L’esecuzione penale condannata all’oblio di Osservatorio Carcere Ucpi camerepenali.it, 21 febbraio 2017 In tema di giustizia tutto è sospeso e l’esecuzione penale, parte finale - non riconosciuta - di un procedimento moribondo, avverte tutto il peso del disinteresse politico ad un’effettiva riforma. A circa un anno dalla conclusione degli "Stati Generali dell’Esecuzione Penale", tutto è rimasto immobile. La discussione in Parlamento di quanto elaborato e voluto dallo stesso Ministro della Giustizia è stata continuamente rinviata ed oggi, dopo la caduta del Governo e le probabili imminenti elezioni, ha pochissime possibilità di essere messa al centro del dibattito politico. Intanto: i Tribunali di Sorveglianza sono al collasso, con un enorme ritardo nelle decisioni che si riflette sui diritti dei detenuti. Gli istituti di pena sono tornati ad affollarsi, con punte a volte insostenibili. L’Osservatorio, nelle sue recenti visite, ha potuto constatare situazioni raccapriccianti relative a strutture fatiscenti, all’assoluta mancanza di un pur minimo trattamento individualizzato, all’enorme ritardo per gli interventi sanitari, alla mancata sorveglianza da parte della magistratura. Restano inascoltati i numerosi appelli per l’abolizione dell’ergastolo ostativo - pena di morte viva - nonostante lo stesso Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria abbia manifestato più volte il suo consenso. Da oltre trent’anni si discute dell’istituzione nel nostro ordinamento del delitto di tortura, senza giungere alla sua definizione, nonostante la stessa sia riportata in trattati internazionali sottoscritti dal nostro Paese. La corretta applicazione dell’art. 41 bis dell’Ordinamento Penitenziario, affinché i limiti imposti non abbiano scopi investigativi, ma siano esclusivamente finalizzati a prevenire contatti del detenuto con l’organizzazione criminale di appartenenza, non trova spazio politico. Alcune Procure della Repubblica decidono autonomamente di non perseguire reati che ritengono minori, con l’effetto di un beneficio a macchia di leopardo, mentre il dibattito sull’amnistia e l’indulto è fermo e la paralisi dei Palazzi di Giustizia e la vergogna per le nostre carceri aumenta. Alcuni O.P.G. sono ancora aperti e le R.E.M.S. sono insufficienti. L’allarme per la radicalizzazione islamica nelle carceri viene affrontato con inutili modalità repressive, senza possibilità di raggiungere l’obiettivo, mentre negli istituti di pena mancano mediatori culturali. L’immigrazione clandestina non trova concrete soluzioni che possano garantire i diritti di coloro che fuggono dal loro Paese per fondate ragioni di sopravvivenza ed i Centri di Accoglienza sono luoghi indecenti. Gli annunciati provvedimenti per tutelare i bambini delle madri detenute sono rimasti lettera morta e i piccoli restano ristretti. L’art. 275 bis c.p.p., trova solo parziale applicazione per il numero insufficiente di dispositivi elettronici di controllo. Tutto ciò è davvero increscioso, in quanto i principi costituzionali relativi all’Esecuzione Penale continuano ad essere condannati all’oblio, con il "maleficio" della sospensione dei provvedimenti in materia. Addio agli Opg, un traguardo di civiltà di Margherita De Bac Corriere della Sera, 21 febbraio 2017 La completa chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari è un passaggio storico sebbene arrivi due anni dopo la scadenza. Ieri Franco Corleone, nominato dal governo commissario straordinario per portare a termine la riforma, ha concluso il mandato. Ultimo giorno di lavoro e congedo dalla ministra della Salute Beatrice Lorenzin che ha sciolto la commissione: "Un grande traguardo di civiltà raggiunto". I detenuti degli ex manicomi criminali sono stati trasferiti (e in parte dimessi dopo terapie di riabilitazione) nelle strutture territoriali, le Rems, 30 in Italia, 569 ricoverati su 604 posti disponibili. Il cambiamento è sostanziale. Gli internati diventano pazienti per i quali esiste un piano terapeutico e un eventuale successivo passaggio a comunità residenziali da concordare col magistrato. È significativo che su 915 ingressi, siano state 415 le dimissioni, rese possibili dalla collaborazione con i dipartimenti di salute mentale. È il paventato rischio di un ritorno a luoghi differentemente chiamati, ma uguali ai manicomi psichiatrici. Non dovrebbe accadere: la legge prevede infatti che la permanenza nel Rems non superi la pena da scontare. Ci sono anche zone d’ombra. Corleone ha denunciato la lunghezza delle liste di attesa per entrare nei centri di alcune Regioni come Lazio, Calabria, Sicilia, circa 300 nuovi detenuti per i quali è stata accertata in modo definitivo la correlazione tra reato e infermità mentale: "Il rapporto tra magistratura e servizi sanitari deve essere più stretto. Non comunicano e le perizie temo non siano sempre appropriate". D’altra parte, se ingranditi, i Rems perderebbero la loro funzione riabilitativa, garantita da un adeguato rapporto degenti - personale. C’è una seconda criticità, il dopo. I Rems sono strutture temporanee. Il timore di Emilia Grazia De Biase, Senatrice Pd, è che "chi esce si ritrovi abbandonato a se stesso. Investiamo sui servizi territoriali". Sappiamo bene quanto molte Regioni siano deficitarie sul piano dell’offerta per i malati di mente. Il cambiamento deve andare avanti. Giustizia intasata, una pericolosa deriva di Massimo Krogh Corriere del Mezzogiorno, 21 febbraio 2017 Giorni addietro a Vasto avvenne un omicidio su cui qualcuno disse che non sarebbe avvenuto con una giustizia più veloce. L’omicida, infatti, si era fatto giustizia da sé invece di attendere la soluzione giudiziaria del caso che ritardava. Un commento incredibile, che nasce peraltro dalla effettiva situazione della nostra giustizia, che per i suoi intollerabili ritardi rischia di farci uscire dalla categoria degli Stati di diritto. Per questo umiliante aspetto, la Ue ha più volte messo in colpa l’Italia, le cui sentenze spesso arrivano quando non servono più a nessuno. Non entro, naturalmente, nel caso specifico, se non per ricordare che, quale sia la situazione, a nessuno è consentito di farsi giustizia da sé. Eppure sono apparsi sulla rete messaggi che lodavano l’omicida di Vasto, anche chiedendosi se il perdono fosse possibile. Questo tragico episodio, che investe pure il problema del funzionamento della giustizia nel nostro Paese, non è il solo che pesa sui processi, difatti lo sciopero della fame di alcuni avvocati a Napoli davanti al Tribunale è un fatto che riguarda anch’ esso il tema della giustizia, divenuto pressante e gravissimo. Questo sciopero sembra sia dovuto all’eccesso di spesa per i contributi dovuti dagli avvocati alla cassa di previdenza, cui non corrispondono adeguate entrate. Per un verso o per un altro, la giustizia fa troppo parlare e mai bene. D’altra parte, siamo al punto che nel settore civilistico conviene fare causa a chi ha torto, per modo che il torto sia bloccato dal tempo metafisico della causa, mentre non conviene a chi abbia ragione, costretto bene o male a transigere per non paralizzare la sua aspettativa in tempi infiniti, con conseguenti effetti dannosi. Quanto al settore penalistico, accade che i tempi intollerabili giovano al colpevole che vede allontanarsi la pena, mentre pesano sull’innocente, costretto a subire il calvario di una lunga pendenza giudiziaria. Ed allora è legittimo chiedersi perché siamo a questo punto e perché ciò succede. Sul primo aspetto, forse la risposta sta nella incompetenza sul tema di chi governa il Paese; sul secondo aspetto la cosa è piuttosto complessa. Nel settore penalistico, un contributo causale disastroso al blocco di giustizia viene dato dal concetto imperante secondo cui ogni disfunzione che danneggia il cittadino debba essere curata dall’ufficio del pubblico ministero; quindi tutto finisce in un’inchiesta penale, insomma, come ho già scritto, il bene e il male nelle mani del Pm, ed in una zoppicante parità delle parti, visto che il pubblico ministero e l’organo giudicante vengono mantenuti in una carriera unica, piuttosto che separata. In definitiva, un Pm-giudice, una sorta di organo "bifronte" che, essendo culturalmente più affine al processo che al concetto di organizzazione amministrativo-statuale, finisce col vedere in ogni disfunzione un reato, mentre chi dovrebbe non riesce a riconoscere e attivare mediazioni allargate di segno diverso. Ciò provoca un intasamento di processi penali che ritarda enormemente il funzionamento della giustizia. Nel settore civilistico, l’intasamento è verosimilmente agevolato dal numero enorme di avvocati, che rende l’Italia unica tra i paesi avanzati. Se non ricordo male, in Francia vi sono sessanta avvocati abilitati a difendere in Cassazione, da noi i cassazionisti sono molte centinaia e forse più. Un’equazione abbastanza logica: troppi avvocati-troppe cause. Questo eccesso di avvocati (senza cause) è anche provocato dalla carenza occupazionale che assilla il nostro Paese. Giustizia senza appello per i richiedenti asilo di Cecchino Cacciatore Il Mattino, 21 febbraio 2017 Se non si è d’accordo, il problema è capire che l’alternativa è il cosiddetto paradigma degli esseri superflui che consiste, innanzitutto, nell’avere la tempra morale di ritenere che possano esistere uomini superflui e poi, perché appunto superflui, risparmiare per essi i costi politici e sociali della logica della giustizia e del processo giusto delle democrazie. Consapevoli, però, che ciò significa rinunciare a dare voce ai diritti che l’esperienza ci insegna essere essenziali per evitare le catastrofi del passato e difenderli riconoscendo che, non riuscendo a comprendere gli insegnamenti della storia, potremmo essere condannati a ripeterne gli errori. Iniziamo allora ad inorridire di fronte alla sola idea del governo di eliminare un grado di giudizio - l’appello - per i ricorsi contro il diniego dello status di rifugiato, potendosi ricorrere solo in cassazione; idea fatta passare con l’obiettivo ipocrita di rendere più snello il procedimento di richiesta d’asilo, senza tuttavia indebolire le garanzie. Ma che strana concezione è questa? Ancora una volta efficientista, velocista? Parca con i deboli, schermo di un parasole che evita l’abbaglio di togliere un grado di giurisdizione e, nientedimeno però, consentendo (chi paga?) di rivendicare il proprio diritto al rifugio da barbarie, povertà e conflitti davanti ai celesti ermellini della suprema corte. Che strana concezione è questa? Che differenza passa tra questi esseri umani nel nostro paese e i cittadini italiani che godono dei tre gradi di giudizio (spero a lungo)? Forse hanno ragione quegli scettici che la differenza la trovano nel paradigma, appunto, degli esseri superflui: non osservare più - come direbbe Levinas - il volto dell’Altro e non facendolo si scopre che è più facile non mettere in discussione la mia libertà che è sempre più larga e generosa solo verso me stesso, ma che, mano a mano, si trasforma così in usurpatrice. No, non hanno ragione. La sicurezza nazionale non deve concedere una licenza di danneggiare l’individuo, mettendo in crisi i valori e i principi relativi alla libertà ed alla dignità umana. I diritti umani sono il pilastro di una democrazia e la nostra Carta costituzionale individua tra questi pilastri i tre gradi di giudizio e a costo che essa lotti - come si dice - con una mano dietro la schiena deve garantire, indifferentemente a tutti, la sua piena esplicazione, senza che lo svolgimento completo della giurisdizione nei suoi tre passaggi, tra la prima all’ultima impugnazione, ne sia compromessa da una forza contingente esterna. Sono i principi europei del giusto processo che parlano addirittura di umanesimo processuale del nuovo millennio. Infatti, la preminente esigenza di garantire i diritti fondamentali nel contesto di un processo per ciò stesso definito equo è via via emersa in una visione antropocentrica che è stata, appunto, icasticamente definita umanesimo processuale dell’azione del Consiglio d’Europa, ed in particolare, della giurisprudenza della Corte Edu. Stupisce ancora di più, allora, la decisione del governo di eliminare il grado di appello intermedio al ricorso contro il diniego del diritto di riconoscimento dello status di rifugiato se si tiene a mente che, proprio in sede di giustizia europea, è stato sancito il principio della insufficiente tutela del ricorso per cassazione, attesa la ovvia natura di tale rimedio giurisdizionale, limitato nella cognizione e volto, solo formalmente, alla verifica del controllo sulla decisione presa da altri giudici escludendosi, ad esempio, la rivisitazione, consentita, invece, proprio con l’appello alla rinnovazione della prova. Ma tant’è, e se il garantismo non deve essere una bandella editoriale, se cioè, finalmente, il processo di accertamento di un diritto di un individuo deve liberarsi della malsana eredità ibseniana di colpa e debito, che almeno si dica che eliminare un grado di giudizio a danno degli ultimi non sta dentro la stoffa pregiata della storia del progresso. Quella crisi sotto le toghe di Silvio Suppa Corriere del Mezzogiorno, 21 febbraio 2017 La crisi di giurisprudenza e delle sue professioni è ormai un dato nazionale, ripreso in vari giornali; ma se a Bari gli iscritti a Scienze giuridiche diminuiscono, vi sono ragioni immediate e più remote. Hanno fondamento le considerazioni di avvocati molto noti, sulla contrazione di tutte le attività forensi, sebbene - va detto - qui pesi non poco l’alto costo della giustizia italiana; inoltre, le transazioni fra le parti spesso tagliano le lunghe attese di una sentenza finalmente in giudicato. Ma questo scenario, assolutamente vero, non spiega tutto, compresa l’incidenza delle parcelle, al Nord più remunerative che al Sud. Il "disincanto" dei giovani meridionali verso il mondo del diritto resta, e bisogna andare al fondo del fenomeno, che consta di almeno due elementi di carattere più generale, pur considerando l’attuale riduzione del fascino della laurea, rispetto alla rarefazione del lavoro. Innanzitutto, la tendenza allo specialismo anche in ambito umanistico, e la conseguente riduzione a merce del sapere, ha tolto agli studi giuridici la qualità di osservatorio vasto della vita civile, capace di tenere in un solo sguardo la costituzione formale dello Stato, la sua struttura materiale, la rete amministrativa, fino al nesso lavoro/impresa e ai fondamenti culturali del diritto. Oggi questo corpo organico è scomposto in campi separati, dai quali i grandi orizzonti sono meno visibili e meno accattivanti. A ciò si aggiunga la crisi profonda della borghesia - in Italia più grave che altrove - schiacciata fra caduta degli scambi e pressione fiscale enorme. Nel nostro Mezzogiorno, già dal tardo 500, il ceto civile - cioè i borghesi professionisti del foro - svolgeva un importante e salutare ruolo di mediazione fra interessi privati, e fra cittadini e decisioni del Principe, non senza un corredo di cultura critica, efficace per equilibri sociali più avanzati e rapporti stretti fra scienza e politica. Era una funzione tipicamente borghese, di classi medie legate allo studio più che alla proprietà e feconde di forza ideale. Questo ruolo, progressivamente attenuato, si è spento alla fine del ‘900, mentre in Italia ha perso qualità il personale politico, ieri ricco di avvocati e notai. Che fare, allora? Non solo migliorare servizi e altro; urge correggere l’ossessione "aziendale" dell’università italiana, fino a recuperare il rapporto fra studio, visione del mondo e restituzione al lavoro di una valenza ideale. Non è semplice, ma in un Paese di soli "tecnici", sarà difficile porre ordine ai mille interessi in urto fra loro, compito autentico di avvocati e giudici. In vigore il Dl Sicurezza: da oggi Daspo per gli spacciatori di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 21 febbraio 2017 Disposizioni urgenti sicurezza nelle città - Decreto legge 20 febbraio 2017 n. 14 - Gazzetta ufficiale n. 42. Rafforzamento dei poteri dei sindaci in materia di sicurezza urbana con estensione della possibilità di emanare ordinanze. Misure a carico di chi impedisce l’accesso a stazioni e aeroporti, ma anche musei e parchi archeologici. Daspo cittadino per bloccare l’attività di spaccio nei locali pubblici. È in vigore da oggi il decreto legge n. 14 del 20 febbraio dopo la pubblicazione sulla "Gazzetta Ufficiale" n. 42. Provvedimento che va a costituire, con l’altro decreto legge andato in "Gazzetta" la scorsa settimana, ma operativo sul fronte dei rifugiati solo da agosto, un dittico di interventi urgenti dei ministeri della Giustizia e dell’Interno. Nel dettaglio, nei 18 articoli del decreto legge, trova posto un pacchetto di misure di tutela di luoghi particolari (stazioni, anche di autobus locali, porti, aeroporti, musei località archeologiche) nei confronti di chi intende impedirne l’accesso. Scatterà una tenaglia, i cui estremi sono individuati in una sanzione amministrativa da 100 a 300 euro e nell’allontanamento dal luogo in cui è stato commesso il fatto. Competente a infliggere i provvedimenti è il sindaco, mentre i proventi andranno a finanziare iniziative di miglioramento del decoro urbano. Se le condotte però continuano e ne può derivare un pericolo per la sicurezza, allora a scendere in campo sarà il questore che disporrà il divieto di accesso per un periodo non superiore a 6 mesi (dovrà però individuare modalità compatibili con le esigenze di salute e lavoro della persona destinataria dell’atto). Il divieto però, quanto a durata, potrà essere esteso da un minimo di 6 mesi a un massimo di 2 anni quando chi né è oggetto è già stato condannato in via definitiva o anche solo in appello per reati contro la persona o il patrimonio. Per questi ultimi reati poi, la sospensione condizionale della pena può essere subordinata al divieto di frequentazione di determinati luoghi. Una sorta di cintura di sicurezza che potrà riguardare anche bar, ristoranti birrerie, locali aperti al pubblico: rispetto a questi luoghi infatti può essere disposto dal questore un divieto di accesso che colpirà le persone condannate nel corso degli ultimi 3 anni per la vendita di sostanze stupefacenti per fatti commessi all’interno o nelle vicinanze di locali pubblici. La misura dovrà essere compresa tra 1 e 5 anni e comunque il questore potrà anche prevedere l’obbligo di presentarsi almeno 2 volte a settimana presso gli uffici di pubblica sicurezza oppure negli orari di apertura delle scuole. Per la violazione dei divieti è stabilita una sanzione pecuniaria da 10mila a 40mila euro. Foglio di via obbligatorio e avviso orale, misure di prevenzione previste dal Codice antimafia (estesa anche la possibilità di ricorso al braccialetto elettronico nel caso di sorveglianza speciale), potranno essere applicate anche a chi trasgredisce i divieti di frequentazione dei luoghi previsti dal decreto. Per chi sporca immobili o mezzi di trasporto, la condanna per imbrattamento (articolo 639 del Codice penale) potrà portare con sé anche l’obbligo di ripristino e ripulitura oppure il vincolo a sostenerne le spese. Magistrati onorari, una settimana di sciopero di Eugenio Occorsio La Repubblica, 21 febbraio 2017 A vent’anni dalla creazione dei giudici di pace e con i professionisti non togati che ormai siedono sui banchi di pubblica accusa e decisione monocratica, manca una disciplina della categoria che chiede ferie, previdenza, aumenti. tutta la settimana in sciopero. "Senza la magistratura onoraria molte procure della Repubblica dovranno chiudere buona parte delle proprie attività e avremo tantissime difficoltà", dice Armando Spataro, da una vita impegnato nella lotta al terrorismo e alla criminalità, attualmente procuratore di Torino. "Bisogna in qualche modo risolvere quello che sta diventando un precariato di Stato simile a quello che c’è nella scuola, attribuendo tutele innanzitutto previdenziali, e magari creando una terza categoria di operatori della giustizia intermedia fra i magistrati e i cancellieri", aggiunge Luca Palamara, già sostituto procuratore a Roma nonché presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, oggi membro togato del Consiglio superiore della magistratura. Se due fra i più prestigiosi magistrati italiani sono così preoccupati vuol dire che c’è un vero problema dietro lo stato di tensione e agitazione che percorre una categoria abbastanza sconosciuta al grande pubblico eppure, a quanto pare, diventata determinante per l’intera macchina della giustizia, quella della magistratura onoraria. Una categoria che è cresciuta a dismisura fino a comprendere quasi 7mila laureati in legge (contro i 10.800 magistrati professionali), per lo più avvocati o docenti universitari di diritto, fra giudici di pace, esperti di tribunali di sorveglianza, giudici ausiliari di tribunali e Corte d’appello, e così via. Ma soprattutto una categoria la cui importanza è diventata centrale vista la cronica carenza di organici della magistratura ordinaria, nonché "di supporti logistici e materiali" come dice Spataro, unitamente alla mole dilagante dei processi arretrati, oggi 4,5 milioni di cause pendenti penali e tre milioni quelle civili. Per tutta questa settimana i magistrati onorari sono in sciopero (fermo restando il disbrigo delle urgenze come i processi con imputato detenuto), dopo che giovedì scorso hanno dato vita a un animato sit-in di fronte al Csm. Il loro disagio è il frutto di una prolungata precarietà dovuta a sua volta a una serie infinita tutta italiana di provvedimenti provvisori che diventano definitivi, di proroghe e proroghe della proroga, di leggi delega alla cui delega nessuno dà seguito, di incertezze interpretative, di miniriforme e controriforme in attesa del mitico "testo unico". "Nel frattempo noi siamo senza previdenza, senza ferie né maternità, sottopagati al livello del caporalato: 74 euro netti per un’udienza di cinque ore, raddoppiabili solo se si protrae per altre cinque", dice Raimondo Orru, presidente della Federmot, una delle organizzazioni dei magistrati onorari. "Per questo è scattata la nostra protesta". Comunque un altro alto magistrato, il presidente della Corte d’Appello di Roma Luciano Panzani, invita alla moderazione: "Siamo di fronte ad una categoria comprensibilmente esasperata. Va in ogni caso ribadito che puntare all’equiparazione fra magistrati professionali e onorari sarebbe inappropriato e che comunque il loro mandato deve essere temporaneo. Il che non vuol dire "diminuirne" l’importanza, specie in un momento in cui l’organico della magistratura ha un deficit di 1.500 unità. Anzi, per un giovane può essere un ottimo inizio, e magari un avviamento al successivo concorso in magistratura". Tutto cominciò con i giudici di pace nel 1995, demandati ai reati minori (diffamazione, minacce semplici, occupazione abusiva di terreni ed edifici, il tutto con competenza fino a 5.000 euro di sanzione). Nel 1998, in occasione della cancellazione delle Preture, nasce il giudice monocratico di tribunale e con esso il giudice onorario di tribunale, e parallelamente nell’ufficio della Procura il vice procuratore onorario. Intanto le deleghe si ampliano: ormai i giudici onorati occupano il posto del pubblico ministero, e spesso anche del giudice giudicante unico di primo grado (dove non è prevista la corte) per rapine, evasione fiscale, stalking, spaccio, furto, ricettazione, fino a ben 20 anni di reclusione. "La disciplina - si legge nel Rapporto Italia 2017 dell’Eurispes - all’origine era stata concepita come transitoria, in quanto i magistrati onorari avrebbero dovuto svolgere l’incarico per un periodo limitato di tre anni, eventualmente prorogabile una sola volta per altri tre, il tutto in previsione di una riforma organica della magistratura onoraria". Invece nel 2008 i giudici in questione vengono prorogati ancora una volta, e comunque - si disse - non oltre il 31 dicembre 2009. Il termine è stato scavalcato ampiamente e si è arrivati all’aprile 2016 con una legge delega per la sospirata disciplina. Senonché ad oggi solo uno dei tanti decreti delegati previsti per dare corpo alla riforma, su una materia marginale come la presenza del giudice onorario nei consigli di autodisciplina di primo grado, è stato emanato. Peggio: sulla questione si è ingaggiato un braccio di ferro con il ministro della Giustizia perché i giudici onorari nel frattempo hanno fatto ricorso al Comitato europeo dei diritti sociali, che a fine novembre 2016 ha dato loro ragione minacciando nientemeno l’Italia di aprire una procedura di infrazione. "La conseguenza rischia di essere un peggioramento anziché una diminuzione della precarizzazione", ha risposto stizzito il ministro Orlando, lasciando intendere che non è stato assolutamente il caso di adire la magistratura europea perché ora la faccenda si è complicata, se non altro per i rinnovati limiti di budget imposti dall’Ue una volta "sensibilizzata". Fatto sta che tutto è finito di nuovo in stallo. Terrorismo, almeno 8 anni a chi fa gruppo di Christina Feriozzi Italia Oggi, 21 febbraio 2017 La nuova direttiva europea deve essere recepita entro 18 mesi. Spiccato interesse per le condotte messe in atto attraverso internet, inclusi i social network, nell’ambito dell’armonizzazione e definizione dei reati di terrorismo, di quelli riconducibili a un gruppo terroristico e dei reati connessi ad attività terroristiche. Inasprimento delle sanzioni penali che puniranno i reati eversivi. Rafforzamento della cooperazione internazionale, anche tra paesi dell’Unione e stati terzi. Sono alcuni degli elementi ritraibili dall’approvazione in via definitiva, lo scorso 16/2, da parte del Parlamento europeo, delle nuove norme per contrastare le crescenti minacce dei "combattenti stranieri" in viaggio verso zone di conflitto a fini terroristici e dei "lupi solitari" che pianificano attacchi. Una volta che la medesima Direttiva sarà approvata dal Consiglio, gli stati membri avranno 18 mesi per attuarne le disposizioni. Massima allerta al terrorismo via internet. Negli ultimi anni, la minaccia terroristica si è evoluta rapidamente anche con mezzi on-line. Da ciò la necessità di esortare gli stati membri ad adottare strategie di lotta anche su internet rimuovendo alla fonte i contenuti informatici che costituiscano una pubblica provocazione per commettere o propagandare o incentivare reati di terrorismo. Tutti gli stati, infatti, raccomanda la direttiva, dovranno cooperare con i paesi terzi per assicurare la rimozione, dai server nel loro territorio, dei contenuti online incriminati. Potrebbero anche essere predisposti meccanismi volti a bloccare l’accesso agli stessi dal territorio dell’Unione. Non dovrebbe, tuttavia, essere imposto ai fornitori di servizi alcun obbligo generale di sorveglianza sulle informazioni né di ricercare attivamente fatti o circostanze che indichino la presenza di attività illecite. Inoltre, i fornitori di servizi di hosting non dovrebbero essere considerati responsabili a condizione che non siano effettivamente a conoscenza del fatto che l’attività o l’informazione è illecita. Le nuove sanzioni. Almeno 15 anni di reclusione, nei casi in cui venga imposto il massimo della pena, in tutta l’Ue, è quanto richiede l’armonizzazione prevista dalla direttiva, pur lasciando possibilità di stabilire le pene minime ai singoli stati membri. Questi adotteranno misure necessarie affinché i reati in commento siano punibili con sanzioni penali effettive, proporzionate e dissuasive che possono comportare anche la consegna o l’estradizione dei soggetti. Nel caso di persone fisiche si richiede l’applicazione di pene detentive più severe. Si tratta della reclusione di durata massima non inferiore a 15 anni per i reati di direzione di azioni terroristiche e non inferiore a otto anni per i reati di partecipazione alle attività di un gruppo. Qualora il reato consista nella minaccia di commettere uno degli atti individuati dalla direttiva e sia commesso da una persona alla direzione di un gruppo terroristico, la pena massima non sarà inferiore a otto anni. Nel caso di persone giuridiche, si prevedono sanzioni pecuniarie penali o non penali e che possono comprendere anche: a) l’esclusione dal godimento di contributi o sovvenzioni pubblici; b) l’interdizione temporanea o permanente dall’esercizio di un’attività commerciale; c) l’assoggettamento a vigilanza giudiziaria; d) un provvedimento giudiziario di liquidazione; e) la chiusura temporanea o permanente dei locali usati per commettere il reato. Viaggi a fini terroristici. Sotto la lente anche il fenomeno delle persone indicate come "combattenti terroristi stranieri" che si recano all’estero a fini terroristici. Tali combattenti terroristi stranieri che rientrano in patria rappresentano una minaccia accresciuta per la sicurezza di tutti gli stati. Pertanto essi devono adottare misure necessarie affinché sia punibile come reato, se compiuto intenzionalmente, l’atto di recarsi in un paese diverso dal proprio stato, al fine di commettere o contribuire alla commissione di un reato di terrorismo, o di partecipare alle attività di un gruppo terroristico nella consapevolezza che tale partecipazione contribuirà alle attività criminose di tale gruppo o di impartire o ricevere un addestramento a fini terroristici. Inammissibile il ricorso per Cassazione fondato su motivi privi di specificità Il Sole 24 Ore, 21 febbraio 2017 Ricorso per Cassazione - Motivi dell’impugnazione - Specificità dei motivi - Insussistenza - Inammissibilità del ricorso. È inammissibile, per difetto di specificità, il ricorso per cassazione che sia fondato su una caotica esposizione delle doglianze, dal tenore confuso e scarsamente comprensibile, che renda particolarmente disagevole la lettura del ricorso stesso e che, pertanto, esuli da una ragionata e chiara censura in ordine alla motivazione del provvedimento impugnato. Infatti, ai fini della validità del ricorso in cassazione è necessario, oltre alla individuazione delle statuizioni impugnate e dei limiti della stessa impugnazione, che le ragioni sulle quali esso è fondato siano esposte con sufficiente grado di specificità e che siano altresì adeguatamente correlate alla motivazione della sentenza impugnata. • Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 10 febbraio 2017 n. 6324. Ricorso per cassazione - Inammissibilità - Mancata specificità del motivo - Genericità - Ragioni argomentate dalla decisione - Mancanza di correlazione. È inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi che si limitino a riproporre le stesse ragioni già discusse e ritenute infondate dal giudice del gravame, essendo gli stessi "non specifici". La non specificità del motivo, invero, va apprezzata per la sua genericità, per la indeterminatezza, ma anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione proposta. • Corte di Cassazione, sezione I, sentenza 7 aprile 2016 n. 13981. Ricorso per cassazione - Specificità del ricorso - Travisamento di prova dichiarativa - Produzione integrale - Incongruità. Risulta violato il requisito della specificità del ricorso, che denunci il travisamento di una prova dichiarativa, sia il richiamo del contenuto di essa per brani decontestualizzati, sia per converso la produzione integrale del pertinente verbale in chiave esplorativa, senza la puntuale rappresentazione delle ritenute incongruità e della loro rilevanza nell’economia complessiva del giudizio probatorio. • Corte di Cassazione, sezione I, sentenza 10 ottobre 2016 n. 42802. Procedimenti speciali - Patteggiamento - Ricorso per cassazione - Omessa indicazione delle ragioni di manifesta e oggettiva illegalità delle statuizioni impugnate - Inammissibilità. È inammissibile, per difetto di specificità, il ricorso per cassazione - proposto dall’imputato avverso la statuizione della sentenza di patteggiamento relativa alla condanna alla rifusione delle spese di parte civile (liquidate ex DM n. 55/2014, recante i nuovi parametri forensi, in attuazione della Legge riforma dell’ordinamento professionale, n. 247/2012) che non alleghi le ragioni concernenti la manifesta e oggettiva illegalità del quantum liquidato a proprio carico. E ciò tanto più se la liquidazione del giudice si sia attestata al di sotto dei valori medi di cui alle tabelle allegate al decreto predetto. • Corte di Cassazione, sezione V, sentenza 8 febbraio 2016 n. 5053. Esiste o no l’errore giudiziario? di Valter Vecellio Il Dubbio, 21 febbraio 2017 Pongo una semplice domanda: esiste l’errore giudiziario? Non è solo infatti il dottor Piercamillo Davigo a negare che "tecnicamente" l’errore giudiziario possa esistere. È vasta scuola di pensiero: a voler fare i colti, si può far riferimento all’impareggiabile (e terrificante ogni volta che la si legge) pagina de Il contesto di Leonardo Sciascia. Segnalazione per una classe politica che si vorrebbe ci fosse e che al contrario non sembra esserci? La "segnalazione" consiste in una semplice domanda: esiste l’errore giudiziario? Non è solo il dottor Piercamillo Davigo a negare che "tecnicamente" l’errore giudiziario possa esistere. È vasta scuola di pensiero: a voler fare i colti, si può far riferimento all’impareggiabile (e terrificante ogni volta che la si legge) pagina de "Il contesto" di Leonardo Sciascia, quando fa parlare il giudice della suprema corte Riches, e da lì discendere all’Alessandro Manzoni di "Storia della colonna infame", con la introduzione, da Sciascia firmata: per quello e per tanti altri successivi, non di errore di deve parlare, ma di orrore: "di proterva, arrogante insistenza sul male fatto, cercando di coprire quel male con altro". Per curiosa coincidenza il 1971 non è solo l’anno de "Il Contesto"; è l’anno in cui nei cinema esce un film di Nanni Loy, interpretato da Alberto Sordi, "Detenuto in attesa di giudizio": storia di un ragioniere che lavora in Svezia, torna in Italia con la famiglia per le vacanze, arrestato alla frontiera, passa ogni tipo di guai, prima di essere scagionato. Il dottor Davigo aveva allora 21 anni. L’avrà visto, quel film, al cinema, come molti di noi. Quel dialogo tra il ragioniere arrestato (e solo alla fine scagionato) e il magistrato è da manuale: "Appena arrestato alla frontiera... che cosa le hanno detto, quando è stato arrestato?". "Niente". "Però sarebbe stato suo diritto, e suo dovere, chiedere copia del suo mandato di cattura", fa il magistrato. "Io l’ho chiesto". "E che cosa le hanno comunicato?", incalza il magistrato. "Che avevo ammazzato un tedesco...Ma io non l’ho ammazzato". "Lasci stare", fa il magistrato. "Lei non ha ammazzato il tedesco...". "E chi l’ha ammazzato?". "Nessuno. È morto da solo...". A questo punto si scade nel grottesco: perché è stato arrestato, se non ha ammazzato nessuno, se non è colpevole di nulla, se non ha alcuna responsabilità? L’interrogativo rimane senza risposta, ovviamente. Quarantasei anni dopo da quel libro di Sciascia e dal film di Loi (e da 177 anni da "Storia della colonna infame"), le dichiarazioni del ministro per gli Affari regionali e le autonomie Enrico Costa, intervenuto all’inaugurazione dell’anno giudiziario dell’Unione delle Camere Penali a Matera: "Sulla ingiusta detenzione i numeri sono assolutamente preoccupanti. Fanno rabbrividire. Dal 1992 a oggi, 25mila persone hanno ottenuto l’indennizzo per ingiusta detenzione, e lo Stato ha pagato quasi 700 milioni di euro per questo. Penso che non si possa parlare di elemento fisiologico del processo. È un elemento Patologico e va affrontato, non certamente attraverso l’aumento o l’intervento sulla cifra di indennizzo, assolutamente insoddisfacente, perché quello economico è l’ultimo aspetto". Il ministro Costa naturalmente ha ragione: non si può parlare di elemento fisiologico; l’aspetto economico è l’ultimo: anche se Giuseppe Gullotta, 22 anni di carcere, scagionato nel 2012, attende ancora il risarcimento di cui ha legalmente diritto; si tratta di un elemento patologico che va affrontato. Perché ognuno di quei 25mila casi corrisponde a persone, con le loro famiglie, storie, vite distrutte o comunque pregiudicate. E si parla di quelle a cui il risarcimento è stato riconosciuto. Ci sono poi casi come quello di Raffaele Sollecito, che si è visto negare il risarcimento con motivazioni bizzarre; e quanti saranno casi simili come il suo? È dunque da credere che ai 25mila citati dal ministro Costa, se ne debbano aggiungere altrettanti, non "contabilizzati". Non sono, tecnicamente, secondo l’ottica cara al dottor Davigo, degli errori giudiziari. Come andranno definiti? Viene in mente quel simpaticone di pubblico ministero che consola una signora ingiustamente arrestata, una detenzione non breve, infine scagionata totalmente: "Vede, tutte le esperienze, nella vita servono, e fanno crescere: anche il carcere". A quel Pubblico Ministero (e ai suoi colleghi che come lui la pensano) sarebbe opportuno, doveroso replicare citando quello che scriveva Leonardo Sciascia sul Corriere della Sera, il 7 agosto del 1983: "Un rimedio, paradossale quanto si vuole, sarebbe quello di far fare ad ogni magistrato, una volta superate le prove d’esame e vinto il concorso, almeno tre giorni di carcere fra i comuni detenuti, e preferibilmente in carceri famigerate come l’Ucciardone o Poggioreale. Sarebbe indelebile esperienza, da suscitare acuta riflessione e doloroso rovello ogni volta che si sta per firmare un mandato di cattura o per stilare una sentenza". L’omosessualità nascosta dietro le sbarre, le ragioni e i rischi di Alessandra Graziottin Il Gazzettino, 21 febbraio 2017 È vero che in carcere aumentano i comportamenti omosessuali? Sì: il dato, noto agli addetti ai lavori, fa parte di quei segreti, fatti di omertà e d’ombra, su cui a tratti si accende uno squarcio di luce. La rivelazione della controversa Amanda Knox di aver vissuto seduzioni di tipo omosessuale, mentre era in carcere in Italia, riaccende l’interesse sulla sessualità in condizioni di prigionia. Le sue dichiarazioni, tra il provocatorio e lo strumentale, accendono pruderie e voyerismo. Il problema in realtà è serio e negletto. Perché emergono questi comportamenti omosessuali? Ci sono differenze tra uomini e donne nel modo di esprimerli e di viverli? E con quali rischi? Un comportamento omosessuale può nascere anzitutto da ragioni espressive: sono omosessuale, ho desideri omosessuali, mi comporterei di conseguenza. Gli omosessuali per orientamento primario (circa il 10%), uomini e donne, si comporterebbero in carcere come nella vita reale, contesto permettendo, vista la persistente omofobia presente in molte realtà carcerarie. Il rapporto può essere consensuale, se l’orientamento omosessuale è condiviso da entrambi/e i partner, o imposto, con variabile violenza. Più spesso, la persona omosessuale, proprio per il fatto di esserlo, è invece vittima di un’aggressività distruttiva, da parte di altri maschi che si sentono normali: il più alto tasso di suicidi in carcere avviene proprio tra gli omosessuali. Il comportamento omosessuale esclusivo in carcere può invece emergere come necessità legata al desiderio fisico e all’impossibilità di avere rapporti con persone dell’altro sesso. Interessa detenuti che nella vita reale sono eterosessuali, o bisessuali. Perché lo fanno? Tra gli uomini, emergono due dinamiche principali: lo sfogo fisico di una pulsione sessuale che, data la situazione, non ha modo di esprimersi altrimenti. E l’espressione di un’aggressività prevaricante, finalizzata a umiliare l’altro, per dimostrare una superiorità nel gruppo dei detenuti, per sottolineare chi comanda, per dare una lezione, per punire, per mandare un messaggio. In chi la agisce, la sodomizzazione ha in tal caso il significato principale di vittimizzazione violenta e abuso strumentale. Nell’uomo che la subisce, assume la doppia valenza di umiliazione e di violenza dolorosa e traumatica, fisicamente e moralmente. Può causare malattie sessualmente trasmesse, tra cui l’hiv, e scatenare depressione fino al suicidio. Tra detenute sono da sempre più frequenti le espressioni fisiche di affetto, abbracci, baci e carezze, non finalizzate all’atto sessuale, che hanno un potente ruolo di contrasto alla solitudine e allo stress. L’attuale liberalizzazione dei comportamenti affettivi ed erotici, anche nella popolazione generale, porta oggi ad agire con maggiore disinvoltura e frequenza comportamenti esplicitamente sessuali dal bacio profondo alle carezze intime che possono diventare dominanti in una condizione di spazio e libertà limitati, qual è il carcere. Il grado di consenso fa la differenza, dentro e fuori dal carcere. Il consenso, espresso nel condividere spontaneamente e volentieri un comportamento intimo ed erotico, è preludio a una pausa desiderata e a una fonte di piacere, più o meno segreto, che accende di vita la noia e la segregazione del carcere. In caso invece di coercizione, quello che per una carcerata può essere uno sfogo gradito, può essere per l’altra una fonte di ulteriore stress, tensione, inquietudine e solitudine. Uscite dal carcere, le persone che avevano avuto comportamenti omosessuali compensatori, per necessità, tendono a riprendere la loro vita eterosessuale, come prima del carcere. I danni peggiori li riporta chi è stato vittima di gesti sessuali non voluti, o di vere aggressioni sessuali. Sulle cicatrici della prigionia restano intrecciate quelle delle violenze subìte, che spesso restano segrete, e delle malattie contratte, per intimidazione e/o paura di ritorsioni anche dopo il ritorno nella vita reale. Ciò che resta doloroso e occultato continua allora a far danni, nell’ombra e nel silenzio, dentro e fuori dal carcere. Piemonte: troppi detenuti e pochissimi soldi, il grido d’allarme del Garante sulle carceri di Jacopo Ricca La Repubblica, 21 febbraio 2017 Brutte, sporche e sovraffollate, ma soprattutto senza soldi per migliorare. La salute delle carceri piemontesi, per come emerge dal rapporto del Garante regionale dei detenuti, Bruno Mellano, continua a essere piuttosto cagionevole. Dopo un lavoro di ispezione in tutte le strutture, è stato mandato un report dettagliato al capo del Dap (il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) Santi Consolo, che nei giorni scorsi ha dato risposte puntuali, a partire dal sovraffollamento: "In Piemonte, su 13 carceri, 8 sono sovraffollate e hanno un 15 per cento in più dei detenuti che potrebbero avere - racconta Mellano. A livello regionale le capienze sono rispettate, ma la situazione delle singole strutture è critica: a Torino ad esempio ci sono quasi 200 persone più del previsto". La cronaca delle violenze ha evidenziato la grave situazione di Ivrea, su cui proprio il Dap è intervenuto un paio di settimane fa, ma la mancanza cronica di fondi resta uno dei problemi più grandi: "Per la manutenzione servirebbero 7 milioni l’anno da destinare alle strutture piemontesi, ma ne arrivano appena 130 mila" denuncia Cesare Burdese, architetto delle commissioni ministeriali sul tema. Da Roma non arriva nemmeno il 2 per cento di quanto servirebbe per ristrutturare i padiglioni dentro cui piove, come succede al Lorusso e Cutugno di Torino, ad Alessandria o a Vercelli: "Non c’è interesse politico alla questione della detenzione - commenta rammaricato il vicepresidente del Consiglio regionale, Nino Boeti. I problemi cadono nell’indifferenza". Problemi evidenziati dai diversi garanti cittadini, da quella di Torino, Monica Gallo, che si dice "sconsolata per le scarse risposte arrivate da Consolo sulle Vallette", a quello di Alessandria, Davide Petrini, che attacca: "Se ne usa meno della metà, ma per assurdo gli spazi sono insufficienti perché gli impianti non a norma e il tetto rovinato rendono inagibili diverse porzioni". Nei prossimi giorni dovrebbe essere ufficializzata la nomina dell’attuale direttore del carcere di Secondigliano, Liberato Guerriero, come nuovo provveditore dell’amministrazione penitenziaria di Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta. Sarà lui a dover affrontare la spinosa questione di Alba, chiusa da più di un anno dopo un’epidemia di legionella: "Entro il 26 febbraio andrebbe definito un progetto per arrivare alla riapertura, ma bisogna fare chiarezza sulle scelte - dice Mellano. Per un intervento radicale servono milioni, ma con 2 mila euro si potrebbe riattivare il padiglione che ospitava i collaboratori di giustizia e ha una capienza di una trentina di posti". Campania: corsi di formazione e lavoro per i detenuti, presentato il progetto cronachedellacampania.it, 21 febbraio 2017 Spending review, formazione e un’opportunità di trovare lavoro, per i detenuti, una volta espiata la pena: sono gli obiettivi del progetto "Centro Unico per i servizi di manutenzione ordinaria dell’autoparco regionale", presentato oggi a Napoli, nella sede Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria, nel corso di un incontro a cui hanno preso parte, tra gli altri, il sottosegretario alla Giustizia, Gennaro Migliore e i vertici dell’amministrazione penitenziaria. I detenuti, che durante l’espiazione della pena faranno esperienza e contribuiranno a tenere efficienti i veicoli in dotazione all’amministrazione penitenziaria, alla fine, conseguiranno un attestato di "Meccatronico e Collaudatore" utile all’inclusione sociale. I corsi si terranno nell’officina meccanica del Centro Unico Servizi del Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria che si trova in via Nuova Poggioreale, a Napoli, nelle immediate del carcere. Il progetto prevede l’impiego di fondi europei che verranno messi a disposizione dalla Regione Campania. "Napoli e la Campania sono un punto di partenza per un progetto nazionale", ha detto Migliore che dopo avere rivolto un ringraziamento particolare alla polizia penitenziaria, ha sottolineato che l’iniziativa mette fine "ai corsi fantasma del passato". Migliore ha anche voluto sottolineare l’attenzione "verso il riordino e il riallineamento del corpo della Polizia Penitenziaria: è il giusto modello integrato di sicurezza", ha detto. Soddisfazione è stata espressa dal sindacato Uspp, con il segretario regionale Ciro Auricchio: "Accogliamo con favore le parole del sottosegretario sulla valorizzazione e sul riordino del Corpo, che potrà dare spazio al riallineamento di ispettori e commissari". "Il progetto coniuga spending review e risocializzazione del condannato - dice Giulia Russo, ideatrice del progetto Prap - obiettivi preziosi e complessi, ma riusciti grazie anche al partenariato dell’assessore regionale Chiara Marciani". Lombardia: carceri, al via iter per revisione legge regionale del 2005 lombardiaquotidiano.com, 21 febbraio 2017 La Commissione speciale Carceri, presieduta da Fabio Fanetti (Lista Maroni) ha ricevuto in audizione stamattina a Palazzo Pirelli la dottoressa Francesca Valenzi del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap) in merito alla revisione della legge regionale del 2005 sui detenuti situati nei penitenziari della Lombardia. "Alla Commissione - ha detto il Presidente Fanetti - dal Dap sono arrivate alcune riflessioni che sono state condivise con tutte le Direzioni degli Istituti Penitenziari della Regione, un lavoro che consideriamo importante e che sarà strategico per la revisione del provvedimento". Durante l’audizione è stata sottolineata più volte "l’importanza strategica della legge del 2005 soprattutto per quanto riguarda la norma sulla creazione e diffusione di un efficace modello di rete sulla quale - ha detto Valenzi - viene raccomandato un ulteriore miglioramento attraverso la creazione di un sistema di servizi destinati a facilitare con continuità l’apporto interdisciplinare necessario per la buona riuscita dei processi di inclusione sociale". Altri suggerimenti riguardano i piani di zona e la valorizzazione del volontariato penitenziario. "La Commissione - ha detto al termine dell’audizione il Presidente Fanetti - è impegnata a portare a termine nel più breve tempo possibile la revisione della legge regionale in modo tale che la Lombardia, come sempre, possa vantare un impianto legislativo efficace per il pieno recupero sociale dei detenuti". Friuli Venezia Giulia: nasce il Tavolo che promuove l’inserimento sociale dei detenuti Il Gazzettino, 21 febbraio 2017 Pino Roveredo, Garante regionale dei detenuti, promuove il primo tavolo di lavoro sulla promozione del loro inserimento sociale e lavorativo. L’iniziativa intende coinvolgere le istituzioni e i soggetti che, a livello territoriale, potrebbero sviluppare forme di collaborazione e dialogo per facilitare l’inclusione sociale e lavorativa delle persone ristrette. Le attività del tavolo di lavoro saranno finalizzate alla sensibilizzazione sulle tematiche e promozione di relazioni e avvio di collaborazioni tra i soggetti partecipanti; individuazione di strategie per la realizzazione di corsi propedeutici all’apprendimento di attività e mestieri; individuazione di modalità per facilitare l’impiego delle persone detenute in attività lavorative; rilevazione e monitoraggio degli interventi e progetti realizzati a sostegno del recupero e del reinserimento sociale e lavorativo delle persone ristrette; esportazione di un modello di best practices negli altri contesti territoriali della Regione Friuli Venezia Giulia. Il primo incontro del tavolo di lavoro è fissato per venerdì 3 marzo, dalle 11 alle 12.30, nella sala riunioni della Casa circondariale di Trieste in via del Coroneo 26. Firenze: sbarre segate e poi le lenzuola, in tre evadono dal carcere di Sollicciano di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 21 febbraio 2017 Gli agenti: "Sbarre segate, sono scappati da una zona pericolante". Come in un film: tre detenuti sono scappati ieri dal carcere di Sollicciano calandosi da un muro con una fune fatta di lenzuola annodate. I tre (Bordeianu Costel, Donciu Costantin Catalin e Ciocan Danut Costeu) tutti di nazionalità romena, hanno approfittato delle falle nel sistema di sicurezza (più volte denunciate dai sindacati) per fuggire dal penitenziario al confine tra Firenze e Scandicci. A dare l’allarme sono stati gli stessi agenti che si sono accorti della fuga dalle telecamere di sorveglianza. Secondo quanto riferito dal sindacato degli agenti Uil-Pa, è probabile che abbiano segato le sbarre per uscire dalla propria sezione: "Potrebbero aver usato sottilissimi fili facilmente introducibili in carcere chiamati comunemente capelli d’angelo" spiega Eleuterio Grieco, segretario del sindacato. I tre, scappati intorno alle 20, si trovavano nella prima sezione: "È quella aperta dalla mattina fino alle 19, dove i reclusi sono parzialmente liberi di girare fuori dalle celle", spiega Grieco. Una normativa, quella delle celle aperte, adottata dal Ministero della giustizia per venire incontro alle direttive europee sui diritti dei detenuti, che però "a Sollicciano è troppo rischiosa visto che manca la vigilanza", fanno notare gli agenti penitenziari di Sollicciano poco dopo la fuga dei tre detenuti. Su questo punto Grieco non ha dubbi: "È stata un’evasione annunciata. Il carcere di Sollicciano non è sicuro, lo ripetiamo da mesi. Il 90 per cento dei dispositivi di videosorveglianza non funziona, il muro di cinta è a rischio crollo e pertanto chiuso, senza sentinelle in grado di controllare". E proprio lì che è avvenuta la fuga, dalla parte della Cooperativa di Legnaia. Due dei tre fuggitivi sono stati arrestati dai carabinieri pochi giorni fa per furto e ricettazione: avevano svaligiato diversi negozi con la tecnica della spaccata. Il terzo connazionale era in carcere dallo scorso settembre. Secondo le prime informazioni tutti dovevano uscire dal carcere il prossimo anno. Polizia e carabinieri da ieri sera danno la caccia al terzetto dei malviventi nelle zone attorno al carcere. E non solo. A Ugnano e nelle zone collinari di Scandicci sono state perquisiti alcuni casolari: al momento, però, senza risultato. Per Nel 1756 Giacomo Casanova evase dalla prigione dal carcere di massima sicurezza dei Piombi, Venezia. Il racconto della sua fuga è stato descritto nell’opera "La mia fuga dai Piombi di Venezia". Riuscì a superare le sbarre facendo un foro sul soffitto della cella e fuggendo sul tetto Nel 1934, un noto criminale americano, il rapinatore John Dillinger, mette in atto una rocambolesca fuga dal carcere della contea di Crown Point dove è rinchiuso per omicidio: con un pezzo di legno a forma di pistola e una saponetta minaccia due guardie e le disarma, quindi esce dal carcere rubando un’auto Nel 1962 Clarence Anglin, John Angling e Frank Morris riuscirono a scappare dalla prigione di Alcatraz era da sempre considerata un carcere dal quale non era possibile evadere. Una fuga spettacolare che fu raccontata anche al cinema con Clint Eastwood, Fred Ward e Jack Thibeau una mezz’ora anche le operazioni di identificazione dei tre romeni sono state rese difficoltose dagli altri detenuti: la polizia penitenziaria è stata costretta a fare l’appello per capire chi fossero gli evasi (all’inizio si pensava che fossero di nazionalità algerina). Il pm di turno Christine Von Borries ha aperto un’inchiesta. Nelle prossime ore la polizia inizierà a visionare i filmati per capire meglio la dinamica esatta della fuga. Le ricerche delle forze dell’ordine vanno avanti anche con l’aiuto dei cani molecolari. Non è chiaro, però, se ci fosse qualcuno ad aspettarli fuori dal carcere. Magari un complice che poi li ha fatti salire sulla macchina e approfittare della vicina autostrada. Il carcere di Sollicciano non è nuovo a tentativi di fuga: lo scorso 14 luglio due detenuti avevano cercato di evadere ma erano stati bloccati dagli agenti prima che potessero uscire dal perimetro del centro di reclusione: furono bloccati sui muri. Nel 2011 invece un detenuto riuscì a fuggire: stava effettuando dei lavori di manutenzione ordinaria nelle case demaniali della stessa direzione che si trovano alle spalle dell’istituto penitenziario. Un detenuto nel gennaio del 2015 scappò ma dopo un’ora fu invece ripreso. Nel 2004 infine ci fu una maxi evasione, con cinque detenuti albanesi che riuscirono a calarsi sul retro di una delle sezioni e, da lì, a raggiungere il muro di cinta e a calarsi verso la campagna che circonda il carcere. Torino: il processo dura 20 anni, stupro prescritto. Il giudice: chiedo scusa alla vittima di Sarah Martinenghi La Repubblica, 21 febbraio 2017 Cade l’accusa per l’uomo che abusò della figlia della convivente. Nel 2007 la condanna, ma in Appello tutto si è arenato. In Aula a Torino l’imbarazzo della Corte: "Bimba violentata due volte". "Questo è un caso in cui bisogna chiedere scusa al popolo italiano". Con queste parole, la giudice della Corte d’Appello Paola Dezani, ieri mattina, ha emesso la sentenza più difficile da pronunciare. Ha dovuto prosciogliere il violentatore di una bambina, condannato in primo grado a 12 anni di carcere dal tribunale di Alessandria, perché è trascorso troppo tempo dai fatti contestati: vent’anni. Tutto prescritto. La bambina di allora oggi ha 27 anni. All’epoca dei fatti ne aveva sette. Dall’aula l’hanno chiamata per chiederle se volesse presentarsi al processo, iniziato nel 1997, in cui era parte offesa. Ma lei si è rifiutata: "Voglio solo dimenticare". Il procedimento è rimasto per nove anni appeso nelle maglie di una giustizia troppo lenta. Lo ammette senza mezzi termini il presidente della corte d’Appello Arturo Soprano: "Si deve avere il coraggio di elogiarsi, ma anche quello di ammettere gli errori. Questa è un’ingiustizia per tutti, in cui la vittima è stata violentata due volte, la prima dal suo orco, la seconda dal sistema". In aula, a sostenere l’accusa della procura generale, è sceso l’avvocato generale Giorgio Vitari. "Ha espresso lui per primo il rammarico della procura generale per i lunghi tempi trascorsi - spiega il procuratore generale, Francesco Saluzzo - Questo procedimento è ora oggetto della valutazione mia e del presidente della Corte d’Appello. È durato troppo in primo grado, dal 1997 al 2007. Poi ha atteso per nove anni di essere fissato in secondo". La storia riguarda una bambina violentata ripetutamente dal convivente della madre. La piccola, trovata per strada in condizioni precarie, era stata portata in ospedale, dove le avevano riscontrato traumi da abusi e addirittura infezioni sessualmente trasmesse. La madre si allontanava da casa per andare a lavorare e l’affidava alle cure del compagno. Il procedimento alla procura di Alessandria parte con l’accusa di maltrattamenti e violenza sessuale. In udienza preliminare viene però chiesta l’archiviazione per parte delle accuse e l’uomo riceve una prima condanna, ma solo per maltrattamenti. Contemporaneamente, il giudice dispone il rinvio degli atti in procura perché si proceda anche per violenza sessuale. Nel frattempo, però, sono già trascorsi anni. L’inchiesta torna in primo grado e, dopo un anno, viene emessa la condanna nei confronti dell’orco: 12 anni di carcere. Da Alessandria gli atti rimbalzano a Torino per il secondo grado. Ma incredibilmente il procedimento resta fermo per nove anni in attesa di essere fissato. Finché, nel 2016, il presidente della corte d’Appello Arturo Soprano, allarmato per l’eccessiva lentezza di troppi procedimenti, decide di fare un cambiamento nell’assegnazione dei fascicoli. "Ho tolto dalla seconda sezione della corte d’Appello circa mille processi, tra cui questo, e li ho ridistribuiti su altre tre sezioni. Ognuna ha avuto circa 300 processi tutti del 2006, 2007 e del 2011. Rappresentavano il cronico arretrato che si era accumulato", spiega. La prima sezione ha avuto tra le mani per un anno il caso iniziato nel 1997. E l’udienza si è svolta solo ieri. "Ormai, però, era intervenuta la prescrizione". Un altro errore si è aggiunto alla catena di intoppi giudiziari: per sbaglio è stata contestata all’imputato una recidiva che non esisteva, il che avrebbe accorciato ulteriormente la sopravvivenza della condanna. I giudici, ascoltate le scuse della procura generale, si sono chiusi a lungo in camera di consiglio. Forse nella speranza di trovare un’ancora di salvezza. Alla fine, però, ha vinto il tempo. Cuneo: il Garante regionale "mancano i soldi per adeguare le carceri" di Massimiliano Cavallo laguida.it, 21 febbraio 2017 Sono necessari interventi nelle carceri di Alba e Fossano. Lo ha rilevato il Garante regionale dei detenuti, Bruno Mellano che ha aperto, oggi a Palazzo Lascaris, la conferenza stampa per rendere note la risposta del capodipartimento dell’Amministrazione penitenziaria Santi Consolo e del provveditore regionale Luigi Pagano sulle problematiche segnalate dal dossier presentato nel dicembre scorso dai garanti provinciali e comunali piemontesi. "Per la manutenzione ordinaria delle 191 carceri italiane servirebbero ogni anno 50 milioni di euro. Di questi l’Amministrazione penitenziaria ne mette a disposizione 4, destinando per le 13 strutture che sorgono in Piemonte circa 10mila euro a istituto. È facilmente immaginabile come, in tale contesto, sia alquanto difficile rendere tutte le carceri luoghi a misura d’uomo. Le risposte dell’Amministrazione e del Provveditorato non possono ritenersi pienamente soddisfacenti ma consideriamo un risultato importante il fatto che siano state prese in considerazione e che le criticità che abbiamo segnalato fossero già conosciute e condivise. Si riconosce, per esempio, l’inadeguatezza degli istituti penitenziari "Cantiello e Gaeta" di Alessandria a ospitare i detenuti e la necessità di realizzare alcuni interventi temporanei per consentire la riattivazione del padiglione "Collaboratori" della casa di reclusione di Alba, chiusa per legionellosi poco più di un anno fa, il cui progetto operativo dovrebbe essere definito entro la fine del mese dal dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria di Roma. Così come la necessità di creare nuovi spazi dedicati ai detenuti in regime di semilibertà e ammessi al lavoro esterno della casa di reclusione di Fossano e i fastidi legati alla presenza di blatte e umidità al "Lorusso e Cutugno" di Torino". Con il vicepresidente del Consiglio regionale Nino Boeti sono intervenuti i garanti provinciali dei detenuti di Alessandria Davide Petrini, Torino Monica Cristina Gallo e Fossano (Cn) Rosanna De Giovanni e l’architetto Cesare Burdese, esperto di architettura ed edilizia penitenziaria e già componente del Tavolo 1 degli Stati generali dell’esecuzione penale. "Per assicurare la necessaria manutenzione alle carceri piemontesi - ha osservato Burdese - servirebbero 7 milioni di euro che non ci sono ma che potrebbero essere trovati se si decidesse di ricorrere a strumenti tecnico-finanziari". "La Regione Piemonte - ha concluso Boeti - ha il merito di essere stata la prima a far conferire la sanità carceraria all’interno di quella pubblica, ma è indispensabile che la sanità carceraria sia in dialogo costruttivo e costante con le strutture pubbliche". Lecce: minori detenuti, dopo le chiusure arriva l’ispezione ministeriale trnews.it, 21 febbraio 2017 Il prossimo 2 marzo Lucia Castellano svolgerà ispezioni e dovrà affrontare anche il nodo Lecce, dove è chiuso da un anno l’Istituto Penale Minorenni. Dopo l’annunciata chiusura della struttura ministeriale di assistenza ai minori e le proteste dei lavoratori, sarà a Lecce il prossimo 2 marzo Lucia Castellano, direttore generale dell’esecuzione penale esterna e messa alla prova. Svolgerà ispezioni e dovrà affrontare anche il nodo Lecce, dove è chiuso da un anno l’Istituto Penale Minorenni, i cui locali sono stati già destinati ai detenuti adulti. Dal 1° febbraio, inoltre, è stata chiusa anche la Comunità ministeriale e il Centro di prima accoglienza è sospeso. "Nell’incontro di Bari del 13 febbraio scorso con la dirigente regionale - dice il segretario regionale di Confsal Unsa Giovanni Rizzo - ci siamo occupati in maniera determinante del destino dei lavoratori. Come disposto dal Ministero stesso, dovranno quanto prima essere interpellati per essere assegnati, a quanto dichiarato secondo l’anzianità di servizio, nell’Ufficio esecuzione penale esterna o nell’Ufficio servizio sociale minorenni (formalmente ma non di fatto già accorpati), o in un Ufficio giudiziario, a Lecce". Verbania: pochi spazi comuni per le attività dei detenuti verbanonews.it, 21 febbraio 2017 Sulla richiesta di un campo di calcio l’Amministrazione penitenziaria valuta la riqualificazione del cortile. "Per la manutenzione ordinaria delle 191 carceri italiane servirebbero ogni anno 50 milioni di euro. Di questi l’Amministrazione penitenziaria ne mette a disposizione 4, destinando per le 13 strutture che sorgono in Piemonte circa 10mila euro a istituto. È facilmente immaginabile come, in tale contesto, sia alquanto difficile rendere tutte le carceri luoghi a misura d’uomo". Con questa considerazione il garante regionale dei detenuti Bruno Mellano ha aperto, questa mattina a Palazzo Lascaris, la conferenza stampa per rendere nota la risposta del capo dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria Santi Consolo e del provveditore regionale Luigi Pagano sulle problematiche segnalate dal dossier presentato nel dicembre scorso dai garanti provinciali e comunali piemontesi. "Per assicurare la necessaria manutenzione alle carceri piemontesi - ha osservato l’architetto Cesare Burdese, esperto di architettura ed edilizia penitenziaria - servirebbero 7 milioni di euro che non ci sono ma che potrebbero essere trovati se si decidesse di ricorrere a strumenti tecnico-finanziari". In un quadro complessivo irto di criticità, anche la Casa circondariale di Verbania finisce nel dossier presentato al ministero per la Giustizia per alcune problematiche. Vi si legge: "Gli spazi comuni destinati alle attività sono insufficienti per numero e dimensione, anche in considerazione del fatto che gli ospiti (una sessantina) sono suddivisi fra ben quattro circuiti penitenziari diversi e incompatibili fra loro e che quindi la fruizione avviene in modo separato ed alternativo, anche se recentemente è stata messa in campo una positiva sperimentazione di attività comuni su base volontaria. Mancano aule formative, laboratori, sale per riunioni, eventi, iniziative, in un contesto sociale molto vivo e propositivo e che in qualche modo giustifica persino l’esistenza stessa dell’Istituto". La soluzione proposta parla della "creazione di nuovi spazi mediante l’utilizzo di aree o di locali già esistenti, ma al momento non fruibili: si propone in via prioritaria un intervento riqualificante di un cortile interno, attualmente non utilizzato per la presenza di una piattaforma in cemento, residuo di lavori di manutenzione straordinaria al tetto, che copre buona parte del terreno. Il cortile potrebbe essere efficacemente destinato a campetto da calcio e per attività sportive, ma anche ad ospitare eventi ed iniziative nella bella stagione. Anche con il coinvolgimento della società civile e con il coinvolgimento della comunità locale si stanno verificando tutte le strade possibili per il recupero funzionale dello spazio indicato poiché ciò permetterebbe una decisa svolta nel numero e nella qualità degli interventi comunitari e socializzanti, con il coinvolgimento della comunità locale". "Il progetto di recupero di questo cortile è già stato proposto dalla Direzione e ne sarà valutato l’inserimento nella programmazione annuale del provveditorato", la risposta interlocutoria che il dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria ha fornito, relativamente a Verbania, al rapporto del garante delle persone sottoposte a misurare restrittive della libertà personale della Regione Piemonte. Pordenone: Polo tecnologico, dagli abiti digitali ai corsi di sartoria nelle carceri di Davide Francescutti Messaggero Veneto, 21 febbraio 2017 Le nuove frontiere della sartoria spiegate da Sara Savian, 31 anni, di Pordenone al polo tecnologico. Abiti, scarpe e accessori dall’ispirazione digitale: il WeMake Makerspace di Milano ha presentato ieri nel Polo tecnologico, per la prima volta in Fvg, i propri strumenti per la digital fashion, software open source per chi vuole avvicinarsi a un nuovo modo per fare moda. A spiegare questa nuova frontiera è stata Sara Savian, 31enne di Pordenone che, frequentato il liceo d’arte Galvani a Cordenons, dal 2005 si è trasferita nel capoluogo lombardo conseguendo la laurea in design della moda al Politecnico. ""Valentina project" - ha spiegato - è il software con il quale chiunque può creare i propri cartamodelli dai quali poi realizzare pezzi unici per la propria personale collezione. Elaborato da vari programmatori all’interno del sistema Linux, lo stiamo promuovendo in tutta Italia". Un progetto che a Milano si sviluppa attorno al citato WeMake, spazio nel quale le persone possono rendere realtà le idee per le proprie start up trovando a propria disposizione stampanti in 3d, taglierine al laser e altri strumenti, che Savian insieme alla collega Claudia Scarpa insegna ad usare. "La filosofia alla base - ha aggiunto - non è quella di arrivare a una produzione industriale in massa di nuovi abiti: promuoviamo invece l’idea di una moda etica, fondato su quello che serve realmente alle persone con abiti prodotti in base alle proprie esigenze e gusti". In tal senso la designer pordenonese ha anche collaborato con la cooperativa sociale Alice, che cura corsi di sartoria nella sezione femminile del carcere di San Vittore. Al Polo tecnologico della Comina Savian ha partecipato all’Open design conference 2017 organizzata dal Pordenone Linux User Group, associazione che promuove l’utilizzo del sistema open source Linux creato nel 1991 dall’allora studente Linus Torvalds, programmatore finlandese che poi decise di lasciare la sua invenzione liberamente utilizzabile da tutti. Nel corso della giornata si è anche discusso delle evoluzioni della computer graphic con Andrea Spinelli, altro pordenonese emigrato in Lombardia, dell’internet of things (le tecnologie per rendere gli oggetti capaci di dialogare col web, ndr) con il FabLab Castelfranco Veneto e il Treviso Arduino User group, di Industria 4.0 con il professor Stefano Epifani in videoconferenza e con Jona Azizaj delle pari opportunità nel mondo high-tech. Rossano (Rc): convenzione per reintegrare i detenuti attraverso il volontariato larivieraonline.com, 21 febbraio 2017 È stata data concreta attuazione alla Convenzione stipulata tra la Direzione dell’Istituto penitenziario e il Sindaco del Comune di Rossano, Stefano Mascaro, per l’utilizzo di alcuni detenuti destinati a svolgere attività di volontariato presso il canile municipale per la cura e il benessere degli animali. Si tratta di una attività assolutamente innovativa resa possibile grazie all’utilizzo di un recente strumento normativo utilizzato che è quello dell’art. 21, comma 4, ter dell’ordinamento penitenziario, introdotto dalla legge n.94 del 9 agosto 2013 convertito nella legge n. 94/2014 analogamente a quanto si prevede lavoro di pubblica utilità, di cui all’art. 54 del D.Lgs. 274/2000. La direzione del Carcere di Rossano, infatti, da sempre persegue la finalità di investire sulla persona detenuta e, nel caso concreto, ha selezionato alcuni detenuti a cui affidare responsabilità, autonomia e libertà, intesa come possibilità di agire in maniera diretta e, intenzionale, contribuendo, in tal modo, a migliorare il senso di autoefficacia e di autostima, incrementarne l’autocontrollo attraverso l’applicazione pratica di regole, sperimentare la propria capacità organizzativa. Il senso dell’iniziativa è quella di far lavorare nel sociale queste persone per dare loro l’opportunità di tornare a contatto con certi valori che forse nella vita di molti erano andati persi e che, in tal modo, possono essere recuperati. Questo anche alla luce di recenti studi che hanno dimostrato come in tutti i paesi in cui è stata introdotta la giustizia riparativa come sistema di riabilitazione del condannato, ma anche in quelli che hanno adottato forme riparative come alternative al sistema repressivo tradizionale, è stato constatato un sensibile calo della recidività. Grazie a questa riforma i detenuti possono svolgere attività a titolo volontario e gratuito e l’iniziativa è stata fortemente voluta dall’Assessore alle politiche sociali, economia solidale, politiche sociali, volontariato, Avv. Angela Stella, che vede nell’affidamento della cura del canile, a titolo volontario della popolazione detenuta, una forte possibilità di riscatto per il detenuto, adeguato alle aspettative della comunità sociale con una forma educativa molto coinvolgente e che potrebbe lasciare il segno per il futuro. Dunque, si tratta di offrire al detenuto la possibilità di mettere al servizio della collettività il proprio impegno per ripagare il danno arrecato alla collettività attraverso lavori di pubblica utilità o di volontariato, come in questo caso, che tendono alla responsabilizzazione dell’autore del reato. In questo modo, si tende a costruire un percorso di rivisitazione del proprio passato grazie alla alternativa offerta, contrapponendo la cultura della legalità alla cultura della criminalità. L’iniziativa è stata anche portata avanti unitamente all’Assessore al personale e politiche sanitarie, sicurezza e legalità, Avv. Dora Mauro, che ha messo a disposizione risorse umane ed economiche affinché i detenuti possano essere accompagnati sul luogo di lavoro e al termine riaccompagnati al penitenziario con un investimento che comporta, sin da subito, un notevole risparmio economico per le casse comunali e, dunque, può contribuire a mettere in circolazione risorse da destinare ad altri utilizzi. Percorrendo questa strada, si può riuscire a conciliare la tutela del diritto delle vittime, con la sicurezza e la legalità in quanto, la pena deve essere rieducativa e rivelarsi utile anche per la società, perché la persona deve uscire edificata dal carcere. Il Direttore, dott. Giuseppe Carrà Milano: tra droga e disperazione, la missione di don Claudio nel carcere Beccaria di Massimo Sanvito Libero, 21 febbraio 2017 "Dietro la loro aria da duri c’è sempre una fragilità incredibile. Metà dei ragazzi che arrivano al Beccaria sono stati vittime di bullismo alle elementari e alle medie, poi hanno commesso gravi errori che gli hanno cambiato la vita. Il mio compito è quello di instaurare un rapporto di fiducia che vada in profondità. Non sono d’accordo con chi dice che bisogna buttare la chiave". Don Claudio Burgio, fondatore e presidente dell’Associazione Kairòs di Vimodrone che si occupa del reinserimento di giovani in difficoltà dopo la galera, da dodici anni è il cappellano dell’unico carcere minorile della Lombardia. E ieri è stato ospite dell’istituto superiore "De Nicola" di Sesto San Giovanni, per un incontro che ha coinvolto gli studenti all’ultimo anno del liceo artistico e degli indirizzi di ragioneria e geometra. Nelle celle del Beccaria, attualmente, sono sessanta i detenuti, tutti ragazzi maschi tra i 15 e i 25 anni. I reati più diffusi sono i furti ("l’ultimo un ragazzo che rubava Porsche e Ferrari"), le rapine e lo spaccio. "Rubano perché sono schiavi dei consumi. Mi ricordo di un ragazzo di Quarto Oggiaro che faceva rapine in banca per potersi permettere serate e bei vestiti. Per lui contava solo l’immagine, per far colpo sulle ragazze. Dopo il carcere, però, si è sistemato e ora frequenta l’università", spiega Don Burgio. Anche se una delle piaghe peggiori tra i giovani resta quella dello spaccio e del consumo di droghe. "A mio modo di vedere la scuola può essere d’aiuto se gli insegnanti appassionano gli studenti alle loro materie. Solo così si può spostare l’attenzione sulle cose belle. Stigmatizzando l’uso delle droghe, invece, non si ottiene l’effetto sperato". Nella sua "carriera", Don Burgio ha ottenuto belle vittorie, come dimostra il fatto che "tre quarti di chi esce dal Beccaria poi si sistema e trova degli obiettivi di vita", ma anche spiacevoli sorprese. "In dodici anni ho assistito a quindici tentativi di suicidio, ma ricorderò sempre il messaggio che mi inviò un ragazzo che aveva vissuto con me cinque anni in comunità: "Grazie di tutto. Che Allah ti illumini sulla vera retta via. Ci rivedremo in paradiso. Inshallah". A scriverlo, nel gennaio del 2015, Monsef El Mkhayar, un ragazzo ospite di Kairòs che lasciò la comunità per arruolarsi all’Isis insieme a un amico. Ancona: aiutava i detenuti a trovare lavoro, muore l’imprenditrice Gina Bindellari cronacheancona.it, 21 febbraio 2017 Aveva iniziato con una cooperativa, aiutando i detenuti a reinserirsi nel mondo del lavoro. Quasi 17 anni di attività dove non badava alla stanchezza e stroncati da un male che non le ha lasciato scampo. Piazzale Camerino perde Gina Bindellari, 58 anni, imprenditrice, madre di due figli e moglie. Aveva investito tutto il suo tempo in un progetto di recupero rivolto a persone che avevano avuto problemi con la giustizia. Grazie a lei tanti giovani e meno giovani hanno ritrovato un lavoro evitando che si riaprissero le porte del carcere. Bindellari è morta sabato. Questa mattina il funerale, celebrato nella chiesa di Cristo Divino Lavoratore, da don Giancarlo Sbarbati. Un legame profondo con il quartiere e con il sociale per il quale si è sempre spesa in prima linea. Nel 2000 si era avvicinata all’attività di reinserimento dei detenuti, collaborando con la cooperativa sociale "Tutor" di Roberto Fiorini. Prima nel laboratorio messo a disposizione dal centro Il Samaritano, a Posatora, poi continuando nella sua abitazione dove accoglieva i detenuti impegnati in lavori di assemblaggio per il settore del mobile. "Una donna generosa fino all’ incoscienza - la ricorda Fiorini - pensava solo agli altri. Il suo tempo lo spendeva per questo progetto a cui ha dato tutta se stessa. Ricordo tante notti passate in piedi a lavorare per far poi lavorare i detenuti. Grazie a lei numerose persone hanno trovato un impiego". Fino all’ultimo è stata presente nella sua attività che ora verrà portata avanti dai figli David e Stella. Questa mattina, durante il funerale, la cognata ha accusato un malore ed è stata soccorsa da una ambulanza della Croce gialla. Bindellari lascia il marito Paolo Dulcinati e il fratello Andrea oltre ad altri parenti tra nipoti e cognati. Rovigo: al Liceo "Celio Roccati" un progetto per parlare di carcere e devianza rovigooggi.it, 21 febbraio 2017 Una proposta molto interessante al Celio Roccati, ha parlato Manuela Fasolato, procuratore di Mantova, rodigina, ma anche un ex detenuto ha portato la propria testimonianza. Un percorso di educazione alla legalità che ha interessato le classi del liceo Celio Roccati e che, nella mattinata di sabato 18 febbraio, ha riscosso un vivo apprezzamento da parte degli studenti. Successo oltre le previsioni per "La cattiva strada 3: la pecora nera e la pecorella smarrita", il convegno ideato da Marina Ubertone, organizzato dal liceo economico sociale Celio Roccati e tenutosi nella mattina di sabato 18 febbraio alla sala della Gran Guardia, gremita di pubblico. Dopo alcuni mesi in cui è stato sviluppato un progetto di educazione alla legalità intitolato "La cattiva strada 3: la pecora nera, la pecorella smarrita e il capro espiatorio", le classi I A, II A, III B e IV A, sotto la guida delle docenti Marina Ubertone, Donatella Piccinno e Giuseppina Dall’Aglio, hanno realizzato un convegno dedicato al carcere e ai minori. In apertura, gli studenti delle classi I e II A hanno parlato di minori come autori di reato, con spezzoni dal film "Robinù" e confronti tra le varie modalità di processo minorile in alcuni paesi. La classe IIIB ha presentato un lavoro tratto dal libro "L’arte del dubbio" di Gianrico Carofiglio. Hanno parlato, in riferimento al testo di papa Francesco "Misericordia et misera", di misericordia come "medicina" che sana le ferite, che ha il volto della consolazione, poiché nessuno è immune dalla sofferenza, dal dolore e dall’incomprensione. La IV A ha trattato di criminalità e violenza; ha anche proposto una video intervista fatta alla laureanda in criminologia Paola Parrozzani, ex alunna della scuola, sui reati commessi da minori, in particolare il caso di omicidio in provincia di Ferrara. Grande interesse ha poi suscitato l’intervento di Manuela Fasolato, procuratore della Repubblica di Mantova, che ha trattato delle forme in cui si può presentare la violenza, specie sui minori: fisica, psichica, economica, maltrattamenti, violenza assistita, percosse e lesioni, abusi sessuali, prostituzione, pornografia, bullismo e cyberbullismo, adescamento anche via internet, sexting, sfruttamento. Ha sottolineato la necessità di cogliere i segni di disagio dei più giovani per essere tempestivi nell’intervenire e perché bisogna evitare il più possibile atteggiamenti di superficialità. Ha detto poi le ragioni del silenzio di un minore vittima di violenza e abusato; perché è vittima "vulnerabile"; ha presentato il percorso di rivelazione e presa in carico del minore; l’importanza di raccogliere prove che non si rivelino fallaci nel percorso giudiziario al fine di non far subire al minore lo smacco del fallimento del processo. A seguire l’intervento della IV A sulla "devianza giovanile. Come mantenere o ritrovare la dignità che sembrava perduta", in riferimento al libro "La tempesta di Sasà" di Salvatore Striano. Sono intervenuti anche Ornella Favero, direttrice della rivista "Ristretti Orizzonti", che ha citato una frase di Agnese Moro: "Non si butta via nessuno", per sottolineare l’importanza della comprensione non giudicante; e un ex detenuto che ha raccontato, con sincerità e senza cercare giustificazioni, la propria storia, fatta di errori e carcerazioni, ma anche di riscatto attraverso lo studio, l’ascolto e l’attenzione verso gli altri. Tolmezzo (Ud): storia dell’arte e studi biblici, detenuti in aula Messaggero Veneto, 21 febbraio 2017 Sono 18 i detenuti che partecipano agli incontri di studi biblici organizzati dal cappellano nel carcere di Tolmezzo, altri 6 sono iscritti a un corso di storia dell’arte organizzato dal Centro provinciale per l’istruzione degli adulti. All’interno della struttura di massima sicurezza diretta da Silvia Della Branca sono stati avviati numerosi percorsi scolastici: si va dal corso di alfabetizzazione ai corsi di lingua inglese che sono seguiti da 14 alunni. Numerosi i detenuti che hanno deciso di completare il proprio percorso di studi e di arrivare al diploma di maturità. Sono 17 gli iscritti all’anno scolastico 20126-2017 dell’Istituto tecnico istituzione per il corso di Elettrotecnico. Sono inoltre attivi alcuni corsi di formazione professionale come quello per Operatore della ristorazione organizzato dallo Ial, Tecniche di legatoria a cura dell’Ires, Tecniche di mosaico dell’Arsap, Tecniche per l’edilizia a cura dell’Enaip e Tecniche grafiche multimediali, sempre a cura dell’Arsap. Oltre alle attività di studio, all’interno della struttura carceraria è prevista anche qualche forma di impegno, a partire dai lavori domestici che impiegano una cinquantina di persone con opportuna turnazione. Quanto all’organizzazione degli spazi nella casa circondariale tolmezzina, che conta su 129 stanze, i detenuti possono disporre di un campo sportivo, una palestra, 14 aule per lo studio, un teatro, una biblioteca e un locale di culto. Taranto: il Ctt tra i detenuti per la diffusione del tennistavolo nelle carceri di Marcella D’Addato canale189.it, 21 febbraio 2017 "Reinserimento… attraverso lo Sport", questo il titolo del progetto nazionale finanziato dal Coni e rivolto ai detenuti delle case circondariali italiane, conclusosi dopo oltre tre mesi di attività con grande successo di partecipazione e di critica. In terra jonica, il progetto ha interessato 14 detenuti del carcere di Taranto, all’uopo segnalati dalla Direzione della Casa Circondariale, i quali hanno partecipato ad un vero e proprio stage formativo di tennistavolo tenuto da istruttori qualificati del CTT Taranto, storica espressione del pongismo jonico non solo in campo agonistico nazionale - la sua prima squadra milita quest’anno onorevolmente nella serie B1 - ma anche da anni impegnata in progetti a beneficio della fasce sociali più a rischio e più deboli della popolazione. Il momento conclusivo del progetto si è tradotto in un evento dimostrativo di tennistavolo - torneo di singolo e doppio maschile - che ha messo in evidenza i tangibili progressi registrati nell’apprendimento delle tecniche di questa coinvolgente disciplina sportiva da tutti i frequentatori dello stage all’interno della struttura carceraria tarantina. Il torneo finale, tenutosi domenica mattina presso la sede dello storico Circolo Tennis Taranto, che ha dato i natali alla grande tennista azzurra Roberta Vinci - appassionata di tennistavolo e grande amica del Ctt Taranto - ha visto protagonisti i detenuti insieme a vari operatori della giustizia, quali magistrati, avvocati, agenti delle forze dell’Ordine e della Polizia Penitenziaria. Il progetto, organizzato dal Coni, è stato realizzato con la collaborazione della Delegazione provinciale Fitet e del CTT Taranto, ed è stato reso possibile grazie alla sensibilità e disponibilità della Direttrice della Casa Circondariale e dei magistrati del Tribunale di Sorveglianza di Taranto. Finalità prefissate: il recupero ed il reinserimento sociale dei detenuti, facendo leva sui valori educativi insiti nello sport in generale e sulla funzione socializzante del tennistavolo in particolare. L’iniziativa, che fa seguito ad un’analoga esperienza intrapresa già lo scorso anno in via sperimentale, ha inteso costituire strumento utile nella complessa strategia educativa della prevenzione e del recupero delle persone detenute che il personale della stessa Casa Circondariale ma anche i Magistrati e gli Enti/Associazioni del settore portano avanti quotidianamente con grande abnegazione e impegno. Principale obiettivo del progetto, dunque, il recupero ed reinserimento sociale dei detenuti, perseguibili attraverso lo sport ed in particolare per mezzo della disciplina pongistica, offrendo così un contributo a sviluppare la fiducia in se stessi attraverso l’attività sportiva, lavorando sull’autodisciplina, sull’aggregazione, sulle regole, sui valori come la legalità e la cooperazione, sul significato della sconfitta e della vittoria e sulla "gestione delle frustrazioni". Al termine della manifestazione si è svolta la cerimonia di premiazione dei partecipanti ad opera del Presidente del CTT Taranto, dott. Roberto Tundo, che ha chiamato accanto a sé per la consegna dei trofei la Direttrice del Carcere di Taranto, dott.ssa Stefania Baldassari, il vice Delegato del Coni di Taranto, dott. Michelangelo Giusti, il magistrato del Tribunale penale di Taranto, dott. Benedetto Ruberto ed il prof. Salvatore Montesardo, già Preside del Liceo Artistico Statale Lisippo di Taranto. Guerra. Le colombe armate dell’Europa di Manlio Dinucci Il Manifesto, 21 febbraio 2017 Ulteriori passi nel "rafforzamento dell’Alleanza" sono stati decisi dai ministri della Difesa della Nato, riuniti a Bruxelles nel Consiglio Nord Atlantico. Anzitutto sul fronte orientale, col dispiegamento di nuove "forze di deterrenza" in Estonia, Lettonia, Lituania e Polonia, unito ad una accresciuta presenza Nato in tutta l’Europa orientale con esercitazioni terrestri e navali. A giugno saranno pienamente operativi quattro battaglioni multinazionali da schierare nella regione. Sarà allo stesso tempo accresciuta la presenza navale Nato nel Mar Nero. Viene inoltre avviata la creazione di un comando multinazionale delle forze speciali, formato inizialmente da quelle belghe, danesi e olandesi. Il Consiglio Nord Atlantico loda infine la Georgia per i progressi nel percorso che la farà entrare nella Alleanza, divenendo il terzo paese Nato (insieme a Estonia e Lettonia) direttamente al confine con la Russia. Sul fronte meridionale, strettamente connesso a quello orientale in particolare attraverso il confronto Russia-Nato in Siria, il Consiglio Nord Atlantico annuncia una serie di misure per "contrastare le minacce provenienti dal Medioriente e Nord Africa e per proiettare stabilità oltre i nostri confini". Presso il Comando della forza congiunta alleata a Napoli, viene costituito l’Hub per il Sud, con un personale di circa 100 militari. Esso avrà il compito di "valutare le minacce provenienti dalla regione e affrontarle insieme a nazioni e organizzazioni partner". Disporrà di aerei-spia Awacs e di droni che diverranno presto operativi a Sigonella. Per le operazioni militari è già pronta la "Forza di risposta" Nato di 40mila uomini, in particolare la sua "Forza di punta ad altissima prontezza operativa". L’Hub per il Sud - spiega il segretario generale Stoltenberg - accrescerà la capacità della Nato di "prevedere e prevenire le crisi". In altre parole, una volta che esso avrà "previsto" una crisi in Medioriente, in Nord Africa o altrove, la Nato potrà effettuare un intervento militare "preventivo". L’Alleanza Atlantica al completo adotta, in tal modo, la dottrina del "falco" Bush sulla guerra "preventiva". I primi a volere un rafforzamento della Nato, anzitutto in funzione anti-Russia, sono in questo momento i governi europei dell’Alleanza, quelli che in genere si presentano in veste di "colombe". Temono infatti di essere scavalcati o emarginati se l’amministrazione Trump aprisse un negoziato diretto con Mosca. Particolarmente attivi i governi dell’Est. Varsavia, non accontentandosi della 3a Brigata corazzata inviata in Polonia dall’amministrazione Obama, chiede ora a Washington, per bocca dell’autorevole Kaczynski, di essere coperta dall’"ombrello nucleare" Usa, ossia di avere sul proprio suolo armi nucleari statunitensi puntate sulla Russia. Kiev ha rilanciato l’offensiva nel Donbass contro i russi di Ucraina, sia attraverso pesanti bombardamenti, sia attraverso l’assassinio sistematico di capi della resistenza in attentati dietro cui vi sono anche servizi segreti occidentali. Contemporaneamente, il presidente Poroshenko ha annunciato un referendum per l’adesione dell’Ucraina alla Nato. A dargli man forte è andato il premier greco Alexis Tsipras che, in visita ufficiale a Kiev l’8-9 febbraio, ha espresso al presidente Poroshenko "il fermo appoggio della Grecia alla sovranità, integrità territoriale e indipendenza dell’Ucraina" e, di conseguenza, il non-riconoscimento di quella che Kiev definisce "l’illegale annessione russa della Crimea". L’incontro, ha dichiarato Tsipras, gettando le basi per "anni di stretta cooperazione tra Grecia e Ucraina", contribuirà a "conseguire la pace nella regione". Appelli di Amnesty International per la liberazione di uomini e donne La Regione, 21 febbraio 2017 Amnesty International (AI) opera per la liberazione di uomini o donne imprigionati nel mondo per il loro credo, colore della pelle, lingua, origine etnica o religione, purché non abbiano mai fatto uso né propagandato la violenza. Ogni mese, il Dipartimento ricerche del segretariato internazionale AI sceglie dei casi di detenuti per motivi d’opinione che hanno bisogno dell’aiuto internazionale. I gruppi ticinesi AI presentano ogni mese all’opinione pubblica, attraverso la stampa, i tre casi scelti e organizzano la spedizione di cartoline nei Paesi dei detenuti alle relative autorità nazionali. Informazioni dettagliate sul sito www.amnesty-ticino.ch. Pakistan - Il settantenne professor Zafar Arif è stato arrestato il 22 ottobre 2016 mentre si stava recando al Press Club di Karachi per tenere una conferenza sul Mqm (Muttahida Qaumi Movement - Movimento Nazionale Unificato), un partito politico d’opposizione. Insieme ad altri membri dello stesso movimento, Zafar Arif è stato incarcerato nella prigione centrale di Karachi, con l’accusa di aver perturbato l’ordine pubblico. Il 20 dicembre il Ministero dell’interno ha ordinato la sua scarcerazione. Ciononostante Arif rimane in carcere senza poter ricevere le cure mediche di cui ha estremo bisogno e l’assistenza legale. Amnesty International chiede che Zafar Arif possa immediatamente usufruire delle cure sanitarie che gli necessitano e di assistenza legale. Chiede inoltre che, solo in presenza di accuse fondate nei suoi confronti, sia sottoposto ad un processo equo. Iran - Ali Shariati è stato condannato a cinque anni di carcere per aver partecipato ad una manifestazione pacifica indetta per denunciare gli attacchi con acidi contro le donne. Il 31 ottobre 2016 ha iniziato uno sciopero della fame e ha già perso oltre venti chili. Soffre inoltre di emorragie gastro-intestinali, ipertensione arteriosa, forti emicranie, debolezza muscolare e perdite di conoscenza. Il suo precario stato di salute ha già richiesto parecchi ricoveri in ospedale durante i quali è stato alimentato tramite infusioni. Ora si trova nel carcere di Evin (Teheran) dove è stato posto in stretto isolamento. Amnesty International chiede la sua liberazione immediata e senza condizioni in quanto lo considera un prigioniero di coscienza. Chiede inoltre che possa usufruire delle migliori cure mediche possibili ed infine che non sia punito per il suo sciopero della fame. Indonesia - Hosea Yeimo e Ismael Alua, due studenti appartenenti al Knpb, un movimento politico favorevole all’indipendenza della Papuasia Occidentale, sono stati accusati di ribellione. Attualmente sono detenuti dalle forze di polizia di Jayapura e sono in attesa di processo. Rischiano l’ergastolo. Amnesty International li considera prigionieri di coscienza in quanto incarcerati solo per aver pacificamente esercitato i loro diritti alle libertà di espressione e di riunione. Chiede pertanto che siano immediatamente liberati e senza condizioni. Chiede inoltre che possano incontrare familiari e avvocati, che siano protetti da torture o da altre vessazioni e infine che possano ricevere tutte le cure mediche di cui potrebbero aver bisogno. San Salvador - Nel 2008 Teodora del Carmen Vásquez è stata condannata a 30 anni di detenzione per omicidio aggravato. Mentre si trovava sul posto di lavoro, la donna, incinta, è stata colta da dolori sempre più lancinanti che l’hanno indotta a chiamare soccorso. Poco dopo è svenuta e ha partorito un bambino già morto. Quando ha ripreso conoscenza sanguinava abbondantemente. I poliziotti giunti sul posto l’hanno arrestata prima di trasportarla in ospedale. Nel Salvador le donne che hanno un aborto spontaneo o che partoriscono bambini morti sono sempre accusate di aborto volontario, un crimine che viene punito molto severamente anche se la gravidanza è il frutto di uno stupro o di un incesto. Per questo motivo molte donne non osano nemmeno chiamare aiuto quando hanno problemi inerenti alla loro gravidanza. Amnesty International chiede che Teodora del Carmen Vásquez sia immediatamente scarcerata. Chiede inoltre che siano riviste tutte le condanne inflitte alle donne imprigionate per motivi riguardanti la loro gravidanza. Sri Lanka - Il giornalista e vignettista Prageeth Eknaligoda è scomparso il 24 gennaio 2010 a Homagama, nelle vicinanze della capitale Colombo, mentre tornava a casa dal lavoro. Amnesty International è convinta che il suo sequestro sia da mettere in relazione con le sue attività professionali. La sparizione è infatti avvenuta alla vigilia delle elezioni presidenziali del 26 gennaio 2010. Il suo giornale aveva espresso una chiara preferenza per il candidato dell’opposizione, Sarath Fonseca, poi non eletto. Nel paese, i dissidenti, specie se giornalisti, sono sistematicamente messi a tacere per mezzo delle leggi d’eccezione ancora in vigore, le vessazioni, le aggressioni, i rapimenti e persino gli assassinii. Amnesty International esprime il suo sostegno al Comitato contro la tortura dello Sri Lanka e chiede che siano protetti i familiari di Prageeth Eknaligoda, che cercano verità e giustizia. Uzbekistan - Nel 1999 il giornalista uzbeco Muhammad Bekzhanov, allora editore di un giornale d’opposizione, è stato arrestato, picchiato e torturato (tentativi di soffocamento, elettroshock). Così gli han fatto confessare di aver "offeso lo Stato". È stato condannato a 15 anni di detenzione, una delle pene più lunghe inflitte a un giornalista. Ora, a 62 anni, dopo 17 anni di carcere, dovrebbe essere finalmente rilasciato. Un suo parente ha però saputo che è stato messo in punizione in una cella di rigore, il che fa temere che le autorità intendano estendere arbitrariamente la sua detenzione. Amnesty International chiede che Muhammad Bekzhanov sia rilasciato alla data stabilita, ed esprime la sua preoccupazione per l’uso che in Uzbekistan si fa dell’estensione arbitraria delle detenzioni. Stati Uniti. Detenuti imprenditori, una "start up" per recuperare vite perdute di Massimo Gaggi Corriere della Sera, 21 febbraio 2017 "I capi delle gang e gli spacciatori hanno molto in comune con gli amministratori delegati di imprese di successo: sono imprenditori nati". Affermazione scioccante, magari discutibile, ma è da qui che è partita Catherine Hoke per costruire una "start up" molto particolare e che sta dando risultati eccellenti: "Defy Ventures", una società che si occupa del recupero dei detenuti che escono dal carcere e lo fa in modo inedito. Li avvia verso carriere imprenditoriali nel mondo delle tecnologie digitali e lo fa iniziando l’addestramento già nei penitenziari con corsi "online" e in loco tenuti da manager della Silicon Valley di società come Google e SAP: volontari che vanno a fare lezione in queste prigioni. Un tentativo che Catherine aveva già fatto oltre dieci anni fa e che era finito in modo drammatico. Manager di una società di "private equity", nel 2004 la Hoke si appassionò alla causa del recupero dei detenuti visitando un penitenziario nel Texas. In America la popolazione carceraria è enorme (poco meno dell’1 per cento della popolazione, compresi i condannati in libertà vigilata) e il tasso di ricadute elevatissimo: un detenuto liberato su due torna dietro le sbarre entro un anno. Autorizzata all’esperimento, Catherine si licenziò e, usando i suoi soldi, mise in piedi, insieme a suo marito, corsi di recupero per detenuti del Texas. Buoni risultati: la Hoke fu elogiata e premiata dal governatore dello Stato, Rick Perry, e anche dal presidente di allora, George Bush. Poi lo scandalo: venne fuori che la manager aveva avuto rapporti sessuali con più di un detenuto. Nel 2009 Catherine fu costretta a chiudere la sua società. Abbandonata anche dal marito, tentò di suicidarsi. Ma l’America, terra per certi versi feroce, è anche il Paese che offre a chi fallisce una seconda chance. Anche in casi estremi come questo. La Hoke stavolta ha messo in piedi una "start up no profit" con un programma gestito da docenti volontari: 20 ore di formazione professionale ogni settimana - lezioni nelle quali si insegna di tutto: come costruire un’azienda, come mettere in piedi un sistema contabile e anche come fare il nodo della cravatta - offerte ai detenuti che non hanno commesso reati gravissimi (ad esempio i condannati per omicidio) di 11 penitenziari americani sparsi in vari Stati: California, New York, Nebraska e New Jersey. Sta funzionando: tra i detenuti che hanno seguito i corsi "Startup 101" il tasso di recidive (ritorno in carcere dopo un anno) è crollato al 3 per cento e 350 ex detenuti in libertà vigilata hanno trovato un lavoro. Alcuni, dopo gare come quelle che si fanno per selezionare le migliori idee per una "start up", ottengono un contributo per aprire una loro attività imprenditoriale. Come Coss Marte, uno spacciatore divenuto il "testimonial" di questa iniziativa: obeso, chiuso in una cella di tre metri per due, è riuscito a perdere 35 chili di peso. Scontata la pena, coi soldi di "Defy Ventures" ha aperto a Manhattan "ConBody", una palestra pubblicizzata come "prison style fitness center". Stati Uniti. Lo "storico" sciopero dei detenuti conto lo sfruttamento del loro lavoro di Bianca Cerri pclavoratori.it, 21 febbraio 2017 Sempre più spesso i carcerati Usa si ribellano non solo alle condizioni detentive ma allo sfruttamento del loro lavoro. Il 9 settembre 2016 rimarrà una data fatidica nella storia degli Stati Uniti. Quel giorno infatti ricorreva il quarantacinquesimo anniversario della rivolta di Attica, conclusasi il 13 settembre 1971 in un bagno di sangue. Per questo migliaia di detenuti hanno scelto il 9 settembre per indire uno sciopero di protesta contro le condizioni di vita nelle strutture detentive degli Stati Uniti e mettere fine allo sfruttamento di quello che è diventato, a tutti gli effetti, un vero e proprio mercato delle braccia. L’inferno di Attica si scatenò subito dopo la morte di George Jackson, membro del movimento dei neri noto come Black Panther Party. Dopo quasi mezzo secolo, i reclusi di 24 stati americani e numerose organizzazioni in lotta contro la gestione privata dell’amministrazione penale e il lavoro coatto a costo ridotto dietro le sbarre si sono attivati per dare vita a uno sciopero senza precedenti in coincidenza della ricorrenza di quella che resta un’indelebile storia miliare nella storia delle proteste carcerarie negli Stati Uniti. Tra il 9 ed il 13 settembre del 1971 oltre mille detenuti sfidarono eroicamente le istituzioni per migliorare le condizioni detentive dell’epoca. L’ala ovest di Attica si riempì di gas lacrimogeni e le guardie riversarono tremila proiettili sui rivoltosi. Quando furono portati via i corpi delle vittime, l’allora presidente Richard Nixon telefonò al governatore dello Stato di New York Nelson Rockfeller esprimendo le sue congratulazioni vivissime "per la magnifica operazione". Dalla rivolta di Attica ben poche cose sono cambiate nelle carceri americane. Tutti i tentativi di ribellione furono soffocati con la violenza, e solo nel 2010 in sei istituti di pena della Georgia fu attuato uno sciopero di protesta contro gli intollerabili soprusi delle guardie e il ricorso ai lavori forzati. Nel 2013 trentamila reclusi diedero vita a un lungo sciopero della fame in California per chiedere una riforma delle norme riguardanti l’isolamento che portò alla liberazione di circa mille uomini. Gli scioperanti volevano costringere il potere a mettere fine alle torture fisiche e psichiche imposte a migliaia di esseri umani e alle loro famiglie. Anche se il risultato fu modesto servì comunque a far sapere all’opinione pubblica che la California era l’unico stato in cui l’isolamento poteva durare fino a dieci anni. Un altro breve sciopero fu organizzato nell’aprile 2015 in Texas nell’indifferenza dei media. Ma quello che è iniziato il 9 settembre scorso ha fatto nascere un nuovo movimento di resistenza in tutti gli Stati Uniti. I detenuti avevano organizzato ogni dettaglio per coinvolgere il più alto numero di carceri. Non solo gli uomini e le donne rinchiusi nelle desolanti segrete del paese si sono mobilitati, ma anche la gente comune intende mettere fine alla violenza istituzionale a stelle e strisce. Nella Donaldson Correctional Facility e nella Holman Prison, che si trovano in Alabama, 500 reclusi si sono rifiutati di tornare a lavoro e numerose persone estranee al mondo del carcere si sono radunate fuori dai cancelli per esprimere il loro sostegno. Nella Kingcross Facility del Michigan le guardie hanno dovuto portarsi il pranzo da casa perché i cuochi avevano disertato le cucine. I detenuti non hanno più intenzione di essere sfruttati e umiliati, aveva scritto dal carcere Malik Washington, leader del Movimento contro la Schiavitù a Coffield, Texas. Washington spera che la comunicazione tra detenuti e mondo esterno non venga interrotta, perché rappresenta un elemento vitale. La partecipazione delle donne alle insurrezioni carcerarie non è frequente, ma stavolta numerose detenute hanno aderito allo sciopero. D’altra parte, le donne in carcere hanno ancor più bisogno degli uomini di riforme penali. In trenta stati americani le future madri sono costrette a partorire in catene, e più di duemila bambini ogni anno vengono rimossi a forza dalle celle e trasferiti in istituti per minori in stato di disagio. Molte recluse sono state condannate per aver reagito con la forza ai soprusi subiti per mano di mariti e compagni. I loro problemi vengono sistematicamente messi da parte. Tuttavia la vita quotidiana nelle carceri degli Stati Uniti è una lunga sequela di orrori per tutti indistintamente. Per un cittadino comune è difficile riuscire ad immaginare la violenza che regna dietro le sbarre. La resistenza iniziata il 9 settembre potrebbe portare veramente a grandi cambiamenti. Messaggi di solidarietà nei confronti dei detenuti sono arrivati da molti paesi del mondo. Soprattutto da Gran Bretagna, Canada, Grecia, ci sono state manifestazioni di piazza per protestare contro il sistema giudiziario e penale USA che tollera ancora la schiavitù. Dall’inizio dello sciopero in varie carceri dell’Alabama e della California è stato dichiarato il regime di "lockdown" - ovvero l’isolamento collettivo che vieta anche i colloqui tra detenuti e le loro famiglie. Il "lockdown" annulla anche eventuali benefici concessi per buona condotta a chi ha compiuto reati minori. Ma non tutti si faranno intimidire. Durante il lockdown le guardie riducono arbitrariamente le razioni di cibo ai reclusi e mandano reclami per iscritto all’amministrazione. Abdullah Hasan, uno degli organizzatori dello sciopero in Ohio, è stato in isolamento prima ancora dell’inizio dello sciopero per aver diffuso "notizie potenzialmente pericolose" sulle condizioni detentive, cosa che Hasan ha negato. Ma l’azione collettiva ha ridato vigore alla battaglia per i diritti dei detenuti. A Terre Haute, in Indiana, Carolina del Sud, Wisconsin e Ohio i detenuti stanno attuando uno sciopero della fame. Del resto, l’alimentazione nelle carceri americane è cronicamente carente, e spesso a base di cibi avariati. In Texas molte strutture non dispongono di acqua potabile, e bisogna ricorrere all’acqua minerale venduta a caro prezzo dall’Ufficio Commissario. In estate non è raro che i detenuti sofferenti di patologie croniche muoiano per gli effetti del clima, che può raggiungere i 45 gradi. Gli operatori della John Soules Inc. hanno servito cibo per cani ai detenuti "incidentalmente". "Lasciate marcire le radici" è un gruppo composto da alcuni detenuti coinvolti nello sciopero. Si ribellano contro le guardie che lasciano morire i malati piuttosto che curarli per ordine dell’amministrazione, che abbandona i soggetti più vulnerabili al loro destino se la spesa della terapie è eccessiva. In Alabama ci sono stati tuttavia nove agenti di custodia che si sono uniti allo sciopero. Altre guardie, in Texas, hanno aderito alla petizione per limitare l’uso indiscriminato dell’isolamento. Alcuni ufficiali in Alabama criticano aspramente i superiori per la loro indifferenza nei confronti della sofferenza dei reclusi. Forse gli effetti dello sciopero non saranno visibili immediatamente, ma si spera che venga fatta luce sulle condizioni detentive che caratterizzano l’America. Ad iniziare dal lavoro forzato. Su sette milioni di detenuti asserviti ai penitenziari o sorvegliati elettronicamente, un milione circa sono costretti a lavorare per pochi spiccioli o completamente gratis. Il sistema penale statunitense è un aberrazione costruita sul capitalismo e contraria alla stessa Costituzione, che vieta drasticamente il lavoro nei luoghi di detenzione. La gente comune inizia ribellarsi davanti al fenomeno della carcerazione di massa. Ben presto la protesta coinvolgerà altre carceri. Nessuno ha mai saputo la verità su cosa accadde veramente ad Attica. Ma il ricordo è ancora cristallizzato nella memoria collettiva. Lo sciopero nelle carceri può costare veramente caro, e avere conseguenze serie e violente. Ognuno dei detenuti che hanno aderito alla protesta sa di rischiare ritorsioni e percosse, eppure in questo momento migliaia di uomini e donne privati della libertà stanno resistendo a costo della vita. Salvo coloro che non possono più farlo perché uccisi per mano dello Stato. Ma come diceva Emerson Rudd, assassinato in Texas da un’iniezione letale il 15 novembre 2001 dopo essere stato condannato a morte a soli diciotto anni: "Ma come fanno gli oppressori a non capire che in carcere ci sono uomini che non si arrenderanno mai allo strangolamento imperialista?". Rudd fu portato nella camera della morte da un drappello di guardie in tenuta antisommossa dopo essere stato picchiato selvaggiamente e trascinato in catene fino al furgone che preleva i detenuti in procinto di essere giustiziati dalla Polunsky Unit al carcere di Ellis ad Huntsville, una cittadina di trentacinquemila abitanti in Texas con un’economia interamente basata solo sulla pena capitale. Morì a 31 anni, con il viso gonfio di gas ma gli occhi orgogliosamente rivolti verso il cielo. Haiti. Benvenuti all’inferno: nelle carceri fame, sovraffollamento e malattie rainews.it, 21 febbraio 2017 "Questo è l’inferno. Finire in carcere ad Haiti ti fa uscire pazzo se non ti uccide prima." Sono le parole di Vangeliste Bazile, accusato di omicidio è uno dei detenuti in attesa di giudizio nel Penitenziario Nazionale di Port-au-Prince a Haiti, come lui l’80 per cento dei prigionieri aspetta di essere sentito da un giudice, un’attesa che può durare indefinitamente. "Temo che non vedrò un giudice finché non sarò vecchio" dice Paul Stenlove, 21 anni, in carcere da 11 mesi. I detenuti si accalcano intorno ai reporter dell’Associated Press entrati per verificare le denunce levate dagli avvocati e dagli attivisti per i diritti umani. Il 40 per cento degli 11mila detenuti di tutto il paese sono rinchiusi in questa fornace decrepita e maleodorante situata a pochi passi dalla sede del governo. Sovraffollamento, malnutrizione e malattie infettive stanno provocando una lenta strage. Sono 21 gli uomini deceduti nel penitenziario solo nell’ultimo mese. "È il peggior tasso di morti prevedibili che abbia mai visto" dice John May, un medico americano che fa volontariato nell’isola con la sua associazione "Health Through Walls" (Salute attraverso le mura). Decine di detenuti emaciati, indeboliti da fame e dalle malattie sono ammassati nella cosiddetta "infermeria". Alcuni "fortunati" vengono isolati e reclusi in apposite celle. Gli altri sopravvivono chiusi per 22 ore al giorno in celle così sovraffollate che per dormire o dividono in quattro una branda o si creano vari piani con giacigli di fortuna appesi al soffitto o alle sbarre delle finestre. Le condizioni igieniche sono terribili, in mancanza di sufficienti latrine i reclusi sono costretti a defecare in sacchetti di plastica. Secondo uno studio recente dell’Istituto di ricerca per la politica criminale dell’Università di Londra Haiti detiene il primato mondiale del sovraffollamento carcerario con una percentuale impressionante: il 454 per cento rispetto alla capienza degli istituti con celle da 20 dove dormono fino a 80/100 persone. Solo le Filippine di Duterte si avvicinano a questo record con il 316 per cento. L’unico obiettivo è sopravvivere. "Solo chi è forte può farcela qui" dice Ronel Michel, recluso in uno dei blocchi dove le mura esterne sono imbrattate delle feci che i detenuti sono costretti a gettare fuori dalle finestre sbarrate. C’è anche chi non soffre la fame. Sono i pochi fortunati a cui i parenti riescono a portare cibo, sigarette e provviste dall’esterno. La situazione è tragica nonostante che con una sentenza del 2008 la Corte Inter-Americana dei Diritti Umani - il corrispettivo della Cedu europea - avesse ordinato al governo haitiano di portare le sue prigioni inumane a un livello minimo di standard internazionali. In conseguenza del devastante sisma del 2010 c’erano state molte donazione e molti progetti delle organizzazioni umanitarie internazionali si erano focalizzati sulla questione delle carceri. Uno di questi progetti è stato proprio la costruzione di un nuovo blocco, amaramente soprannominato "Titanic", costato 260mila dollari e finanziato dalla Croce Rossa Internazionale. Doveva dare sollievo, ma oggi è forse la sezione più sovraffollata del carcere. "È una battaglia quotidiana solo per tenerli in vita" dice Thomas Ess, capo delegazione della Croce Rossa ad Haiti. Brian Concannon, direttore di un istituto no profit per la "Giustizia e democrazia" ad Haiti dice: "Il grave sovraffollamento è dovuto in parte alla corruzione rampante. Giudici, pubblici ministeri e avvocati alimentano un giro di mazzette che crea un circolo vizioso infernale: "Se 9 detenuti su 10 sono dentro in carcerazione preventiva e la persona non ha speranza di avere un giusto processo per anni, la famiglia fuori cercherà un modo per raccogliere il denaro sufficiente a pagare le tangenti necessarie a farlo uscire, a prescindere dal fatto se sia innocente o no". In questo scenario dell’orrore c’è chi tenta di dare almeno una degna sepoltura ai morti. Danton Leger, procuratore capo di Port-au-Prince ha organizzato le sepolture occupandosi anche dei fiori, prima i corpi di chi moriva dentro le mura del carcere venivano gettati in una discarica: "Qui le persone sono costrette a vivere come degli animali, almeno che vengano sepolti come esseri umani". Portogallo. Beffa per l’estradizione, torna libero il killer del catamarano di Giusi Fasano e Giuseppe Guastella Corriere della Sera, 21 febbraio 2017 Lisbona ignora le richieste dell’Italia e lo scarcera. L’ergastolano era già evaso due volte La comunicazione ufficiale del Ministero della giustizia italiano è arrivata solo ieri, laconica: "Scarcerato per decorrenza dei termini di custodia cautelare". C’erano voluti due anni di indagini, pedinamenti, intercettazioni telefoniche ed informatiche in tutta Europa per scovarlo e poi arrestalo in Portogallo nel 2016, ma dopo meno di cinque mesi per Filippo De Cristofaro, lo spietato killer del catamarano protagonista di evasioni clamorose, le porte del carcere di Lisbona si sono magicamente aperte, legalmente. Da ottobre non si sa che fine abbia fatto. Condanne ed evasioni - Ex insegnante di danza, playboy con la passione per le barche, abile informatico, "Pippo" De Cristofaro, oggi 63enne, era stato condannato nel 1991 all’ergastolo per aver ucciso il 10 giugno 1988 a colpi di macete la skipper pesarese Annarita Curina di 33 anni. Voleva rubarle il catamarano "Arx" con il quale sognava di raggiungere la Polinesia. Arrestato in Tunisia dopo 40 giorni di fuga fra i porti del Mediterraneo assieme alla fidanzatina olandese Diane Beyer, che allora aveva 17 anni e che lo aveva aiutato nell’omicidio e a far sparire il cadavere (fu condannata a 6 anni), De Cristofaro era stato estradato e rinchiuso in carcere in Italia. Abile anche a ingannare, era riuscito ad evadere due volte. La prima, nel 2007 dal carcere di Opera, ma era stato arrestato un mese dopo ad Utrecht (Olanda), la seconda mentre era in permesso dal penitenziario di Porto Azzurro all’Isola d’Elba. La caccia - Per riacciuffarlo in Portogallo dopo l’ultima evasione c’era voluto tutto l’impegno della Polizia. Partendo da un foglietto di carta trovato appallottolato tra la spazzatura nella cella di Porto Azzurro, sul quale De Cristofaro aveva annotato il suo account Gmail, gli investigatori per due anni avevano seguito passo passo le sue tracce tra Albania, Olanda, Francia, Spagna fino ad arrivare in Portogallo. Si erano fermati in una zona residenziale di Sintra a una trentina di chilometri ad Ovest di Lisbona dove i suoi accessi alla rete erano più frequenti e dove aveva raccontato in giro che voleva avviare un commercio di diamanti in Africa. Trovato - Ma come scovare l’assassino? La Polizia portoghese, in collaborazione con l’Interpol e la Polizia italiana, aveva praticamente messo sotto controllo tutti gli accessi wi-fi della zona di Sintra ai quali De Cristofaro si collegava navigando con quattro cellulari diversi. Quando lo hanno individuato, però, non lo hanno arrestato subito. Hanno aspettato con pazienza che il 18 maggio dell’anno scorso salisse su un treno diretto a Lisbona. A fermarlo ci hanno pensato i poliziotti portoghesi. Lo hanno trovato in possesso di 5.900 euro in contanti, di una patente di guida, di una patente nautica e di un passaporto falsi che aveva comprato a Milano da un gruppo di falsari albanesi. Il nome che compariva era quello di Andrea Bertone e, forse per celia, si era tolto dieci anni di età. Documenti falsi e Mae - Possesso di documenti falsi è il reato per il quale la magistratura di Lisbona ha emesso un’ordinanza di custodia cautelare che ha tenuto in cella Pippo De Cristofaro. Dal momento dell’evasione da Porto Azzurro sul capo dell’uomo pendeva un "Mandato di arresto europeo" (Mae) emesso il 9 novembre del 2015 dalla Procura della Repubblica di Milano, competente sulla vicenda perché l’ultima sentenza passata in giudicato era quella (9 mesi di reclusione) del 7 aprile dello stesso anno relativa all’evasione da Opera. Mandato che si aggiungeva ad uno analogo della Corte d’appello di Ancona legato alla condanna all’ergastolo per l’omicidio della povera skipper. Già due giorni dopo l’arresto, la nona sezione penale del Tribunale di Lisbona chiedeva alla Procura di Milano chiarimenti sull’ergastolo perché, dato che in Portogallo non è prevista la reclusione a vita, questo generava dubbi sulla possibilità di concedere una futura estradizione. Silenzio - Ma la risposta con la quale il pm Andrea Fraioli, che ha ereditato il fascicolo sulla "esecuzione pena" dal collega Ferdinando Pomarici andato in pensione, spiegava che in realtà in Italia non è possibile oltrepassare il limite dei 30 anni di reclusione è rimasta senza seguito. Lisbona era quindi perfettamente a conoscenza dell’esistenza del Mae da eseguire, ma da allora, a quanto pare, non ha mandato più comunicazioni, né per dire che De Cristofaro sarebbe stato estradato né il contrario. La procedura prevede un’udienza in cui vengono valutate le richieste dello Stato (l’Italia) che vuole che l’arrestato gli sia consegnato e quelle della difesa. Invece, è calato il silenzio. Quando qualche settimana fa sono cominciate a circolare le prime voci sula liberazione del killer del catamarano, a Milano è scattato l’allarme. Dopo uno scambio di telefonate con il Ministero della giustizia che, tramite il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, segue le vicende estradizionali, è emerso che anche a Roma nessuno sapeva nulla. La settimana scorsa la prima informale conferma alla quale ieri si aggiunge l’ultimo tassello: dopo la conclusione del periodo di custodia cautelare per l’accusa di possesso di documenti falsi, evidentemente prima di un processo, Filippo De Cristofaro è stato scarcerato il 15 ottobre. Filippine. Dopo nove mesi la chiesa protesta contro le politiche di Duterte di Riccardo Noury Corriere della Sera, 21 febbraio 2017 Finalmente, sabato scorso, decine di migliaia di persone di fede cattolica sono scese in piazza a Manila per una "camminata per la vita". Ufficialmente non per protestare contro il presidente Rodrigo Duterte ma per esprimere opposizione ai "problemi della società che minacciano la santità della vita umana". Eufemismi con cui vengono descritte la sanguinosa "guerra alla droga" lanciata da Duterte all’inizio del suo mandato e le continue invocazioni del ritorno della pena di morte. Del resto, la Conferenza episcopale delle Filippine ha condannato per la prima volta la "guerra alla droga" solo il 4 febbraio. In un paese in cui il 90 per cento della popolazione si professa cattolico, neanche le dichiarazioni di Duterte secondo cui la chiesa locale è un’istituzione "piena di merda", di corrotti e pedofili, hanno fatto particolare scandalo. Le promesse fatte in campagna elettorale di ripulire le strade dalla droga hanno conquistato larga parte della popolazione: a distanza di nove mesi dall’inizio del suo mandato, l’86 per cento dei filippini lo appoggia. A gennaio, un rapporto di Amnesty International ha denunciato gli effetti della velenosa retorica anti-droga del presidente Duterte: agenti di polizia (uno dei quali si è recentemente pentito), sicari sul libro paga e altre persone non identificate uccidono oltre 1000 persone al mese. Dalla salita al potere di Duterte, gli omicidi per presunti motivi di droga sono stati almeno 7000, 2500 dei quali direttamente ad opera della polizia. Giappone. Pacifista gravemente malato in carcere da quattro mesi di Riccardo Noury agoravox.it, 21 febbraio 2017 In Giappone è la storia del momento. Hiroji Yamashiro, un militante pacifista di 64 anni, è in carcere dal 17 ottobre per aver tagliato il filo spinato che circonda il cantiere di una nuova struttura militare degli Stati Uniti sull’isola di Okinawa. Hiroji Yamashiro, presidente del Centro d’azione per la pace di Okinawa, è diventato il simbolo dell’opposizione, da parte della maggioranza degli abitanti dell’isola, alla presenza dei militari Usa e alla costruzione della nuova struttura. Secondo il codice di procedura penale in vigore in Giappone, una persona può essere trattenuta in custodia di polizia per un massimo di 23 giorni: poi, o arriva l’incriminazione formale col rinvio a processo o torna in libertà. Per aggirare l’ostacolo, su Hiroji Yamashiro sono state avviate indagini su altri due possibili reati: aver aggredito un pubblico ufficiale e aver ostacolato l’avanzamento dei lavori. Oggi, lunedì 20 febbraio, Hiroji Yamashiro saprà se potrà almeno riavere la libertà su cauzione o se la sua detenzione sarà ulteriormente estesa, nonostante le sue condizioni di salute: nel 2015 gli è stato diagnosticato un linfoma maligno.