Come liberarsi della necessità del carcere. Uno sguardo alle detenzioni brevi ed altro di Massimo De Pascalis Ristretti Orizzonti, 22 febbraio 2017 La popolazione detenuta in Italia entro il corrente anno si avvicinerà nuovamente alle 59.000 presenze. Sono le proiezioni che è possibile desumere dai dati statistici dell’Amministrazione penitenziaria a partire dal mese di dicembre 2015, quando si è registrata la quota più bassa dopo l’entrata in vigore del decreto 146/13, meglio conosciuto come decreto svuota carceri o indulto mascherato, che aveva prodotto una riduzione delle presenze di oltre 10.000 unità nello scorcio di poco più di due anni. Dall’inversione di tendenza, che si sta registrando dal mese di gennaio 2015 con un aumento medio di 260 detenuti al mese, conseguirà, salvo eventi straordinari, un aumento della popolazione detenuta fino a 59.000 entro la fine del corrente anno e 62.000 entro la fine del 2018: all’orizzonte prossimo, pertanto, appare un allarmante ritorno al passato recente. Anche se sono state introdotte procedure per monitorare e garantire la fruibilità dello spazio minimo tollerabile determinato dalla Cedu, non possiamo non riconoscere che le politiche penitenziarie messe in campo stanno riproducendo gli stessi effetti che nella storia penitenziaria sono seguiti ad ogni indulto: al repentino abbassamento della popolazione detenuta segue un costante e progressivo aumento che ripropone sempre le stesse criticità di Sistema. Sovraffollamento, promiscuità, violazione dei diritti umani, precarie condizioni igienico sanitarie degli istituti, conflittualità diffuse, affaticamento delle procedure di gestione, carenza degli organici delle varie famiglie professionali, carenza di risorse economiche. Possiamo affermare che si confermano le condizioni di emergenza quotidiana in cui opera da almeno vent’anni l’intero Sistema e, in esso, in modo particolare, l’Amministrazione penitenziaria. Eppure, nel vigente ordinamento ci sono già i presupposti normativi per ridefinire e ridimensionare in modo strutturale la necessità del carcere, a favore di un ampliamento dell’esecuzione penale esterna quando la detenzione non sia più socialmente utile. Ma tutto ciò sarà possibile soltanto se l’intero Sistema saprà finalmente maturare una conoscenza e consapevolezza del nuovo modo d’essere dell’esecuzione penale introdotto con la Riforma del 1975 che, per l’appunto, introduce strumenti e procedure per superare la necessità del carcere quando la detenzione non sia socialmente utile. A tale riguardo, anche secondo molti autorevoli studiosi, l’essenza della Riforma è ancora in attesa di essere realizzata. Ma per acquisire, in tal senso, una conoscenza comune è necessario che le strategie e l’azione amministrativa siano orientate da una vision generale che sostenga quello spirito e quel modello alternativo di esecuzione penale, con l’obiettivo di ampliarne la diffusione e l’applicazione. È altresì necessario prendere atto, con la medesima consapevolezza, che Vision e mission istituzionali sono realizzabili soltanto se includono anche una analoga inversione di tendenza nelle politiche di gestione del personale, nonché di riorganizzazione dell’intero Sistema. Si tratta quindi di una mission complessa, poiché riguarda non solo le modalità dell’esecuzione penale ma, allo stesso tempo, anche l’organizzazione generale e le scelte di valorizzazione del personale che sono il vero e indispensabile presupposto per migliorare l’efficienza di qualsiasi azienda, pubblica o privata che sia. A tale riguardo, si registrano ancora una volta delle occasioni mancate, poiché non si può non riconoscere che ciò che è stato realizzato con i recenti decreti di riorganizzazione dell’Amministrazione penitenziaria si è mosso in senso contrario, quasi un segnale avverso nei confronti dell’Amministrazione e del personale, persino contraddittorio rispetto ai bisogni emersi dai tavoli degli Stati Generali che sono stati istituiti per volontà diretta del Ministro Orlando. Oggi, pertanto, alla consolidata condizione di emergenza del nostro sistema penitenziario, si aggiunge una nuova criticità, rappresentata dalla disarmonia che si registra tra il pensiero politico e la traduzione amministrativa di esso. Alla fine, resta confermato, oggi, ma anche in prospettiva, il dato emergenziale del sovraffollamento e le condizioni di criticità che continuano a caratterizzare la quotidianità penitenziaria. Il quadro generale è assai complesso e l’analisi dei vari ambiti del sistema ci condurrebbe fuori dal tema iniziale, volto a superare e ridurre il bisogno di carcere che sta producendo nuovamente le stesse condizioni di sovraffollamento del 2013. A tal proposito, spesso si parla della necessità di liberarsi del carcere e, altrettanto spesso, da quei dibattiti emergono posizioni ideologiche contrapposte, persino comprensibili finché rimangono tali. Apparentemente, sono due linee di pensiero che evocano un’organizzazione e una disciplina sociale rimessa, tuttavia, alla volontà e alle strategie della politica e del suo modo di acquisire consensi. Al contrario, le riflessioni che propongo sullo stesso tema si muovono, invece, sul piano amministrativo, all’interno della vigente normativa che, come ho anticipato, già definisce chiaramente i confini della necessità sociale del carcere e detta le disposizioni utili a liberarsi di quella condizione, in presenza dei presupposti di legge. Pertanto, si tratta di verificare, approfondendo l’analisi, se non ci siano già le condizioni, nell’attuale stato d’essere del sistema, per rinunciare parzialmente al carcere quando questo sia socialmente inutile. Il punto di partenza ci viene offerto dai dati rilevabili dal sito del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria. A dicembre dello scorso anno, i detenuti condannati con sentenza irrevocabile erano 35.485 di cui ben 7.296 con una pena residua inferiore ad un anno ed altri 6.397 fino a due anni. Se allarghiamo la forbice a tre anni, il numero sale a 18.526 e fino a cinque anni diventano addirittura 24.467. Confortati dagli indirizzi giurisprudenziali, normativi e della stessa dottrina, possiamo ragionevolmente considerare che sono prossimi alla fine pena i detenuti che stanno scontando una condanna residua inferiore a due anni, pari a 13.693 persone. Ed è nei confronti di questi che bisogna porsi la domanda se il carcere sia ancora necessario, ovvero se sia tuttora socialmente utile. In altri termini, domandarsi se e per quanti di loro ci sia già una prognosi sociale favorevole, tale che, utilizzando le attuali procedure, potrebbe consentire di modificare lo stato di detenzione attuale in modalità di esecuzione penale esterna, ovvero in affidamento in prova al servizio sociale, affidamento terapeutico e detenzione domiciliare. Proviamo allora a indagare l’ambito della soglia dei due anni di residuo pena e verificare se e per quanti di loro il carcere sia invece una condizione sociale inutile. Da un monitoraggio condotto dall’Amministrazione penitenziaria fin dal mese di aprile dello scorso anno, è emerso che 1.744 detenuti dei 13.693 che stanno scontando un residuo pena inferiore a due anni, hanno già, di fatto, una prognosi orientata favorevolmente, poiché fruiscono di permessi premio, della semilibertà e del lavoro all’esterno. Tuttavia, continuano a scontare la loro condanna in stato di detenzione, a conferma delle condizioni di incertezza che ancora governano il nostro Sistema, nonostante gli impulsi favorevoli da parte di varie Istituzioni, tra le quali in modo particolare la recente posizione assunta da Papa Francesco in occasione del Giubileo dei carcerati lo scorso 6 novembre. Attuare un’inversione di tendenza che sappia riconoscere legittimamente una diversa modalità di eseguire la pena in prossimità della sua scadenza, viceversa, sarebbe un esempio di buona amministrazione e persino di buona giustizia, peraltro in linea con la vision politica del Ministro Orlando, nonché coerente con il bisogno di cambiamento che, nonostante abbia investito il nostro Sistema da alcuni anni, continua invece a produrre una quotidianità penitenziaria perlopiù immutata. In altre parole, nel nostro sistema penitenziario risulta proceduralmente provato che 1.744 detenuti prossimi alla fine pena sono in possesso di credibili capacità risocializzanti, ovvero che nel corso della detenzione hanno manifestato valori e comportamenti socialmente utili, tali da poter legittimare una diversa modalità di scontare la propria condanna, modificandola in misura piena di esecuzione penale esterna, di affidamento in prova, di affidamento terapeutico e di detenzione domiciliare, senza che da ciò possa derivare un concreto pregiudizio all’equilibrio sociale di riferimento. Sia ben chiaro che sono consapevole della complessità del tema e delle difficoltà oggettive che devono affrontare gli operatori penitenziari in tali delicate e spesso contraddittorie procedure che portano alla conoscenza del detenuto e alla qualificazione e pesatura del percorso risocializzante che viene trasmesso alla Magistratura di Sorveglianza. Ma ciò che hanno già prodotto non può continuare ad essere disconosciuto, almeno nei riguardi di quella porzione di detenuti. Ma il perimetro di una prognosi sociale favorevole può persino allargarsi se proviamo ad estendere la nostra analisi anche a coloro che, pur non avendo ancora fruito dei benefici sopra indicati, hanno già beneficiato della liberazione anticipata che, è utile ricordarlo, il legislatore riconosce solo a coloro che "hanno dato prova di partecipazione all’opera di rieducazione" e, quindi, in presenza di una prognosi persino più favorevole rispetto a quanto lo stesso legislatore richiede per la concessione dei permessi premio (regolare condotta e assenza di pericolosità sociale), della semilibertà (disposta in relazione ai progressi compiuti nel corso del trattamento) e del lavoro all’esterno (senza alcuna prognosi, è una modalità di attuazione del trattamento sulla base delle verifiche in corso). Credo di sbagliare per difetto se affermo che il 70% dei detenuti già condannati fruisce ordinariamente della liberazione anticipata, percentuale che ci consente di dedurre che almeno altri 8.400 detenuti della soglia presa in considerazione si aggiungono ai 1.744, per un totale di 10.144 detenuti, per i quali sussiste una prognosi sociale favorevole, tale comunque da far ritenere opportuno un approfondimento individualizzato. In altri termini, l’attuale sistema penitenziario registra un potenziale eccesso di carcere superiore a 10.000 persone che potrebbero scontare la loro condanna con le formule alternative dell’esecuzione penale esterna sulla base di presupposti individuali già presenti. Con tutti i vantaggi immediati che ne conseguirebbero rispetto alle attuali criticità. Questo, peraltro, e per inciso, è il vero obiettivo della cd. "Sorveglianza dinamica" di cui spesso si parla anche con affermazioni di principio alquanto stravaganti. Peraltro, tale condizione di inerzia del Sistema si registra, come già detto, a fronte di un lento, progressivo e significativo aumento della popolazione detenuta che nel corso del 2016 è aumentata di 2.489 persone e nel corso del solo mese di gennaio 2017 di circa altri 1.000 detenuti per un aumento complessivo di 3.500 detenuti che ripropone, di fatto, il problema del sovraffollamento. Il Sistema, all’incontrario, continua a mantenere condizioni d’attesa che stanno determinando una pericolosa involuzione. Sembra quasi che ineluttabilmente privilegi rincorrere l’emergenza e le sue perenni insicurezze, da cui scaturiscono contraddizioni e frustrazioni, abbandonandosi a una quotidianità le cui responsabilità sono addossate esclusivamente sul personale che opera negli Istituti, che invece auspica una vision ben definita e un organico quadro organizzativo e gestionale. Per tale ragione credo che, ancora una volta, sia necessario l’intervento del legislatore con l’introduzione di una norma che inverta l’onere della prova rieducativa nei confronti dei condannati con residuo pena inferiore a due anni. Nel senso che tale scorcio residuale di pena dovrebbe essere scontato ope legis in esecuzione penale esterna, salvo che non sia dichiarata, motivatamente e documentalmente, la mancata partecipazione all’opera rieducativa. Una scelta di natura strutturale che non solo assesterebbe la popolazione media dei detenuti intorno alle 50.000 presenze ma, soprattutto, creerebbe le condizioni ideali e i presupposti per recuperare la necessaria organicità a sostegno delle strategie amministrative, con lo sguardo rivolto all’organizzazione e alle politiche di gestione del personale, con la consapevolezza che tutto ciò potrà finalmente migliorare l’efficienza dell’intero sistema, a vantaggio di un nuovo modo d’essere dell’esecuzione penale. Questi sono orizzonti politici e amministrativi su cui sarebbe utile riflettere e spendersi. I "folli-rei" che vagano tra le Rems e le carceri di Rita Bernardini e Massimo Lensi Il Dubbio, 22 febbraio 2017 La recente storia del superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari rischia di diventare il paradigma di quelle cure che lungi dal risolvere il malanno ne favoriscono la metastasi. Pensata per lasciarsi definitivamente alle spalle strutture troppo spesso simili a discariche medioevali per i folli- rei, la legge 81/ 2014 vede svanire, già nella sua applicazione, il lavoro di riforma che l’ha guidata e il profilarsi del quanto mai concreto rischio di partorire tanti mini- Opg all’interno degli istituti penitenziari. La si potrebbe definire una riforma applicata in modo distratto, senza lo slancio ideale che guidò la chiusura dei manicomi facendo insieme crescere la società in un nuovo approccio verso la malattia mentale. Certo, oggi ai folli rei la politica è poco interessata e l’ambiente sociale, stimolato a dovere con allarmi securitari, è distante anni luce dalla stagione del- le speranze degli anni Settanta. Ed è anche a causa di questa distrazione che, da quando sono stati "superati" gli Opg, si è venuto a creare un nuovo e allarmante fenomeno all’interno dei siti carcerari. Prima della riforma contenuta nella legge 81/ 2014, per i detenuti che incorrevano nell’infermità psichica nel corso dell’esecuzione della pena era previsto il trasferimento in Opg per l’accertamento dell’infermità mentale (art. 111 DPR 230/ 2000). La nuova dimensione della cura riabilitativa per i malati di mente autori di reato, organizzata secondo il principio della territorialità in Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) a dimensione regionale, esclude specificamente dal proprio ambito di interesse e applicazione i detenuti che incorrono nella infermità psichica nel corso dell’esecuzione di pena. Per "occuparsi" di costoro, sia per l’accertamento diagnostico che per gli interventi terapeutici, la soluzione è oggi quella di creare nel carcere, sezioni speciali per osservandi e "minorati psichici", strutture previste da numerosi accordi della conferenza Stato- Regioni e dal Dpcm del 1 aprile 2008, che disciplina il passaggio delle funzioni sanitarie dall’amministrazione penitenziaria alle Regioni. Come se ciò non bastasse, anche all’interno dei percorsi previsti per i malati di mente autori di reato si sta creando un allarmante ingorgo gestionale e amministrativo intorno all’inserimento in Rems, con il formarsi di vere e proprie liste di attesa. Ad ottobre 2016 le persone in attesa del trasferimento nelle strutture per l’esecuzione delle misure di sicurezza erano 241 (176 con misure provvisorie e 65 definitive). Tutto ciò sta accadendo perché le 30 Rems attualmente in funzione sul territorio nazionale sono già piene: la capienza ad oggi è, infatti, di 624 posti letto. L’indebolimento a livello territoriale dei Dipartimenti di salute mentale e delle comunità terapeutiche psichiatriche aggiungono gravami alla già triste situazione. Ecco quindi che il cerchio dell’ingorgo si chiude in carcere, dove finiscono per esser piazzate in attesa molti che dovrebbero essere accolte in una Rems, ma non vi trovano posto. Ed è così che malati di mente autori di reato vanno a sommarsi agli osservandi e ai minorati psichici. È bene, infatti, ricordare che le misure di sicurezza emesse nei confronti dei malati di mente autori di reato derivano dal giudizio di pericolosità sociale e necessitano, per legge, non tanto della privazione della libertà, quanto di cure psichiatriche. Cure che, come andiamo denunciando da anni noi radicali non si possono attuare in sezioni speciali psichiatriche all’interno dei plessi penitenziari, sulla cui creazione siamo fortemente contrari da sempre. In carcere, è plausibile, al massimo, concepire l’organizzazione della fase di osservazione diagnostica dello stato di infermità mentale. Ma non certamente l’attuazione delle cure psichiatriche. In carcere non si cura nulla perché è il carcere che fa ammalare. Eppure, nel silenzio intorno a questa riforma distratta, queste sezioni stanno nascendo ed il rischio concreto è quello di dar vita in breve tempo a tanti mini- Opg all’interno degli istituti penitenziari, vanificando il lavoro di riforma della legge 81. Devono, inoltre, ancora essere risolti i problemi della redistribuzione dei pazienti in Rems nel pieno rispetto del principio di territorialità, in particolare per le donne, la corretta applicazione delle misure di sicurezza provvisorie, la riforma del principio di pericolosità sociale che permette il nefasto ‘ doppio binario" retaggio penale del Codice Rocco, le liste di attesa per le Rems, il potenziamento dei Dipartimenti di salute mentale e delle comunità terapeutiche psichiatriche, la mancanza della necessaria gradualità, da parte della magistratura, nell’invio in Rems, considerate dalla legge come strutture terapeutiche residuali per i casi più gravi. Così come siamo attenti a recuperare quel senso di umanità e di rispetto dello Stato di Diritto in relazione al principio costituzionale del diritto alla salute di tutti i cittadini, compresi i detenuti e gli internati psichiatrici, noi radicali abbiamo sempre denunciato i fallimenti delle politiche penitenziarie alternative all’esecuzione di pena in carcere cercando di contrastarli. Lo abbiamo fatto, e lo stiamo facendo, con la lotta nonviolenta, gli scioperi della fame, le visite negli istituti penitenziari, perché la politica e l’opinione pubblica siano riscosse da questa perenne distrazione e tornino a interrogarsi su questo terribile antro della amministrazione della giustizia in Italia che è il pianeta carcere con i suoi satelliti, un girone dantesco nuovamente sovraffollato e pieno degli orrori derivanti dall’assenza di cura La sfida etica della riconciliazione fra autore e vittima del reato di Nicola Rabbi bandieragialla.it, 22 febbraio 2017 Alcune settimane fa è apparsa sulla stampa la notizia che in Olanda le carceri chiudono per mancanza di detenuti. In Italia invece le carceri sono sempre piene e la recidiva è altissima, basti questo a far riflettere come nel nostro paese persista, grave, e non adeguatamente affrontato, il problema del sistema penitenziario. Non essendo possibile sostenere che la popolazione italiana sia geneticamente più incline a delinquere di altre, dobbiamo ammettere storture ed arretratezze del nostro sistema giudiziario. Pensiamo a un nuovo modello di giustizia basato su una progettualità culturale tesa alla piena ed effettiva attuazione del dettato costituzionale. Nella costituzione la pena è prevista in funzione del recupero e del reinserimento: ha un fine pedagogico-morale. In questa logica la proposta della giustizia riparativa, per la sua grande portata di innovazione, può giocare un ruolo determinante. Che cos’è la giustizia riparativa - Il percorso necessario ad attuare questo modello è difficile e la nostra società non è forse ancora pronta, ma è indispensabile affrontarlo, anche provocatoriamente, pur di smuovere le coscienze. La giustizia riparativa è un paradigma di giustizia a sé stante, non si sostituisce alla giustizia retributiva, è culturalmente e metodologicamente innovativo, spendibile in ogni stato e grado di procedimento, il suo obiettivo principale è quello di rimediare ai torti commessi (to put right the wrongs). Si caratterizza per essere una teoria sociale della giustizia: si propone la cura oltre che la punizione, ed è prevalentemente orientato verso il soddisfacimento dei bisogni delle vittime e della comunità specifica in cui la violenza è stata commessa. Le questioni fondamentali non sono più: chi merita di essere punito? E con quali sanzioni, bensì cosa può essere fatto per riparare il danno? In questa accezione riparare non significa ripagare in termini economici il danno cagionato. La riparazione economica da sola non può soddisfare la vittima; la riparazione morale, che affonda le proprie radici in un intenso percorso di mediazione, ha una valenza molto più profonda e soprattutto uno spessore etico che la rende più complessa del risarcimento. Tutto ciò può apparire mera speculazione teorica, validissima ma inutile, di fronte alla difficoltà della messa in pratica dei percorsi di mediazione. Attualmente nella nostra società prevale una visione della giustizia forcaiola, quella del buttare la chiave, così nei meccanismi dell’esecuzione penale prevale il rifiuto dell’ottica riparativa, tanto a livello dirigenziale quanto fra gli stessi carcerati. Ciò si deve alla scarsa informazione sul modello in sé e sulle opportunità che offre. Il racconto di una madre - Recentemente a Roma, durante la giornata del Giubileo per il detenuto, alla presenza del Santo Padre una mamma ha raccontato con parole semplici, profonde e commoventi il proprio dolore per la morte del figlio, vittima di un pirata della strada. Ha però anche raccontato come grazie a un percorso d’intermediazione si è potuta avvicinare a una persona responsabile di un atto simile senza provare odio o desiderio di vendetta, nello sforzo di ricollocare un lutto così grave in un contesto di accettazione. Un esempio concreto che dimostra, a dispetto dei denigratori, in modo toccante che il percorso è fattibile. D’altra parte sulla materia, in Italia e in Europa, esistono ampi e documentati studi che ne dimostrano la fattibilità. Questo nuovo paradigma di giustizia oltre a ricompensare gli offesi e la società, può diventare paradossalmente il grimaldello per mettere mano anche ai mali del sistema penitenziario italiano e l’occasione per avviare un grande progetto culturale e ideale di riforma della giustizia. Umanizzare il sistema carcerario - Nella situazione carceraria italiana esistono esperienze di questo tipo: Bollate, Padova e altre realtà. Sono casistiche limitate e disorganiche ma dimostrano che un’altra pena è possibile. Per mettere a sistema queste esperienze è fondamentale adottare una strategia che porti l’intera società a un livello nuovo di coscienza civile sul carcere e sulla pena. Abbiamo, come società, il bisogno di un salto di qualità nel modo di pensare e di agire su questi temi. A questo è chiamata anche la classe politica a oggi colpevolmente latitante. Le forze politiche, nel paese e in parlamento, dovrebbero affrontare il tema della pena superando ipocrisie attendiste e timori d’impopolarità. L’azione del legislatore deve essere coraggiosa, improntata a una visione complessiva, e un governo è davvero autorevole quando adotta provvedimenti giusti e lungimiranti a vantaggio della collettività senza subordinarli a un facile consenso popolare. In Parlamento giacciono da tempo proposte di legge sulla giustizia ed è sempre più evidente che l’Italia è inadempiente ai richiami delle direttive fornite dalla Comunità Europea. Una riforma è necessaria. Recepire all’interno del sistema giudiziario italiano la giustizia riparativa non sarebbe più solo un adeguamento legislativo, ci metterebbe all’avanguardia in Europa e in sostanza ci aiuterebbe a costruire una società veramente più civile. Giustizia? Per 63 italiani su 100 è malagiustizia: non ci si fida più dei magistrati affaritaliani.it, 22 febbraio 2017 63 italiani su 100 sono insoddisfatti dei meccanismi e dei tempi che dovrebbero regolare tribunali e processi. Priorità alla giustizia, e solo dopo caos trasporti pubblici, sanità, buona scuola. Cambia la mappa delle emergenze secondo gli italiani che mettono il diritto al primo posto tra le priorità. Lo rivela l’ultimo sondaggio di Index Research sulla soddisfazione dei servizi. Secondo la rilevazione, 63 italiani su 100 sono insoddisfatti dei meccanismi e dei tempi che dovrebbero regolare tribunali e processi. Gli italiani hanno sempre meno fiducia nel sistema giustizia e nel meccanismo che regola il "giusto processo". Una questione che toglie il sonno a migliaia di cittadini, colpiti dai tempi infiniti dei procedimenti, o da casi eclatanti di "malagiustizia". Natascia Turato direttore di Index: "Dal nostro sondaggio emerge che, a sorpresa, il tema della sanità supera quello della sicurezza, questione storica su cui si sono basate numerose campagne elettorali. Evidentemente l’esigenza di garantire il diritto alla salute a alla cura è percepita come fondamentale e purtroppo il servizio erogato dallo Stato non è ritenuto all’altezza delle richieste". Eurispes. La paura di subire reati aumentata rispetto al passato per un terzo degli italiani eurispes.eu, 22 febbraio 2017 Il senso di (in)sicurezza. Un terzo degli italiani (33,9%) ha più paura di subire reati rispetto al passato, soprattutto per quel che riguarda furti in casa e aggressioni. Disagio sociale e disoccupazione sarebbero le cause principali dei fenomeni criminali. Rispetto a 8 anni fa è cresciuto il numero di chi vorrebbe limitare l’ingresso degli immigrati (dal 6,5% al 14,9%). Se in pericolo, il 41,3% dei cittadini ricorrerebbe probabilmente all’uso di un’arma, mentre il 22% è sicuro che lo farebbe. Il 42,7% è contrario all’incriminazione di chi reagisce durante un furto in casa/nel proprio negozio sparando e ferendo/uccidendo gli aggressori e il 48,5% sarebbe d’accordo solo se la reazione non fosse commisurata alla minaccia. Nel corso degli ultimi 2 anni, la paura di subire reati è aumentata rispetto al passato per un terzo degli italiani (33,9%), per oltre la metà (58,2%) è rimasta invariata e solo per il 7,8% è diminuita. Gli italiani si sentono minacciati dal furto in abitazione (34,8%), a seguire dall’aggressione fisica (15,1%). Disagio sociale (21,1%), mancanza di lavoro (14,5%), difficile situazione economica (12,5%), eccessiva presenza di immigrati (12,5%), pene poco severe/le scarcerazioni facili (11,2%) sono secondo gli italiani le cause principali della diffusione dei fenomeni criminali nel nostro Paese. Il problema della criminalità potrebbe essere dunque risolto garantendo la certezza della pena (22,5%) e incrementando l’occupazione (19,7%). A distanza di 8 anni sono aumentati i cittadini secondo i quali, per contrastare la delinquenza, occorre limitare l’accesso nel Paese agli immigrati (dal 6,5% al 14,9%) e rafforzare il dispiegamento delle Forze dell’ordine (dal 7,2% al 14,6%). Il 41,3% dei cittadini dichiara che probabilmente ricorrerebbe alle armi se messo in una situazione di pericolo, mentre il 22% è sicuro che lo farebbe. Poco più di un terzo si pronuncia diversamente: il 25,8% probabilmente non utilizzerebbe le armi sotto minaccia e il 10,9% esclude nettamente tale possibilità. Il 48,5% dei cittadini è d’accordo con l’incriminazione di chi reagisce durante un furto in casa/nel proprio negozio sparando e ferendo o uccidendo gli aggressori, nei casi però in cui la reazione non sia commisurata al pericolo; il 42,7% è contrario all’incriminazione, mentre l’8,8% sostiene che debbano essere incriminati in ogni caso. Omicidio stradale, effetti perversi di Giorgio Bignami Il Manifesto, 22 febbraio 2017 Crescono i dubbi sulla sua costituzionalità, a causa della gravità delle pene. Con un groviglio di complicazioni che favorisce chi ha i mezzi per permettersi una difesa costosa. La legge sull’omicidio stradale si sta rivelando una patata assai più bollente rispetto alle pessimistiche previsioni iniziali. Crescono i dubbi sulla sua costituzionalità, a causa della gravità delle pene - sino a 18 anni di carcere in caso di incidente mortale dopo assunzione di alcol o droga - rispetto a quelle previste per altri reati colposi con conseguenze altrettanto o addirittura più gravi. Il tribunale di Padova, è vero, ha ribadito che è intoccabile la discrezionalità del legislatore (anche quando di fatto sfocia nel populismo penale?), respingendo l’istanza della difesa di un’imputata di rinvio alla Consulta basata sul trattamento "ingiusto e irragionevole in relazione, soprattutto, ad altre fattispecie analoghe o anche in ipotesi di reati dolosi percepiti peraltro dalla collettività con connotati di grave disvalore sociale". Ma riportando la notizia il Sole 24 ore (7 febbraio) fa notare che la Consulta si è ripetutamente pronunciata contro le alterazioni degli equilibri costituzionalmente imposti nella strutturazione della responsabilità penale. Cioè prima o poi la legge potrebbe arrivare alla Consulta per altre vie; e dati i precedenti potrebbe non uscirne indenne. Anche il procuratore generale della Corte di cassazione, nel suo discorso all’inaugurazione dell’anno giudiziario, ha dato un pur cauto giudizio negativo ("la disciplina incorpora qualche aspetto critico che l’esegesi dovrà risolvere"). Inoltre i dati raccolti dopo l’entrata in vigore della legge non mostrano una riduzione degli incidenti e delle omissioni di soccorso, mentre nei media l’enfasi si va spostando sull’impennata degli incidenti provocati da distrazione (che non è tra le aggravanti previste dalla legge), sino a 3 su 4; e secondo l’Aci, un guidatore morto su 4 è vittima del telefono. Numerose poi le segnalazioni di effetti perversi della legge. Per esempio, un soggetto positivo all’alcol che abbia provocato un piccolo incidente non può più procedere al risarcimento immediato del danno: con le nuove norme il giudice deve sempre considerare prevalente l’aggravante dell’alcol, senza poterla bilanciare con il risarcimento del danno o l’effettivo grado della colpa. Altro esempio: basta un banale tamponamento per la sospensione della patente per 5 anni. Infine si complica sempre di più sia la questione della validità dei vari tipi di accertamenti sull’assunzione di alcol e/o droghe che quella delle modalità secondo le quali è lecito, o meno, procedere agli accertamenti stessi. A parte il gran numero di etilometri fuori uso o di dubbia affidabilità, seguitano a contraddirsi le successive sentenze di Cassazione in tema di validità delle misure in caso di volume insufficiente dell’aria soffiata (il Sole, 14 febbraio). In caso di rifiuto di sottoporsi al test dell’etilometro scatta l’obbligo di procedere al test sui liquidi biologici, ma il soggetto deve essere avvisato che ha il diritto di far assistere il suo avvocato a detto test; tuttavia questo "ostacolo" può essere aggirato se l’avvocato non arriva in tempo per evitare un calo significativo del tasso alcolemico. Nel caso delle droghe illecite il problema è un altro: in particolare per la cannabis, il reperto analitico può dire ben poco sulla condizione psicofisica del soggetto al momento dell’incidente, per cui ripetutamente si è sancito che l’ultima parola spetta all’esame clinico effettuato tempestivamente. Ovviamente questo groviglio di complicazioni favorisce chi ha i mezzi per permettersi una difesa costosa ed efficace, mentre penalizza sempre più pesantemente i soggetti più deboli. Il disegno di legge contro le fake news va fermato di Vincenzo Vita Il Manifesto, 22 febbraio 2017 È un testo che oscilla tra la ridondanza e il rischio di favorire la censura, il pasticcio diventa massimo quando si intende regolamentare blog e siti sotto il profilo della responsabilità editoriale. Dalle fake news alle fake laws. Si tratta di leggi infarcite di cattive promesse e cariche di emotività emergenziale. Un caso di scuola è rappresentato dalla proposta (Atto Senato 2688, depositato lo scorso 7 febbraio) sottoscritta da diversi parlamentari "trasversali", sotto la prima firma dell’esponente del gruppo Ala Adele Gambaro: "Disposizioni per prevenire la manipolazione dell’informazione online, garantire la trasparenza sul web e incentivare l’alfabetizzazione mediatica". È un testo che oscilla, purtroppo, tra la ridondanza e il rischio di favorire la censura. Infatti, l’articolato si sovrappone a forme di reati - diffamazione, diffusione di notizie false e tendenziose - già ampiamente previste dai codici ma qui impropriamente dilatati. L’eccesso di zelo si trasforma, al di là delle intenzioni, in un bavaglio bello e buono. Che significa, infatti, "destare pubblico allarme"? O "fuorviare settori dell’opinione pubblica"? Attenzione all’eterogenesi dei fini. Per contrastare campagne razziste, il bullismo, l’apologia del fascismo o simili trasgressioni la legislazione vigente è sufficiente. Va applicata, ovviamente. E qui si apre - se mai - l’annoso capitolo che riguarda le autorità vigilanti, cui si dovrebbero riferire oneri e onori del caso. Le logore grida manzoniane non colpiscono, come è noto, la vera criminalità, mentre costituiscono una sorta di intervento preventivo ai danni dei "normali" utenti e navigatori. Il pasticcio diventa massimo quando si intende regolamentare blog e siti sotto il profilo della responsabilità editoriale. Per non equiparare la rete alle testate giornalistiche, si sostituisce la registrazione presso il Tribunale con la notificazione (sempre al Tribunale) via posta elettronica certificata (Pec). Un contributo al caos, non alla trasparenza. La questione è delicata, perché ciò che accade nell’universo digitale non è estraneo allo stato di diritto. Tuttavia, va sottolineato che la via da imboccare non è la fotocopia ingiallita delle strutture e dei riti consolidati, bensì la stipula di un impegnativo protocollo di intesa con gli over the top come Facebook. I sovrani degli algoritmi devono stabilire uno specifico "Statuto dell’impresa editoriale", con l’indicazione di chiare aree di competenza e l’esplicitazione dei garanti per ogni paese del rispetto delle leggi nazionali. Multe salate ai proprietari, da ottenersi sulla tassazione e sulla pubblicità. Insomma, l’età digitale è un nuovo mondo, che evoca approcci e culture inediti e creativi. Altrimenti, il mero "proibizionismo" fa solo peggiorare la situazione. Buona l’idea del testo di una formazione continua e professionale nelle scuole. Anzi. Sta proprio nella costruzione di un clima di opinione maturo ed adeguato la ricetta su cui lavorare. La coscienza digitale è un pezzo decisivo della cittadinanza democratica e solo così si può forse limitare il fenomeno tragico delle "bufale", o degli atteggiamenti incivili e simbolicamente violenti. L’iter parlamentare del disegno di legge non è ancora avviato. Un appello va rivolto alle senatrici e ai senatori proponenti. Ci si fermi, per ripensare alla materia in maniera adeguata, raccogliendo il coro critico pressoché unanime che si è sollevato nei giorni passati. Evgeny Morozov ha scritto sull’Internazionale che "questo significa costruire un mondo in cui Facebook e Google non abbiano tutta questa influenza". E sì, la manipolazione non muore mai. Come l’egemonia. Indagati e condannati per sbaglio. Il risarcimento? Lo tiene lo Stato di Stefano Zurlo Il Giornale, 22 febbraio 2017 Uno preso per corruttore, l’altro 2 anni in cella per droga Indennizzo negato alla 81enne: è scivolata per colpa sua. C’è l’errore, d’accordo. Ma spesso i guai sono come le ciliegie. Uno tira l’altro. E così l’imputato o più semplicemente la persona che vorrebbe solo giustizia deve strisciare sotto una galleria di umiliazioni, sofferenze, paradossi. Qualche volta la sentenza timbra anche la beffa, dopo aver certificato il danno subito dal malcapitato. Dipende. Il ventaglio delle sorprese è purtroppo sterminato. Torna in mente l’errore giudiziario per eccellenza, quello di Daniele Barillà, il piccolo imprenditore brianzolo arrestato sulla tangenziale di Milano il 13 febbraio 1992, nei giorni in cui il motore di Mani pulite scalda i motori. Barillà non c’entra niente con Tangentopoli, lui dovrebbe essere, e invece non è, un trafficante di droga. Ma il gip che lo interroga, Italo Ghitti, è lo stesso che firmerà nei mesi seguenti centinaia di arresti per i colletti bianchi dei partiti. E Ghitti si sorprende perché l’indagato, ammanettato secondo lui con le mani nel sacco, resiste e si ostina a proclamarsi innocente. "Se lei non confessa - è la profezia - si beccherà vent’anni". Previsione quasi azzeccata, perché l’artigiano viene condannato a 18 anni, ridotti poi a 15 in appello e confermati in cassazione. Lui, per tirarsi fuori da quel disastro, racconterebbe pure quello che non ha fatto, ma il problema è che non sa cosa confessare. Come Crainquebille, il verduraio uscito dalla penna di Anatole France che racconterebbe volentieri il proprio peccato alle forze dell’ordine se solo sapesse qual è. La storia di Barillà si trascina per sette anni mezzo, fino alla svolta nel 1999, come una somma di equivoci: il suo silenzio colmo di angoscia viene scambiato, anche nei verdetti, per lo spessore criminale di un boss incallito. E quei testimoni, amici e parenti, che gli hanno garantito l’alibi narrando per filo e per segno cosa ha fatto, e dove era nelle ore decisive del 13 febbraio 1992, vengono incriminati e rischiano di essere processati a loro volta. L’errore chiama errore. A volte invece si mischia alla prepotenza. Enrico Maria Grecchi, altro nome sconosciuto al grande pubblico e lontano dai riflettori, si fa 654 giorni di cella per traffico di stupefacenti, prima di essere assolto in appello e secondo grado. Con la banda di malfattori lui non c’entra niente. Potrebbe bastare, ma la giustizia si prende la rivincita alleandosi con la burocrazia più ottusa. Succede infatti che il ministro dell’Economia stacchi finalmente l’assegno per l’ingiusta detenzione: 91.560 euro. Stirati. Stiratissimi, molti meno di quelli richiesti perché Grecchi, a sentire i magistrati, non ha schivato l’amicizia con un tipo poco raccomandabile e questo ha indotto in errore i giudici che l’hanno incarcerato. Alla fine, è sempre colpa sua. Ma non è finita. Quei soldi dovrebbero essere un mezzo risarcimento, innescano un nuovo scempio. Nella partita si butta infatti Equitalia che vanta crediti pari a 67.056,21 euro. Pare si tratti di somme legate a tasse automobilistiche. Sembra impossibile, ma dopo tante esitazioni e balbettii, Equitalia piomba come un fulmine sul tesoretto e glielo porta via. Con tanto di bollo del tribunale di Lecco. Nessun rispetto, dunque, per quello che è successo. Lo Stato avrebbe dovuto cospargersi il capo di cenere, invece eccolo azzannare quel gruzzolo sacrosanto. Poi, altro colpo di scena in un procedimento surreale, si scopre che gran parte delle multe contestate, ormai datate, è andata in prescrizione. Una parte, una parte soltanto del malloppo conteso, viene restituita a Grecchi in un andirivieni indecoroso. Errori grandi, errori piccoli. Nel penale e nel civile. Conditi spesso con la pena supplementare del disprezzo. La signora ottantunenne è caduta nella buca? Affari suoi, altro che risarcimento da parte del Comune di Milano. "È noto - scrive una toga di rito ambrosiano - che con il progredire dell’età il sistema motorio e quello sensoriale (oltre che quello cognitivo) perdono parte della propria efficienza". E avanti con diagnosi serrate e impietose. Nessun indennizzo, ci mancherebbe. Ma una conclusione folgorante: se la donna è scivolata è solo colpa sua. La prescrizione-scandalo e le scuse al popolo di Valter Vecellio L’Unità, 22 febbraio 2017 Questa non è una storia che può essere chiusa chiedendo scusa alla vittima; non basta chiedere scusa al popolo italiano, come ha fatto la dottoressa Paola Dezani, giudice della Corte d’Appello di Torino. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando fa sapere di aver inviato gli ispettori, per accertare fatti e responsabilità. È, come s’usa dire, il minimo sindacale. Si vorrebbe registrare, in queste ore, assai più vigorose, fattive assunzioni di responsabilità; è certamente necessario comprendere come sia potuto accadere quello che è accaduto; ma soprattutto si vorrebbe sapere cosa si intende fare per evitare che si ripeta. La storia comincia nel 1997, vent’anni fa. Meglio: vent’anni fa inizia un processo, che la storia, penosissima, comincia molto prima. È la storia di una bambina che deve patire ripetute violenze da parte del convivente della madre. La donna lavora, e non immagina di affidare la figlia a un orco. Chissà per quanto tempo la cosava avanti. Fatto è che un giorno la piccola la trovano per strada, in condizioni che dire confuse è poco; mani pietose la portano in ospedale, lì emerge l’orrore: la bimba è vittima di traumi derivati da ripetuti abusi, vengono diagnosticate anche infezioni trasmesse sessualmente. La procura di Alessandria istruisce un processo per maltrattamenti e violenza sessuale. In udienza preliminare viene chiesta l’archiviazione per una parte delle accuse, l’orco è condannato solo per maltrattamenti; il giudice dispone il rinvio degli atti in procura perché si proceda anche per violazione sessuale. Il tempo passa; gli anni passano. Arriva la condanna, finalmente: dodici anni di carcere. C’è l’Appello. Da Alessandria il procedimento finisce a Torino. Qui accade qualcosa di incredibile, di inspiegabile: ci vogliono ben nove anni prima che il processo sia fissato. Nel 2016 il presidente della Corte d’Appello Arturo Soprano, allarmato per l’eccessiva lentezza di troppi processi, cambia il criterio di assegnazione dei fascicoli. Ascoltiamolo: "Ho tolto dalla seconda sezione della Corte d’Appello circa mille processi, tra cui questo, e li ho ridistribuiti su altre tre sezioni. Ognuna ha avuto circa trecento processi, tutti del 2006, 2007 e del 2011. Rappresentavano il cronico arretrato che si era accumulato". Fermiamoci un momento: la seconda sezione della Corte d’Appello di Torino è letteralmente schiacciata dai processi, e per alleggerire il carico, il presidente le toglie un migliaio di processi. Sono processi che risalgono a sei, dieci, undici anni fa, e sono a metà del percorso: non sappiamo quando sono cominciati; non sappiamo quando - prescrizione permettendo - finiranno, perché devono ancora passare al vaglio della Cassazione. Questo accade a Torino. E nel resto d’Italia? Il processo che qui interessa, quello nei confronti dell’orco, "riposa" per un altro anno. L’udienza si svolge solo l’altro giorno; ai giudici non resta che prendere atto che per le imputazioni contestate è scattata la prescrizione. Il presidente della Corte d’Appello Arturo Soprano, diamogliene atto, riconosce che quella che si è consumata è un’ingiustizia per tutti, "la vittima è stata violentata due volte, la prima dal suo orco, la seconda dal sistema". L’avvocato generale Giorgio Vitari, che ha sostenuto la pubblica accusa, diamogliene atto, esprime "il rammarico della procura generale per i lunghi tempi trascorsi". Giusto rammarico, doverose doglianze. Resta il fatto concreto: un processo di tale gravità è durato in primo grado dal 1997 al 2007. Poi ha atteso altri nove anni per essere fissato in Appello. Le scuse alla vittima, al popolo italiano, non bastano. Quel processo finito in carta straccia, fa parte di un carico di mille processi tolti dalla seconda Corte d’Appello di Torino e ripartiti nelle altre sezioni. Dunque quanti altri casi, magari meno penosi dì quello di cui si è parlato, ma di eguale giustizia negata? Quanti, come questo caso, ogni giorno, ogni settimana, ogni mese, a Torino e negli altri uffici giudiziari? Questo è il problema, la carne della questione. Non si dovrebbe mai dimenticare quello che tra il 1763 e i11764 scriveva Cesare Beccaria nel suo Dei delitti e delle pene: "Un sistema giudiziario che vuole assicurare vera giustizia, deve garantire l’applicazione delle leggi penali certa, tempestiva e uguale per tutti i cittadini". Dal 5 febbraio, Rita Bernardini, della presidenza del Partito Radicale, è in sciopero della fame per l’Amnistia, l’indulto, la riforma della giustizia. Episodi come questo di Torino dimostrano quanto sia giusta la sua iniziativa, e di come sia urgente che la classe politica, persa in bizantinismi e lunari arabeschi debba recuperare un minimo di misura e senso di responsabilità; e finalmente prenda coscienza del fatto che quella della giustizia è la madre di le emergenze di questo paese. Avetrana e il giornalismo feroce anche con le vittime di Angela Azzaro Il Dubbio, 22 febbraio 2017 La prima sezione penale della Cassazione ha confermato la sentenza d’Appello: la condanna all’ergastolo per Sabrina Misseri e per la madre Cosima Serrano, ritenute colpevoli di aver ucciso nel 2010 Sarah Scazzi, rispettivamente cugina e nipote delle due donne. La Cassazione ha anche confermato la condanna ad otto anni di reclusione per Michele Misseri, ritenuto colpevole per soppressione di cadavere. "Zio Michele" continua invece a dichiararsi colpevole: "Due innocenti sono in prigione". Ma il caso di Avetrana, oltre ad essere un intricato caso giudiziario, è anche la storia di un processo mediatico in cui il giornalismo ha scritto una brutta pagina di indifferenza davanti al dolore. Questa volta non vale la pena partire né dall’inizio di questa brutta storia, né dalla fine: la conferma della condanna all’ergastolo per Sabrina Misseri e per la madre Cosima Serrano da parte della prima sezione penale della Cassazione, per avere ucciso nel 2010 Sarah Scazzi, rispettivamente la cugina e la nipote delle due donne. Partiamo da circa metà della storia, quando il cadavere della quindicenne viene ritrovato in un campo di Avetrana, un paesino pugliese in provincia di Taranto. Sarah è sparita da più di un mese, un pomeriggio assolato e deserto di agosto. Doveva andare al mare, è stata invece uccisa. Ma per tutto quel tempo gli investigatori, la famiglia, il paese l’hanno cercata. Fino all’ 8 ottobre, quando Michele Misseri, lo zio di Sarah e il padre della cugina Sabrina, non confessa di averla uccisa e porta gli inquirenti dove si trova il cadavere. Quel giorno accade qualcosa di unico, di nuovo, di terribile. La madre della ragazzina, Concetta Serrano, sorella della madre di Sabrina, è collegata in diretta con Chi l’ha visto?. E lì perché chiede di sapere dove è finita la figlia, spera ancora che qualcuno le possa fornire delle notizie utili, spera che la figlia sia viva. Spera e basta. Ma la sua speranza, la speranza di una madre, sta per infrangersi in diretta tv. Federica Sciarelli, che legge sulle agenzie la notizia del ritrovamento del cadavere di Sarah, invece di spegnere il collegamento, fa una cosa di indubbio gusto: dice alla madre che la figlia è morta, glielo dice davanti a migliaia di spettatori. Glielo dice con la telecamera puntata in faccia, per scrutare il suo dolore. Chi si ricorda l’episodio, forse ricorderà anche l’espressione di quel volto, di quel dolore, il dolore di una madre che ha appena perso la figlia quindicenne. È un volto pietrificato, un volto che da umano diventa roccia, diventa un muro contro cui va a sbattere l’informazione, l’etica, l’umanità. Più volte parlando di televisione si è usata l’espressione "morte in diretta", titolo anche del bellissimo film del francese Bertrand Tavernier. Nel caso della madre di Sarah, accade qualcosa di più, qualcosa di diverso: è la notizia della morte in diretta. È un passaggio ulteriore del processo mediatico in cui non solo la sentenza viene elaborata negli studi televisivi, ma in cui la notizia - anche quando è così drammatica come la morte di un caro viene comunicata davanti alle luci di una telecamera. Fin da subito, anche per il ruolo avuto dai diretti protagonisti, il caso di Avetrana diventa un evento mediatico. Il piccolo paesino pugliese viene invaso dalle telecamere e dopo il ritrovamento del cadavere di Sarah si organizzano le gite per andare a vedere i luoghi in cui è avvenuto l’omicidio. Secondo il pm le cose sarebbero andate così. Sarah quel giorno doveva andare al mare con Sabrina e un’altra amica, arrivata a casa della cugina avrebbe litigato con lei a causa di un ragazzo, Ivano Russo, con cui Sabrina, allora ventiduenne, aveva avuto una storia. La vittima sarebbe andata via arrabbiata, ma sarebbe stata poi raggiunta in macchina dalla cugina e dalla zia Cosima che l’avrebbero riportata nella loro casa e poi uccisa. Non avrebbe dovuto dire cose scabrose, che riguardavano la famiglia Misseri. È a questo punto che entra in scena, non solo nella ricostruzione del pm, lo zio Michele, marito di Cosima, che si preoccupa di occultare il cadavere con l’aiuto del fratello Carmine e di un nipote, morto qualche anno fa. Quello che poi nell’immaginario è diventato lo "zio Michele", prima si autoaccusa di aver ucciso Sarah, poi parla di concorso con la figlia Sabrina, poi accusa solo lei, poi ed anche la versione attuale dice di essere lui l’unico assassino. L’altro ieri, davanti alla probabilità che la Cassazione confermasse la condanna per la moglie e la figlia all’ergastolo e per lui a 8 anni per occultamento di cadavere, ha detto: "Io per me sono tranquillo. Ma ci sono due innocenti in galera". Anche il difensore di Sabrina, l’avvocato Franco Coppi, sostiene la colpevolezza di zio Michele. Ciò che è certo, in questa brutta storia, è il quadro terrificante che viene fuori della famiglia Misseri e di una provincia italiana che stimolata dai riflettori ha dato il peggio di sé. Anche questo è il processo mediatico: la messa n scena di una collettività dove l’apparire in televisione e sui giornali è più importante del dolore. Ma il dolore resta. Resta per un ragazzina che non c’è più e per una madre che non ha potuto urlare la sua disperazione gelata da quelle luci televisive, che spesso più che rivelare nascondono la verità giudiziaria, ma ancora prima la nostra umanità. Bancarotta, indagini più facili di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 22 febbraio 2017 Corte di cassazione, Quinta sezione penale, informazione provvisoria n. 3 del 2017. Svolta della Corte di cassazione sulla bancarotta. Con una sentenza per ora solo annunciata (informazione provvisoria n. 3 del 2017),a riprova dell’importanza della questione, la Quinta sezione penale ha ribaltato un orientamento più che consolidato, visto che risaliva alla fine degli anni cinquanta, sul rapporto del reato con la dichiarazione di fallimento. Quest’ultima viene ora considerata nel novero delle condizioni oggettive di punibilità e non, come sinora avvenuto, tra gli elementi costitutivi del reato. La considerazione del peso da dare al fallimento nell’ambito del più classico dei delitti prefallimentari ha da sempre diviso dottrina e giurisprudenza, con la prima assai più propensa a considerare opportuno l’inserimento tra le condizioni di punibilità e la seconda invece arroccata, almeno con riferimento alla Cassazione che per la prima volta sul punto si espresse nel 1958 (Sezioni unite del 25 gennaio), sulla posizione dell’elemento costitutivo del reato. Ora interviene una pronuncia di cui sarà fondamentale la lettura delle motivazioni ma già l’informazione provvisoria si fa carico di un paio di problemi operativi fondamentali. Chiarisce infatti che l’avere annoverato la dichiarazione di fallimento tra le condizioni di punibilità conduce a fare decorrere la prescrizione dalla data della dichiarazione stessa e a radicare la competenza territoriale nel giudice del luogo nel quale si è verificata la condizione. Chiarimenti opportuni quelli forniti in maniera naturalmente sommaria dall’informazione provvisoria e tuttavia opportuni, visto che fanno capire come la strada scelta sarà assolutamente gradita agli organi investigativi. Che potranno continuare le indagini anche su episodi assai risalenti nel tempo e precedenti la sentenza dichiarativa di fallimento: la prescrizione cioè non avrà l’effetto di azzerare anticipatamente il procedimento. Ma soprattutto la decisione della Quinta sezione agevolerà l’attività investigativa sotto un altro e ancora più decisivo profilo: quello della ricerca delle condizioni di colpevolezza delle persone indagate. Per coglierne gli effetti è importante fare un passo indietro, al 2012, e alla sentenza della Cassazione n. 47502. Una pronuncia importante perché conduce all’estremo l’orientamento della Corte fissando un discusso, nel senso che fece assai discutere, principio di diritto. E cioè che "nel reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione lo stato di insolvenza che dà luogo al fallimento costituisce elemento essenziale del reato, in qualità di evento dello stesso, e pertanto deve porsi in rapporto causale con la condotta dell’agente, e deve altresì essere sorretto dall’elemento soggettivo del dolo". Secondo questo orientamento pertanto, una volta escluso insomma che il fallimento sia condizione obiettiva di punibilità, e una volta affermato che lo stesso è all’opposto elemento costitutivo del delitto di bancarotta, non si vedeva come sia possibile sottrarsi alla regola secondo cui esso può essere imputato all’indagato soltanto se da lui provocato attraverso la condotta descritta dalla norma incriminatrice. In questo a complicarsi assai è l’attività del pm, costretto a provare dolo e nesso di causalità tra i fatti di bancarotta prefallimentare e il fallimento stesso. Troppo? Può darsi, ma, sostenne la dottrina, si faceva in questo modo uscire la Cassazione da un’ambiguità che, pur riconoscendo al fallimento la natura di elemento costitutivo del reato, non ne traeva poi le conseguenze in termini di criteri ordinari di imputazione. Permessi di soggiorno, la tassa va restituita di Vera Viola Il Sole 24 Ore, 22 febbraio 2017 È il 2008 quando la famiglia Compaore, emigrata dal Burkina Faso, sbarca a Melito, in provincia di Napoli. Genitori e figli arrivano in aereo e con in tasca, come pochi, il permesso di soggiorno. Tre anni dopo, nel 2011, in Italia viene emanato un decreto ministeriale che impone agli immigrati di pagare una tassa per ottenere rilascio o rinnovo del permesso. La famiglia Compaore paga (per padre, madre e primo figlio maggiorenne) in totale 637,50 euro per il rinnovo del permesso di soggiorno. Oggi ne attende la restituzione. Sì, perché il 16 febbraio scorso il Tribunale di Napoli ha emesso un’ordinanza con la quale accoglie il ricorso presentato dalla famiglia burkinabè e condanna presidente del Consiglio, ministero dell’Interno e dell’Economia a restituire in totale 500 euro (trattenendo una piccola parte della somma per spese amministrative) alla famiglia trapiantata a Melito. Si attende ora che la somma venga materialmente erogata. Ma questa è solo una delle 50mila richieste di rimborso inviate al governo italiano. Se non ci sarà risposta, verranno presentati altrettanti ricorsi giudiziari dinanzi ai Tribunali italiani. Che alla ordinanza napoletana potrebbero guardare come a un precedente e che potrebbero, nei prossimi mesi, concludersi con una raffica di decisioni di analogo tenore. Si stima che le tasse di soggiorno da rimborsare ammontino in totale a 500 milioni in Italia. Ma qui entriamo nel campo delle ipotesi. Di concreto oggi c’è la prima sentenza di un Tribunale italiano, quello di Napoli, che tenta di scrivere la parola "Fine" a una lunga storia. La regia della battaglia a sostegno dei diritti dei migranti è di Inca (Istituto nazionale confederale di assistenza) Cgil che ha ingaggiato la vertenza sin dal 2011, quando l’imposta "contestata" venne introdotta con un decreto degli ex ministri Riccardo Maroni e Giulio Tremonti: a seconda del permesso richiesto i migranti hanno dovuto pagare dagli 80 ai 200 euro a persona. La metà del gettito è servita a finanziare il fondo per il rimpatrio. Inca Cgil solleva il caso davanti alla Corte di giustizia europea. Questa si esprime nel settembre 2015 dichiarando illegittimo il decreto perché la tassa è "sproporzionata e in aperta contraddizione con le finalità di integrazione e accesso ai diritti". E troppo più esosa del contributo richiesto a cittadini italiani per il rilascio di una carta di identità. Ma il Governo italiano non modifica il decreto. Forte della sentenza europea, allora, Inca- Cgil presenta ricorso avverso il decreto Maroni al Tar Lazio che lo accoglie e cancella, dal 2015, il contributo a carico dei migranti. Parte il ricorso al Consiglio di Stato che conferma nel merito. Siamo a maggio 2016: la tassa di soggiorno è stata cancellata, ma i rimborsi delle imposte pagate ancora non partono. Inca Cgil - assistita dall’avvocato Maria Afrodite Carotenuto dello studio omonimo a Napoli, dagli studi Santini e Angiolini (di Roma) - sferra l’ultimo attacco. Dapprima inoltra le richieste di rimborso e a stretto giro fa partire le cause pilota. La prima si chiude. Oggi la famiglia Compaore attende quanto le è dovuto. Quanto ancora dovrà aspettare? Lo Stato deve effettuare il pagamento, ma può anche ricorrere in appello. La storia, insomma, non è ancora finita. Etilometro: efficacia probatoria del dato tecnico "volume insufficiente" Il Sole 24 Ore, 22 febbraio 2017 Circolazione stradale - Guida in stato di ebbrezza - Etilometro - Dicitura "Volume insufficiente" - Prova. La dicitura "volume insufficiente" prova soltanto il fatto che la quantità d’aria introdotta nell’etilometro è stata minore di quella occorrente per una rilevazione ottimale, ma evidentemente sufficiente a fornire un dato affidabile. Peraltro, in assenza di patologie che abbiano impedito di effettuare al meglio il test, che non sono state in alcun modo provate, è evidente, affermano i giudici, che ci si trovi davanti ad un comportamento volontario, teso ad inficiare il controllo, con la conseguenza che o gli esiti degli esami sono ritenuti idonei a fondare il giudizio di responsabilità per il reato contestato, secondo l’esito del test effettuato, o conducono a ritenere configurabile il reato di cui all’articolo 186, comma 7, Cds, in ragione della dimostrata indisponibilità del soggetto a sottoporsi validamente all’accertamento. • Carte di Cassazione, sezione V, sentenza 13 febbraio 2017 n. 6636. Circolazione stradale - Guida in stato di ebbrezza - Etilometro - Valutazione del giudice del merito - Criteri. Il dato tecnico "volume insufficiente", affermano i giudici, va inserito in una compiuta descrizione delle modalità di funzionamento dell’apparecchiatura, onde portare una ragionevole giustificazione al giudizio di non incidenza (o il suo opposto) sulla misurazione del tasso alcolemico. Ciò implica che il giudice di merito è tenuto a rendere adeguata motivazione in ordine alle ragioni per le quali l’insufficienza del volume ha/non ha inficiato il risultato del test espresso dai parametri numerici; tale non potendo essere la tautologica affermazione per la quale la formulazione del risultato numerico dimostra il corretto funzionamento dell’apparecchio. • Corte di Cassazione, sezione IV, sentenza 7 giungo 2016 n. 23520. Circolazione stradale - Guida in stato di ebbrezza - Etilometro - Riduzione volontaria al minimo dell’espirazione - Impossibile rilevazione della percentuale alcolica - Responsabilità ex articolo 186 CDS. La quantità’ di aria soffiata all’interno dell’etilometro dipende da un atto volontario del soggetto, con la conseguenza che ove il medesimo abbia volutamente ridotto al minimo l’espirazione, al fine di boicottare o, comunque, falsare la verifica, in assenza di una accertata patologia determinante l’insufficiente prova spirometrica, e lo strumento non sia stato posto in grado d’indicare la percentuale alcolica presente nell’organismo, sarebbe gioco forza reputare integrata l’ipotesi di reato di cui dell’articolo articolo 186 CDS, comma 7 (rifiuto di sottoporsi al test). Ove, come nella fattispecie esaminata dai giudici, nonostante l’insufficiente espirazione, sia stato possibile procedere al test, con risultati, peraltro, del tutto coerenti, non v’è alcuna logica ragione per negarne l’attendibilità: del resto, nonostante l’insufficienza dell’aria introdotta, lo spirometro è stato, evidentemente, in grado di procedere all’analisi, che, in difetto, avrebbe ricusato con l’indicazione di non validità. • Corte di Cassazione, sezione IV, sentenza 29 maggio 2014, n. 22239. Circolazione stradale - Guida in stato di stato di ebbrezza - Etilometro - Dicitura "volume insufficiente" - Indicazione sugli scontrini del valore del tasso alcolemico - Incompatibilità. L’indicazione, su entrambi i tagliandi rilasciati dall’etilometro, della dicitura "volume insufficiente", contrasta insanabilmente con la contestuale indicazione, pure presente sugli scontrini, relativa al valore del tasso alcolemico registrato, evenienza quest’ultima che presuppone l’effettuazione di una corretta misurazione del campione di aria alveolare espirato. È affetto da vizio motivazionale il provvedimento che non tiene in considerazione l’incompatibilità logica tra i dati rilasciati dall’apparecchiatura, in entrambe le misurazioni, e il corretto funzionamento della macchina: con la conseguenza che è illogico, affermano i giudici, ritenere affidabili i dati relativi al tasso alcolemico emergenti da tali prove. • Corte di Cassazione, sezione IV, sentenza 21 agosto 2013 n. 35303. Liguria: i detenuti sono 1.410, quarta regione per incidenza straniera di Paola Pedemonte bizjournal.it, 22 febbraio 2017 In Liguria sono 1.410 i detenuti presenti nelle sei carceri della regione, a fronte di una capienza regolamentare di poco più di 1.100 persone. I dati del ministero della Giustizia, relativi al 31 ottobre 2016, sono diffusi dal 29esimo Rapporto Italia curato da Eurispes. Il problema del sovraffollamento è allargato a quasi tutta Italia: le uniche eccezioni sono rappresentate dalle Marche, Sardegna, Sicilia, Toscana, Trentino Alto Adige e Valle d’Aosta. In Piemonte il numero regolamentare rispetto a quello dei detenuti effettivi discosta di una sola unità (sono 3.836). Le regioni che presentano il numero più alto di carcerati nei propri istituti di detenzione sono la Lombardia (14,3%, oltre 7.800 detenuti a fronte di una capacità di 6.120), la Campania (12,6%, 6.919 detenuti, circa 800 in più del numero regolamentare) e Lazio e Sicilia con lo stesso valore percentuale (11%). In Liguria il numero dei detenuti rappresenta il 2,6% del totale in Italia. Alla fine del 2015 i detenuti presenti nelle carceri italiane erano complessivamente 52.164 di cui il 66,8% rappresentato da italiani (34.824) e il restante 33,2% da cittadini stranieri (17.340). In base a quanto si legge nel rapporto, in tutte le regioni il numero di detenuti autoctoni è, quasi sempre, il doppio (se non il triplo) rispetto a quello dei detenuti stranieri: secondo l’istituto di ricerca, le regioni in cui il numero di detenuti stranieri è maggiore sono probabilmente le stesse in cui il numero di cittadini stranieri iscritti in anagrafe è più alto e, nello specifico, quelle dell’Italia settentrionale e dell’Italia centrale. La Liguria è quarta in Italia per incidenza di detenuti stranieri sul totale: 51,8% contro il 48,2% di italiani (in termini assoluti, 731 contro 679). In testa per incidenza di carcerati stranieri c’è la Valle d’Aosta (69%), seguita dal Trentino Alto Adige (68,9%) e dal Veneto (54,2%). Si tratta delle uniche quattro regioni in cui la percentuale straniera supera quella autoctona. Napoli: detenuto 38enne si uccide in cella. Il sindacato Osapp: troppi suicidi in carcere Il Mattino, 22 febbraio 2017 Un detenuto di 38 anni, V.P., si è tolto la vita nel carcere napoletano di Poggioreale mentre i suoi compagni di cella stavano usufruendo dell’ora d’aria. Ne dà notizia l’Osapp, attraverso il segretario regionale Vincenzo Palmieri. "Il continuo aumento dei suicidi in carcere - commenta il sindacalista - devono indurre gli organi di governo e l’Amministrazione Centrale a porre la massima attenzione sul sistema penitenziario, sul lavoro della Polizia Penitenziaria e di altre figure professionali, non più rinviabile". Il 38enne si è tolto la vita intorno alle 10 di oggi, forse per ragioni sentimentali, è scritto ancora nella nota: "I suicidi in Campania e in altre regioni della penisola negli ultimi anni - ricorda Palmieri - sono notevolmente aumentati e l’ennesimo episodio registratosi è la testimonianza che assieme a tutti gli altri eventi critici, come evasioni, aggressioni e autolesionismo, impongono un non più differibile intervento di tutela e sicurezza per gli uomini e le donne della Polizia Penitenziaria, quale unico Corpo di Polizia con incarichi oltre che di Polizia e sicurezza anche trattamentali e rieducativi come sanciti dalla Costituzione". "Questo nuovo drammatico suicidio di un altro detenuto evidenzia come i problemi sociali e umani permangono". Lo sottolinea, in una nota, Emilio Fattorello, segretario nazionale per la Campania del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria (Sappe), commentando il suicidio di un detenuto avvenuto oggi nel carcere napoletano di Poggioreale. "Il suicidio è spesso la causa più comune di morte nelle carceri, - dice Donato Capece, segretario generale del Sappe - gli istituti penitenziari hanno l’obbligo di preservare la salute e la sicurezza dei detenuti, e l’Italia è certamente all’avanguardia per quanto concerne la normativa finalizzata a prevenire questi gravi eventi critici. Ma il suicidio di un detenuto rappresenta un forte agente stressogeno per il personale di polizia e per gli altri detenuti. Per queste ragioni un programma di prevenzione del suicidio e l’organizzazione di un servizio d’intervento efficace sono misure utili non solo per i detenuti ma anche per l’intero istituto dove questi vengono implementati". Palermo: Apprendi (Pd): al carcere Pagliarelli 140 isolamenti in un anno, qualcosa non va di Alessandro Bisconti palermotoday.it, 22 febbraio 2017 Il deputato del Pd e rappresentante di Antigone interviene sul caso Cucè: "Bisogna accertare i fatti, ma non mi sta bene che il ragazzo venga bollato come fuori di testa. Incontrerò detenuto, direttrice e guardie". Intanto il sindacato si schiera a favore di tutti i poliziotti penitenziari. Protestano come possono. C’è chi scrive una lettera e la affida al padre. Chi invece batte le mani sulle sbarre. Carte e suoni che evocano qualcosa di sinistro, e fanno affiorare terrori nascosti nel fondo oscuro delle coscienze. Niente riscaldamento, docce a "giorni alterni", pochi contatti con l’esterno. E ancora scarsissima presenza di psicologi, pochissime ore mensili a disposizione per centinaia di detenuti. E il sospetto, terribile, di torture tra le sbarre. Esplode l’emergenza al Pagliarelli. Il caso Aldo Cucè, detenuto di 27 anni, che ha denunciato continue aggressioni sia fisiche che psicologiche nei suoi confronti, fa rumore. Del caso se ne sta occupando anche il deputato del Pd all’Assemblea regionale siciliana, Pino Apprendi: "Non so come stiano le cose, bisogna accertare i fatti ma non mi sta bene che il ragazzo venga bollato come fuori di testa". Le accuse di Cucè sono rivolte alle guardie dell’istituto penitenziario palermitano. "Qua dentro vengo trattato come un animale, se le cose non cambiano mi ammazzo". Il padre - Mauro Cucè - ha raccolto il lunghissimo sfogo del figlio: una busta con 23 pagine scritte a stampatello. I fatti sono stati denunciati ai carabinieri, alla Procura della Repubblica e al Dap di Roma. E Apprendi, dell’associazione Antigone che si interessa della tutela dei diritti e delle garanzie nel sistema penale, vuole vederci chiaro. Proprio negli scorsi giorni il deputato aveva incontrato una delegazione di detenuti in rappresentanza dei 350 in sciopero della fame. Gli ospiti del carcere chiedono, fra le altre cose, di potere fare la doccia con regolarità, incontrare i familiari in un ambiente riscaldato e avere la possibilità di un contatto telefonico con i figli con meno di dieci anni. Sciopero che è stato appena sospeso. Apprendi punta i riflettori sulla questione delle celle di isolamento. Spazi in cui non c’è nulla. "Ho visitato da poco un carcere del Nord e in un anno ho appurato che nell’arco di un anno non è stato disposto nessun isolamento - attacca il rappresentante di Antigone. All’Ucciardone ce ne sono stati 5. Nello stesso lasso di tempo al Pagliarelli ce ne sono stati 140". Un carcere impossibile - denunciano i detenuti - quello che non è rieducazione, ma può trasformarsi in tortura. Detenuti che "per motivi precauzionali (tendenze al suicidio) sarebbero stati tenuti nudi, in isolamento e senza coperte", come aveva riferito Apprendi in una delle sue precedenti visite. "Il numero degli isolamenti al Pagliarelli è troppo alto. È evidente che c’è un problema e il dato è allarmante. Negli scorsi giorni un detenuto che aveva ricevuto un provvedimenti disciplinare risalente a 5 mesi prima si stava impiccando in isolamento. Non ce l’ho con nessuno - spiega Apprendi - ma il sistema va rivisto e corretto. Ho chiesto un’ispezione al ministero della Giustizia. Confido in un intervento. Intanto adesso incontrerò i detenuti del Pagliarelli che mi spiegheranno cosa hanno ottenuto dopo avere interrotto lo sciopero della fame e parlerò con la direttrice, Francesca Vazzana, per affrontare tutti questi temi". Contattata dalla redazione di Palermo Today la direttrice del Pagliarelli, Francesca Vazzana, non ha voluto rilasciare alcuna dichiarazione. Intanto il Sinappe, il sindacato nazionale autonomo del polizia penitenziaria, si schiera "a sostegno di tutti i poliziotti penitenziari in servizio al Pagliarelli, che attualmente vivono un momento di grave disagio". "Invitiamo gli organi superiori e la cittadinanza ad analizzare dettagliatamente la situazione - spiegano dal Sinappe - al fine di non demonizzare l’operato delle guardie prima che la giustizia faccia luce su quanto emerso. Il polverone alzato dai media relativamente al caso Cucè, offusca la professionalità e la correttezza del personale di polizia penitenziaria che rischia la propria incolumità fisica e psicologica per garantire la sicurezza all’interno del carcere come dimostrano le ripetute aggressioni che quotidianamente si registrano". Dal sindacato continuano: "Si tratta di persone che giornalmente sono in contatto con detenuti di diverse estrazioni sociali, culturali, religiose, sanitarie e nonostante le difficoltà riescono a far si che la vita nel carcere proceda regolarmente. Persone che, al contrario di quanto detto, lasciano le proprie preoccupazioni al di fuori dell’ambiente lavorativo e con spirito di sacrificio, si sobbarcano eccessivi carichi di lavoro e di stress. Le condizioni di lavoro in cui operano i poliziotti penitenziari sono assolutamente inaccettabili e non più sopportabili. Il tutto è ancora più intollerabile se, nonostante la buona volontà espressa, si viene ingiustamente e senza prova alcuna, accusati di pestaggio. Pertanto, certi che le indagini condurranno all’accertamento della verità dei fatti, questa organizzazione sindacale esprime estrema vicinanza nei confronti del personale coinvolto in questa assurda vicenda". Firenze: a Sollicciano c’è la "finestra delle fughe", anche tredici anni fa passarono di lì di Simone Innocenti e Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 22 febbraio 2017 La ricostruzione dell’evasione. I tre romeni sono scappati su un’auto rubata vicino al carcere. Sono scappati a bordo di una macchina rubata i tre detenuti evasi lunedì sera da Sollicciano. Ciocan Danut Costel, Bordeianu Costel e Donciu Constantin Catalin - secondo una prima ricostruzione delle forze dell’ordine - avrebbero approfittato del rientro in cella. Dopo essere passati da una finestrella, si sono calati nel cortile adibito all’ora d’aria e hanno scavalcato il muro di cinta grazie a delle lenzuola arrotolate. Solita tecnica usata nel 2004 da 5 albanesi che scapparono dalla finestrella. I tre romeni, due dei quali arrestati per una serie di spaccate in Lucchesia due settimane fa, erano in "custodia aperta": hanno avuto spazio di manovra per scegliere un muro dichiarato inagibile come via di fuga. I cani dell’Arma, una volta scattato l’allarme della fuga, hanno cercato i malviventi: a un chilometro di distanza, qualsiasi traccia è scomparsa. In quella zona, lunedì sera, è stata rubata una macchina: resta da capire se l’auto fosse guidata da un complice o se quel mezzo sparito sia un diversivo usato per sviare le indagini. Per chiarire le modalità della fuga, i carabinieri stanno visionando le telecamere della zona ed effettuando altri accertamenti per verificare la presenza di eventuali fiancheggiatori: si cercano spunti anche dai colloqui del carcere. Sono stati sentiti anche altri detenuti che però non hanno raccontato niente di importante. Non è stato trovato niente durante i controlli nelle stazioni ferroviarie e nella stazioni dei bus. Ci sono controlli anche lungo la rete autostradale, dato che sono state diramate ricerche per rintracciare un’utilitaria ben precisa. Lunedì sera sono stati perquisiti diversi casolari, che si trovano non soltanto nella provincia di Firenze ma anche nella zona di Lucca e del Pistoiese, dove i romeni erano stati arrestati neppure dieci giorni fa. L’evasione sembra avere concretizzato l’allarme che la Camera Penale "aveva lanciato - da ultimo anche in occasione della visita svolta con il sottosegretario Ferri - sulle disastrate condizioni di manutenzione generale della struttura". La Camera Penale, attraverso il suo Osservatorio Carcere, assicura "che vigilerà con il massimo scrupolo per verificare che le conclamate inadeguatezze non si riverberino in ulteriori violazioni dei diritti dei detenuti, già sottoposti a condizioni inaccettabili". Donciu Catalin Constantin Bordeianu Costel Ciocan Danut Costel E il muro pericolante? I soldi ci sono, i lavori no La mobilitazione al carcere di Sollicciano, lunedì sera, dopo la fuga dei tre detenuti dell’Amministrazione Penitenziaria, che però precisa: "Una arte importante dei lavori è già cominciata, la restante parte partirà prima possibile, ma l’impianto anti scavalcamento era funzionante tanto che durante la triplice evasione è tasto dato l’allarme". Proprio ieri pomeriggio, alla direzione romana del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, si è tenuto un tavolo su Sollicciano, già in programma da tempo, alla presenza del sottosegretario alla giustizia Cosimo Ferri, oltre che della direttrice Loredana Stefanelli e del comandante Mario Salzano, collegati in videoconferenza. Un incontro nel quale è stata analizzata l’evasione di lunedì e durante il quale tutti gli attori coinvolti si sono impegnati ad accelerare i tempi per il potenziamento Sono i detenuti che oggi ospita il carcere di Sollicciano Gli agenti di polizia penitenziaria in servizio della sicurezza al fine di impedire altre possibili fughe. Proprio oggi arriveranno a Sollicciano i vertici del Dap, tra cui l’architetto responsabile dei progetti tecnici. Secondo i sindacati degli agenti penitenziari, quella di lunedì è stata "un’evasione annunciata". "Sollicciano è ormai abbandonato a se stesso con una presenza di 655 detenuti e una carenza di 210 unità di Polizia penitenziaria" dice Giuseppe Proietti Consalvi, vice segretario generale dell’Osapp. Un vero e proprio sotto organico per gli agenti penitenziari, ribadisce Eleuterio Grieco della Uil-Pa. "La pianta organica dovrebbe essere di 621, ma ad occuparsi della sicurezza sono soltanto 258 agenti". Fermo: lavori di pubblica utilità, i detenuti di escono dal carcere Il Resto del Carlino, 22 febbraio 2017 Accordo tra Comune e struttura penitenziaria: come vengono scelte e di cosa si occupano le persone coinvolte. Ora sono due i detenuti che si occupano di curare le strade e il verde pubblico di Fermo. Il "pioniere" aveva rinnovato il suo impegno a dicembre scorso, mentre oggi un’altra persona ha aderito al protocollo tra Comune di Fermo e casa di reclusione per lo svolgimento dei lavori di pubblica utilità all’esterno della struttura. Per sei mesi lavorerà quattro ore al giorno (dalle 7 alle 11) nelle vicinanze del carcere. A titolo gratuito. Si occuperà, appunto, della manutenzione delle vie e delle piante. A questo servizio si sommano anche quelli che verranno svolti per due volte alla settimana al San Carlo e tre giorni su sette al Seminario, grazie alla collaborazione con l’associazione Tarassaco e la Fondazione "Caritas in Veritate". Il sindaco Paolo Calcinaro e la direttrice della casa di reclusione, Eleonora Consoli, credono molto nella convenzione, siglata sulla base di un protocollo d’intesa nazionale tra il Ministero della Giustizia e l’Anci. Così hanno deciso di prorogarla fino alla fine del 2017. L’accordo prevede che i nominativi dei detenuti vicini alla fine della pena che si siano distinti per la buona condotta vengano proposti al magistrato di sorveglianza; il quale a sua volta ne autorizza il coinvolgimento nel progetto. Il Comune stabilisce quali sono i lavori da svolgere. "Un progetto che sosteniamo e a cui crediamo proprio perché ridà dignità sociale e favorisce il reinserimento dei detenuti", ha dichiarato l’assessore alle Politiche Sociali, Mirco Giampieri. Giampieri stamattina ha incontrato i due detenuti insieme al consigliere comunale Massimo Monteleone, alla presenza del responsabile dell’area trattamentale, Nicola Arbusti, del comandante della polizia penitenziaria, Gerardo D’Errico, e di Lucia Tarquini, educatrice che cura il progetto dell’Ambito XIX L’Altra Chiave. Alessandria: droga in carcere, sotto inchiesta due poliziotti ed una guardia carceraria alessandriaoggi.info, 22 febbraio 2017 Sono stati gli stessi agenti della Polizia di Stato a trarre in arresto un collega di Taranto alle prime ore di venerdì 17 febbraio. Si tratta di D.C., 34 anni, tarantino e assistente della Polizia Penitenziaria in servizio presso la Casa Circondariale di Forlì. Le manette sono scattate in esecuzione dell’ordinanza applicativa della custodia cautelare in carcere emessa dal G.I.P. del Tribunale di Alessandria per il reato di spaccio di sostanze stupefacenti. L’indagine, condotta da personale della Sezione Antidroga e Contrasto al Crimine Diffuso della Squadra Mobile, sotto il coordinamento della Procura della Repubblica alessandrina, traeva spunto dall’arresto effettuato dalla Polizia Penitenziaria di Alessandria il 25 ottobre del 2016 a carico di L.D., anch’egli assistente di Polizia Penitenziaria e della sua fidanzata C.V. Questi ultimi, a seguito di un malore del primo, erano stati sorpresi, all’interno delle camerate annesse alla Casa Circondariale di Alessandria, in possesso di circa 140 grammi di cocaina. Le indagini, articolate e complesse, consentivano di accertare che L.D. aveva comprato un ingente quantitativo di sostanza stupefacente (circa 200 grammi) a credito dal collega D.C., in passato anch’egli in servizio nella Casa Circondariale di Alessandria. Secondo gli accordi, lo stesso L.D. avrebbe dovuto provvedere al ripianamento del debito, di circa 16.000 euro, via via che la droga fosse stata rivenduta al dettaglio nell’ambito dei locali notturni del capoluogo piemontese. Secondo quanto accertato, L.D. aveva, in effetti posto in essere un fiorente commercio di cocaina, suddivisa in dosi che, secondo un linguaggio concordato, erano denominate "magliette" e che solo il tempestivo intervento di personale della Polizia Penitenziaria era stato interrotto dopo poco tempo. Sulla scorta delle informazioni acquisite nel corso delle indagini, gli investigatori della Squadra Mobile ricostruivano con precisione il ruolo del giovane tarantino, il quale aveva consegnato personalmente, a credito, lo stupefacente al collega di Alessandria. Alle prime luci di venerdì, il giovane pugliese era rintracciato in un casolare di campagna della provincia di Taranto e tratto in arresto dagli agenti della Squadra Mobile di Alessandria e dell’omologo ufficio della Questura di Taranto. La successiva perquisizione domiciliare consentiva, altresì, di rinvenire e sequestrare una dose di cocaina del peso di 0,3 grammi, custodita all’interno del comodino della camera da letto dell’indagato. Nell’ambito delle indagini era, altresì, denunciato un altro assistente di Polizia Penitenziaria, 35 anni, anche lui in servizio alla Casa Circondariale di Alessandria, che risultava essere coinvolto nella vicenda in qualità di intermediario. A suo carico è stata effettuata una perquisizione che consentiva di recuperare, all’interno del suo alloggio annesso al carcere, la somma di 10.000 euro in contanti, ritenuta provento dell’attività di spaccio, oltre a numerosi monili in oro e pietre preziose risultate, poi, di provenienza furtiva. Trento: "A cosa serve il carcere?", il 2 marzo incontro con Gherardo Colombo museodiocesanotridentino.it, 22 febbraio 2017 Giovedì 2 marzo alle ore 16.00 il Museo Diocesano Tridentino ospiterà in sala arazzi un incontro con Gherardo Colombo, l’ex magistrato divenuto celebre per aver preso parte ad importanti inchieste italiane quali la loggia P2 e Mani Pulite. In occasione dell’incontro in museo, Gherardo Colombo rifletterà sull’efficacia del sistema penitenziario e sulla finalità delle pratiche di reclusione, individuando nuovi concetti e nuove pratiche di giustizia in grado di procurare una vera riabilitazione. Gli studi dimostrano che la gran parte dei condannati a pene carcerarie torna a delinquere. La maggior parte di essi infatti non viene riabilitata, come prescrive la Costituzione, ma semplicemente repressa e privata di elementari diritti sanciti dalla nostra carta fondamentale. La condizione carceraria, spesso caratterizzata da sovraffollamento, violenza fisica e psicologica, invivibilità e degrado, è un moltiplicatore della recidiva che non conviene alla sicurezza collettiva. La cultura della retribuzione costringe le vittime dei crimini alla semplice ricerca della vendetta, senza potersi giovare di alcuna autentica riparazione, di alcuna genuina guarigione psicologica. Dall’altra parte chi resta vittima dei crimini, ottiene una semplice vendetta che non costituisce di per sé una reale riparazione ai danni subiti. Vi sono altre strade che, coinvolgendo vittime e condannati, sono in grado di condurre alla responsabilizzazione delle proprie azioni. Gherardo Colombo, attingendo alla sua esperienza di magistrato e di autore di numerosi saggi in materia, indagherà le basi di un nuovo concetto di giustizia, la cosiddetta "giustizia riparativa", che sta lentamente emergendo negli ordinamenti internazionali. Pratiche che non riguardano solamente i tribunali e le carceri, ma incoraggiano un sostanziale rinnovamento nel tessuto profondo della nostra società, poiché interessano l’essenza stessa della convivenza civile. La conferenza di Gherardo Colombo si colloca nell’ambito della mostra Fratelli e sorelle. Racconti dal carcere (26 novembre 2016 - 2 maggio 2017). La partecipazione all’incontro è libera e gratuita. Agli insegnanti che ne faranno richiesta sarà rilasciato un attestato di presenza. Gherardo Colombo è un magistrato attualmente fuori servizio, noto per aver condotto inchieste importanti sul crimine organizzato, la corruzione, il terrorismo e la mafia. Nato a Briosco, Milano, nel 1946, Gherardo Colombo ha conseguito la laurea in Giurisprudenza nel 1969 ed è entrato in magistratura nel 1974. Già giudice nella VII sezione penale della Corte di Milano (1975-1978), tra il 1978 e il 1989 è stato giudice istruttore. Figura chiave nella lotta al crimine organizzato, Colombo è stato consulente per le Commissioni parlamentari d’inchiesta su terrorismo e mafia (1989-1993) e in qualità di pubblico ministero è stato protagonista dell’inchiesta "Mani pulite"; Colombo, infatti, è stato Pm presso la procura di Milano dal 1989 al 2005 (conducendo, tra gli altri, i processi Imi-Sir, Lodo Mondadori e Sme), anno in cui è diventato giudice in Corte di Cassazione. Nel 2007 ha lasciato la professione e da allora si è prodigato nella diffusione dei concetti di legalità e giustizia (soprattutto nelle scuole) e ha assunto la presidenza della casa editrice Garzanti Libri (2009). Dal 2012 al 2015 è stato membro del consiglio di amministrazione della Rai. Ha pubblicato diversi libri nei quali mette la sua esperienza di magistrato al servizio di una divulgazione attenta e scrupolosa dei concetti di democrazia, giustizia e cittadinanza. Fra i libri più noti, ricordiamo Il vizio della memoria (Feltrinelli, 1998), Sulle regole (Feltrinelli, 2008), Sei stato tu? La costituzione attraverso le domande dei bambini (Salani 2009), Il perdono responsabile. Perché il carcere non serve a nulla (Ponte alle Grazie, 2013), Lettera a un figlio su Mani Pulite (Garzanti, 2015) e La tua giustizia non è la mia. Dialogo tra due magistrati in perenne disaccordo (con P. Davigo, Longanesi, 2016). Novi Ligure (Al): "Visti da dentro", al pub si discute del carcere con Bellotti e Libera di Elio Defrani ilnovese.info, 22 febbraio 2017 Prendono il via oggi gli appuntamenti di "Cento passi verso il 21 marzo", organizzati dal presidio novese di Libera, l’associazione contro le mafie. Alle 18.00 di oggi, mercoledì 22 febbraio, presso il Saint George Pub di via Gramsci 23 a Novi Ligure, si terrà la presentazione di "Visti da dentro", il romanzo dell’alessandrino Paolo Bellotti, che parteciperà all’incontro. La presentazione del libro di Bellotti sarà l’occasione per riflettere sulla realtà penitenziaria partendo da un inedito punto di vista, quello delle storie di vita dei detenuti. L’autore infatti svolge l’attività lavorativa di funzionario pedagogico al carcere di Alessandria, ed è proprio dalla sua esperienza sul campo che ha tratto gli spunti per il romanzo. Un vecchio contadino fratricida, uno straniero che ha ucciso per gelosia, un agente segreto e un camorrista: sono questi i protagonisti delle quattro storie narrate dall’autore che serviranno come spunto per confrontarsi sulla realtà penitenziaria italiana e per entrare, con gli occhi dei protagonisti del romanzo, in un mondo ancora poco conosciuto ai più. L’incontro è organizzato in vista del 21 marzo, giornata nazionale della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime di mafia. Non voltarti indietro", un film sugli errori giudiziari che ora fa incetta di premi di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 22 febbraio 2017 "Non voltarti indietro", il primo docu-film girato in Italia sugli errori giudiziari e i casi di ingiusta detenzione, è stato selezionato tra i cinque finalisti per i Nastri d’Argento Doc 2017. La cerimonia di premiazione è prevista venerdì 3 marzo 2017 presso la Casa del Cinema di Villa Borghese, a Roma. Prodotto da Errorigiudiziari.com, con la regia di Francesco Del Grosso, "Non voltarti indietro" ha già collezionato 15 partecipazioni a festival nazionali (con 6 premi e menzioni speciali) e un’anteprima europea a Tolosa (Francia). Nasce da un’idea dei giornalisti Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone, con l’avvocato Stefano Oliva fondatori di Errorigiudiziari.com, l’associazione che ha l’obiettivo di sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema degli errori giudiziari e delle ingiuste detenzioni in Italia. Un fenomeno molto rilevante, ma nello stesso tempo trascurato. Per le statistiche ufficiali, sono 24 mila, dal 1992 a oggi, gli innocenti finiti in carcere ingiustamente e per questo risarciti dallo Stato con una somma complessiva superiore ai 640 milioni di euro. Lattanzi e Mainone, che hanno collaborato anche con il programma "Sono Innocente" di Rai 3 condotto da Alberto Matano, iniziarono nei primi anni Novanta a raccogliere e archiviare casi e storie di vittime di errori della giustizia. Nel 1996 il loro primo libro: "Cento volte ingiustizia - Innocenti in manette", una raccolta di errori giudiziari dal Dopoguerra ai giorni nostri. L’opera dei due giornalisti è nata, come raccontano loro stessi, "per senso civico". Ossia per dare voce a tutti quei casi di mala giustizia che difficilmente trovano spazio sui giornali. Le difficoltà che hanno dovuto fronteggiare Lattanzi e Mainone prima di dar vita a questo archivio italiano su errori giudiziari e ingiuste detenzioni sono state essenzialmente due. La prima di tipo "tecnologico", la seconda "burocratico". Quando iniziarono l’opera di raccolta dei dati non esisteva la Rete. L’accesso alle informazioni era alquanto difficile. Bisognava recarsi, infatti, personalmente presso gli archivi dei giornali o nelle cancellerie dei tribunali. Senza, spesso, riuscire ad avere poi neppure i necessari riscontri. Dopo la pubblicazione del libro "Cento volte ingiustizia - Innocenti in manette" la situazione migliorò. Centinaia di persone, vittime innocenti, presero coraggio decidendo di raccontare le loro traversie giudiziarie. E i due furono sommersi da storie drammatiche provenienti da ogni parte d’Italia. La difficoltà "burocratica" è legata, purtroppo, al muro di gomma davanti al quale Lattanzi e Maimone si sono trovati quando chiedevano dati al ministero della Giustizia circa il numero delle ingiuste detenzioni. Con grande sorpresa, l’amministrazione ha risposto di non essere in grado di fornire un dato aggiornato al riguardo. In tema di risarcimenti per ingiuste detenzioni, il dicastero di via Arenula non fornisce il numero di domande che vengono presentate. La somma dei risarcimenti erogata è fornita dal ministero dello Sviluppo Economico. Quindi, per fare un esempio, il mancato accoglimento della richiesta di indennizzo per i 4 anni di carcere ingiustamente patiti da parte Raffaele Sollecito, non risulterà nelle statiche ufficiali. Considerata, quindi, la difficoltà estrema della procedura per poter ottenere il risarcimento, difficoltà creata ad arte per scoraggiare il più possibile chi avendone diritto voglia ottenere un indennizzo, è assai verosimile che i numeri complessivi delle persone ingiustamente arrestate siano nettamente superiori a quelli "ufficiali". Senza contare, poi, che qualora si tratti di persone arrestate su ordinanza di custodia cautelare e per le quali non ci sia poi stata una sentenza definitiva di assoluzione, ad esempio perché il reato si è prescritto prima, spesso già nella fase delle indagini preliminari, risulta impossibile procedere con una domanda di risarcimento. Rapporto di Amnesty International. Diritti umani "mai così male in 70 anni" Corriere della Sera, 22 febbraio 2017 Il mondo nel 2016 è diventato un posto più cupo, instabile, diviso e pericoloso. Con l’avanzata dei leader populisti - Orbàn, Erdogan, Duterte, ma anche Modi e Putin fino a Trump - il rispetto dei diritti umani è arretrato denuncia Amnesty nel suo nuovo rapporto. La retorica del "noi contro loro" (che siano i migranti o i drogati) ha creato "un mondo martoriato senza precedenti negli ultimi 70 anni". Perché non ci sono soltanto le guerre come quella in Sud Sudan che sta affamando la popolazione già provata da anni di abusi e violenze. O il bombardamento deliberato degli ospedali, ormai di routine in Siria e Yemen. Il fatto è che anche gli Stati che un tempo sostenevano di difendere i diritti umani nel mondo ora sono "troppo occupati a violarli al loro interno per pensare di chiamare gli altri a risponderne". In nome della sicurezza (come in Francia e Gran Bretagna), o per la conquista del potere come Trump negli Usa. "Ci sono stati crimini di guerra in almeno 23 Paesi nel mondo e la comunità internazionale sembra disinteressata o impotente" spiega il direttore di Amnesty Italia Gianni Rufini. Da Trump a Orbán, da Erdogan a Duterte: le politiche che alimentano divisione e paura di Riccardo Noury Corriere della Sera, 22 febbraio 2017 Gli esponenti politici che brandiscono la retorica deleteria e disumanizzante del "noi contro loro" stanno creando un mondo sempre più diviso e pericoloso: è questo l’allarme lanciato da Amnesty International in occasione del lancio del suo Rapporto 2016-2017, pubblicato in Italia da Infinito Edizioni. Il Rapporto contiene una dettagliata analisi della situazione dei diritti umani in 159 paesi e segnala che gli effetti della retorica del "noi contro loro", che sta dominando l’agenda in Europa, negli Usa e altrove nel mondo, stanno favorendo un passo indietro nei confronti dei diritti umani e rendendo pericolosamente debole la risposta globale alle atrocità di massa. Il 2016 è stato l’anno in cui il cinico uso della narrativa del "noi contro loro", basata su demonizzazione, odio e paura, ha raggiunto livelli che non si vedevano dagli anni Tenta dello scorso secolo. Un numero elevato di politici sta rispondendo ai legittimi timori nel campo economico e della sicurezza con una pericolosa e divisiva manipolazione delle politiche identitarie. Da Trump a Orbán, da Erdogan a Duterte, sempre più politici che si definiscono anti-sistema stanno brandendo un’agenda deleteria che perseguita, usa come capri espiatori e disumanizza interi gruppi di persone, considerate meno umane di altre. Questa retorica sta avendo un impatto sempre più forte sulle politiche e sulle azioni di governo. Nel 2016 i governi hanno chiuso gli occhi di fronte a crimini di guerra (commessi in almeno 23 paesi) favorito accordi che pregiudicano il diritto a chiedere asilo, approvato leggi che violano la libertà di espressione, incitato a uccidere persone per il solo fatto di essere accusate di usare droga, giustificato la tortura e la sorveglianza di massa ed esteso già massicci poteri di polizia. I governi se la sono presa anche con i rifugiati e i migranti. Il Rapporto 2016-2017 di Amnesty International denuncia che 36 paesi hanno violato il diritto internazionale rimandando illegalmente rifugiati in paesi dove i loro diritti umani erano in pericolo. Ultimamente, il presidente Trump ha tradotto in azione la sua odiosa campagna elettorale xenofoba firmando decreti per impedire ai rifugiati di ottenere il reinsediamento negli Usa e per vietare l’ingresso nel paese a persone in fuga dalla persecuzione e dalla guerra, come nel caso della Siria. Contemporaneamente l’Australia ha inflitto di proposito sofferenze inaudite ai rifugiati intrappolati a Nauru e sull’isola di Manus, l’Unione europea ha firmato un accordo illegale e irresponsabile con la Turchia per rimandare indietro i rifugiati in un contesto insicuro e Messico e Usa hanno continuato a espellere persone dall’America centrale, dove la violenza ha raggiunto livelli estremi. Cina, Egitto, Etiopia, India, Iran, Tailandia e Turchia hanno attuato massicce repressioni. Altri paesi hanno introdotto invadenti misure di sicurezza, come il prolungato stato d’emergenza in Francia e la legge catastrofica e senza precedenti sulla sorveglianza di massa nel Regno Unito. Un altro aspetto della "politica dell’uomo forte" è stato l’aumento della retorica contro le donne, contrastata in Polonia da enormi proteste, e contro le persone Lgbti. Nel 2016, sottolinea il Rapporto, le principali crisi dei diritti umani - Siria, Yemen, Libia, Afghanistan, America centrale, Repubblica Centrafricana, Burundi, Iraq, Sud Sudan e Sudan - si sono acuite, anche per la mancanza di volontà politica di affrontarle. Infine, il Rapporto denuncia uccisioni di difensori dei diritti umani in 22 paesi: persone prese di mira per aver contrastato profondi interessi economici, aver difeso minoranze e piccole comunità o aver cercato di rimuovere gli ostacoli posti ai diritti delle donne e delle persone Lgbti. È trascorso quasi un anno dall’uccisione della nota leader nativa e difensora dei diritti umani Berta Cáceres in Honduras e nessuno è stato portato di fronte alla giustizia. Come nessuno è stato portato di fronte alla giustizia per la tortura e l’omicidio di Giulio Regeni. Berta e Giulio: due delle purtroppo numerose persone che hanno cercato, ricercato, denunciato per rendere il mondo migliore. Un mondo che, nell’analisi di Amnesty International, appare avvolto da una nube tossica e velenosa di retorica violenza e odiosa. Migranti. Boom di sbarchi: +44% rispetto a un anno fa di Marco Ludovico Il Sole 24 Ore, 22 febbraio 2017 L’ondata degli sbarchi in Italia corre impetuosa: siamo a +44% rispetto all’anno scorso. Secondo i dati del Viminale, da gennaio fino a ieri sono giunti sulle nostre coste 10.070 stranieri - nello stesso periodo del 2016 erano 6.953 - a cui vanno sommati 395 minori non accompagnati. Gli immigrati in arrivo sono in gran parte della Nuova Guinea (1.657), Costa d’Avorio (1.303), Nigeria (1.099), Senegal (948) e Gambia (793). Davanti all’ingovernabilità del caos in Libia e le divisioni nella risposta all’interno della Commissione Ue, c’è poco da illudersi: i flussi non si arresteranno. Così la stima di 200mila arrivi in Italia a fine 2017, base del piano Anci per la distribuzione degli stranieri tra i centri urbani, oggi è più che fondata. E supera i 181.436 sbarchi, cifra record a consuntivo dell’anno scorso. Al piano hanno aderito 2.700 Comuni. Il governo scommette sugli interventi del decreto legge approvato il 10 febbraio. Nella relazione tecnica al decreto c’è la tabella di marcia definita dal ministro dell’Interno, Marco Minniti, per il rilancio dei Cie, centri identificazione ed espulsione, denominati Cpr, centri di permanenza per i rimpatri. Minniti - ieri è stato sentito dalla commissione Diritti umani del Senato, oggi parlerà alla commissione parlamentare d’inchiesta sul sistema di accoglienza - prevede l’attivazione di 1.600 posti nei Cpr. Oggi "sono disponibili circa 360", dice la relazione, ma quest’anno secondo il decreto legge ne dovrebbero sorgere 500, nel 2018 altri 600 e l’anno dopo 140. Per "i costi di realizzazione" la stima è di 13 milioni di euro mentre gli oneri di gestione nel triennio 2017/2019 per i 1.240 posti in più sono pari a oltre 34 milioni. Il provvedimento poi autorizza la spesa di 19 milioni per la "predisposizione dei voli per i rimpatri". La cronaca, intanto, non dà tregua. I cadaveri di 74 migranti sono stati trovati sulla costa occidentale libica e non è escluso che il mare riporti a riva altri corpi. Sempre al largo della Libia due operazioni di soccorso coordinate dalla Guardia Costiera italiana hanno salvato 630 migranti. In Italia ora si fronteggia anche un nuovo flusso: piccole imbarcazioni provenienti dall’Algeria approdano sulle coste del Sulcis in Sardegna. E ci sono stati disordini durante il tragitto Cagliari-Napoli di ieri della nave Janas della Tirrenia dove si sono imbarcati una trentina di algerini. Alcuni di loro erano destinatari di un provvedimento di espulsione e si sono lasciati andare ad atti di aggressione e danneggiamenti. Mentre a Ragusa la Polizia di Stato ha fermato sei presunti scafisti che avrebbero organizzato lo sbarco di 466 migranti domenica scorsa a Pozzallo. Ieri il Papa al Forum sulle migrazioni ha invocato "canali umanitari sicuri e stabili" e accoglienza diffusa anziché "grandi assembramenti che generano nuove vulnerabilità". Servono, ha sollecitato Bergoglio, "programmi tempestivi e umanizzanti nella lotta contro i "trafficanti di carne umana" che lucrano sulle sventure altrui". Minniti nell’audizione in commissione Diritti umani ha parlato "dei corridoi umanitari. Abbiamo sviluppato due protocolli d’intesa: uno con la Comunità di Sant’Egidio, per mille persone da Libano e Marocco (già 522 sono arrivate in Italia) e un altro con la Cei per 500 profughi provenienti dall’Eritrea". Il sottosegretario all’Interno Domenico Manzione, al Forum sulle migrazioni, ha aggiunto: "Senza ricorrere alle solite sanatorie generali sarebbe una strada non solo possibile ma anche, come ha ricordato Papa Francesco, saggia, la possibilità di convertire eventualmente in permesso di soggiorno per ricerca di lavoro o altro" una richiesta d’asilo o di protezione umanitaria respinta se il migrante, sottolinea Manzione, nell’attesa "ha dato concreta prova di volersi integrare o essersi integrato" in Italia. Secondo i dati della relazione al decreto immigrazione, dal 1° gennaio 2016 al 30 dicembre 2016 le richieste di asilo sono state 123.600. Le decisioni delle Commissioni territoriali sono state 91.102 "con i seguenti esiti: 4.808 status di rifugiato (5%), 12.873 status di protezione sussidiaria (14%),18.979 status di protezione umanitaria (21%), 51.170 non riconosciuti (56 %), 3.084 irreperibili (4%) e 188 altri esiti (0%)". Rispetto al 2015 nel 2016 le domande sono aumentate del 47,20%. Per il presidente di Amnesty International Italia, Antonio Marchesi, nel decreto Minniti c’è un "notevole indebolimento delle garanzie procedurali" per i migranti. Haiti. Muoiono di stenti 42 detenuti. Le Nazioni Unite: condizioni degradanti di vita Ansa, 22 febbraio 2017 Le "crudeli, disumane" e "degradanti" condizioni in cui vivono i carcerati nel più grande penitenziario di Haiti hanno portato alla morte 42 detenuti dall’inizio dell’anno. Lo ha denunciato Sandra Honore, rappresentante speciale delle Nazioni Unite nel Paese, nel giorno in cui si sono tenuti nella capitale Port-au-Prince i funerali di massa di una ventina di prigionieri morti recentemente nel carcere. Tra le cause dei decessi vi sono la penuria di cibo e medicine, oltre alle malattie che non vengono curate. Lo ha ricordato Marie Lumane Laurore al funerale del figlio: "Questo è un Paese senza giustizia", ha urlato prima di svenire accanto alla bara. I familiari di Eddy Laurore hanno aggiunto che l’uomo è stato affetto da anemia e tubercolosi durante tutti i due anni in cui è stato rinchiuso nel penitenziario, accusato di violenza sessuale. Uccise un palestinese ferito, il soldato che divide Israele condannato a 18 mesi di Umberto De Giovannangeli L’Unità, 22 febbraio 2017 Per la destra israeliana è un eroe. Per l’Israele che difende i diritti umani, un soldato che ha sparato e ucciso a sangue freddo un giovane attentatore palestinese. Un anno e mezzo di carcere militare al sergente israeliano Elor Azaria che il 24 marzo 2016 uccise a Hebron Abdel Fatah Sharif, 21 anni, assalitore palestinese già ferito a terra dopo aver accoltellato un membro di Tsahal, l’esercito d’Israele. È la pena pronunciata dal Tribunale militare di Tel Aviv in base alla condanna del 4 gennaio per omicidio colposo. La pubblica accusa aveva chiesto tra i tre e i cinque anni di prigione. "L’accusato - ha affermato lagiudice, colonnello Maya Heller - ha colpito un terrorista senza alcuna giustificazione. Ciò in contrasto con un valore supremo, quello della vita. Il soldato Azaria è inoltre andato contro l’etica delle armi che è alla base dello spirito di Tsahal". I tre giudici hanno però riconosciuto diverse attenuanti: fra queste, la situazione complessa in cui quel giorno si era venuto a trovare in seguito ad un attentato palestinese contro i commilitoni, ma anche una certa disorganizzazione da parte dei suoi superiori diretti sul posto. Uno dei tre giudici, rimasto in minoranza, riteneva che Azaria avrebbe dovuto scontare una pena compresa fra 30 e 60 mesi. Gli altri due hanno preferito non calcare la mano. La Corte marziale ha anche deciso la sua degradazione a soldato semplice. La difesa ha chiesto un rinvio dell’esecuzione della sentenza, per fare appello. La Corte ha concesso 12 giorni e quindi Azaria comincerà a scontare la pena il 5 marzo. Il caso esplose quando venne divulgato un video che mostrava il militare israeliano mentre sparava al giovane accoltellatore palestinese ormai inerme a terra. Dopo la sentenza di condanna, B’tselem, l’Ong israeliana per la difesa dei diritti dell’uomo, che aveva diffuso il video, ha accusato comunque le forze di sicurezza di essere impegnate in una costante opera di sbianchettamento dei casi in cui i propri uomini si trovano ad uccidere o ferire cittadini palestinesi, senza essere chiamati a rispondere dei loro atti". Israele si è spaccata sulla sorte del militare, con il 67% favorevole al suo perdono e la sinistra, soprattutto le Ong dei diritti umani, che chiedevano una pena severa. Il ministro dell’Economia Naftali Bennet, leader del partito ultranazionalista "Focolare ebraico", ha sostenuto che Azaria non deve scontare "nemmeno un giorno di carcere". Altri ministri e deputati della destra ebraica hanno convenuto con lui affermando che Azaria "merita la grazia". Posizione fatta propria dal premier Benjamin Netanyahu. Fuori dal tribunale militare centinaia di sostenitori hanno scandito slogan di condanna nei confronti dei giudici. "Anche chi non ama il verdetto e la sentenza, ha l’obbligo di rispettare il tribunale - ha scritto su Facebook il ministro della Difesa Avigdor Lieberman - si tratta infatti da un lato di un soldato eccellente e dall’altro di un terrorista (palestinese) che era andato ad uccidere ebrei. Che tutti lo tengano in conto". L’importante, ha concluso, è che si faccia adesso "il necessario per mettere fine alla vicenda". Ma lo scontro è destinato a inasprirsi. "Quel che è accaduto è più grave di un omicidio taciuto", denuncia Haneen Zoabi, deputata della Lista Araba Unita (terza forza alla Knesset, il parlamento israeliano). "Qui - aggiunge Zoabi - il criminale non è solo Azaria, ma anche il sistema politico e una cultura che non vedono nell’omicidio di un palestinese alcun problema, anzi rappresenta una semplice violazione per il sistema giuridico, e un atto di eroismo per il giudizio della società". Per poi chiudere così: "Decine di omicidi analoghi sono taciuti, l’assedio di Gaza è una lenta operazione di omicidio che non suscita alcun dibattito e nessuna preoccupazione". Sulla stessa lunghezza d’onda è la reazione palestinese. "Non siamo sorpresi, fin dall’inizio sapevamo che era un processo farsa che non ci avrebbe dato giustizia", commenta la famiglia del giovane palestinese ucciso. La condanna, rimarca Hanan Ahsrawi, più volte ministra ed oggi esponente di primo piano dell’Olp, è una "evidente deformazione della giustizia e del sistema giudiziario israeliano, sottomesso all’estremismo dell’occupazione e del suo regime basato sull’apartheid rappresentato dal governo estremista israeliano e dai suo coloni". Gerico, la fortezza delle torture compiute da palestinesi su altri palestinesi di Khaled Abu Toameh* L’Opinione, 22 febbraio 2017 Mentre il presidente dell’Autorità palestinese (Ap) Mahmoud Abbas e i suoi amici erano occupati nelle ultime due settimane a mettere in guardia il Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, circa il trasferimento dell’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme, sono emerse nuove notizie riguardo le brutali condizioni e le violazioni dei diritti umani in un carcere palestinese della Cisgiordania. Notizie che però sono state insabbiate, insieme agli abusi, a favore dell’attenzione accordata alla retorica diretta contro l’amministrazione Trump. Tutto ciò che è stato detto da Abbas e dagli alti dirigenti dell’Autorità palestinese riguardo il possibile spostamento dell’ambasciata americana a Gerusalemme è balzato alle cronache dei principali quotidiani e delle reti televisive di tutto il mondo. A un certo punto, sembrava che i media mainstream dell’Occidente fossero interessati a evidenziare e gonfiare queste dichiarazioni, nel tentativo di spingere Trump ad abbandonare l’idea di spostare l’ambasciata a Gerusalemme. I giornalisti occidentali si sono precipitati a fornire spunti a qualsiasi funzionario palestinese che fosse interessato a minacciare l’amministrazione Trump. Ma minacciare come? Lanciando avvertimenti che il trasferimento dell’ambasciata a Gerusalemme "distruggerebbe il processo di pace", "metterebbe a repentaglio la sicurezza regionale e internazionale" e "farebbe precipitare l’intera regione nell’anarchia e nella violenza". Alcuni funzionari palestinesi sono arrivati a dire che una mossa del genere verrebbe considerata un "attacco a tutti i palestinesi, gli arabi e i musulmani". Hanno anche minacciato di "revocare" il riconoscimento palestinese del diritto di Israele ad esistere. Purtroppo, però, mentre i funzionari palestinesi di tutto lo spettro politico hanno unito le forze per diffondere clamorose notizie nei media mainstream di tutto il mondo, le notizie sulle torture cui vengono sottoposti i detenuti palestinesi rinchiusi in una prigione dell’Ap non sono riuscite ad attirare l’interesse dei numerosi giornalisti che si occupano del conflitto israelo-palestinese. Le torture che avvengono nelle carceri dell’Autorità palestinese e nei centri di detenzione non sono una novità. Nel corso degli ultimi anni, i palestinesi si sono abituati a sentire storie terribili su quanto sta accadendo tra le mura di queste strutture. Eppure, poiché gli abusi non sono compiuti dagli israeliani, notizie del genere sono noiose per questi giornalisti. Un palestinese che punta il dito contro Israele si assicura un orecchio comprensivo tra i giornalisti. Non è così per un palestinese che si lamenta delle torture perpetrate da coloro che conducono gli interrogatori o dagli agenti di sicurezza palestinesi. E peggio ancora, si accolgono le sue parole pensando: "Oh questi arabi, cosa ci si può aspettare da loro?". Paradossalmente, sono i media di Hamas e dell’Autorità palestinese che pubblicano tali notizie. Le due parti segnalano regolarmente le violazioni dei diritti umani e le torture perpetrate nelle rispettive prigioni e nei centri di detenzione come parte di una campagna di calunnie che essi conducono l’uno contro l’altro da dieci anni. I media affiliati a Hamas pullulano di notizie che documentano casi di tortura nelle strutture di detenzione dell’Ap, in Cisgiordania. Allo stesso modo, gli organi di informazione dell’Autorità palestinese sono sempre felici di sapere che ci sono palestinesi disposti a raccontare il calvario vissuto in un carcere di Hamas, nella Striscia di Gaza. In sostanza, sia Hamas sia l’Ap, secondo le testimonianze e le segnalazioni, praticano la tortura nelle loro prigioni. Non gliene importa un accidente dei diritti dei detenuti e dei prigionieri ed entrambi si prendono gioco dei diritti umani internazionali. Ma poiché alle organizzazioni che si battono per i diritti umani, agli avvocati e ai parenti viene così spesso negato il permesso di visitare i prigionieri e i detenuti incarcerati da Hamas e dall’Autorità palestinese, non si possono ottenere informazioni di prima mano dai prigionieri stessi. Essi sono persone, che vengono torturate in prigione! Tutto questo ha perfettamente senso, naturalmente: Hamas è un movimento islamista estremista che ritiene di non essere tenuto a rispettare il diritto internazionale e le convenzioni internazionali sui diritti umani. In effetti, il concetto di diritti umani proprio non esiste sotto Hamas, nella Striscia di Gaza, dove le libertà pubbliche, tra cui la libertà di espressione e di stampa, sono inesistenti. E allora come spiega l’Autorità palestinese finanziata dall’Occidente, che da lungo tempo tenta di far parte di organismi internazionali come le Nazioni Unite, le sue sistematiche barbarie? Da anni, l’Ap agisce come uno "Stato indipendente" che è riconosciuto da più di cento Paesi. Come tali, i governi stranieri, soprattutto i contribuenti americani ed europei, hanno diritto o meglio l’obbligo di ritenere l’Autorità palestinese responsabile delle violazioni dei diritti umani e chiedere trasparenza e responsabilità. Questo diritto deriva dal fatto che l’Ap chiede di entrare a far parte della comunità internazionale ottenendo il riconoscimento di uno Stato palestinese. A meno che, ovviamente, la comunità internazionale non sia disposta ad accogliere un altro Paese arabo che calpesta i diritti umani e pratica la tortura nelle sue prigioni. La prova più evidente delle torture compiute in Cisgiordania è stata fornita da un documento postato su un sito web affiliato a Hamas. Il report mette in luce alcuni dei metodi di tortura utilizzati sotto l’Autorità palestinese da coloro che conducono gli interrogatori e offre informazioni precise sulle condizioni in cui versano i detenuti. Il rapporto si riferisce specificamente alla famigerata prigione centrale di Gerico, che è sottoposta al controllo di vari corpi di sicurezza dell’Ap. Intitolato "La prigione di Gerico - Una fortezza delle torture?", il report descrive le condizioni all’interno del carcere, simili a quelle mostrate da quei film sensazionali che vengono trasmessi in televisione per attirare l’attenzione degli spettatori. Un palestinese che di recente è stato rilasciato dalla prigione centrale di Gerico avrebbe dichiarato che chiunque arriva nella struttura viene innanzitutto bendato, con le mani legate dietro la schiena, e poi picchiato a sangue da 5-10 agenti di sicurezza. L’uomo ha raccontato che una delle più comuni tecniche di tortura impiegate nel carcere dell’Ap viene chiamata posizione dello "shabah", in cui un prigioniero viene appeso al soffitto per ore, con le mani ammanettate. Durante questo tempo, il detenuto viene picchiato su tutto il corpo, e se prova a muoversi o a cambiare posizione subisce un pestaggio più violento. A volte, lo "shabah" si svolge nei bagni del carcere. Un’altra forma infame di tortura perpetrata nella prigione centrale di Gerico è la "falaka", dove le vittime vengono picchiate sulle piante dei piedi con delle fruste. Un altro ex detenuto, che è stato identificato solo come Abu Majd, ha raccontato di essere stato sottoposto a sessioni di "falaka" che duravano diverse ore, percosso con tubi di plastica. Talvolta, uno degli "interroganti" lo schiaffeggiava mentre veniva frustato sulle piante dei piedi. Abu Majd ha anche detto di essere stato sottoposto a un altro famoso metodo di tortura, in cui gli veniva chiesto di "salire" su una scala inesistente su un muro. Poiché non esiste alcuna scala e il detenuto non può "salirci" sopra, viene punito con ripetute percosse. Un altro ex detenuto ha raccontato di altri comuni metodi di tortura impiegati nel carcere di Gerico, come la privazione del sonno, le celle di isolamento ed essere chiusi in un piccolo armadio con l’aria condizionata a manetta. Oltre naturalmente alle violenze verbali e al costringere i detenuti a dormire sul pavimento senza materassi o coperte. Secondo quanto riferito, nel 2013, due detenuti palestinesi vennero torturati a morte nella prigione centrale di Gerico, a cinque giorni di distanza l’uno dall’altro. I due furono identificati come Arafat Jaradat e Ayman Samarah. All’inizio di questo mese, il padre di Ahmed Salhab, che di recente è stato rinchiuso dalle forze di sicurezza dell’Autorità palestinese nel carcere di Gerico, ha denunciato il fatto che la salute di suo figlio è stata seriamente danneggiata a causa delle torture subite. L’uomo ha detto che suo figlio soffre di dolori acuti dopo essere stato colpito alla testa dai suoi "interroganti". Stando alle notizie, nelle carceri palestinesi i detenuti fanno lo sciopero della fame per protestare contro le loro condizioni di detenzione e le torture. Purtroppo per loro, non fanno lo sciopero della fame in un carcere israeliano, dove azioni del genere suscitano l’interesse immediato dei media mainstream. Un’organizzazione per i diritti umani con sede a Londra ha segnalato 3.175 casi di violazioni dei diritti umani, tra cui detenzioni arbitrarie, avvenuti nel 2016 per mano delle forze di sicurezza dell’Autorità palestinese (Ap), in Cisgiordania. Secondo il rapporto, tra le centinaia di detenuti ci sono studenti e docenti universitari, così come insegnanti di scuola. Il report ha rivelato che, sempre nel 2016, le forze di sicurezza dell’Ap hanno arrestato anche 27 giornalisti palestinesi. I funzionari politici e le forze di sicurezza dell’Ap ritengono che questi report siano strumenti dell’attività di "propaganda" orchestrata da Hamas. Ma non occorre aspettare che Hamas racconti al mondo delle violazioni dei diritti umani e delle torture perpetrate dalle forze di sicurezza dell’Autorità palestinese. Tra le migliaia di palestinesi che sono stati rinchiusi nel corso degli ultimi due decenni nelle carceri e nei centri di detenzione sotto il controllo dell’Ap, molti intendono raccontare le loro storie. Ma chi è disposto ad ascoltarli? Non i governi occidentali, non le organizzazioni per i diritti umani, non i giornalisti. La maggior parte di loro cerca il male unicamente in Israele. Eppure, una politica del genere favorisce la comparsa di un’altra dittatura araba in Medio Oriente. Per ora, gli abitanti di Gerico continueranno a sentire le urla dei detenuti torturati nella loro città. Il resto del mondo chiuderà gli occhi e le orecchie, e continuerà a far finta che tutto sia rose e fiori nel territorio governato da Abbas. *Gatestone Institute. Traduzione a cura di Angelita La Spada