nostro fardello di vita". Tra gli sponsor che hanno donato materiale finalizzato all’iniziativa vi è la società Vaccari. Lecce: donazioni per la biblioteca dei bambini nel carcere di Borgo San Nicola Agenpress, 24 febbraio 2017 Parte dal 24 febbraio la campagna di donazione di libri per sostenere la biblioteca dei bambini che sta per nascere nel Carcere di Borgo San Nicola, nella periferia di Lecce. La biblioteca è uno degli interventi che l’associazione Fermenti Lattici realizzerà nell’ambito di "Giallo, rosso e blu. I bambini colorano Borgo San Nicola", progetto che si è aggiudicato il bando nazionale "Infanzia Prima", promosso da Compagnia di San Paolo, Fondazione Cariplo e Fondazione con il Sud, con l’accompagnamento scientifico di Fondazione Zancan in collaborazione con Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo. Unica iniziativa pugliese tra le dieci assegnatarie del bando, nasce con l’obiettivo di avviare un sistema di accoglienza per i bambini in visita nel carcere leccese allo scopo di favorire una frequentazione meno traumatica e offrire tempi e spazi di condivisione insieme alla propria famiglia. La biblioteca, la cui inaugurazione è prevista alla fine di marzo, sarà creata da zero insieme ai genitori detenuti, in base alle indicazioni che i bambini hanno fornito durante il laboratorio di progettazione partecipata in corso da gennaio nella sala d’attesa del carcere. Per sostenere l’iniziativa l’associazione Fermenti Lattici lancia, dunque, una campagna di donazione di libri per l’infanzia che andranno a rifornire gli scaffali della biblioteca. I libri potranno essere acquistati nelle "librerie amiche" di Lecce: Liberrima (Corte dei Cicala), Officine Culturali Ergot (Piazzetta Falconieri), Semi Minimi (via Colonnello Costadura), Icaro (Viale Cavallotti), Le Fanfaluche (via Salvatore Grande). Per donazioni di libri usati, per proporre la propria libreria o per sostenere il progetto è possibile contattare l’associazione al numero 3404722974 o alla mail fermentilatticilecce@gmail.com. Oltre alla creazione della biblioteca il progetto prevede anche la realizzazione di due ludoteche, la sistemazione di aree verdi e un fitto calendario di appuntamenti, laboratori, spettacoli, letture, mostre che coinvolgeranno in maniera attiva bambini, genitori detenuti, genitori liberi e accompagnatori, fino a dicembre 2018. Giallo, rosso e blu aderisce alla Carta dei diritti dei figli dei genitori detenuti (Roma, 6 settembre 2016 - Ministero di Giustizia) che riconosce formalmente il diritto dei minori alla continuità del proprio legame affettivo con il proprio genitore detenuto e, al contempo, ribadisce il diritto alla genitorialità dei detenuti e si inserisce in un contesto caratterizzato da una condizione di svantaggio, che a Lecce riguarda circa 250 bambini che non hanno la possibilità di instaurare un rapporto quotidiano con il genitore, costruire ricordi e condividere un’esperienza gratificante con la propria famiglia. Il denso programma di attività è partito in anteprima lo scorso dicembre, con una serie di incontri tra l’associazione Fermenti Lattici e il corpo di polizia penitenziaria allo scopo di condividere obiettivi e definire le varie fasi del progetto. Parte trainante sarà l’autocostruzione e la rigenerazione delle aree esistenti per la creazione dei nuovi spazi e di un progetto comune sostenibile nel tempo. Il progetto vede tra i suoi partner le associazioni Factory Compagnia Transadriatica e Principio Attivo Teatro, la compagnia di attori/detenuti Io Ci Provo, la Casa Circondariale Borgo San Nicola di Lecce, l’Assessorato alla Pubblica Istruzione del Comune di Lecce, il Garante per i Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza della Regione Puglia e l’Istituto Tecnico Olivetti di Lecce. Migranti. "Siamo alla terza generazione, lo ius soli non è più rinviabile" di Luca Fazio Il Manifesto, 24 febbraio 2017 Sulimaya Abdel Qader, consigliera Pd al comune di Milano. Sentire di appartenere al proprio paese non è una questione burocratica ma la riforma servirà a garantire a migliaia di giovani stabilità per il loro futuro. Sumaya Abdel Qader, 38 anni, è nata a Perugia da genitori giordani. Dallo scorso giugno è consigliera comunale del Pd a Palazzo Marino. Martedì sarà a Roma alla manifestazione nazionale indetta dalle associazioni per chiedere che il Senato approvi subito la legge sulla cittadinanza licenziata dalla Camera il 15 ottobre 2015. È certo che a Palazzo Madama nessuno si affretterà ad approvare la legge prima della fine della legislatura. Non è scandaloso che per la politica sia sconveniente una legge che garantisce a 800mila ragazzi nati in Italia di diventare davvero italiani? Direi di sì. Il tema non è nuovo, se ne parla da anni. I figli degli immigrati ormai sono alla terza generazione, non possiamo sottrarci all’urgenza di approvare questa legge e di garantire ai giovani una stabilità e un riconoscimento che serve a rinforzare le loro aspettative per il futuro. Sentire di appartenere al proprio paese non è una questione burocratica. La Lega contro questa legge imposterà mesi di campagna elettorale e il suo partito, il Pd, non sembra intenzionato a dare battaglia. Si sa che al suo interno ci sono resistenze. La cosa non la imbarazza? Nel partito c’è una discussione aperta, ma la maggioranza del Pd condivide il principio che ispira questa legge. Fa parte della normale dialettica avere opinioni diverse, c’è chi preferirebbe legare questa legge a un percorso più incentrato sullo "ius culturae", è chiaro che alcune persone hanno bisogno di più tempo per ragionare sull’integrazione. Martedì prossimo a Roma si terrà la manifestazione nazionale per chiedere l’approvazione della riforma sulla cittadinanza. Ci andrà? Stiamo organizzando il viaggio, questa battaglia per la cittadinanza va avanti da mesi, abbiamo sperimentato molte relazioni, non è sostenuta solo dai figli degli immigrati, con noi ci sono le associazioni e il terzo settore, è un movimento che esprime una nuova visione del mondo. Dopo cinque anni di giunta arancione e tante promesse, Milano non ha ancora una moschea mentre la Regione Lombardia continua ad inventarsi vincoli urbanistici per impedire la costruzione di luoghi di culto. A che punto siamo con l’amministrazione di Sala? Abbiamo intrapreso i passi necessari per seguire le leggi vigenti che sono molto restrittive, ci vorrà un anno per ultimare il Piano delle attrezzature religiose (Par). Le associazioni contattate devono segnalare gli spazi adatti ad ospitare luoghi di culto in base alle norme urbanistiche imposte dalla Regione Lombardia. Sarà dura, perché i vincoli sono strumentali e non sarà facile per il Comune aprire un tavolo di confronto con i leghisti. Molte realtà religiose prepareranno ricorsi al Tar, la strada è in salita. Esce un film tratto dal suo libro "Porto il velo, adoro i Queen". Come si concilia il velo con il rock’n’roll? Il titolo è uguale ma il documentario non parla del mio libro, sono tre interviste che affrontano i temi della cittadinanza a partire da storie personali, la mia, quella di una fumettista tunisina e di una psichiatra siriana. Perché mai non dovrebbe conciliarsi il velo con il rock? Ognuno di noi ha più dimensioni, una spirituale e una più terrena, e a me piace il rock. Non c’è niente di strano. E il velo che porta come si concilia con il suo impegno per i diritti delle donne e contro le discriminazioni di genere? Io vivo, faccio cose nel rispetto di valori universali e non penso al velo, quello lo vedono gli altri. La mia vita dice che non si tratta di un impedimento, ho studiato, mi sono sposata, ho fatto carriera, ho dei figli. Io non sono certo un’eccezione, così siamo in tante. L’assessore Majorino (Pd) ha detto che vorrebbe organizzare a Milano una manifestazione antirazzista come è accaduto a Barcellona. La città le sembra pronta per dirsi così accogliente con i migranti? Credo che Milano su questi temi sia in controtendenza rispetto alle altre città italiane, soprattutto con Roma. Spesso ha dimostrato di saper accogliere mobilitando risorse straordinarie, come è accaduto per i profughi alla caserma Montello. L’idea della manifestazione è importante perché la città deve sentirsi coinvolta in questo processo di inclusione. Fra non molto sarà il 25 aprile, e le chiederanno se sarà disposta a manifestare insieme alla comunità ebraica. Ha già pronta la risposta? Nessun problema. Mi piace sfilare con tutti gli italiani che hanno lottato per liberare il nostro paese, che siano di una religione o di un’altra. Migranti. La Lega chiama "clandestini" i "richiedenti asilo": condannata di Giampiero Bernardini Avvenire, 24 febbraio 2017 Confusione linguistica sui manifesti contro l’arrivo di 32 profughi, che il Tribunale ha giudicato discriminatoria. Ma il partito insiste a volere usare l’italiano a modo suo. La lingua italiana è sempre più usata a sproposito, soprattutto nella polemica politica. Il congiuntivo sta sparendo e, secondo un recente appello di 600 docenti universitari, sempre più italiani, a cominciare dai giovani, fatica a comprendere ciò che legge. Anche la Lega Nord pare non sfuggire a questa decadenza culturale. Ad esempio non riesce a distinguere la differenza tra il termine "clandestino" e il concetto di "richiedente asilo". E per questo è andata incontro a una condanna in Tribunale. Perché l’uso sbagliato del termine è stato ritenuto pure discriminatorio. Lega Nord, Lega Lombarda e Lega Nord Saronno sono state, infatti, condannate dal Tribunale di Milano per l’uso discriminatorio dell’espressione "clandestini" riferita a 32 "richiedenti asilo" che dovevano essere accolti nel territorio di Saronno. Il giudice, che ha accolto il ricorso delle Associazioni di volontariato Asgi e Naga, ha riconosciuto che l’affissione di cartelli contenenti le espressioni "Saronno non vuole clandestini"; "Renzi e Alfano vogliono mandare a Saronno 32 clandestini: vitto alloggio e vizi pagati da noi. Nel frattempo ai saronnesi tagliano le pensioni ed aumentano le tasse"; "Renzi e Alfano complici dell’invasione" costituisce una discriminazione. L’associazione dei termini "clandestini", si legge in un comunicato stampa delle due associazioni, ossia di coloro che entrano/permangono irregolarmente nel territorio contravvenendo alle regole sull’ingresso e il soggiorno e "richiedenti asilo", ossia di coloro esercitano un diritto fondamentale ovvero quello di chiedere asilo in quanto nel loro paese temono, a ragione, di essere perseguitati, oltre ad essere erronea ha una valenza denigratoria e crea un clima intimidatorio e ostile. Secondo il tribunale di Milano in questo caso non vale invocare l’articolo 21 della Costituzione in materia di libertà di pensiero poiché "Nel bilanciamento delle contrapposte esigenze - entrambe di rango costituzionale - di tutela della pari dignità, nonché dell’eguaglianza delle persone, e di libera manifestazione del pensiero, deve ritenersi prevalente la prima in quanto principio fondante la stessa Repubblica". Il giudice ha disposto la pubblicazione della decisione, a spese della Lega, sia sul quotidiano locale "Il Saronno" sia sul "Corriere della Sera". Lega Nord, Lega Lombarda e Lega Nord Saronno sono state inoltre condannate al pagamento, a titolo di risarcimento, della somma di 5.000 euro per ciascuna associazione. Per la Lega Nord è del tutto legittimo l’uso del termine "clandestini" in riferimento ai migranti "richiedenti asilo" che chiedono accoglienza in Italia. Lo ha sostenuto il segretario della Lega Lombarda, Paolo Grimoldi, dopo la sentenza del Tribunale di Milano. Grimoldi afferma che si tratta di una "sentenza che distorce la realtà" in quanto una parte di quelli che presentano domanda di asilo diventano poi clandestini. Resta il fatto che l’"esercito" dei 32 stranieri inviati a Saronno erano "richiedenti asilo" e non "clandestini". Sarebbe come dire che un politico della Lega raggiunto da un "avviso di garanzia" possa essere definito da un avversario politico "delinquente", anticipando un giudizio che non è affatto certo e che spetta ad altri. L’ignoranza linguistica in fondo si può comprendere, ma se si insiste, allora si potrebbe pensare alla malafede. Cosa molto peggiore. Myanmar. Indagini inadeguate sui crimini contro i rohingya di Riccardo Noury Corriere della Sera, 24 febbraio 2017 Come denunciato all’inizio di questo mese da un drammatico rapporto dell’ufficio dell’Alto commissariato Onu per i diritti umani, i crimini contro i rohingya - la minoranza musulmana di Myanmar, cui le autorità negano persino il diritto di cittadinanza - proseguono senza sosta. L’estensione e la gravità degli attacchi contro i civili rohingya (uccisioni, stupri, esodi forzati a seguito degli incendi dei villaggi) hanno spinto le organizzazioni per i diritti umani a parlare di crimini contro l’umanità. Mentre la Nobel per la pace Aung San Suu Kyi continua a tacere, le autorità di Myanmar hanno istituito tre distinte commissioni, del tutto prive d’indipendenza e non in grado o non intenzionate a fare luce su quanto accaduto nel nord di Myanmar, esattamente nello stato di Rakhine, da ottobre a questa parte. Della composizione del principale di questi organismi, la Commissione d’indagine, avevamo già parlato qui. Particolarmente grave e sconcertante, nei mesi del suo operato, è stata l’assenza di qualunque forma di protezione per le vittime e i testimoni, di alcune e di alcuni dei quali sono stati addirittura fatti circolare sulla stampa locale nomi e fotografie. Due sopravvissute allo stupro hanno visto i loro racconti pubblicati sui giornali. A gennaio, dopo aver visitato lo stato di Rakhine per appena tre giorni, la Commissione d’indagine ha diffuso il suo rapporto preliminare: senza fornire alcuna prova, ha stabilito che le forze di sicurezza si sono comportate bene e non hanno commesso alcuna violazione nei confronti dei "bengalesi" (così chiamati per ribadire ancora una volta la versione ufficiale: i rohingya non sono birmani ma persone immigrate dal Bangladesh). La Commissione avrebbe dovuto presentare il suo rapporto conclusivo il 31 gennaio ma la data è stata rinviata a tempo indeterminato. Tutto bene anche secondo le altre due commissioni, interne alla polizia e all’esercito e composte esclusivamente da poliziotti e soldati: difficile che potesse andare diversamente. Le richieste delle organizzazioni per i diritti umani affinché le Nazioni Unite promuovano l’istituzione di una commissione internazionale indipendente d’inchiesta diventano sempre più urgenti. Somalia. Le donne violentate per la siccità di Silvia Morosi Corriere della Sera, 24 febbraio 2017 "Due giorni fa quattro uomini mi hanno afferrato e cominciato a violentarmi. La maggior parte delle donne e delle ragazze del campo sono state aggrediti da bande". Inizia così il racconto all’Independent di Hodan Ahmedan, 23 anni, seduta nel rifugio di fortuna di Hargeisa, nel Somaliland, Stato dell’Africa orientale (una sottile striscia di territorio abitato da somali sulla costa meridionale del golfo di Aden, con tutte le caratteristiche per costituirsi stato, ma non riconosciuto da nessun governo straniero nonostante l’autoproclamata indipendenza, autoproclamata nel 1991). I casi di violenza di genere e sessuale sono all’ordine del giorno nei campi dove alloggiano i rifugiati, dovuti alla "mancanza di polizia, all’illuminazione insufficiente, all’assenza di impianti sanitari e a un aumento del numero di donne-sole". Non potendo scavare nel terreno per realizzare i gabinetti, e mancando la privacy, "se dobbiamo andare in bagno, possiamo farlo solo una volta che diventa buio, sperando di non essere attaccate dalle bande". Donne gettate ai margini - Il Paese è anche vittima di una delle peggiori siccità degli ultimi anni che ha portato molte persone a dover migrare in cerca di lavoro e cibo: "Quando le donne arrivano nella capitale, sono gettate ai margini, in ambienti ostili con poche opportunità di lavoro, mentre gli uomini riescono a trovare lavoro in città e sono esposti a meno rischi". Non essendoci l’acqua, "non ho potuto lavarmi e curarmi, e così ho perso il mio bambino. Sono diventata molto debole e non riuscivo a smettere di sanguinare", racconta Amina Abdul Hussein, madre di tre figli. Molte donne hanno sofferto di aborti a causa della siccità, dato che "nelle primissime fasi di sviluppo intrauterino, il cambiamento climatico ha un impatto significativo sulle nascite". Per sopravvivere, lei, come le altre donne del campo, raccolgono pietre e le vendono al mercato. Il denaro viene utilizzato per pagare l’affitto e comprare il cibo. Il suicidio della piccola "Hoodo" - Nel 2015 una bambina di 11 anni si era suicidata in Somaliland dandosi fuoco dopo che il suo stupratore era stato assolto. La piccola, originaria della regione di Sanag, prima di suicidarsi aveva combattuto per mesi contro le pesanti conseguenze fisiche e psicologiche dello stupro subito a settembre da un uomo di 28 anni. La bimba, che era stata identificata con il nome di fantasia "Hoodo", aveva raccontato che stava raccogliendo la legna quando un uomo arrivato alle sue spalle l’aveva colpita. "Sono caduta per terra e lui mi ha coperto la testa con un cappotto, così le mie urla non si sarebbero sentite". Come la maggior parte delle bambine in Somaliland, Hoodo era stata sottoposta a mutilazione genitale femminile. Per questo la violenza è stata ancora più atroce. L’uomo l’ha poi minacciata di tagliarle la testa se avesse raccontato quello che le era successo. La madre portò immediatamente la piccola all’ospedale che però si rifiutò di curarla senza una denuncia alla polizia. La donna era riuscita a portare in tribunale il caso di sua figlia. Il colpevole fu arrestato e condannato a 8 anni. Ma la Camera degli Anziani della comunità rilasciò lo stupratore e il padre di Hoodo accettò un risarcimento di 400 dollari in cambio.