Nella riforma penale prova di garantismo per gli scissionisti Pd di Errico Novi Il Dubbio, 23 febbraio 2017 La magistratura gioca in difesa. Stavolta non ce la si può prendere con le norme sull’estinzione dei reati. Non nel caso del processo per abusi su una minore dichiarato prescritto a Torino. Non avrebbe senso: il giudizio è andato avanti per vent’anni, decisamente troppi, e se non si è riusciti ad arrivare in tempo a una sentenza definitiva è per una grave mancanza degli uffici, non per l’inefficacia delle norme. Si trova dunque in imbarazzo l’Anm, che dichiara "sconcerto per il ritardo con cui è stato celebrato il giudizio di secondo grado" e parla di "inadeguata valutazione delle ineludibili priorità nella trattazione dei processi". Sarebbe colpa del presidente della Corte d’Appello: non dell’attuale, Arturo Soprano, che ha spiegato di aver fatto il possibile per spalmare l’arretrato sulle diverse sezioni, ma del suo predecessore. Ovvero proprio quel Mario Barbuto che invece si era rivelato esemplare nella definizione di buone prassi organizzative, al punto che il record di abbattimento dell’arretrato conseguito da presidente del Tribunale di Torino gli era valso la nomina a capo dell’Organizzazione giudiziaria di via Arenula. Difficile capire con chi prendersela. Lo stabilirà l’ispezione ordinata dal ministro Andrea Orlando. A quanto pare ci sarà un affollamento, dalle parti del palazzo di giustizia torinese, visto che accertamenti paralleli saranno condotti anche dall’altro titolare dell’azione disciplinare, il pg della Cassazione Pasquale Ciccolo. E, tanto per completare il quadro, domani il comitato di presidenza del Csm (di cui fa parte lo stesso Ciccolo) deciderà sulla richiesta avanzata dal laico Beppe Fanfani di aprire una pratica "per approfondire quanto accaduto". Sarà necessario come minimo mettere ordine, per evitare che le diverse verifiche si sovrappongano. Le ricadute sulla riforma penale - Il caso dimostra di sicuro come non siano necessariamente i tempi previsti dalla legge a far decadere i reati. Ma con l’imminente ritorno della riforma penale al Senato le tensioni saranno inevitabili. Il ddl più tormentato della legislatura, almeno nel settore giustizia, riappare in aula martedì della prossima settimana, il 28 febbraio. La terribile vicenda della bambina che sarebbe stata stuprata a 7 anni dal patrigno, e che oggi, donna di 27 anni, non vuole più sentirne parlae, non dovrebbe essere usata come pretesto. Il caso non giustificherebbe alcuna revisione al rialzo delle regole sulla prescrizione. Ma quelle norme restano la parte più scivolosa del provvedimento. Ed è lì che la maggioranza rischia. Non solo perché i cinquestelle non mancheranno di definire il compromesso sulla prescrizione un favore ai delinquenti, ma anche per le perplessità coltivate in materia da diversi senatori dell’ormai ex minoranza pd. È noto come Felice Casson sia intenzionato a dare voto contrario sugli articoli relativi alla prescrizione. Ma non è il suo singolo caso ad essere politicamente delicato. Si dovrà vedere come si comporterà il drappello di senatori pronti a confluire nel gruppo degli scissionisti. Dovrebbero essere almeno una dozzina: il loro voto sarà decisivo, considerato che a Palazzo Madama la maggioranza non può più contare sui verdiniani di Ala. L’esame del ddl penale sarà dunque anche un banco di prova per la linea sulla giustizia dei bersanian-dalemiani. Sarebbe sorprendente scoprire che l’ormai ex minoranza dem è su posizioni affini ai Cinque Stelle: certo il loro grado di garantismo andrà verificato. Anche perché tra i 10- 15 che a Palazzo Madama dovrebbero aderire alla scissione ci sono senatori molto schierati sulle posizioni dell’Anm, come la lombarda Lucrezia Ricchiuti. La nota dell’Anm mira a Barbuto - Proprio l’Associazione magistrati si trova comunque spiazzata dalla vicenda di Torino. Ieri si è riunita la giunta esecutiva centrale del sindacato dei giudici, che ha diffuso una nota sospesa tra autocritica e accuse non del tutto esplicite. Si esprime appunto "sconcerto" per "la prescrizione di un grave reato per cui era intervenuta condanna in primo grado". E, "pur nella consapevolezza delle oggettive difficoltà in cui versano gli uffici giudiziari", si rimarca che "l’epilogo doloroso della vicenda denota una carenza organizzativa radicatasi negli anni". Spiazzante davvero visto che a presiedere la Corte d’Appello "colpevole" dell’estinzione del reato era stato proprio quel Mario Barbuto divenuto un modello negli anni trascorsi alla guida del Tribunale. Non è chiaro di chi sia la colpa. Di sicuro non delle norme sulla prescrizione. Rita Bernardini "il nostro sciopero della fame non è un ricatto: sollecitiamo la riforma" di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 23 febbraio 2017 È giunta al diciottesimo giorno dello sciopero della fame, ma dalle istituzioni ancora silenzio. Parliamo di Rita Bernardini, coordinatrice della presidenza del Partito radicale nonviolento transnazionale transpartito, che dalla mezzanotte del 5 febbraio ha intrapreso lo sciopero della fame per chiedere che la discussione e l’approvazione della riforma dell’ordinamento penitenziario venga estrapolata dal ddl penale. È al diciottesimo giorno dello sciopero della fame: perché questa iniziativa? Con il Partito radicale voglio aiutare il ministro della Giustizia Andrea Orlando e il Parlamento a fare ciò di cui sono già convinti e cioè la riforma dell’ordinamento penitenziario che è stata oggetto di studio e di proposta attraverso il lavoro dei 18 tavoli degli Stati generali dell’esecuzione penale sui quali ha molto puntato proprio il ministro Orlando. Che si fa ora, si butta tutto a mare? Abbiamo fatto uno dei tanti convegni o, come mi auguro, un’opera volta a rendere l’esecuzione penale corrispondente a precetti costituzionali? Perché è così importante la riforma dell’ordinamento penitenziario? Il disegno di legge delega di riforma prevede punti essenziali per rendere legale l’esecuzione penale: incremento della possibilità d’accesso alle pene e alle misure alternative anche per i recidivi, maggiori possibilità di lavoro, di formazione e di studio sia in carcere che una volta usciti, giustizia riparativa e apertura del carcere alla società esterna, accesso alle cure, particolare attenzione e riguardo ai tossicodipendenti e ai malati psichiatrici, effettivo diritto all’affettività affinché la persona reclusa mantenga rapporti stabili con i familiari, in particolare con i figli minori. Tutti gli studi ci dicono che per scongiurare la recidiva, le pene e le misure alternative al carcere sono più efficaci di quest’ultimo per ridurre il tasso di delinquenza. Lo sciopero della fame, come quello precedente, è anche finalizzato a porre l’attenzione sulla necessità dell’amnistia. È ancora un provvedimento urgente? Direi imprescindibile se vogliamo cominciare a porre rimedio allo sfascio della giustizia. Marco (Pannella) vi ha dedicato la vita, rischiandola in innumerevoli occasioni. Guardi allo scandalo di Torino con il processo per stupro caduto in prescrizione: se i magistrati non avessero avuto le lo-È ro scrivanie ingombre di processi per reati minori quel fascicolo sarebbe stato oggetto di attenzioni già molti anni fa e non sarebbe stato letteralmente cancellato com’è accaduto. Il nostro Stato è illegale anche da questo punto di vista: le condanne che abbiamo subito e continuiamo a ricevere dall’Europa non sono solo per "trattamenti inumani e degradanti" nelle carceri; ne abbiamo ricevute di "seriali" anche per l’irragionevole durata dei processi. Una sentenza che arriva tardi è di per sé ingiusta sia per le vittime sia per i colpevoli, che è bene paghino subito per i loro reati. Con il trascorrere di tanti anni le persone cambiano e si ritrovano magari a dover finire in carcere quando con grande fatica sono riuscite a costruirsi una posizione dignitosa nella società. La giustizia ritardata è giustizia negata a tutta la collettività anche in termini di sicurezza. Se poi consideriamo gli errori giudiziari, che sono almeno mille ogni anno, l’ingiustizia diviene mortifera per gli incolpevoli che si ritrovano sulla graticola di un processo interminabile per una buona fetta della loro vita. L’ergastolo ostativo e il 41 bis sono altri due obiettivi delle vostre battaglie... Esistono diritti umani fondamentali che non possono essere negati nemmeno al peggior criminale, pena il degrado dello Stato di diritto al livello della più bassa abiezione. Togliere la speranza di riscatto, di riabilitazione, dopo 20 o 30 anni di carcere, significa degradare un essere umano allo stato di "non persona". Lo stesso vale per i condannati all’isolamento del 41- bis, per anni, a volte per sempre. È tortura legalizzata come anni fa hanno documentato in un libro shock i miei compagni Sergio D’Elia e Maurizio Turco. Oggi viene in aiuto della nostra lotta Papa Francesco che definisce l’ergastolo "una pena di morte nascosta" e ammonisce gli Stati sull’uso del carcere duro, oltre che esortarli a un provvedimento di Amnistia. Il ministro Orlando non l’ha più incontrata per ricevere il "libro della nonviolenzà che contiene le lettere con i nomi dei ventimila detenuti che il 5 e 6 novembre del 2016 hanno digiunato per sostenere gli obiettivi della scorsa marcia radicale... Avrei voluto sinceramente farlo. Mi auguro che non si sia risentito quando ho definito "deludente" il suo intervento all’inaugurazione dell’anno giudiziario soprattutto quando ha dichiarato superata l’emergenza sovraffollamento mentre noi, che le carceri le visitiamo, documentiamo da almeno un anno la ripresa di questo fenomeno. Non dispero però, perché ho fiducia nel dialogo, nella sua intelligenza e nei suoi buoni sentimenti. Sono sicura che si commuoverà quando leggerà i nomi di quei 20.000 reclusi che scelgono la strada della nonviolenza come metodo di lotta politica. Ci sono stati segnali da parte di alcune personalità politiche che condividono la sua battaglia? Ogni giorno è possibile ascoltare da Radio Radicale queste voci di condivisione dell’obiettivo. Persino da parte dei parlamentari che vorrebbero l’approvazione della riforma penale nel suo complesso, alla fine c’è il ragionevole "compromesso" di portare a casa almeno quella dell’ordinamento penitenziario, estrapolandola dal resto del disegno di legge. E da parte della popolazione detenuta ci sono state adesioni allo sciopero della fame? Oh, sì certo, e mi danno forza. Finora ne sono arrivate 481 e sono sicura che da tutta Italia giungerà - e non solo dai detenuti - ulteriore sostegno a questo sciopero della fame e alla Marcia per l’Amnistia che abbiamo convocato per il 16 aprile, il giorno di Pasqua. Alcuni pensano che lo sciopero della fame dei radicali non porti più a niente e che abbia perso, nel tempo, la sua efficacia. Altri pensano che tale iniziativa sia un ricatto, come per dire "se il parlamento non mi ascolta, io muoio di fame e mi avranno sulla coscienza"... Il presupposto della nonviolenza è di far emergere le convinzioni profonde degli interlocutori che si scelgono; nel mio caso, il Parlamento, il ministro Orlando e, per certi versi, anche il Presidente della Repubblica, garante supremo dei principi costituzionali. Sono io a dire loro: se pensate che il mio non mangiare sia un ricatto, ignoratemi perché la ragione è dalla vostra parte. Credo, invece, che la nonviolenza radicale sia tutt’altra cosa: un modo di dare forza al "potere" affinché compia gli atti coerenti con i valori, i principi e le norme fondamentali che sono alla base della sua stessa legittimità. D’altra parte, che senso avrebbe raggiungere un obiettivo giusto attraverso un’estorsione, un ricatto? Al fatto che i mezzi che si usano prefigurino i fini che si vogliono raggiungere io credo profondamente. Il mio sciopero della fame e quello dei detenuti e delle loro famiglie voglio che scandisca il tempo che passa e solleciti attenzioni; più il tempo passa più chi ha il potere di intervenire dovrebbe sentirsi responsabile rispetto a provvedimenti che peraltro sono già molto in ritardo, se abbiamo a cuore lo Stato di diritto che è in primo luogo rispetto dei diritti umani fondamentali. Il tempo nella vita è tutto, facciamo in modo che non trascorra invano. Chiusura Opg. Il Commissario Corleone "i 569 pazienti finiranno in 30 Rems provvisorie" gonews.it, 23 febbraio 2017 "L’Ospedale psichiatrico giudiziario (Opg) è stato l’istituzione totale per eccellenza: manicomio e carcere insieme", e ora dopo il loro definitivo superamento sono state istituite 30 Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems), provvisorie, "nelle quali sono presenti 569 pazienti" a fronte di una capienza complessiva di 604 posti. Sono alcuni dei dati contenuti in un rapporto del Commissario unico per il superamento degli Opg Franco Corleone. Secondo il commissario "il fatto che molte persone vengano dimesse dalle Rems è un segnale positivo che porta a pensare che queste residenze siano delle strutture tendenzialmente aperte e, contrariamente agli Opg, non prevedono una presenza senza fine, con quella tragica pratica che era definita come ergastolo bianco". Nel rapporto si ricorda che sono 235 le misure di esecuzione in attesa di essere eseguite. Il prossimo passaggio della riforma è la realizzazione delle Rems definitive per le quali, segnala il commissario, il quadro è però "ancora incerto e a macchia di leopardo. Quasi tutte le regioni hanno scelto la localizzazione ma poche sono quelle già attive in quanto tali (Barete, Pisticci, Capoterra, Caltagirone, Naso, Nogara). Per molte deve essere ancora attivato il bando, la procedura di appalto e tutti gli altri adempimenti. Si può stimare che tutte le Rems saranno definitive, non prima di due anni". Per Corleone "comunque l’individuazione e la costruzione delle Rems definitive dovrà costituire una occasione per una progettazione architettonica e degli spazi esterni che abbia un carattere di originalità e di bellezza, che rifiuti caratteristiche proprie delle strutture ospedaliere o, peggio, delle istituzioni totali. Nel frattempo andrebbe compiuta una ricognizione per eliminare la presenza di fili spinati e di inferriate inutili che costituiscono una vera oscenità". Intercettazioni, altra proroga. E la sicurezza aspetta dal 2013 di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 23 febbraio 2017 Altra falsa partenza nell’iter di sicurezza delle intercettazioni: nessuno se ne è accorto, ma dall’1 febbraio a ieri si è rischiato lo stop di tutte le indagini delle Procure basate su intercettazioni ascoltate "in remoto" negli uffici territoriali delle varie forze di polizia a ciò autorizzate. Il 31 gennaio 2017, infatti, era scaduta la proroga (nel 2016) del termine (nel 2015) delle prescrizioni impartite (nel 2013) dal Garante della Privacy per la sicurezza sia informatica sia fisica nei locali dove si fanno o ascoltano le intercettazioni: accessi tracciati, protocolli cifrati, biometrica o badge a codici, videosorveglianza. E appena due mesi fa il ministero della Giustizia aveva assicurato che non ci sarebbero state ulteriori proroghe, visto che quasi tutte le Procure si erano (o dichiaravano di essersi) messe in regola. Ma oggi, a sorpresa, in Gazzetta Ufficiale il Garante della Privacy si rassegna a operare sino al 31 dicembre 2017 la "sospensione dei termini" (ex) ultimativi. Perché? Perché del tutto fuori legge si sono ritrovate le articolazioni territoriali di Polizia, Carabinieri e GdF, i cui commissariati e caserme non hanno avuto (evidentemente per ritardi dei ministeri di Interno, Difesa e Economia) alcun adeguamento. In questa situazione c’erano già Procure, come Brescia, pronte a negare alle polizie l’autorizzazione ad ascoltare intercettazioni "in remoto" negli uffici non in regola. E così ecco maturata l’ennesima proroga, dopo che il 20 gennaio una nota del ministero della Giustizia "ha prospettato la complessità derivante dal coinvolgimento di altre Amministrazioni centrali", e nel contempo "la necessità di disciplinare con forme di contratti-standard i rapporti con le società private fornitrici". La prescrizione, il pedofilo e il buonsenso di Gramellini di Piero Sansonetti Il Dubbio, 23 febbraio 2017 L’idea che se il reato è grave si possano abbassare le "garanzie" per l’imputato è esattamente la negazione di ogni possibilità che esista la giustizia. Ho sempre pensato che Massimo Gramellini - giornalista per anni della Stampa e ora del Corriere della Sera - sia una persona di buon senso e spesso un commentatore acuto. Lo penso ancora. Solo che negli ultimi tempi, su alcuni temi, il buonsenso, nel giornalismo italiano, si è molto spostato. Assomiglia sempre di più a una specie di istinto reazionario. Ieri Gramellini ha espresso sulla prima pagina del più importante ed equilibrato giornale italiano, la sua opinione sul caso dell’imputato per un reato di pedofilia che ha visto il suo processo dimenticato per vent’anni e poi caduto in prescrizione. Gramellini si è indignato. Giusto. E poi, sempre con toni indignati, ha proclamato che per reati gravi come la pedofilia la prescrizione non dovrebbe esistere. Immagino facilmente che quasi tutti i lettori dell’articolo di Gramellini, che sono moltissimi, abbiano approvato con entusiasmo questa sua proposta. La quale, però, io credo sia insensata. Per due ragioni. La prima è che se il processo al presunto (ripeto: pre-sun-to) pedofilo è durato vent’anni, la colpa non è della legge sulla prescrizione ma della magistratura di Alessandria e di Torino che hanno dimenticato chissà dove quel caso di stupro. La seconda è che la durata della prescrizione è già proporzionale alla gravità del reato e non può che essere così. È il codice penale a stabilire quale può essere la pena massima per ogni reato e la prescrizione coincide con quella pena (nella proposta di riforma Orlando aumentata di un quarto). È chiaro che non si può creare un codice penale parallelo che stabilisce di volta in volta che per alcuni reati però la prescrizione non esiste. Il concetto che la Giustizia è uguale per tutti significa esattamente questo: che la giustizia è una sola, uno solo è il codice, una sola la procedura. Se esiste una giustizia parallela, dettata magari dalle emozioni di massa e dalle pulsioni del momento, o da una emergenza, o da un interesse particolare, quella non è più giustizia, è semplicemente politica, nel migliore dei casi, oppure è demagogia (usando questo termine non in senso spregiativo, ma solo per indicare una tendenza intellettuale di sottomissione al senso comune). La giustizia, per esistere, deve essere autonoma dalla politica e dalla demagogia. Dentro l’idea di "doppia" giustizia c’è anche il concetto di "doppio garantismo". E cioè la convinzione che il garantismo vada graduato a seconda della gravità del reato. Se il reato è molto leggero il garantismo può anche essere molto largo. Ma tanto più il reato è grave, tanto più il garantismo va ridotto o addirittura eliminato del tutto. Ecco, questa idea non è una degenerazione dell’idea di Diritto ma ne è la totale negazione. Il grado del garantismo deve essere casomai sempre più grande quanto più è grande il reato, non viceversa. Un errore giudiziario su un piccolo reato è grave ma forse è sopportabile. Non è sopportabile l’errore giudiziario in caso di omicidio o, appunto, di stupro di una bambina. È così difficile capirlo? E invece la norma, anche nel giornalismo, è la tesi secondo la quale quando le accuse sono odiose è inutile interrogarsi tanto sulla colpevolezza dell’imputato. Sempre Gramellini scriveva: "Le prove del reato sono scolpite nel suo corpo". Ma il problema è che non servono le prove del reato, servono le prove che inchiodano il colpevole. Mi riesce persino difficile spiegarlo questo concetto, che pure è così banale. Ma che non riesce a diventare spirito pubblico. È come quando, dopo una sentenza di assoluzione, si fanno sui giornali quei titoli, frequentissimi: "strage tal dei tali, nessun colpevole". Per indicare la follia di una sentenza che nega la strage. No: la sentenza non nega la strage, nega che i colpevoli siano quelli indicati dal Pm. È una cosa completamente diversa. Il fatto che Pietro Valpreda (magari qualcuno, un po’ vecchio come me, se lo ricorda...) non avesse messo la bomba a piazza Fontana (e nemmeno Pino Rauti) non vuol dire che la bomba non è esplosa, ma che Valpreda (e Rauti) non erano i colpevoli. Detto, a fatica, tutto questo (e senza la speranza di essere capito dai giornalisti italiani, i quali, infatti, ieri, parlavano tutti dello stupratore prescritto, senza neanche prendere in considerazione l’ipotesi di usare quella parolina che ci hanno insegnato a scuola: "presunto") diciamo pure che la prescrizione non è una invenzione di avvocati praticoni, ma è un principio di giustizia che serve, tra le altre cose, a garantire anche l’attendibilità delle sentenze. Chiedete a un criminologo qualunque se esiste qualche attendibilità in un processo che si svolge a 20 di distanza dai fatti, quando le prove sono distrutte, i ricordi vaghi e magari distorti, i testimoni scomparsi o privi di memoria nitida. Abolire la prescrizione non solo è contro la Costituzione repubblicana che prevede la ragionevole durata del processo, ma contro la giustizia, che diventa un terno al lotto. Di questo è assolutamente consapevole anche la parte più moderna e saggia della magistratura. Divise contro toghe di Annalisa Chirico Panorama, 23 febbraio 2017 Mai un sindacato di Polizia aveva usato toni così violenti contro il rappresentante dei magistrati. "Davigo ci colpevolizza, ma gli agenti che sbagliano pagano, i suoi colleghi no". Ho ascoltato Piercamillo Davigo e sono rimasto esterrefatto. Posso dirlo? Sono parole folli". Il segretario del Sindacato autonomo di Polizia Gianni Tonelli è estraneo all’understatement. Non ha gradito, in particolare, le recenti dichiarazioni del presidente dell’Associazione nazionale magistrati: "Il giudice non è presente quando viene commesso il reato, sa le cose che gli raccontano", se vengono commessi errori nel corso delle indagini, se il testimone è minacciato o sottoposto a tortura da parte delle forze di polizia, il magistrato non può saperlo, perciò è tratto in inganno. "Noi non possiamo neppure respirare senza l’autorizzazione del pm" commenta Tonelli. "Con il nuovo codice di Procedura penale, il dominus delle indagini preliminari è il magistrato, noi siamo completamente vincolati dalle deleghe. La nostra unica facoltà è la raccolta delle sommarie dichiarazioni nell’immediatezza del fatto, raccogliamo gli eventuali corpi del reato per evitare che vadano perduti. Se l’indagato o il testimone mente, spetta al magistrato di valutare e cercare un riscontro fattuale. Quando rivolgiamo domande negli interrogatori, leggiamo un foglio vergato dal pm. Se qualcuno sbaglia la colpa non è certo nostra". Il vecchio sistema inquisitorio in vigore fino al 1989? "Era migliore, invece si è voluto scimmiottare un sistema "di common law che non appartiene alla nostra tradizione e al nostro ordinamento". In alcuni casi si evidenziano però errori macroscopici dovuti alla negligenza degli inquirenti, con prove scientifiche contaminate. E le forze di polizia sono le prime a raggiungere la scena del delitto. "Capita pure a noi di sbagliare. Nel caso di un comportamento scorretto paghiamo, lo assicuro, mentre gli accusatori di Enzo Tortora, per dirne uno, sono avanzati in carriera. La messa in orbita della polizia scientifica impone modifiche normative. Il problema però è più profondo. Oggi non si svolgono più indagini tradizionali alla Maigret. I magistrati procedono su due binari: intercettazioni a strascico e carcerazione preventiva. Si arresta per far parlare: Tangentopoli, la vicenda di Gabriele Cagliari e di molti altri, non hanno insegnato granché". Un’accusa pesante. "Guardiamo la realtà: noi obbediamo pedissequamente alle direttive del magistrato, è lui che guida le indagini, i poliziotti eseguono. Con i tempi lenti della giustizia e l’amplificazione mediatica, l’inchiesta è l’unico momento d’interesse pubblico, del processo non importa a nessuno, solo agli imputati che restano sulla graticola per anni. Quando l’ho detto in tv, ho ricevuto querele e avvisi di garanzia. La verità è messa al bando da un giacobinismo esasperato". Negli ultimi dieci anni lo Stato ha pagato 650 milioni in risarcimenti per ingiusta detenzione più altri 43 per errori giudiziari. Nello stesso periodo gli stipendi delle toghe sono cresciuti, in media, del 28 per cento. "I nostri sono bloccati dal 2010, e rischiamo la vita ogni giorno. Un poliziotto su strada guadagna 1.260 euro al mese con l’attesa di arrivare, al massimo, a 1.400. Gli ultimi governi si sono caricati della grave responsabilità di tenere migliaia di famiglie sulla soglia di povertà". Gianni Tonelli, segretario del Sindacato autonomo di Polizia (Sap). Tra prescrizione e recidiva nessun incrocio pericoloso di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 23 febbraio 2017 Recidiva e prescrizione sono due istituti autonomi. E la Cassazione ne trae le conseguenze, chiarendo che, con la bussola dell’applicazione della norma più favorevole all’imputato, può essere applicata la ex Cirielli quanto alla recidiva e la vecchia norma del Codice penale quanto alla seconda. Sulla base di questa linea interpretativa la Cassazione, sentenza n. 6369 del 2017, ha riconosciuto il maturare della prescrizione, riformando parzialmente il giudizio della Corte d’appello nell’ambito di un procedimento per reati colposi. La sentenza mette in evidenza innanzitutto come la legge ex Cirielli, la n 251 del 2005, abbia eliminato la possibilità di contestare la recidiva per i reati colposi, rendendo possibile, quanto alla determinazione della prescrizione, l’applicazione del vecchio articolo 157 del Codice penale in quanto norma più favorevole. Per la Cassazione, a favore di questa conclusione, che sottolinea la distinzione tra recidiva e prescrizione, milita una sere di elementi. In primo luogo, i lavori parlamentari: la versione originale della legge 251 non riguardava l’istituto della prescrizione, ma le attenuanti generiche, la recidiva il giudizio di comparazione, avvalorando in questo senso la tesi secondo cui, anche se le discipline dei due istituti sono state poi inserite nella stessa legge, tuttavia la loro disciplina è autonoma e non ci sono interferenze applicative. La legge poi introdusse una riforma caratterizzata da due opposti obiettivi: a un generale inasprimento del sistema penale, con particolare riferimento ai recidivi, ai quali vengono applicati aumenti di pena più robusti e limitazioni all’accesso a vari benefici penitenziari (iniziale obiettivo dei proponenti), si accompagna un’ispirazione "garantista", indirizzata in generale alla riduzione dei termini di prescrizione. La Corte d’appello, nella ricostruzione fatta dalla Cassazione, aveva però seguito solo parzialmente questa linea. Se infatti da una parte aveva valutato, quanto alla prescrizione, più favorevole la norma del vecchio Codice penale, dall’altra aveva escluso di dichiarare l’avvenuto decorso dei termini valorizzando invece la constatazione della recidiva. In questo modo però aveva ignorato che, per effetto di una norma successiva più favorevole (l’esclusione della recidiva per i reati colposi), si sarebbe dovuta dichiarare la prescrizione sulla base dell’ordinaria disciplina sulle successione di norme penali nel tempo applicando cioè il favor rei. Per la Cassazione, invece, "le nuove disposizioni in materia di recidiva, previste dall’articolo 4 della legge, erano immediatamente applicabili all’entrata in vigore della legge e, se considerate più favorevoli, ai sensi del richiamato articolo 2 del Codice penale, trovavano applicazione anche per fatti anteriori all’entrata in vigore della stessa legge, a prescindere dalle eventuale interazione, all’interno della legge ex Cirielli, tra gli istituti della recidiva e della prescrizione". Non si profila, oltretutto, conclude la Cassazione, una violazione del principio di legalità, elemento messo invece in evidenza dalla Corte d’appello, perché la norma immediatamente applicabile all’istituto della recidiva è rappresentata dall’articolo 4 della legge n. 251 del 2005. Solo in un secondo momento, eliminata, perché illegale, la recidiva, quanto all’impatto sulla prescrizione, va individuata la disposizione più favorevole, mettendo a confronto l’articolo 157 del Codice penale, nella precedente formulazione, e l’articolo 6 della ex Cirielli. La diffamazione scatta anche se le notizie sono diffuse su siti apparentemente riservati di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 23 febbraio 2017 Corte di cassazione, Quinta sezione penale, sentenza 22 febbraio 2017, n. 8482. Diffamazione aggravata per la professoressa universitaria che accusa la collega di plagio via internet. Per la Cassazione la possibilità per i social network di raggiungere una platea indeterminata di persone non viene meno neppure se, come nel caso esaminato, i siti usati dalla ricorrente erano destinati a docenti e studenti universitari e dunque secondo la tesi della difesa "chiusi". La Cassazione, sentenza 8482 della Quinta sezione penale, depositata ieri, ha così respinto il ricorso presentato dalla difesa di una studentessa che accusava una ricercatrice che l’aveva assistita nell’elaborazione della tesi, di avere poi copiato i risultati del suo lavoro utilizzandoli per uno scopo personale. La studentessa, assolta in primo grado, era poi stata condannata in appello. Nell’impugnazione si metteva in evidenza come la stessa Cassazione ha più volte affermato che alla rete Internet non si applicano le disposizioni sulla diffamazione a mezzo stampa perché un social network non può essere equiparato a un prodotto tipografico e neppure a un luogo pubblico. Una tesi che non ha convinto la Cassazione che sottolinea invece come l’uso dei social network e, quindi, la diffusione di messaggi attraverso internet, è assolutamente in grado di concretizzare un caso di diffamazione aggravata. Si tratta infatti di una condotta potenzialmente in grado di raggiungere un numero indeterminato di persone o, almeno, assai elevato. La difesa, contesta la Cassazione, confonde la diffamazione aggravata perché provocata attraverso la stampa con l’offesa procurata con altro mezzo di pubblicità. Entrambe le fattispecie sono disciplinate dalla medesima disposizione (articolo 595 comma 3 del Codice penale) ma l’utilizzo della stampa non è esclusivo: la formulazione letterale della norma invece rende evidente come la categoria dei mezzi di pubblicità è più ampia del concetto di stampa, comprendendo tutti questi sistemi di comunicazione e quindi di diffusione, dai fax ai social media, che, grazie all’evoluzione tecnologica, rendono possibile la trasmissione di dati e notizie a un numero elevato di persone. Non mitiga la gravità della condotta il fatto che la diffusione è avvenuta attraverso siti destinati a operatori universitari e, quindi, in un certo senso specialistici. Si tratta infatti di un ambito che non può assolutamente essere ritenuto circoscritto. Inoltre molti dei siti utilizzati erano in realtà consultabili da una platea molto larga di soggetti (è il caso dei blog delle testate "La Repubblica" e "L’Espresso"). Phishing, la Banca risarcisce se non prova la sicurezza del sistema informatico di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 23 febbraio 2017 Corte di cassazione - Sezione I civile - Sentenza 3 febbraio 2017 n. 2950. In caso di truffa telematica - cosiddetto Phishing - ai danni di un correntista, spetta alla banca dimostrare di aver fatto tutto il possibile, secondo il criterio della diligenza professionale, per scongiurare la frode utilizzando un sistema informatico adeguato ai rischi. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza 3 febbraio 2017 n. 2950, accogliendo il ricorso di un correntista di Bancoposta. Il cliente aveva lamentato l’addebito di alcuni bonifici eseguiti via internet in modo fraudolento da terzi che erano riusciti ad ottenere i suoi codici di accesso. Sia in primo che in secondo grado però i giudici di Trento avevano rigettato la domanda perché "le misure di sicurezza on line, caratterizzate dall’utilizzo di un sistema di crittografia dei dati di riconoscimento del cliente, erano tali da escludere che l’accesso alle funzioni fosse consentito a chi non era conoscenza delle chiavi di accesso". Dunque, proseguiva il giudice di merito, "le operazioni erano state rese possibili dalla mancata custodia o comunque da un incauto comportamento del correntista". Per tacere del fatto, proseguiva, che non vi era neppure la prova certa dell’estraneità del correntista. Contro questa decisione il cliente ha proposto ricorso lamentando un violazione delle regole di ripartizione dell’onere probatorio. E la Cassazione gli ha dato ragione affermando che è onere dell’istituto di credito dimostrare di avere adottato le misure idonee a garantire la sicurezza del servizio, alla luce del fatto che "la diligenza posta a carico del professionista ha natura indiscutibilmente tecnica e, quindi, deve essere valutata tenendo conto dei rischi tipici della sfera professionale di riferimento dell’accorto banchiere. In particolare, con riguardo all’utilizzazione di servizi di pagamento, che si avvalgono di mezzi elettronici, si è ritenuto che "non può essere omessa ... la verifica dell’adozione da parte dell’istituto bancario delle misure idonee a garantire la sicurezza del servizio (n. 806/2016)". Invece, sbagliando, la decisione di secondo grado, almeno in un caso, ha attribuito rilievo "all’assenza di prova certa dell’estraneità del ricorrente, laddove era piuttosto necessario accertare in positivo la riconducibilità dell’operazione a quest’ultimo". Inoltre, la possibilità di sottrazione dei codici, attraverso tecniche fraudolente, "rientra nell’area del rischio di impresa" che come tale deve essere fronteggiato "attraverso l’adozione di misure che consentano di verificare, prima di dare corso all’operazione, se essa sia effettivamente attribuibile al cliente". Per cui, ai fini del rigetto della domanda risarcitoria, "non era sufficiente dare rilievo al - peraltro presuntivamente affermato - incauto comportamento del cliente, che avrebbe consentito la sottrazione dei codici". Infatti, conclude la Corte, "anche al fine di garantire la fiducia degli utenti nella sicurezza del sistema (cioè che rappresenta interesse degli stessi operatori), appare del tutto ragionevole ricondurre nell’area del rischio professionale del prestatore di servizi di pagamento, prevedibile ed evitabile con appropriate misure destinate a verificare la riconducibilità delle operazioni alla volontà del cliente, la possibilità di una utilizzazione dei codici da parte di terzi, non attribuibile al dolo del titolare o a comportamenti talmente incauti da non poter essere fronteggiati in anticipo". Così la Cassazione ha cassato la sentenza impugnata e rinviato la questione al giudice di secondo grado. Sul danno morale per la vittima del "branco" decide il giudice di merito di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 23 febbraio 2017 Quantificare il danno morale per l’ angoscia e la sofferenza psicologica provocata da una violenta aggressione fisica, spetta al giudice di merito e la sua quantificazione non può essere messa in discussione in Cassazione. La Suprema corte (ordinanza 4535) rigetta il ricorso di un ragazzo vittima di un pestaggio da parte del branco. Secondo il giovane, il Tribunale prima e la Corte d’Appello poi, non avevano tenuto nella debita considerazione le conseguenze dell’agguato a livello di patema d’animo e sofferenza morale, sottostimando il danno non patrimoniale. Per la Cassazione, che non entra nella quantificazione, i giudici di merito hanno correttamente liquidato il danno individuando un importo base, poi maggiorato in funzione della sofferenza fisica e psichica sofferta dalla vittima a causa della brutalità e della ferocia dell’aggressione e, infine del "dolore e della sofferenza soggettiva". La liquidazione del danno patrimoniale alla salute si liquida, infatti, in due fasi: c’è un parametro standard uguale per tutti e un secondo "passaggio" nel quale la misura "fissa" viene adeguata al caso concreto, sia dal punto di vista qualitativo (liquidazione in forma di rendita o di capitale) o quantitativa, aumentando o riducendo la somma rispetto al valore standard. Per la Suprema corte poi i giudici sia di prima che di seconda istanza, hanno tenuto conto delle modalità del fatto, come dimostra il richiamo alla "brutalità e alla ferocia dell’aggressione". I giudici di merito avevano sottolineato che il pregiudizio non patrimoniale causato da una lesione alla salute può manifestarsi in molti modi: nella forzosa rinuncia alle attività quotidiane, come nel dolore fisico o nella sofferenza morale. Per la Corte di merito sono tuttavia forme che hanno un’identica natura. L’omogeneità del danno non patrimoniale, tuttavia, non vuol dire che una volta trasformato in denaro il grado di invalidità permanente con il sistema cosiddetto "a punto" la vittima abbia ottenuto tutto ciò che le spetta. Il valore monetario del punto di invalidità è solo una misura standard che lascia al giudice di merito il compito di valutare una variazione in base al caso concreto. Non è però possibile, aveva sottolineato la Corte d’Appello, chiamare pregiudizi identici con nomi diversi per ottenere una contemporanea risarcibilità. La misura del risarcimento non è comunque, ribadisce la Cassazione, una questione prospettabile in sede di legittimità. Presunta interruzione di pubblico servizio: sono stato assolto per non aver commesso il fatto di Saverio Schinzari Ristretti Orizzonti, 23 febbraio 2017 Riguardando il vostro sito, e l’apprezzabile rivista Ristretti, notavo un pezzo riportante quanto riferiva "La Repubblica" del gennaio 2011, circa la mia sospensione da medico per due mesi dall’esercizio dell’attività presso la Casa circondariale di Lecce. Premesso che sono stato assolto pienamente per non aver commesso il fatto (presunta interruzione di pubblico servizio) e che ancora opero presso la stessa Casa Circondariale di Lecce, preciso che tale comportamento era dettato in ordine al rispetto di due principi: la trasparenza amministrativa, la tutela fisica personale, come immediatamente rilevò al momento dell’interrogatorio il Gip Giovanni Gallo. Non credo che si possano effettuare visite mediche di routine, in pratica quotidiane, scansionate in giorni diversi secondo le sezioni, senza l’ausilio dell’infermiere ed in assenza di agente di polizia penitenziaria che controlli a breve distanza l’andamento delle stesse. Questo nell’interesse di tutti. Cosa accade invece ? Che si mettono sotto i piedi le più elementari norme di tutela sul lavoro, pretendendo che si facciano ugualmente le visite mediche, come se tutto andasse per il verso giusto. Questo comportamento è stato determinato dalla carenza di agenti sin da allora, e purtroppo prosegue con ritmo più accelerato tale tendenza, per la mancata sostituzione di tutti coloro, gli agenti, che vanno in pensione. Anzi aggiungo che è in atto un fuggi fuggi generale di personale per l’agognate pensione. Ovviamente tutto questo ha influito molto negativamente sulla mia salute e sulla mia attività professionale, (consigliere comunale, dentista, pubblicista, medico di famiglia e quant’altro). Siamo oggi transitati alle Asl. Ma debbo dire che la situazione sanitaria non è migliorata affatto, un po’ per l’incompetenza dei dirigenti sanitari a digiuno di "amministrazione sanitaria" nelle carceri, un po’ per un dualismo con le amministrazioni penitenziarie e per risorse economiche deficitarie, tali che fa dire a molti di noi che si stava meglio quando si riteneva di stare peggio. La riforma sanitaria voluta dalla Bindi, a mio modesto avviso è tutta da ripensare o da rifare ritornando parzialmente al vecchio sistema ministeriale. Il discorso è lungo ma mi fermo, pregandovi di pubblicare la mia assoluzione totale circa l’interruzione di pubblico esercizio ad inizio menzionato. Ringrazio. Chiusi manicomi e Opg, il problema è curare la psicoterapia di Peppe Dell’Acqua conmagazine.it, 23 febbraio 2017 Il fatto che oggi nel nostro Paese le persone che vivono la situazione drammatica del disagio mentale possano farlo in una dimensione di prospettiva possibile ha origini nel periodo di Franco Basaglia. I luoghi del disagio mentale di cui parlava Franco erano luoghi senza fine, dove non c’era il tempo. E se si prova a pensare, anche solo per un attimo, a una vita dove il tempo non c’è, si capisce bene la drammaticità non solo dei luoghi ma più in generale della malattia mentale. Se oggi, invece, molti giovani possono pensare a un futuro, se possono pensare di farcela, è proprio grazie a quel periodo del quale voglio ricordare tre storie, tre concetti chiave. A metà novembre del 1961, Basaglia entra giovanissimo nell’ospedale psichiatrico di Gorizia come direttore. Il secondo giorno incontra i medici, molto diffidenti e preoccupati per il nuovo arrivato, e parla con il capo ispettore Pecorari. Come di consueto, Pecorari gli mostra il registro delle contenzioni, che il direttore dovrebbe firmare per validare ciò che è stato fatto. Dieci persone erano state "contenute" quel giorno. L’ispettore porge il libro a Basaglia insieme a una penna estratta dal taschino, ma Basaglia lo prende, lo guarda e lo riguarda, finché lo chiude, restituisce la penna e dice: "E mi non firmo, eh". In questa storia c’è il primo concetto che voglio sottolineare, ovvero la necessità di prendere posizione, di fare una scelta. La seconda storia l’ho scoperta dopo, ma continua a emozionarmi tutte le volte che la ricordo. È la storia di Pirkko Peltonen, una giovane giornalista finlandese che si trova a Gorizia nello stesso periodo di Franco Basaglia e decide di realizzare un documentario all’interno dell’ospedale. L’assemblea generale discuterà se accordarle il permesso di riprendere o meno e con ventisette voti favorevoli e dodici contrari deciderà di sì. È un momento straordinario, dal quale nasce un’altra scommessa oltre a quella di prendere posizione: riconoscere che non solo esiste l’altro, come nella dimensione fenomenologica, culturale, ma esiste l’altro come soggetto, come cittadino, come persona. Queste tre dimensioni oggi devono risuonare continuamente, perché sono le più bistrattate quando si parla di salute mentale e delle cose terribili che continuano ad accadere nel nostro Paese. Fatti che abbiamo la fortuna di poter vedere, così come Basaglia, entrando a Gorizia, aveva la fortuna e la possibilità di vedere ciò che non vedevano gli altri, perché aveva studiato. Davanti a sé, Basaglia vedeva l’assenza, in una "città" dove c’erano più di cinquecento persone. "Cosa faccio? - si chiedeva. Bene, intanto non parlo più di malattia". Questo non vuol dire, come molti pensano, che per Basaglia non c’era la malattia. Per lui la malattia c’era, solo che capisce che non può coprire e totalizzare l’esistenza, la storia, la narrazione che le persone hanno. Nel momento in cui accade tutto questo, diventa impossibile resistere in quel luogo se non muovendosi, agendo ed entrando nella pratica. L’inferno d’altronde è davanti a noi e possiamo sopportarlo, perché se ci conformiamo ad esso non lo vediamo più. Oppure, possiamo scegliere una seconda strada: vedere ogni giorno l’inferno. Basaglia sceglie quest’ultima via introducendo un altro concetto che è quello della "porta aperta". La porta aperta è un’azione scientifica, etica, assolutamente straordinaria. Aprire una porta significa riconoscere finalmente l’altro nella sua realtà, non nella verità della psichiatria. In questo si intravede il "cittadino" e comincia la dimensione politica del lavoro di Basaglia ovvero la lotta per la Legge 180, lotta che continua ancora oggi. Non è più possibile vedere le persone legate, spogliate, rapate, le persone che si sbrodolano, nude. E qui comincia l’altra dimensione, che è quella dell’etica, sconosciuta alla psichiatria fino a quel momento, dunque la dignità delle persone, la persona stessa. La dimensione etica di questo lavoro è l’unica possibilità che abbiamo per affrontare quotidianamente l’inferno che ancora oggi accade. Un’ultima dimensione veramente formidabile è quella dell’individuo, del soggetto, della singolarità. Una volta che abbiamo dato i nomi alle persone, queste non si possono più fermare: hanno un nome e una storia, una narrazione. Ciò porta alla dimensione terapeutica e a quella discussione sul "chiusi i manicomi, adesso il problema è un altro". Il problema, infatti, è curare la psicoterapia. La dimensione soggettiva, quindi, racchiude tre parole: la dimensione politica ovvero i cittadini; la dimensione etica ovvero le persone; la dimensione terapeutica ovvero i soggetti. Queste sono state riprese integralmente dalla carta di Helsinki e da altre carte che affermano: "È su questo che noi possiamo muovere, e possiamo andare avanti. È su questo che comincia il futuro." A Trieste, Basaglia accelera e io sono tra i fortunati reclutati in giro per l’Italia, tra quelli che accettano pur senza sapere nulla e quando si trovano in reparto, riluttanti, esterrefatti, preoccupati, trovano la rassicurazione di Franco: "Non vi preoccupate, non potete fare più danni di quelli che sono stati già fatti." Come avviene questa velocizzazione? Nel 1971 arriva Basaglia e nel ‘72 nasce la prima cooperativa. Questo significa cominciare finalmente a rispondere in maniera reale a quelli che sono i bisogni, cioè lavorare; è il momento in cui sessanta internati firmano il contratto di lavoro. Ho avuto la fortuna di assistere a questo momento, che è stato una "guarigione" collettiva: sessanta persone sono guarite in un solo giorno, firmando un contratto di lavoro. Nel ‘73, si afferma un’altra dimensione formidabile, che è quella dei bisogni radicali, la libertà e l’amore: innamorarsi, viaggiare, andare, volare, pensare altro. (Tratto dall’intervento tenuto il 22 ottobre 2016 a Venezia all’incontro "Un futuro mai visto - Franco Basaglia, L’utopia della realtà") Sicilia: allarme carceri, 6.150 detenuti su 6.250 posti di Serena Giovanna Grasso Quotidiano di Sicilia, 23 febbraio 2017 La mappa dei penitenziari che scoppiano. Nell’istituto di Piazza Lanza ogni recluso dispone di uno spazio di 4,2 mq. Torna il rischio di affollamento nelle carceri. Secondo i dati del ministero della Giustizia, al 31 gennaio 2017 erano 55.381 i detenuti presenti nelle strutture italiane (oltre cinquemila unità in più rispetto alla capienza regolamentare, pari a 50.174). Nel dettaglio, le regioni maggiormente sofferenti sono la Lombardia (con una capienza stimata in 6.113 unità ed una presenza ammontante a 7.865 detenuti), Lazio (capienza di 5.235 e presenza pari a 6.211 detenuti) e Campania (capienza 6.114 e 7.066 presenze). Al contrario, la situazione siciliana è abbastanza regolare nel complesso: infatti, i detenuti ammontano a 6.150, esattamente cento unità in meno rispetto alle presenze che gli istituti penitenziari possono sopportare (6.250). Le apparenze però ingannano: infatti, stringendo l’obiettivo fotografico sui singoli istituti penitenziari la situazione si ribalta. In ben dodici carceri su ventitré è possibile osservare presenze superiori alla capacità regolamentare. Le maggiori criticità si rilevano nel carcere Piazza Lanza di Catania e nell’istituto penitenziario di Siracusa (rispettivamente 127 e 102 detenuti in più rispetto alla capienza regolamentare). In particolare, secondo i dati forniti dall’osservatorio detenzione dell’associazione Antigone, le novantadue celle del carcere Piazza Lanza di Catania dovrebbero misurare complessivamente 1.644 metri quadrati, superficie che divisa per i 267 detenuti previsti dal ministero della Giustizia restituisce uno spazio pari a 6,1 metri quadrati per carcerato. Naturalmente la superficie si riduce notevolmente nel momento in cui si verifica un’eccedenza pari a 127 detenuti: infatti, attualmente ogni carcerato beneficia di 4,2 metri quadrati di spazio. Nella fattispecie, ci troviamo poco sopra rispetto allo standard minimo previsto dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa che ha stabilito che ogni detenuto ha diritto a quattro metri quadrati. Dunque, la situazione rischia di precipitare da un momento all’altro, al mimino ulteriore incremento della popolazione carceraria. A livello regionale si registra un notevole incremento del numero di detenuti: rispetto ai 5.627 del 31 dicembre 2015 si è saliti ai 6.032 del 31 dicembre 2016, fino ai 6.150 del 31 gennaio 2017. Torniamo dunque ad avvicinarci al picco delle 7.098 presenze rilevate nel 2012. Ma perché il numero di detenuti ha ripreso a crescere? Ad incidere pesantemente sull’aumento della popolazione detenuta è il venir meno della liberazione anticipata speciale. Si trattava di una misura temporanea, introdotta per due anni dal decreto legge 146 del 2013 e scaduta il 31 dicembre 2015, che aveva aumentato lo sconto di pena concesso ai detenuti che partecipano all’opera di rieducazione: non più 45 giorni per ogni sei mesi di pena detentiva scontata, ma 75 giorni. Naturalmente la fine del periodo di applicazione ha avuto la conseguenza di rallentare le uscite e di conseguenza aumentare le permanenze in carcere. D’altro canto, occorre considerare che il limitato uso delle misure alternative e della messa alla prova contribuisce a saturare le presenze nelle carceri. In particolare, in Sicilia delle 5.784 richieste di messa alla prova ne sono state accolte solo 2.097 (poco più di un terzo). Specifichiamo che si tratta di uno strumento riservato a chi ha commesso reati minori, consistente nella sospensione del processo ed evita all’imputato o indagato che ne fa richiesta di saltare il processo e cancellare il reato a patto che questi svolga una serie di attività che comprendono lavori di pubblica utilità, condotte riparative per eliminare le conseguenze del reato e risarcimento del danno. Paesi maggiormente lungimiranti come l’Olanda, al contrario preferiscono adottare pene alternative e programmi di riabilitazione molto meno costosi, con il risultato di svuotare le carceri. Infatti, proprio nei Paesi Bassi diciannove dei sessanta penitenziari sono vuoti: alcuni adibiti all’accoglienza dei richiedenti asilo, altri affittati ai Paesi vicini gravati da carceri sovraffollate come Belgio e Norvegia. Senza poi contare il fatto che in Olanda gli istituti penitenziari sono dotati di spazi di socializzazione e durante la giornata è possibile prendere parte a molteplici corsi. Al contrario, secondo quanto rilevato dall’associazione Antigone, in Italia ed in particolare in Sicilia i detenuti passano la gran parte della giornata in cella, privi di qualsiasi stimolo culturale. Napoli: si impicca in cella a Poggioreale. "Tormentato dai detenuti", aperta un’inchiesta di Alberto Dortucci Metropolis, 23 febbraio 2017 La scorsa settimana aveva incontrato i suoi familiari per il tradizionale colloquio. Scuro in volto, avrebbe raccontato le difficoltà del regime carcerario legate - in particolare - a compagni di cella non propriamente "socievoli". Non a caso, Vincenzo Panariello - 38 anni, detenuto da ottobre del 2016 - aveva chiesto e ottenuto il trasferimento in un differente padiglione della casa circondariale di Poggioreale. Un trasferimento arrivato tardi, quando qualcosa si era già spezzato nella testa del trentottenne: l’uomo è stato, infatti, ritrovato morto all’interno del bagno della sua cella. Impiccato con un lenzuolo. A dare l’allarme sono stati due detenuti, ma - all’arrivo degli agenti della polizia penitenziaria - il trentottenne era già senza vita. Il cadavere dell’uomo - sposato e padre di tre figli - è stato trasferito all’obitorio del secondo policlinico di Napoli, dove sarà effettuata l’autopsia per fare piena luce sull’ennesima tragedia tra le quattro mura del carcere di Poggioreale. La notizia della morte di Vincenzo Panariello è stata comunicata ai familiari intorno alle 12: i parenti del trentottenne si sono fiondati a Napoli per provare a capire cosa potesse avere convinto il trentottenne di via Libertà Italiana - arrestato nell’ambito dell’inchiesta capace di smantellare la holding dello spaccio guidata da Maurizio Garofalo - al gesto estremo. La vittima era finita dietro le sbarre a ottobre del 2016 e a gennaio del 2017 era stata rinviata a giudizio con l’accusa di detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti per conto del "colonnello" di vico Abolitomonte. Una nuova mazzata per Vincenzo Panariello, già alle prese con le difficili relazioni con i compagni di cella. Di qui, la rabbia dei familiari: "Non si sarebbe mai tolto la vita, evidentemente era stato tormentato. Vogliamo venga fatta chiarezza sulla sua morte". Il sospetto è che l’uomo possa essere stato in qualche modo "istigato" al suicidio da eventuali maltrattamenti dei compagni di cella. Un sospetto che potrebbe essere confermato o meno dall’autopsia disposta dal pubblico ministero di turno per fare piena luce sull’ennesima tragedia registrata in una casa circondariale che oggi ospita circa duemila detenuti. Taranto: vent’anni di carcere da innocente, assolto dopo la riapertura del caso Quotidiano di Puglia, 23 febbraio 2017 Condannato per un omicidio che non ha commesso. Vent’anni di carcere, vent’anni di vita trascorsi dietro le sbarre a gridare la propria innocenza. Angelo Massaro, 51 anni, di Fragagnano, ha finalmente vinto la sua battaglia: la Corte d’Appello di Catanzaro, chiamata a pronunciarsi sul caso dopo il via libera alla revisione del processo, lo ha assolto per non aver commesso il fatto, restituendogli la libertà. Massaro, in lacrime, ha abbracciato il suo avvocato, Salvatore Maggio. Era stato accusato di aver ucciso un uomo a San Giorgio, nel 1995. Una perizia e una serie di accertamenti lo hanno scagionato. Vent’anni dopo la condanna emessa dalla Corte d’assise di Taranto, il cinquantunenne Angelo Massaro è stato assolto dall’accusa di aver ucciso, il 10 ottobre 1995, Lorenzo Fersurella. "Per uno sgarro nell’ambito delle questioni di droga", fu la motivazione che sopravvisse alla causa di secondo grado con conferma in Cassazione. Per rendere giustizia all’imputato originario di Fragagnano, che ha passato tutti questi anni in carcere, è stata però necessaria un’altra pronuncia della Corte di Cassazione che nel 2015, accogliendo i rilievi mossi dall’avvocato Salvatore Maggio, prese una decisione non consueta: disse "sì" alla revisione del processo. Il placet era giunto agli inizi del maggio di quell’anno, dopo che l’avvocato Maggio aveva avviato la richiesta di revisione del processo, basata sull’esito di indagini difensive con le quali aveva puntato a scagionare l’imputato che era dietro alle sbarre. Quella richiesta di revisione, per la cronaca, era già stata bocciata dalla Corte d’appello di Potenza che l’aveva bollata come inammissibile. Contro quel verdetto, però, l’avvocato Maggio aveva proposto ricorso in Cassazione. E la decisione finale aveva premiato la sua tenacia. E quella dello stesso Massaro che sin dal primo grado di giudizio, regolato da una sentenza emessa nel novembre 1997, aveva gridato la sua assoluta estraneità all’omicidio. Ferrara: Pd e Si chiedono più fondi per le attività del Garante dei detenuti estense.com, 23 febbraio 2017 Con l’emendamento dei consiglieri Baraldi (Pd) e Fiorentini (Indipendente per Sinistra Italiana) il fondo passerebbe da 500 a 5.000 euro. È stato presentato dai consiglieri Ilaria Baraldi (Pd) e Leonardo Fiorentini (Indipendente per Sinistra Italiana) un emendamento al bilancio di previsione 2017/19 del Comune di Ferrara volto a reperire nuove risorse per le attività del garante dei detenuti. "Si tratta - spiega Fiorentini - di un piccolo emendamento che non va ad incidere sull’attuale compenso del Garante, che pure rimane ormai puramente simbolico rispetto all’impegno del ruolo, ma che si prefigge di aumentare le risorse a disposizione del garante per iniziative non solo di sensibilizzazione ma anche di intervento diretto in attività di educazione, socializzazione e formazione professionale all’interno del carcere di Ferrara. Nell’ultima relazione il garante uscente Marighelli aveva illustrato al consiglio come i pochi fondi a sua disposizione (500 euro, che ora vogliamo portare a 5000) aveva acquistato la vernice per far verniciare ai detenuti alcune pareti del luogo in cui vivono e le marche da bollo per i diplomi dei carcerati che avevano seguito corsi di istruzione durante la detenzione. Mi piacerebbe se riuscissimo a rendere possibile ritinteggiare l’intero carcere entro al fine del mandato, e magari permetterci qualche diploma in più". Per la consigliera Ilaria Baraldi "il ruolo del garante è determinante per la diffusione della cultura della tutela dei diritti delle persone detenute. In essa rientra appieno l’idea che il tempo passato in carcere debba essere un tempo utile al detenuto, nella logica rieducativa e non solo punitiva, attraverso un percorso di cambiamento che renda efficace il suo reinserimento. I dati confermano che più il detenuto è occupato in attività formative e laboratori che lo aiutino ad acquisire nuove competenze, minori sono le probabilità che torni a delinquere perché maggiori saranno gli strumenti che avrà per affrontare il suo rientro nella comunità". Per Baraldi infine "l’attività del garante serve, da un lato, a raccontare fuori quello che accade dentro al carcere, dall’altro a portare in carcere idee, attività, persone, volontari per uno scambio continuo che confermi il carcere come una parte della città". L’emendamento sarà ora oggetto di vaglio tecnico dell’ufficio Ragioneria e del Collegio dei Revisori per poi approdare al voto del Consiglio nella sessione di bilancio che avrà inizio lunedì 27 febbraio. Trento: servono più agenti e nuove misure per il decremento della popolazione carceraria di Franco Panizza ildolomiti.it, 23 febbraio 2017 Nella Casa circondariale di Trento il personale in servizio è costretto ad effettuare molte ore di lavoro straordinario per sopperire alla carenza di organico e pare che la situazione sia destinata a peggiorare. Il mio auspicio è che il Ministro Orlando affronti quanto prima la questione. Ho presentato un’interrogazione urgente al Ministro della Giustizia per portare all’attenzione del Governo la difficile situazione in cui si trova la Casa Circondariale di Trento, con un organico all’osso e in difficoltà per i turni pesanti cui è costretto per garantire la sicurezza della struttura. Ho inoltre chiesto un incontro nei prossimi giorni con il Ministero competente. Quello della carenza di personale è un problema che da tempo affligge la casa circondariale di Trento, di cui si è interessata la Provincia e che abbiamo affrontato anche in Commissione dei Dodici, dove si è discusso sulla possibilità che la stessa Provincia possa essere coinvolta direttamente. Nel decreto Mille Proroghe, è stata autorizzata l’amministrazione penitenziaria ad assumere 887 nuove unità per l’intero sistema carcerario, mediante lo scorrimento dei concorsi banditi. Ma questo non risolve la difficile questione di Trento, su cui, da tempo, mi confronto con le organizzazioni sindacali: quella di Spini di Gardolo è una struttura all’avanguardia per quel che riguarda anche le iniziative di recupero dei detenuti, dalla scuola alla formazione professionale. A tale modernità si contrappone purtroppo una cronica carenza di personale e un sovrannumero di detenuti, 360 che dovrebbero salire a 418, a fronte di una capienza massima prevista di 240 unità. Mentre, per quel che riguarda il personale, operano nella struttura 130 agenti, a fronte dei 214 previsti. È del tutto evidente che siamo davanti a una situazione critica. Il personale in servizio è costretto ad effettuare molte ore di lavoro straordinario per sopperire alla carenza di organico e pare che la situazione sia destinata a peggiorare; infatti, vi è il reale rischio che a breve la Direzione dell’istituto non sia più in grado di garantire riposi e congedi, con tutto quello che ne consegue dal punto di vista della sicurezza, ma anche della possibilità di reggere condizioni così difficili di lavoro. Le sollecitazioni delle organizzazioni sindacali trentine non hanno ancora avuto alcun riscontro in sede nazionale. Già nel 2014 avevo presentato un’altra interrogazione con cui si chiedeva di implementare il personale in servizio di almeno 15 unità. Il mio auspicio è che il Ministro Orlando affronti la questione. Occorre integrare l’organico con la massima urgenza e adottare misure per il decremento della popolazione carceraria. Il rischio, molto concreto, è quello dell’impossibilità di garantire condizioni di lavoro sicure e, per i detenuti, di scontare la pena in uno spazio vitale umano e dignitoso. Venezia: i 20 anni della coop Il Cerchio, complessivamente ha dato lavoro a 1.600 persone di Michele Fullin Il Gazzettino, 23 febbraio 2017 Sembra ieri da quando un gruppo di detenuti si è dedicato alla pulizia degli arenili di Pellestrina. E invece no: sono passati ben 19 anni da quella prima uscita pubblica della cooperativa sociale "Il Cerchio", costituita da un gruppo di volontari (sindacalisti, insegnanti e il padre cappellano dei due istituti penitenziari: Santa Maria Maggiore e la Giudecca) nel settembre 1997 proprio con lo scopo di reinserire i carcerati nel mondo del lavoro. Da quella volta è passata molta acqua sotto i ponti e complessivamente la coop può vantare l’invidiabile primato di aver formato e occupato complessivamente ben 1.641 persone, di cui 688 a rischio emarginazione perché carcerati, tossicodipendenti, disabili fisici e psichici. Si è passati da lavori manuali relativamente semplici ad attività complesse come l’ideazione e il confezionamento di capi d’abbigliamento con tanto di sfilate di moda per la presentazione della collezione. Per celebrare l’importante traguardo dei 20 anni di attività, il Cerchio organizza una giornata di festeggiamenti, che avrà il suo apice un dibattito dedicato alle esperienze di lavoro nel carcere femminile, che si svolgerà a Sacca Fisola, luogo al quale è legata buona parte del suo sviluppo. Al convegno interverranno rappresentanti dell’amministrazione comunale, che ha molto aiutato l’istituzione, e delle realtà che hanno a che fare con il mondo delle due case di reclusione della città. "L’idea che ha accomunato il gruppo originario che ha dato vita al Cerchio - spiega il presidente Gianni Trevisan - è la convinzione che il carcere abbia bisogno di una radicale riconversione: passare da luogo di sola detenzione a luogo in cui attraverso attività culturali, la scuola, ma soprattutto il lavoro, il ristretto possa cominciare un cammino in grado di restituire alla comunità una persona rieducata. Festeggiamo a Sacca Fisola - conclude - perché proprio si trovano i campi da calcio, da tennis e il bar-pizzeria che il Comune ci affidato fin dagli inizi e che sono stati i primi significativi traguardi". Oggi il Cerchio annovera 136 soci. Novara: sala del 1700 in tribunale è ripulita dai detenuti di Marco Benvenuti La Stampa, 23 febbraio 2017 È una delle sale più belle di Palazzo Fossati, sede del Tribunale. Un capolavoro artistico del 1700, con affreschi attribuiti al Legnani e intarsi lignei a finestre e porte, che nonostante la ristrutturazione dell’edificio, è rimasto l’unico locale a non essere toccato. La "Sala della musica", abbandonata al suo triste destino e ancora oggi inutilizzabile nonostante l’appello lanciato lo scorso anno dal presidente del Tribunale Filippo Lamanna, è stata almeno ripulita grazie ai detenuti ammesso al lavoro esterno. Ieri una squadra proveniente dalla casa circondariale di Novara, nell’ambito del protocollo per le "Giornate di recupero del patrimonio ambientale, il degrado urbano, l’edilizia sociale", ha sgombrato la Sala di vecchi arredi e materiale depositato al suo interno, molti dei quali proprio derivanti dai lavori di restauro del palazzo: i beni "vincolati" sono stati catalogati e ritirati nei magazzini. I detenuti erano accompagnati dal personale della polizia penitenziaria. "L’intervento - spiega l’assessore comunale alle politiche sociali, Emilio Iodice - assumono contorni particolarmente significativi in quanto hanno consentito il riordino di uno spazio all’interno di un importante edificio storico della nostra città". Uno spazio che in futuro dovrebbe diventare una moderna sala convegni. Milazzo (Ms): no al carcere, sì ai lavori socialmente utili per i detenuti tempostretto.it, 23 febbraio 2017 Una convenzione tra Comune e Uepe consentirà ai soggetti ammessi di usufruire di misure alternative alla detenzione, con l’obiettivo di un più agevole reinserimento in società. È stata sottoscritta una convenzione tra il Comune di Milazzo e l’Ufficio di esecuzione penale esterna di Messina (Uepe) finalizzata a promuovere azioni di sostegno e reinserimento di persone condannate penalmente, favorendo così la costituzione di una rete di risorse che accolgano i soggetti ammessi a misura alternativa o ammessi alla sospensione del procedimento con messa alla prova che hanno aderito a un progetto riparativo. Con la firma della convenzione, l’Uepe si impegna a segnalare al Comune il nominativo di ogni soggetto in misura alternativa o ammesso alla prova che aderisce alla proposta di svolgere attività a favore della collettività, previa acquisizione di impegno scritto dell’interessato. L’Uepe fornirà una scheda di presentazione in cui verrà specificato il tempo che la persona può dedicare all’attività prescelta e l’eventuale specifica professionalità posseduta, al fine di poterla collocare al meglio all’interno delle strutture messe a disposizione dell’ente convenzionato. L’amministrazione comunale, da parte sua, dovrà individuare all’interno delle proprie strutture operative idonei ambiti di impegno per lo svolgimento di attività di riparazione da parte delle persone ammesse alla sospensione del procedimento con messa alla prova; collaborare con l’Uepe per la redazione del programma di trattamento, individuando gli impegni specifici, il numero di ore e le modalità d’inserimento nell’attività di riparazione, e per sensibilizzare l’ambiente in cui saranno inseriti i soggetti segnalati e ovviamente collocare presso la struttura che verrà individuata di volta il soggetto ammesso allo svolgimento di attività di riparazione. Spetterà sempre al Comune designare un referente per il progetto riparativo, che indirizzi l’attività della persona, la supporti nello svolgimento del compito affidatole e mantenga i rapporti con l’Uepe producendo al termine del periodo di svolgimento dell’attività riparativa, una relazione relativa all’attività prestata. La convenzione ha la durata di un anno ed è da intendersi tacitamente rinnovata di anno in anno salvo disdetta scritta, da comunicarsi da una delle parti con almeno novanta giorni di preavviso. Bologna: "Oltre le sbarre", si prepara a partire la trattoria del carcere minorile di Ambra Notari Redattore Sociale, 23 febbraio 2017 Quattro giovani detenuti assunti regolarmente guidati da uno chef per dare corpo al nuovo progetto del carcere del Pratello: una trattoria aperta a tutti. Alfonso Paggiarino (direttore): "Puntiamo sulla formazione per dare un futuro ai ragazzi". Ma gli educatori sono sotto organico. La trattoria si chiamerà "Oltre le sbarre" e potrà accogliere fino a 25 clienti. In cucina, 4 giovani detenuti regolarmente assunti guidati dallo chef Mirko Gadignani, che già lavora con loro. Apertura nei weekend, magari dal prossimo autunno. È questo il piano d’azione di Alfonso Paggiarino, direttore dell’Istituto penale minorile di Bologna: "Come modello abbiamo InGalera, il ristorante del carcere di Bollate. Naturalmente qui le cose sono diverse: siamo un istituto minorile. Abbiamo avviato l’iter per le autorizzazioni con il ministero, e anche l’Azienda Usl è al lavoro. Stiamo pensando anche al menù: rispetteremo le tradizioni di tutti, di tutte le religioni. I ragazzi che frequentano il laboratorio hanno anche imparato a fare ottimi biscottini vegani, che ci piacerebbe offrire ai futuri clienti". L’occasione per fare il punto è la seduta congiunta delle commissioni Affari generali, Pari opportunità e Politiche sociali, organizzata presso il carcere del Pratello. A fronte di una capienza di 22 persone, al momento sono presenti 19 giovani tra i 16 e i 25 anni, in prevalenza stranieri. Autori, nella maggior parte dei casi, di reati contro il patrimonio. Molti hanno problemi di tossicodipendenza, altri di disagio psichico. Frequentano due laboratori finanziati dalla Regione Emilia-Romagna, uno di edilizia e uno di ristorazione: sono moduli da 70 ore, retribuiti in base alla frequenza dei ragazzi, che possono arrivare a guadagnare anche 200 euro. "Il laboratorio di ristorazione è gettonatissimo, tutti i ragazzi vogliono partecipare. Devo dire che sono molto bravi: fanno un’ottima pizza. L’aspetto su cui noi puntiamo di più è proprio quello della formazione, attraverso la quale possono costruirsi una professionalità da mettere a frutto in futuro". A novembre sono partiti i primi lavori di restauro, a partire dal sottotetto, rovinato dalle nevicate e dal terremoto del 2012. Entro aprile questa prima tranche dovrebbe concludersi, e avviarsi la seconda, che riguarda la riqualificazione di tutto lo spazio esterno (chiuso dal 2001) che, al momento, "è in condizioni inaccettabili", come ha sottolineato la consigliera Amelia Frascaroli. "Stiamo per partire con i cantieri - annuncia Paggiarino: ci sarà un campo da calcetto e uno da basket, ci sarà una bella area verde dove potranno svolgersi i colloqui, ci sarà un’area dedicata agli orti, che produrranno ciò che poi sarà consumato a mensa e in trattoria. Se, prossimamente, riuscissimo anche a ristrutturare il secondo piano, potremmo anche portare la capienza a 44 posti". Sulla questione riqualificazione area verde si è espressa anche Elisabetta Laganà, Garante dei detenuti del Comune di Bologna: "Ritengo che il carcere debba restare chiuso per tutta la durata dei lavori, spostando i ragazzi in altri istituti. Certo, si porrebbe la questione del mantenimento dei colloqui con i familiari, ma non è accettabile che i giovani detenuti non possano godere di nessuno spazio all’aperto". Ipotesi, questa, avversata dal direttore: "Non crediamo sarà opportuno ricorrere a misure così drastiche. Siamo d’accordo con la ditta che farà i lavori: lascerà sempre un po’ di spazio agibile ai ragazzi. Al massimo, si potrebbe pensare a spostare in un altro istituto solo una parte dei ragazzi, magari una decina. Quando il carcere minorile di Firenze riaprirà (al momento è chiuso per ristrutturazione, ndr), potremmo appoggiarci da loro". Oggi, infatti, il carcere del Pratello è riferimento non solo per l’Emilia-Romagna, ma anche per la Toscana e le Marche: "In ogni caso, vorremmo evitare di spostare i nostri ragazzi: per loro questo è un ambiente familiare, conoscono il personale, gli agenti e gli educatori. Mandarli per un po’ altrove potrebbe essere un trauma". Posizione, questa, condivisa anche dalla consigliera Lucia Borgonzoni. Un’altra perplessità avanzata dalla Garante è il numero degli educatori: 2 full-time, uno part-time. "Troppo pochi per 19 ragazzi - ammonisce Laganà. Senza dimenticare che ci sono stati periodi in cui ce n’erano 27. Il personale va implementato. Ho già chiesto all’assessore comunale al Welfare Luca Rizzo Nervo un’integrazione". "Noi facciamo il possibile con quello che abbiamo a diposizione - risponde Paggiarino. È importante sottolineare che la giustizia minorile è molto più ampia: solo in Emilia-Romagna sono 3 mila i ragazzi a rischio seguiti dai servizi sociali. La luce deve essere accesa su tutta questa situazione, perché le soluzioni vanno cercate in maniera condivisa e in collaborazione". Proprio nell’ottica di un ragionamento più ad ampio raggio sui giovani a rischio, arriva la proposta del Consiglio comunale: "Vogliamo metterci in gioco per rafforzare il lavoro tra gli educatori e l’assistenza sociale, e vogliamo promuovere lo scambio tra dentro e fuori", annunciano i consiglieri Andrea Colombo, Raffaele Persiano e Francesco Errani. Per esempio, abbiamo invitato i ragazzi che possono uscire a partecipare a una sessione del Consiglio, per vedere come si muove la macchina amministrativa. Il direttore è d’accordo: organizzeremo presto. Vogliamo anche potenziare i rapporti con le scuole e gli studenti dell’area della Città metropolitana. In cambio, tutti noi consiglieri abbiamo già ricevuto l’invito per una cena al Pratello, una specie di edizione zero di quello che sarà la trattoria". L’ultimo annuncio del direttore riguarda il teatro della struttura, risalente al 1400: "È un’opera meravigliosa, vorremmo ristrutturarla e aprirla al pubblico. Ha un ingresso diverso da quello del carcere, questo faciliterebbe molto le cose in materia di sicurezza e autorizzazioni. I fondi per una sua ristrutturazione possiamo trovarli, ma abbiamo bisogno del sostegno del Comune per la sua manutenzione: è un discorso che faremo insieme". Nuoro: Sdr; lavori in corso nella sezione femminile del carcere, detenute trasferite a Uta Ristretti Orizzonti, 23 febbraio 2017 "La necessità di provvedere con urgenza a lavori di manutenzione nella sezione femminile della Casa Circondariale di Nuoro ha determinato il trasferimento di otto donne da Badu e Carros all’Istituto "Ettore Scalas" di Cagliari-Uta. Una trasferta presumibilmente di breve durata ma che ha creato disagi alle detenute e ai loro familiari". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme", facendosi interprete delle difficoltà rappresentate da alcuni parenti delle donne private della libertà che hanno trovato sistemazione nella struttura penitenziaria della città metropolitana. "Le difficoltà a raggiungere l’area industriale di Cagliari, priva di segnaletica, dov’è ubicato l’Istituto Penitenziario, nonché la distanza dal domicilio dei familiari - osserva Caligaris - unitamente all’improvviso provvedimento di trasferimento, assunto per consentire alla squadra manutentiva ordinaria del fabbricato di risolvere probabilmente alcuni problemi di infiltrazione d’acqua, hanno determinato il disagio". "L’arrivo delle nuove detenute ha portato a 26 il numero di quelle recluse a Cagliari con necessità di disporre di spazi e di personale penitenziario adeguati nonché di provvedere a gestire le attività trattamentali in modo più articolato pur con un numero di funzionari non sufficiente. L’auspicio è che la situazione non perduri nel tempo in modo da ripristinare gli equilibri all’interno dei singoli Istituti e garantire ai parenti la possibilità di incontrare in modo meno problematico i familiari ristretti". Milano: Erri De Luca in carcere a Bollate, incontro con i detenuti e il pubblico esterno di Roberta Rampini Il Giorno, 23 febbraio 2017 Per lo scrittore un incontro con i detenuti e il pubblico esterno. "Mi rivolgo ai detenuti: voi dite sempre "sono finito in carcere". Invece dovreste imparare a cambiare verbo e dire "sono cominciato in carcere" e usare il tempo della detenzione per diventare migliori e per guardare le cose in modo diverso". Con queste parole, Erri De Luca, noto giornalista e scrittore, si è congedato martedì sera dal carcere di Bollate dopo un incontro aperto ai detenuti e ai cittadini. La serata, organizzata dal Comune di Bollate in collaborazione con la cooperativa Estia che da anni lavora all’interno dell’istituto di pena, è stata l’occasione per chiacchierare con lo scrittore su pace, guerre perpetue, immigrazione, accoglienza e carcere. Se non fosse stato per il cartellino al collo con la scritta "visitatore" era impossibile distinguere in platea i detenuti dal pubblico esterno. Accanto allo scrittore c’erano Massimo Parisi, direttore del carcere, Michelina Capato direttore artistico della cooperativa sociale Estia e Lucia Albrizio, assessore alla cultura e alla pace del Comune di Bollate. Lo scrittore è rimasto favorevolmente colpito dal modello Bollate: "Non avevo mai visto prima un carcere dove alle 21 di sera si organizzano incontri aperti al pubblico, ne un carcere con un ristorante - ha commentato De Luca - in Italia non ci sono altre esperienze come Bollate, sono orgoglioso di essere venuto qui". I nuovi seminatori di odio di Umberto De Giovannangeli L’Unità, 23 febbraio 2017 Nel rapporto di Amnesty International un quadro da brivido: da Trump a Erdogan da Orban a Duterte la demonizzazione di gruppi di persone come strumento politico. Un consiglio spassionato. Rivolto in particolare alla nostra classe politica, nessuno escluso (ma con un occhio di riguardo alle sinistre). Leggete quelle 600 pagine (sono tante, lo so, ma ne vale la pena) per avere chiaro in che mondo viviamo. Un mondo sempre più cupo, instabile, dominato dall’odio e da una narrazione - Trump docet - costruita su un "noi contro loro". Un mondo dominato dai seminatori di odio. Leggete il rapporto 2016 di Amnesty International e, quanto meno, calibrerete le polemiche nostrane in un quadro complessivo che fa rabbrividire. "Il 2016 è stato l’anno in cui il cinico uso della narrativa del "noi contro loro", basata su demonizzazione, odio e paura, ha raggiunto livelli che non si vedevano dagli anni Trenta dello scorso secolo. Un numero elevato di politici sta rispondendo ai legittimi timori nel campo economico e della sicurezza con una pericolosa e divisiva manipolazione delle politiche identitarie allo scopo di ottenere consenso", avverte Salii Shetty, segretario generale di Amnesty International. "La fabbrica che produce divisione e paura ha assunto una forza pericolosa nelle questioni mondiali. Da Trump a Orban, da Erdogan a Duterte, sempre più politici che si definiscono anti-sistema stanno brandendo un’agenda deleteria che perseguita, usa come capri espiatori e disumanizza interi gruppi di persone. I primi a essere presi di mira sono stati i rifugiati ma, se le cose andranno avanti così, toccherà anche ad altri e assisteremo a nuovi attacchi sulla base della razza, del genere, della nazionalità e della religione. Quando smettiamo di vedere l’altro come un essere umano con gli stessi diritti, siamo un passo più vicini all’abisso", prosegue Shetty, rimarcando come "le odierne politiche di demonizzazione spacciano vergognosamente la pericolosa idea che alcune persone siano meno umane di altre, privando in questo modo interi gruppi di persone della loro umanità. Così si rischia di dare via libera ai lati più oscuri della natura umana". E Antonio Marchesi, presidente di Amnesty International Italia, fa i nomi di Matteo Salvini e Giorgia Meloni quando rimarca che l’Italia "non è esente dalle conseguenze dei veleni di politiche e retoriche divisive". Il Rapporto documenta l’incapacità dei leader mondiali di gestire la crisi dei rifugiati, un linguaggio politico improntato all’odio, la repressione brutale del dissenso, le persecuzioni contro i cristiani ma anche contro altre minoranze. Cento cinquantanove. Sono i Paesi in cui Amnesty International ha documentato gravi violazioni dei diritti umani nel 2016. Ventidue. I Paesi in cui AI denuncia uccisioni di difensori dei diritti umani: persone prese di mira per aver contrastato profondi interessi economici, aver difeso minoranze e piccole comunità o aver cercato di rimuovere gli ostacoli posti ai diritti delle donne e delle persone Lgbti. Trentasei. I governi che hanno rimandato indietro i richiedenti asilo in posti dove la loro vita era in pericolo, in totale spregio del diritto internazionale. Ventitré: i paesi in cui Amnesty documenta crimini di guerra. Questo Rapporto è una fotografia dolorosa di un mondo che sta tornando indietro e abbandona molte conquiste in materia di diritti umani. Per milioni di persone, il 2016 è stato un anno di continua sofferenza e paura - rileva il Rapporto di AI, poiché governi e gruppi armati hanno compiuto violazioni dei diritti umani nei modi più diversi. Le violazioni si ripetono nei teatri di guerra, in quei conflitti che la comunità internazionale non trova la volontà di risolvere: Siria, Yemen, Libia, Afghanistan, Repubblica Centrafricana, Burundi, Iraq, Sud Sudan e Sudan. Vengono denunciate massicce repressioni in Cina, Egitto, Etiopia, India, Iran, Tailandia, Russia (il Cremlino replica stizzito negando l’evidenza). A proposito dell’Egitto, Amnesty ricorda che manca ancora la verità sulla tragica fine di Giulio Regeni e invita il governo italiano a mantenere freddi i rapporti con il Cairo fino a quando non ci saranno verità e giustizia. Nelle Filippine del presidente Duterte preoccupa l’ondata di esecuzioni extragiudiziali nei confronti delle decine di migliaia di persone sospettate di essere legate al traffico della droga. In Turchia lascia sgomenti la repressione attuata dal governo dopo il fallito colpo di stato. Nel frattempo, la discrepanza tra ciò che sarebbe necessario fare e le azioni concrete, così come tra la retorica e la realtà, è stata totale e talvolta sconcertante. Questo è apparso quanto mai evidente con il fallimento del summit di settembre delle Nazioni Unite su rifugiati e migranti. Mentre i leader mondiali non sono riusciti a dimostrarsi all’altezza della sfida, 75.000 rifugiati rimanevano intrappolati nel deserto, in una terra di nessuno tra la Siria e la Giordania. 112016 è stato anche l’Anno dei diritti umani dell’Unione africana ma tre dei suoi Stati membri hanno annunciato l’intenzione di ritirarsi dall’Icc, minacciando la possibilità di garantire l’accertamento delle responsabilità per i crimini di diritto internazionale. Nel frattempo, il presidente del Sudan Omar Al Bashir si spostava liberamente e impunemente nel continente, mentre il suo governo utilizzava armi chimiche contro la sua stessa popolazione nel Darfur. Al centro dell’agenda di Amnesty vi è la crisi dei rifugiati, che desta molte preoccupazioni. Spiega Marchesi: "Noi registriamo casi di rimpatri forzato verso Paesi in cui la persona rischia di subire gravi violazioni dei diritti umani. Questo accade in 36 Paesi, è una cifra piuttosto alta. In Italia siamo preoccupati perché l’approccio degli hot spot, deciso tra l’altro a livello europeo, non garantisce i diritti delle persone che arrivano di vedere esaminata in modo equo e approfondito la richiesta di protezione internazionale, la richiesta di asilo". E più in generale, a questo si, aggiungono gli accordi stipulati con regimi illiberali, al fine di garantire il contenimento dei flussi migratori. Una situazione di contrapposizione che si sta diffondendo in modo allarmante anche in Europa, come spiega il direttore generale di Amnesty Italia Gianni Rufini: "L’Europa vede i propri diritti in crisi, vede i diritti dei cittadini europei messi in discussione, dalle politiche antiterrorismo in Francia, dove è stato possibile abusare dei diritti dei cittadini in 1.000 occasioni durante indagini e perquisizioni delle forze di sicurezza sul terrorismo, alla Gran Bretagna con campagne di sorveglianza di massa e l’aumento dei crimini di odio verso stranieri, migranti e anche rifugiati. O ancora il governo Orban in Ungheria e il nuovo governo polacco che sta attuando politiche discriminanti. L’Europa sta facendo drammatici passi indietro, non è più il bastione dei diritti umani, che proteggeva per i cittadini del mondo". In questo quadro, Amnesty prevede nel 2017 un peggioramento delle crisi in corso. "Anche gli Stati che un tempo sostenevano di difendere i diritti umani nel mondo adesso sono troppo occupati a violarli al loro interno per pensare a chiamare gli altri a risponderne". Perciò serve l’impegno di tutti. Come dice Rufini: "Le persone comuni hanno mostrato la compassione che manca ai loro leader". È un impegno rischioso. Amnesty denuncia uccisioni di difensori dei diritti umani in 22 paesi. Ma nonostante queste difficoltà, Amnesty invita ad agire. "112017 ha bisogno di eroi ed eroine dei diritti umani", conclude Salii Shetty. E di politici all’altezza. Anche in Italia. Il mondo secondo Amnesty: distrutto dal "noi contro di loro" di Chiara Cruciati Il Manifesto, 23 febbraio 2017 Diritti umani. Esce il rapporto 2017: Europa e Italia sotto accusa per i migranti, Trump nel mirino. La violazione dei diritti umani tocca la quasi totalità dei paesi. Le parole chiave della deriva: rifugiati, torture, sparizioni forzate, autoritarismi, muri. Come un gambero il mondo va all’indietro: ripiombato in un buio clima da anni Trenta, diviso con l’accetta nell’inquietante binomio "noi" e "loro", permeato di populismo razzista che lambisce il fascismo. Il quadro che emerge dal Rapporto 2017 di Amnesty International è allarmante perché smonta l’impalcatura di falsa democrazia che l’Occidente - esperto "esportatore" - ha sempre usato per distanziarsi dalla funzionale categoria degli Stati canaglia. La violazione dei diritti umani si allarga a macchia d’olio, tocca la quasi totalità dei paesi del mondo (159 quelli analizzati). Le parole chiave della deriva si accavallano: rifugiati, torture, sparizioni forzate, autoritarismi, muri. Come si accavallano i nomi di chi oggi rappresenta "un mondo martoriato da una distruzione di vita e beni senza precedenti negli ultimi 70 anni": Trump, Duterte, Erdogan, al-Sisi, Orbán. Qualche numero: in 23 Stati sono stati commessi crimini di guerra, in metà si pratica la tortura, in 22 sono stati uccisi difensori dei diritti umani e in 36 è stato violato il diritto internazionale in materia di richiesta d’asilo. Sullo sfondo un clima di razzismo strisciante che divide gli esseri umani in etnie, confessioni, razze e che riguarda anche l’Italia: "Esiste una retorica di divisione alimentata dal alcuni leader politici come Matteo Salvini della Lega Nord e Giorgia Meloni di Fratelli d’Italia", dice Antonio Marchesi, presidente di Amnesty Italia. Una retorica che entra nell’amministrazione italiana e europea, fisicamente visibile nei muri e i lacrimogeni che accolgono i migranti in fuga e nei pacchetti di aiuti miliardari a paesi che violano palesemente i diritti umani. Nel mirino di Amnesty finiscono gli accordi sui migranti siglati da Roma e Bruxelles, fatti di Cie, maltrattamenti, respingimenti in violazione del diritto d’asilo, morti in mare: "L’applicazione da parte delle autorità italiane dell’approccio hotspot europeo - si legge nel rapporto - ha portato a casi di uso eccessivo della forza, detenzione arbitraria e espulsioni collettive". Non si salva la Francia chiamata in causa per quattro estensioni dello stato di emergenza e attacchi come lo sgombero della "giungla" di Calais. Né si salva la Ue che con Ankara ha siglato un accordo che prevede la deportazione dei nuovi arrivati (senza valutarne l’eventuale diritto d’asilo) sulla base della definizione della Turchia come "paese sicuro". Un "paese sicuro" in cui è in corso una guerra contro i kurdi, due milioni di rifugiati vivono in campi profughi o per le strade delle grandi città senza opportunità di integrazione, 10 parlamentari sono in prigione insieme a 150 giornalisti. E tale pare essere la definizione che tocca alla Libia, destinataria di un altro accordo seppur divisa in parlamenti rivali, preda di milizie armate e nota per il trattamento riservato ai migranti nei centri di detenzione nel deserto. Mentre si raccoglievano le spoglie delle 74 vittime dell’ultimo naufragio sulle coste della città di Zawiya, il ministro degli Interni Minniti alla Commissione parlamentare d’inchiesta sul sistema di accoglienza presentava il memorandum libico come modello di un progetto strategico per l’Africa: "Abbiamo fatto un accordo importante con il Niger, più di recente con la Tunisia e firmato un memorandum con la Libia. L’idea è che l’Italia possa svolgere il ruolo di paese apripista". L’"emergenza migranti", evento epocale che sveste l’Europa di decenni di presunta cultura di pace e accoglienza, si inserisce in un più vasto imbarbarimento dei discorsi promossi da movimenti xenofobi e di ultradestra che puntano a farsi (o si sono già fatti) governo. Il linguaggio cambia e plasma la dicotomia noi/loro, rintracciabile nelle politiche dell’amministrazione Trump o del governo ungherese di Orbán. "Il cinico uso della narrativa del noi contro loro, basata su demonizzazione, odio e paura, ha raggiunto livelli che non si vedevano dagli anni Trenta - scrive Salil Shetty, segretario generale di Amnesty - Un numero elevato di politici risponde ai legittimi timori nel campo economico e della sicurezza con una pericolosa e divisiva manipolazione delle politiche identitarie". Una manipolazione che investe di riflesso la rete di alleanze globali ed erge a colonne portanti della lotta al terrorismo islamista regimi di stampo autoritario. Ce lo ricorda Giulio Regeni, vittima della pervasiva macchina della repressione egiziana che oggi ripropone ad un livello ancora peggiore le stesse politiche dell’era Mubarak: torture, sparizioni forzate, omicidi extragiudiziali, soffocamento della società civile sono pratiche ormai sistematiche. L’elenco potrebbe continuare: le Filippine di Duterte e i 7mila omicidi giustificati con la lotta al traffico di droga; le bombe saudite in Yemen; la legge sulla sorveglianza di massa del Regno Unito; gli attacchi in Polonia ai diritti di donne e Lgbti; il fuoco che ha distrutto centinaia di villaggi in Darfur; la pratica israeliana dello "spara per uccidere" e la strutturale confisca di terre palestinesi da parte di Tel Aviv. E, compiendo un giro completo, si torna all’Italia. Amnesty rilancia la lettera inviata con Antigone, A Buon Diritto e Cittadianzattiva al ministro della Giustizia Orlando: Roma introduca il reato di tortura. Migranti. Ius soli, Orfini vuole la riforma. Destre sulle barricate di Carlo Lania Il Manifesto, 23 febbraio 2017 Per il reggente del Pd la cittadinanza è tra le priorità del governo. E crea un problema al premier. Apriti cielo. Matteo Orfini fa appena in tempo a dire una cosa neanche tanto di sinistra ma semplicemente di buon senso e subito si scatena il solito polverone con relativa minaccia di fare addirittura "le barricate in parlamento". In un’intervista alla Stampa il reggente del Pd indica tra quelle che a suo giudizio dovrebbero essere le priorità del governo Gentiloni anche l’approvazione dello ius soli (temperato). Una riforma da approvare se necessario anche "con la fiducia", spiega Orfini. Parole che confermano la difficoltà di licenziare il provvedimento, da 15 mesi in Commissione Affari costituzionali del Senato dopo essere stato approvato dalla Camera, ma fermo anche per non rompere con gli alleati dell’Ncd che dopo aver dato il via libera a Montecitorio da mesi remano contro insieme a Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia. Il solo aver messo sul tavolo l’ipotesi di un’accelerazione dell’iter della riforma, scatena però alleati e opposizioni. "Se Orfini pensa che lo ius soli sia una priorità se lo voti da solo", taglia subito corto Maurizio Lupi, capogruppo di Area popolare alla Camera (e quindi favorevole alla legge in passato). Toni come al solito più esasperati quelli usati invece da Matteo Salvini che per esprimere il suo dissenso non esita ad evocare la "rabbia" dei tassisti romani. "Fiducia sullo ius soli?", chiede il leader della Lega. "Per me è impensabile ma se dovessero farlo porteremmo in parlamento la rabbia che c’era ieri (martedì, ndr) fuori dal parlamento, isolando ovviamente gli episodi di violenza". Tanto furore potrebbe essere però fuori luogo. Approvata a ottobre del 2015 dalla Camera la riforma della cittadinanza è ferma da allora in un cassetto del Senato bloccata dai circa 8.000 emendamenti presentati dal Carroccio, ma anche dall’inerzia della maggioranza. Al punto che alla fine di gennaio la minoranza Pd è arrivata a ventilare un presunto scambio tra Pd e Lega; stop al provvedimento in cambio di una legge elettorale. Vero o falso che fosse, la legge non si è mossa. E questo nonostante i numerosi appelli - tra i quali quello del presidente Grasso e di molte associazioni - ad accorciare il tempi. Niente da fare. A dimostrazione dello scarso impegno del Pd c’è poi il fallimento dei ripetuti tentativi con cui Sinistra italiana ha cercato di togliere la riforma dalla palude i cui si era arenata in Commissione facendola votare direttamente dall’aula e puntualmente bocciati dalla maggioranza. L’ultimo, ironia della sorte, martedì scorso quando dopo l’ennesima proposta di Si e M5S, il trasferimento all’aula è stato bocciato anche con i voti del Pd (solo 63 i senatori favorevoli, M5S, Si e dissidenti dem). Una bocciatura arrivata guarda caso mentre Orfini indicava proprio la riforma della cittadinanza tra le priorità dell’esecutivo. Le dichiarazioni del reggente potrebbero adesso rappresentare un ostacolo in più per Gentiloni. Mettere la fiducia sulla riforma senza i voti dell’Ncd significherebbe rischiare di far saltare la maggioranza che tiene in vita il governo. Non farlo potrebbe offrire invece al Pd il pretesto per sfiduciarlo, visto che in passato la legge era stata indicata come uno dei fiori all’occhiello del programma renziano. Nel frattempo le polemiche portano acqua al mulino delle destre. "La sinistra farebbe bene a riflettere", ironizza il leghista Roberto Calderoli. "Tutti quelli che premono sull’approvazione dello ius soli forse dovrebbero riflettere sul fatto che il primo immigrato a cui è stato applicato, un rom bosniaco che nel 2012 andava espulso, venne liberato da un giudice di pace perché nato in territorio italiano. Oggi (ieri, ndr) è stato condannato a 4 anni e 4 mesi per reati gravi quali resistenza e lesioni". Naturalmente il fatto non c’entra niente con il diritto di tanti bambini a diventare italiani, ma fa comunque confusione. Migranti. Md contro il decreto Minniti: allontana il richiedente asilo dal giudice Il Manifesto, 23 febbraio 2017 "È sbagliata l’equazione immigrazione-terrorismo", ha detto ieri il ministro dell’interno Marco Minniti in audizione davanti alla commissione parlamentare di inchiesta sul sistema di accoglienza. Ma ha detto anche che "tra un terrorista dell’Isis e un trafficante di uomini c’è lo stesso livello di vicinanza al male". Minniti è tornato a difendere il decreto che ha firmato con il ministro della giustizia Orlando sul contrasto all’immigrazione illegale. "Dobbiamo ridurre i tempi di attesa per i richiedenti asilo", ha detto, spiegando che l’abolizione del grado di appello e delle garanzie per il migrante già nel primo grado - "superamento di un grado di giudizio" lo ha definito - sono funzionali a questo obiettivo. Assieme all’"introduzione di 14 sezioni specializzate e all’assunzione di 250 unità di personale". "Vogliamo passare da anni a mesi per le decisioni", ha annunciato. Nel frattempo però il Consiglio superiore della magistratura ha in preparazione un parere sul decreto - all’esame del senato, deve essere convertito entro metà aprile - che si annuncia critico. Perché assai critiche sono state le parole del primo presidente della Cassazione (che siede nel Csm) sul provvedimento: "Pretendere la semplificazione e razionalizzazione delle procedure non può significare soppressione delle garanzie. In alcuni casi non c’è neppure il contraddittorio come si può pensare allora al ruolo di terzietà del giudice?". Dello stesso tenore le critiche arrivate ieri in un documento congiunto di Magistratura democratica (la corrente di sinistra delle toghe) e dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione. Che innanzitutto contesta il fatto che si intervenga con decreto ("difetta il necessario presupposto dell’urgenza, alcune misure si applicano addirittura trascorsi 180 giorni dal decreto") - come già peraltro il Csm aveva fatto in un parere su un’altra riforma del ministro Orlando, quella del processo civile. Ma soprattutto, si legge nel testo Asgi-Md, le scelte del governo "vanno nella direzione di un oggettivo allontanamento dal giudice del cittadini straniero". Non ci sono solo l’abolizione del grado di appello e la previsione di "sole 14 sezioni specializzate" (che "ostacoleranno sotto il profilo logistico l’accesso alla giurisdizione"), c’è in primo luogo "la limitazione del contraddittorio attraverso l’uso delle videoregistrazioni non accompagnate dalla comparizione della parte e del mediatore linguistico-culturale". In definitiva per Magistratura democratica il decreto "rafforza il ruolo della gestione amministrativa delle procedure in cui si evidenziano delicatissimi profili di tutela delle libertà individuali e ripropone forme di diritto speciale per gli stranieri in materie che riguardano i principi fondamentali di pari dignità e uguaglianza". Cybercrimine, il nostro anno peggiore: rapporto Clusit 2017, l’Italia preda degli hacker di Alessandro Longo La Repubblica, 23 febbraio 2017 Per la prima volta siamo nella top ten globale per numero di vittime, Il Paese è nella morsa dei ransomware. IL 2016 è stato l’anno peggiore per la sicurezza informatica, per il mondo e tra i più colpiti c’è l’Italia. Per la prima volta, il nostro Paese è nella top ten degli attacchi più gravi registrati e per numero di vittime. Sono le evidenze presentate oggi con il rapporto Clusit 2017, la nota associazione per la sicurezza informatica italiana (per l’Italia i dati sono elaborati in collaborazione con il security center di Fastweb). Il rapporto arriva in un momento di passaggio per la sicurezza informatica in Italia: per la prima volta il Governo si prepara a prendere in carico direttamente il tema (finora sviluppato), con un nuovo decreto. "La mossa del Governo arriva al momento giusto, a seguito della forte crescita di attacchi subiti dall’Italia nell’ultimo anno", dice Alessio Pennasilico, uno degli autori del rapporto. Siamo entrati nella top ten degli attacchi più gravi per via di quello subito dalla Farnesina nei giorni scorsi. Inoltre, "per la prima volta siamo saliti al quarto posto nel mondo per numero di vittime di attacchi informatici", dice Pennasilico. "Una particolarità italiana sono gli attacchi ransomware, quei malware che criptano tutti i file dell’hard disk chiedendo un riscatto all’utente per sbloccarli - continua. Un fenomeno che è forte in pratica solo in Italia, dato che da noi le vittime sono impreparate e al tempo stesso pagano i criminali per riavere accesso ai propri file, non avendo alternative". È successo ad aziende, Comuni, ospedali, riportano le cronache dell’anno scorso. Dal rapporto, risulta che il principale malware rilevato in Italia è ZeroAccess, seguito da Nivdort. Nella lista dei primi 10 malware riscontrati, le diverse versioni di GameOver Zeus hanno lasciato spazio anche a Conficker (frutto probabilmente dell’elevata diffusione delle varie versioni dell’omonimo malware già rilevata anche lo scorso anno) e Salityv3 (un’altra novità rispetto al 2015). "In particolare, l’elevata diffusione del trojan Nivdort (conosciuto anche come ‘Bayrob’) può essere ricondotta ad alcune campagne massive di spam rilevate soprattutto a inizio 2016. Sality è invece un virus identificato la prima volta nel 2003 e oggi diffuso nelle versioni 3 e 4, varianti particolarmente resistenti ai più diffusi tool di protezione/rimozione", si legge nel rapporto. "Le aziende si trovano in una situazione di costante svantaggio. Purtroppo gli strumenti a loro disposizione (firewall, antivirus, etc.) sono sempre più in difficoltà nel for nire risposte immediate e complete. Solo una parte limitata delle aziende ha la possibilità di acquistare soluzioni così avanzate da azzerare in maniera quasi completa il rischio derivante da qualsiasi tipologia di minacce", si legge. "Lo stesso discorso riguarda anche il livello di competenze disponibili: in un contesto in rapida evoluzione è sempre più difficile disporre di risorse con conoscenze specifiche e sempre aggiornate. Va però anche detto che spesso il rischio viene sottovalutato e che non sempre gli strumenti a disposizione vengono sfruttati al massimo delle loro possibilità. Con un maggior livello di attenzione e consapevolezza, almeno una parte degli effetti derivanti da malware ampiamente diffusi e conosciuti (spesso presenti e ‘latentì da anni nelle reti delle società colpite) potrebbero essere notevolmente limitati". Il rapporto Clusit è ricco di numeri per quanto riguarda le minacce globali. Nel mondo sono stati 1050 gli attacchi con conseguenze considerabili "gravi" (mai così tanti). In particolare, gli attacchi gravi compiuti per finalità di Cybercrime sono in aumento del 9,8%, mentre crescono a tre cifre quelli riferibili ad attività di Cyber Warfare - la "guerra delle informazioni" (+117%). In termini assoluti Cybercrime e Cyber Warfare fanno registrare il numero di attacchi più elevato degli ultimi 6 anni. "Il 32% degli attacchi viene sferrato con tecniche sconosciute, in aumento del 45% rispetto al 2015, principalmente a causa della scarsità di informazioni precise in merito tra le fonti di pubblico dominio. A preoccupare maggiormente gli esperti del Clusit, tuttavia, è la crescita a quattro cifre (+1.166%) degli attacchi compiuti con tecniche di Phishing /Social Engineering, ovvero mirati a "colpire la mente" delle vittime, inducendole a fare passi falsi che poi rendono possibile l’attacco informatico vero e proprio", si legge in una nota del Clusit. "A livello globale la somma delle tecniche di attacco più banali (SQLi, DDoS, Vulnerabilità note, phishing, malware "semplice") rappresenta il 56% del totale: questo dato è uno dei più allarmanti, secondo gli esperti del Clusit, poiché rende evidente la facilità di azione dei cybercriminali e la possibilità di compiere attacchi con mezzi esigui e bassi costi". Gli esperti del Clusit segnalano anche il tema dei "captatori informatici", che presenteranno solo in una versione successiva del rapporto, il 14 marzo. Si tratta dei "trojan di Stato" per le intercettazioni, come quelli realizzati da Hacking Team. Il problema è che le regole in Italia sono ancora poco chiare - a riguardo c’è una proposta di legge. Di conseguenza le tutele per la privacy sono deboli; in più, queste "cyber armi" rischiano sempre di finire in mani sbagliate, se non ci sono regole stringenti a determinare responsabilità su chi le fa o le usa. Per esempio, nota il Clusit, Hacking Team proteggeva con password molto deboli il proprio software, che quindi è stato facilmente rubato. Questi trojan sono come armi di distruzione di massa, per la privacy, perché consentono - con relativa facilità - di intercettare conversazioni, chat, spiare utenti attraverso i microfoni e le webcam dei computer e cellulari. In assenza di regole, i captatori informatici sono un pericolo costante per gli equilibri democratici. Tutti questi elementi indicano l’urgenza di un piano nazionale per la cybersecurity, che affronti in modo sistematico il tema, con le giuste risorse. "In Italia è stata una questione a lungo sottovalutata, su cui finora sono stati messi solo 150 milioni di euro; quasi dieci volte in meno rispetto ad altri Paesi europei", dice Pennasilico. "Soldi per altro solo individuati nella normativa, ma ancora non stanziati effettivamente e quindi non utilizzati. Ma il recente annuncio di decreto ci dice che l’Italia ha imboccato la direzione giusta, sulla governance". La questione cybersecurity sarà infatti accentrata a Palazzo Chigi, aprendo così le porte a un maggiore coordinamento centrale della difesa cibernetica a livello Paese. L’assenza di una governance centrale è appunto la madre di tutti i problemi per la cybersecurity italiana. Risolvere questo nodo è un passo propedeutico per affrontare il problema in modo più maturo, per la prima volta, anche in Italia. Ma un primo passo, a cui dovrà seguire - notano gli esperti - un piano strutturato e di dettaglio, e nuove risorse stanziate. Caporalato, bracciante morta di fatica nei campi di Andria: arrestati i suoi 6 sfruttatori di Giovanni Di Benedetto La Repubblica, 23 febbraio 2017 La 49enne Paola Clemente fu stroncata da un infarto mentre lavorava all’acinellatura dell’uva. In carcere sono finiti il titolare dell’azienda che trasportava in bus le braccianti e il responsabile dell’agenzia interinale. Fu un infarto ad ucciderla, ma la morte di Paola Clemente, la bracciante agricola 49enne di san Giorgio jonico scomparsa mentre lavorava all’acinellatura dell’uva sotto un tendone nelle campagne di Andria il 13 luglio del 2015, non è stata vana. L’inchiesta, aperta all’indomani della denuncia del marito e della Cgil, è arrivata ad una svolta. In tutto 6 le persone arrestate nel corso di un operazione della guardia di finanza e della polizia coordinate dal magistrato della procura di Trani Alessandro Pesce. Truffa ai danni dello Stato, illecita intermediazione, sfruttamento del lavoro. La nuova legge contro il caporalato non ha fatto sconti, fosse entrata in vigore prima probabilmente il numero delle persone in manette sarebbe stato più alto. In carcere sono finiti Ciro Grassi, il titolare dell’azienda di trasporti tarantina che portava in pullman le braccianti fino ad Andria, il direttore dell’agenzia Inforgroup di Noicattaro, Pietro Bello, per la quale la signora lavorava, il ragioniere Giampietro Marinaro e il collega Oronzo Catacchio. Dietro le sbarre anche Maria Lucia Marinaro e la sorella Giovanna (quest’ultima ai domiciliari). La prima è la moglie di Ciro Grassi, indagata per aver fatto risultare giornate fasulle di lavoro nei campi con lo scopo di intascare poi le indennità previdenziali; la seconda, invece, nei campi avrebbe lavorato come capo-squadra. Nel corso delle indagini furono acquisiti nelle abitazioni delle lavoratrici in provincia di Taranto carte e documenti in cui sarebbero emerse differenze tra le indicazioni delle buste paga dell’agenzia interinale che forniva manodopera e le giornate di lavoro effettivamente svolte dalle braccianti. Dai documenti era emersa una differenza del 30 per cento tra la cifra dichiarata in busta paga e quella realmente percepita da alcune lavoratrici. C’è di più, il calcolo sulle trattenute avveniva non sulle ore lavorate ma sullo stipendio base. In pratica le lavoratrice percepivano una paga giornaliera di 28 euro quando, in realtà, avrebbero dovuto intascarne almeno 86, in considerazione della paga base di 45 euro più la trasferta fino ad Andria, superati i 40 chilometri, le ore di straordinario e il notturno. Paola Clemente, è emerso, era stata assunta da un’agenzia interinale ma non era stata sottoposta, o quanto meno non risulta, ad una visita medica. L’autopsia sul cadavere della donna fatto riesumare il 25 agosto nel cimitero di Crispiano, in provincia di Taranto, accertò che si era trattato di "una sindrome coronarica acuta". La donna, stabilirono gli esami eseguiti dal medico legale Alessandro Dell’Erba, con il tossicologo Roberto Gagliano Candela, era affetta da ipertensione che stava curando e da cardiopatia. Durante l’ultima assemblea della Cgil a Taranto alla leader della Cgil Susanna Camusso fu consegnata una copia rilegata della legge in materia di contrasto al fenomeno di caporalato che il segretario generale della Cgil Bat Giuseppe Deleonardis, che all’epoca denunciò quanto era accaduto, volle dedicare proprio a Paola Clemente. La sua fu, ha ricordato, fu una battaglia a favore dei diritti dei lavoratori costretti a vivere nei ghetti e quelli vittime del caporalato, che ha portato ad un’accelerata verso la stesura e l’approvazione della legge contro i caporali perché, disse, "se c’è un lavoro sfruttato e schiavizzato c’è un impresa che sfrutta e schiavizza". Siria. 40 Ong: ai negoziati di Ginevra cinque priorità sui diritti umani di Riccardo Noury Corriere della Sera, 23 febbraio 2017 Quaranta organizzazioni non governative hanno presentato un elenco di cinque priorità in materia di diritti umani che dovrebbero essere affrontate dai partecipanti al nuovo round di negoziati di pace sulla Siria in programma oggi a Ginevra. Queste le priorità: porre fine agli attacchi illegali, assicurare ai civili l’arrivo degli aiuti e corridoi sicuri di fuga, rispettare i diritti dei detenuti, collaborare alla giustizia internazionale e fare riforme nel settore della sicurezza. Nonostante il cessate-il-fuoco teoricamente in vigore dalla fine di dicembre, gli attacchi illegali sono proseguiti in varie zone della Siria. Il 1° febbraio sono stati colpiti gli uffici della Mezzaluna rossa di Idlib e il 10 febbraio Unicef ha denunciato la morte di almeno 20 bambini in una serie di attacchi portati a termine nei giorni precedenti. Secondo l’Ufficio Onu per il coordinamento degli affari umanitari, quasi cinque milioni di siriani vivono in aree assediate e spesso sottoposte ad attacchi aerei. Tutto questo avviene in spregio della risoluzione 2165, adottata il 14 luglio 2014 e rinnovata due mesi fa fino al 10 gennaio 2018. Per quanto riguarda la giustizia, il 21 dicembre 2016 l’Assemblea generale dell’Onu ha istituito con una risoluzione un ufficio incaricato di coadiuvare le indagini sui gravi crimini commessi in Siria a partire dal 2011. Collaborare alle attività di questo ufficio, così come al lavoro della Commissione d’inchiesta Onu sulla Siria, potrebbe aumentare le possibilità che una volta raggiunta la pace non regni l’impunità. Le 40 organizzazioni non governative hanno chiesto che nella riunione di Ginevra siano prese misure immediate per ottenere la liberazione di prigionieri politici, giornalisti, operatori umanitari, attivisti e altri civili ingiustamente detenuti nelle carceri siriane od ostaggi dei gruppi armati di opposizione. Infine, il futuro della Siria non potrà neanche avere inizio se le parti intorno al tavolo non s’impegneranno a rispettare i principi di base del diritto internazionale dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario. Questo significherà, per il governo siriano, annullare tutte le leggi che criminalizzano la libertà d’espressione, d’associazione e di manifestazione, istituire e far rispettare il divieto di tortura e applicare una moratoria sulle esecuzioni in vista dell’abolizione della pena capitale. Gran Bretagna. Isolamento per minori nelle carceri, è scandalo di Francesco Boezi Il Giornale, 23 febbraio 2017 L’inchiesta choc che sta smuovendo gli animi in Gran Bretagna: partita dal quotidiano The Indipendent finisce all’Alta Corte di giustizia inglese. Secondo quanto rivelato dal quotidiano britannico "The Independent", in Gran Bretagna, ci sarebbero detenuti minorenni tenuti in isolamento. Una vera e propria accusa al sistema carcerario britannico, quella lanciata dall’edizione online del quotidiano inglese: una presunta violazione delle leggi nazionali e della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e i trattamenti crudeli. A riportalo, stamattina, è stata, inoltre, l’agenzia Nova. Un procedimento contro il governo, peraltro, sarebbe in corso all’Alta Corte ed i casi venuti fuori dall’inchiesta del giornale sarebbero oltre dieci, tra questi la vicenda particolarmente triste ed indecorosa che riguarderebbe un adolescente con un grave disagio mentale. Un ragazzo che sarebbe stato posto in isolamento all’interno di diverse strutture per un periodo complessivo di sei mesi, fatto che gli avrebbe comportato un ulteriore ed evidente danno di tipo psicologico. I rapporti di ispezione, inoltre, suggerirebbero che il tenere in isolamento questi bambini abbia contribuito a far sì che alcuni tra essi si siano spinti sino all’autolesionismo. Alcuni parlamentari, dunque, hanno richiesto un’indagine urgente del governo nel merito di questa vicenda, considerato che quanto emerso, l’isolamento di questi adolescenti, potrebbe violare sia la già citata Convenzione contro la tortura delle Nazioni Unite sia la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo per un importo di "trattamento inumano e degradante". Tra questi il leader liberaldemocratico Tim Farron, il quale ha dichiarato: "Queste sono accuse incredibili che volano a fronte degli obblighi della Gran Bretagna sia a livello nazionale, a livello europeo e internazionale. L’uso di isolamento dovrebbe essere ridotto al minimo indispensabile senza distinzione di età, ma è incomprensibile per i minori". L’articolo 16 della Convenzione contro la tortura delle Nazioni Unite, ricorda sempre il The Indipendent, rileva imponendo giuridicamente che i governi debbano evitare "atti di trattamenti o punizioni crudeli, inumani o degradanti", verificatesi per mano dei funzionari. I giovani messi in isolamento avrebbero un’età compresa tra i 15 e i 18 anni. Si è avviato così un dibattito tra l’utilizzo del termine "segregazione" e quello del termine "isolamento". Se, infatti, il ministero della Giustizia pare abbia sostenuto che la "segregazione" viene messa in atto in funzione della loro sicurezza che può coinvolgere anche l’isolamento ma non per periodi di tempo previsti classicamente per esso, alcuni avvocati, di contro, sostengono che la "segregazione" si concretizzerebbe in via sostanziale in un vero e proprio isolamento. La posizione ufficiale del governo, insomma, secondo il The Indipendent sarebbe che questo presunto isolamento in realtà non esisterebbe. Il The Indipendent elenca, poi, una serie di investigazioni che contribuirebbero a sostenere la tesi per cui questi fatti avvengano realmente. Il quotidiano britannico, dunque, aspetta che il procedimento faccia il suo corso per dare ulteriori specificazioni ed intanto segnala che secondo quanto previsto dal diritto internazionale dei diritti umani, si definisce isolamento "il confinamento dei prigionieri per 22 ore o più al giorno, senza contatto umano significativo". Il governo, in definitiva, tiene botta ed insiste sul fatto che la segregazione, non dunque l’isolamento, venga usato come extrema ratio nel caso in cui nessun’altra misura fosse possibile. Un’inchiesta destinata a far parlare, specie nel caso in cui le asserzioni in merito del quotidiano britannico trovassero fondamento ed il procedimento contro il governo presso l’Alta Corte finisse per dare ragione al The Indipendent. Haiti. Circa 4mila detenuti in attesa di giudizio, aumentano i morti per fame e degrado fides.org, 23 febbraio 2017 L’altro ieri, 21 febbraio, presso la chiesa di St. Anne a Port au Prince, padre Jean Robert Louis ha celebrato alla presenza dei familiari, i funerali di 20 detenuti del Penitenziario Nazionale morti per malnutrizione, in condizioni di miseria e mancanza d’igiene. Solo pochi giorni fa, l’agenzia Associated Press aveva segnalato la terribile situazione dei carcerati nella capitale. Secondo fonti di Fides, il Penitenziario Nazionale di Port-au-Prince ha una capacità di 778 detenuti, questo significa 2,25 m2 per detenuto sotto degli standard internazionali che definiscono la superficie minima per detenuto a 4,50 m2. In realtà, a causa del sovraffollamento, il Penitenziario Nazionale nel mese di gennaio 2017 conta 4.257 prigionieri, quindi ognuno ha meno della metà di un metro quadro di spazio vitale. La gravità della situazione è testimoniata anche dal fatto che solo 548 detenuti di questa prigione sono stati condannati, tutti gli altri sono in carcere senza processo, che alcuni attendono anche molti anni. In questo carcere nel 2016 sono morti 60 detenuti a causa di malattie e cattiva sanità. Tra il 1° e il 19 gennaio c’è stato un aumento dei decessi rispetto ai mesi precedenti. Le cause di morte, segnalate dalle autorità carcerarie, sono: anemia grave, arresto cardiaco, insufficienza respiratoria, tubercolosi polmonare, shock ipovolemico e gastroenterite. Padre Jean Louis Robert, che aveva celebrato anche i funerali di altri detenuti nel mese di gennaio, ha ribadito l’impegno della Commissione per la pastorale carceraria della sua parrocchia per continuare a sostenere questo tipo di iniziative, di celebrare i funerali e seppellire i morti. In precedenza i prigionieri deceduti venivano gettati in una fossa comune, molto spesso senza informare le famiglie. Uzbekistan. Giornalista libero dopo 18 anni di carcere per aver pubblicato un articolo Avvenire, 23 febbraio 2017 Incarcerato per aver pubblicato un giornale di opposizione. Venne rapito dai servizi segreti, dopo essersi rifugiato in Ucraina, e finì in cella nel 1999. Muhammad Bekjanov, 63 anni, è appena stato rilasciato dopo 18 anni di carcere. Lo conferma Reporter Senza Frontiere (Rsf) in un tweet. "Non avrebbe dovuto trascorrere un solo giorno lì". Il giornalista era stato incarcerato in Uzbekistan scontando la detenzione "più lunga del mondo". Bekjanov ha ricevuto nel 2013 il Rfs Press Freedom Award. Il reporter, al centro di campagne internazionali di sensibilizzazione, era tenuto nella regione di Bukhara nella prigione di Kagan, uno dei peggiori penitenziari in Uzbekistan. C’erano serie preoccupazioni per la sua salute. La sua "colpa" era stata quella di aver pubblicato un giornale sgradito al regime. A marzo del 1999 venne rapito dai servizi segreti del suo Paese mentre si trovava a Kiev, in Ucraina, dove era fuggito per continuare la pubblicazione del suo quotidiano, osteggiata dal governo del presidente Islam Karimov, morto lo scorso settembre dopo aver governato ininterrottamente il Paese dalla sua indipendenza nel 1991.