Che cosa manca a una persona privata della libertà? Il Mattino di Padova, 20 febbraio 2017 Le domande che gli studenti rivolgono alle persone detenute sono soprattutto volte a scoprire "l’inimmaginabile", e per loro, una generazione cresciuta con tanta libertà, è davvero difficile da immaginare che cosa manca di più a chi è rinchiuso in carcere. La loro idea è che in carcere quello che manca è la libertà, e poi gli affetti, la famiglia: tutto vero, gli esseri umani sono nati per essere liberi, e dipendere invece sempre da qualcuno, anche solo per uscire dalla cella e andare in doccia, rende la vita insopportabile da vivere, così come è vero che gli affetti autorizzati "col contagocce" snaturano completamente i rapporti famigliari. Ecco allora che alla domanda "cosa ti manca di più in carcere", per esempio, Antonio, che in carcere è rinchiuso da ben venticinque anni, ha risposto senza esitazioni "A me manca prima di tutto poter trascorrere del tempo con i miei sette nipotini fuori da questi luoghi e dare loro quell’affetto che non ho dato ai miei figli, poiché quando venni arrestato erano ancora piccoli". Ma ci sono anche detenuti che raccontano che le cose che gli sono mancate di più, in questi anni, sono i piccoli piaceri della vita a cui fuori, nel mondo libero, nessuno fa neppure più caso: bere un caffè in una tazzina di porcellana, dopo aver usato per anni solo stoviglie di plastica, tagliare una bistecca con un coltello "vero" dopo aver penato ogni giorno con ridicoli coltellini "finti", ritrovare la propria fisionomia in uno specchio "normale" dopo aver passato una vita a guardarsi in uno specchietto di plastica e aver perso anche il ricordo dei contorni del proprio viso e della forma del proprio corpo. Ogni persona detenuta vive in modo diverso l’idea della mancanza: nelle testimonianze dei due detenuti che riportiamo, per esempio, a uno di loro quello che manca di più è l’intimità, la possibilità di gestirsi degli spazi privati, di non dover più vivere una vita esposta agli sguardi di tutti, all’altro manca soprattutto l’opportunità di sentirsi utile, di fare qualcosa per gli altri, di non vivere una vita vuota e inutile. Sono sempre sotto l’occhio di tutti, non sono mai da solo Oggi uno studente del mondo esterno mi ha chiesto cos’era la cosa che più mi mancava della libertà. Io, detenuto, non ho avuto neanche un attimo di esitazione e, senza indugi, gli ho risposto: l’intimità. Non so il perché, ma sto avendo delle difficoltà a trovare le parole adatte per spiegare questa forte mancanza che sento, questa sensazione di vuoto che mi provoca l’assenza della mia intimità. Sono sempre sotto l’occhio di tutti, non sono mai da solo, se non quelle poche volte che il mio compagno di cella va a farsi la partitella a carte, ma quel momento non ha proprio niente di intimo, è solo un altro attimo di solitudine nelle mie solite giornate carcerarie. Ecco! il bagno. Certo, il bagno dovrebbe essere un momento d’intimità, ma qui siamo in un altro mondo, "il mondo degli spioncini", e nel muro del bagno c’è questo rettangolo verticale di vetro e, nel muro esterno, un pezzo di alluminio che serve da finestrella apribile a proprio piacimento. Santo cielo, quanto mi manca la mia intimità. Non vi è mai capitato di provare quel forte desiderio di voler abbracciare una persona? Ma intendo proprio quell’abbraccio sentito dalla forte esigenza di avere un contatto con un’altra persona, di sentirla vicina, di stringerla in un forte abbraccio fino a sentire il suo respiro. Ecco, a me manca, un abbraccio che solo nell’intimità due persone si possono dare. Il bello dell’intimità è proprio questo, sentirsi liberi da mille costrizioni e da tutti i giudizi che oggi sono costretto a subire, perché la crudeltà della pena è proprio questa! La carezza a un figlio o la carezza di un figlio fuori da sguardi indiscreti, oppure quelle tante lacrime trattenute per mancanza d’intimità. Quante volte avremmo pianto, ma la mancanza di intimità non ce l’ha permesso? E qui sono molte le volte che io avrei voluto piangere, a volte per un ricordo triste, a volte per uno bello, molte altre volte per bisogno, per sentirmi più vicino alla mia umanità, alle mie fragilità. Ma l’amara e dura verità che oggi mi sbatte in faccia la mia vita detentiva è che non posso, non mi è concesso provare tutte queste emozioni, ma io le ricordo molto bene, io sopravvivo di ricordi e di sensazioni passate in attesa del mio giorno. Lorenzo Sciacca Oggi ho acquisito consapevolezza dei veri valori della vita Che fatica rincorrere il tempo quando sei ragazzo e sentirsi frenati dall’età adolescenziale, finalmente si arriva alla maggiore età e ti senti liberato di quel peso infernale, ma ugualmente rincorri il tempo, e arriva la sera senza avere mai ultimato tutti i progetti che ti passano per la testa. Le priorità di un giovane sono molteplici, e quasi tutte pratiche, materiali. Limitare le esigenze di un giovane è sensato se si riesce a gestirlo, o quantomeno a farlo riflettere, ma se uno stato euforico la fa da padrone in un contesto di amicizie "scalmanate", lui si esalta, si sente onnipotente, ogni ostacolo lo aggirerà a proprio piacimento, si sentirà di avere il mondo racchiuso nel palmo della mano, senza ascoltare nessuno, e nella sua visione della vita, il suo modo di agire non sarà mai messo in discussione, non ci sono per lui salite o curve che ti costringono a decelerare, tutto è un rettilineo da fare alla massima velocità. Ricordo che mio padre mi diceva: guarda che nella vita tante sono le salite, quante sono le discese, e quanto più veloce sali in cima, tanto più rapidamente arrivi a valle. Ma io, fermo sui miei passi, lo guardavo dall’alto in basso. I valori della vita per me erano basati sul denaro, che purtroppo distorce e sconvolge anche gli animi più buoni, istigandoti spesso ad azioni negative, e ti induce a correre a destra e a manca senza fermarti a pensare. Ciò che ritenevo prioritario aveva solo un valore materiale, non davo più valore a quanto di bello mi circondava, non consideravo più quanto le persone mi volessero bene. Ho superato i cinquant’anni e mi ritrovo da quasi ventidue anni in carcere con l’ergastolo ostativo, che non mi permetterà mai di uscire, la smania di rendermi importante è terminata con un biglietto di andata senza ritorno verso un luogo desolante come il carcere, e nelle notti insonni quello che più mi manca sono gli affetti, le relazioni famigliari, la possibilità di lavorare, e soprattutto di cercare assiduamente di dedicare il mio tempo a qualcosa di utile per la società. Ecco, mi manca di sentirmi utile, di sapere che qualcuno ha bisogno di me. Eppure ero stato sempre circondato da questi valori, ma i miei occhi non li volevano vedere. Oggi anche nell’assaporare un frutto mi tornano in mente i sapori del passato, tuttavia quei sapori se li ricordo così assiduamente vuol dire che li sentivo anche allora, ma ero cieco, non volevo vedere quello che contava davvero, o forse, più semplicemente, oggi ho acquisito consapevolezza dei veri valori della vita e del male che ho prodotto. Agostino Lentini Torna il rischio affollamento di Valentina Maglione e Bianca Lucia Mazzei Il Sole 24 Ore, 20 febbraio 2017 Tornano ad aumentare i detenuti presenti in carcere. E rischia di rientrare in agenda il problema del sovraffollamento, che quattro anni fa è costato all’Italia la condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo. Si tratta di un "rimbalzo" che arriva dopo cinque anni di discesa ininterrotta, accelerata dopo la condanna del 2013. Dal picco di oltre 68mila unità del giugno 2010, infatti, le presenze in carcere sono calate alle poco più di 52mila registrate nell’ultimo semestre 2015. Secondo i dati del ministero della Giustizia, l’inversione di tendenza è partita all’inizio del 2016. Al 31 dicembre dello scorso anno i detenuti erano già saliti a 54.653 e al 31 gennaio scorso sono arrivati a 55.381, il 6,2% in più rispetto al 2015. Il totale dei reclusi si è comunque sempre mantenuto sopra la capienza delle carceri. Ma se due anni fa il gap si era ridotto a "solo" 2.500 posti, al 31 gennaio scorso era già raddoppiato a 5.200. Un numero ancora lontano da quelli del passato - nel 2010 la differenza tra detenuti e posti disponibili era di quasi 23mila unità - ma che segna un cambiamento di rotta rispetto ai risultati raggiunti con le misure adottate proprio a partire dal 2010. L’azione è stata duplice: da un lato si è puntato a limitare gli ingressi in carcere; dall’altro, ad agevolare le "uscite", con la possibilità di scontare la pena fuori dalle celle (tra l’altro, la legge 199/2010 ha aperto la chance di scontare ai domiciliari gli ultimi 12 mesi di pena, poi estesi a 18 mesi) e con il sempre più largo utilizzo delle misure alternative alla detenzione. La sentenza "Torreggiani" - Risale al gennaio 2013 la sentenza "Torreggiani", con cui la Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) condannò l’Italia per "trattamenti inumani e degradanti" nei confronti dei detenuti, a causa del sovraffollamento negli istituti di pena. Oltre all’obbligo di risarcire i ricorrenti, la Cedu diede un ultimatum all’Italia: un anno di tempo per mettere a punto un sistema interno per indennizzare i detenuti vittime del sovraffollamento e ridurre la pressione sulle carceri. Altrimenti, i ricorsi presentati dai detenuti alla Corte di Strasburgo si sarebbero tradotti in altrettante condanne a risarcire i danni, con conseguenze pesanti per l’Erario. Uno scenario che il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, si impegnò a scongiurare. "La soluzione dell’emergenza carceraria all’indomani della sentenza Torreggiani - ha detto in Parlamento un mese fa, nella sua relazione sullo stato della giustizia - ha costituito una delle priorità del mio mandato". In effetti le misure messe in campo hanno funzionato, portando a ridurre lo scarto fra numero dei detenuti e capienza delle carceri. Quel che, però, il ministro non cita è la risalita iniziata nel 2016 e che sta facendo riallargare il gap. Le cause dell’aumento - Ma perché il numero dei detenuti ha ripreso a crescere? Le ragioni sono diverse. In primo luogo va presa in considerazione un’altra inversione di tendenza: quella degli ingressi in carcere dalla libertà. Nel 2016, infatti, questo valore è ricominciato a salire dopo un calo durato otto anni che ha dimezzato le "entrate", portandole dalle 92.800 del 2008 alle 45.823 del 2015. L’anno scorso invece si è risaliti a 47.342 unità. "Questo incremento - spiega Roberto Calogero Piscitello, che dirige la Direzione generale dei detenuti del ministero della Giustizia - è stato anche un effetto dell’operazione strade sicure dell’ottobre 2015: l’invio dell’esercito a presidiare molte zone sensibili ha liberato unità di polizia e carabinieri permettendo un’azione più efficace delle forze dell’ordine e facendo crescere gli arresti". Ma soprattutto "il trend di aumento della popolazione detenuta - spiega Santi Consolo, capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria - è da ricondurre al venir meno della liberazione anticipata speciale". Una misura temporanea, introdotta per due anni dal decreto legge 146 del 2013 e scaduta a dicembre 2015, che aveva aumentato lo sconto di pena concesso ai detenuti che partecipano all’opera di rieducazione: non più 45 giorni per ogni sei mesi di pena detentiva scontata, ma 75 giorni. La fine del periodo di applicazione ha avuto la conseguenza di rallentare le uscite e, quindi, aumentare le permanenze in carcere. "Si è trattato di una misura emergenziale", continua Piscitello, che, per ora, non vede un rischio sovraffollamento dato dalla sproporzione fra presenze e posti disponibili: "In Italia - precisa - gli spazi sono calcolati in base al criterio di 9 metri quadrati per singolo detenuto, uno standard molto più elevato rispetto agli altri Paesi europei. La stessa sentenza Torreggiani indica tre metri quadrati". Comunque, a sottolineare la necessità di un intervento legislativo è Consolo: "È auspicabile che si pervenga quanto prima, secondo le indicazioni fornite dagli Stati generali dell’esecuzione penale, a una riforma dell’Ordinamento penitenziario vigente per stabilizzare le presenze detentive". La chance delle misure alternative di Fabio Fiorentin Il Sole 24 Ore, 20 febbraio 2017 Il sistema delle misure alternative alla detenzione è una vera "valvola di sfogo" per il sistema penitenziario e sta in parte arginando l’aumento del numero dei reclusi nelle carceri italiane. I dati del ministero della Giustizia testimoniano, infatti, un costante aumento delle misure alternative in esecuzione sul territorio nazionale, in costante ascesa se si guarda al passato meno recente. Al 31 dicembre del 2010 erano 15.828 i condannati affidati in prova ai servizi sociali, in semilibertà o assegnati alla detenzione domiciliare, contro le oltre 34mila persone sottoposte a misure alternative al 31 gennaio scorso. E se negli ultimi anni non ci sono più stati picchi, il trend d’aumento resta comunque costante, in media per un migliaio di condannati in più all’anno negli ultimi tre anni. Dietro a questi numeri c’è l’impegno della magistratura di sorveglianza, che ha fatto crescere le esecuzioni penali esterne al carcere senza pregiudicare le esigenze di sicurezza della collettività, se è vero che - dati alla mano - sono davvero sporadici i casi di revoca di misure alternative per l’insuccesso della prova o per la commissione di un nuovo reato da parte dell’ammesso. Va rilevato, però, che i tempi dell’istruttoria nei procedimenti di applicazione delle misure alternative si sono dilatati, soprattutto per le difficoltà operative in cui versano gli uffici dell’esecuzione penale esterna (Uepe), che rappresentano, di fatto, il braccio operativo della giustizia su questo fronte. Si tratta di uffici ai quali, negli ultimi anni, sono state affidate sempre maggiori competenze e il cui carico di lavoro è quindi lievitato nel tempo. Alle nuove attività, però, non corrispondono sufficienti ricorse di personale e di mezzi per farvi fronte. Da tre anni a questa parte, gli Uepe sono impegnati in prima linea anche sul fronte dei procedimenti in materia di sospensione del processo con messa alla prova dell’imputato, istituto su cui si gioca una parte importante della strategia di deflazione del sistema penale. Gli Uepe, in particolare, sono incaricati di predisporre i programmi e le attività riparative su cui si sviluppa la messa alla prova dell’imputato. Guardando ai dati territoriali, si vede che in alcune aree - come in Friuli Venezia Giulia - le istanze di messa alla prova sono state numerose, ma quelle concretamente avviate sono state molte meno. Un risultato dovuto soprattutto all’eccessivo carico di lavoro per gli Uepe, che non riescono a fronteggiare la massa delle istanze. In altri territori, invece, come nel Lazio e in molte regioni del Sud Italia, il ricorso alla messa alla prova è ancora marginale. Dai dati del ministero della Giustizia sulla popolazione carceraria emerge una lenta, ma costante, crescita del numero di presenze negli stabilimenti penitenziari, risalita a gennaio 2017 a quota 55.381 detenuti, dopo il minimo di 52.164 raggiunto nel dicembre 2015. A fronte dell’understatement politico (la recente relazione del ministro Andrea Orlando sullo stato della giustizia non menziona il problema), il dato non è però sfuggito ai tecnici. Questi ultimi, in particolare, guardano con preoccupazione alle possibili conseguenze dell’eventuale aggravarsi di una criticità che potrebbe porre di nuovo, come già quattro anni fa dopo la sentenza "Torreggiani", l’Italia nella scomoda e umiliante veste di "osservata speciale" per le condizioni detentive praticate negli istituti penitenziari. Uno scenario che imporrebbe gravi conseguenze non solo per le sanzioni pecuniarie che verrebbero imposte dall’Europa nel caso fosse accertata la perdurante violazione da parte del nostro Paese dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (che vieta i "trattamenti inumani o degradanti"), ma anche per le difficoltà che insorgerebbero sul piano della cooperazione giudiziaria internazionale. Le richieste di estradizione avanzate dall’Italia potrebbero infatti - come è già accaduto in un recente passato - essere rifiutate dagli altri Stati dell’Ue qualora vi fosse il fondato motivo di ritenere che l’estradato possa subire in Italia una detenzione contraria alla dignità umana. Se è vero che le cause dietro l’aumento dei detenuti sono molte, è chiaro che, a fronte di tali possibili scenari, puntare sugli strumenti dell’esecuzione penale esterna è una delle vie da seguire per decomprimere la situazione nelle carceri. In questa prospettiva, si deve quindi guardare con interesse al disegno di legge in materia di riforma dell’ordinamento penitenziario in corso di esame da parte del Parlamento e al recepimento delle importanti indicazioni emerse dai lavori degli Stati generali dell’esecuzione penale da poco conclusisi. La "messa alla prova" degli imputati fatica a decollare di Valentina Maglione e Bianca Lucia Mazzei Il Sole 24 Ore, 20 febbraio 2017 A quasi tre anni dal suo esordio la "messa alla prova" per indagati e imputati fatica a decollare. Soprattutto al Sud. E questo nonostante il fatto che il 96% dei procedimenti attivati si chiuda con l’estinzione del reato. Lo strumento - Introdotta dalla legge 67 del 2014 e operativa dal 17 maggio dello stesso anno, la sospensione del processo con messa alla prova permette all’indagato o all’imputato che ne faccia richiesta (direttamente o attraverso il suo avvocato) di evitare il processo e cancellare il reato, se accetta di svolgere una serie di attività che comprendono lavori di pubblica utilità, condotte riparative per eliminare le conseguenze del reato e risarcimento del danno. È una possibilità riservata a chi ha commesso reati "minori", puniti con la sanzione pecuniaria o con la detenzione fino a quattro anni, e non è delinquente abituale. Lo strumento, già usato nel processo minorile, è stato esteso agli adulti per evitare che persone normalmente estranee agli ambienti criminali vengano condannate a pene detentive di durata limitata e, allo stesso tempo, incentivare la riparazione e il risarcimento del danno. L’applicazione - Dal debutto fino al 31 dicembre 2016, a chiedere di essere "messi alla prova" sono stati 62.500 imputati o indagati. Ma meno della metà sono stati i programmi partiti. I dati, rilevati dal ministero della Giustizia, raccontano un trend in aumento: nel 2016 sono state presentate quasi 30mila istanze e sono stati avviati 20mila procedimenti. Ma si tratta comunque di numeri contenuti, tanto che il presidente della Corte di cassazione, Giovanni Canzio, ha scritto, nella sua relazione per l’apertura dell’anno giudiziario che "la sospensione del procedimento con messa alla prova è rimasta circoscritta". Canzio indica anche le ragioni: "La procedura di definizione del programma di trattamento cui l’imputato deve sottoporsi risulta farraginosa, essendo indispensabile e decisivo, per la predisposizione di detto programma, l’intervento dell’ufficio esecuzione penale esterna (Uepe, ndr), in alcuni casi carente di personale". Gli Uepe, in effetti, hanno un ruolo chiave: se al tribunale spetta valutare se l’imputato ha i requisiti per accedere alla messa alla prova, l’ufficio deve predisporre il "programma di trattamento" (e prima condurre un’indagine socio-familiare). L’Uepe deve poi seguire lo svolgimento del programma e redigere la relazione finale. E la mancanza di organico è in cima alla lista dei problemi indicati da questi uffici. Come all’Uepe di Udine, Pordenone e Gorizia: "Negli ultimi tre anni - spiega il direttore, Stefania Gremese - le richieste sono quadruplicate, ma il personale è diminuito, anziché aumentare. La gestione delle domande di messa alla prova è un compito aggiuntivo che si è inserito in un contesto già pesante". Che la situazione sia difficile si vede dai numeri: in Friuli Venezia Giulia lo scorso anno sono state presentate 1.207 istanze di messa alla prova, ma i procedimenti avviati sono stati solo 491. Ma quello di Udine non è un caso isolato. E le difficoltà organizzative si riverberano sui tempi. "Dalla richiesta all’avvio della messa alla prova passano in media sei-sette mesi", dice Severina Panarello, direttore dell’Uepe di Milano e coordinatore degli uffici lombardi. "A Milano - prosegue - abbiamo adottato il primo protocollo nazionale che individua i criteri per garantire omogeneità di procedure e durata. L’istituto funziona, le revoche sono pochissime ma un aumento di organico ci permetterebbe di migliorare la qualità dei programmi". La lunghezza dei tempi - dieci mesi d’attesa media, ad esempio, a Siracusa - è una delle ragioni che spiega (oltre ai casi di diniego da parte dei giudici) il fatto che i procedimenti attivati siano meno del 50% delle domande presentate: non solo perché molte istanze sono ancora in lavorazione ma anche perché, nell’attesa, il procedimento si risolve per altre ragioni, come patteggiamento, accordi o ritiro della querela. Più procedure al Nord - La maggior parte dei procedimenti di messa alla prova viene avviato nel Nord: nelle regioni settentrionali i programmi realizzati fino al 31 dicembre 2016 sono stati circa 17mila, più del doppio di quelli avviati al Sud. "I numeri ridotti - spiega Francesco Greco, presidente dell’Ordine degli avvocati di Palermo - sono probabilmente dovuti alla tipologia di reati e alla maggiore difficoltà di soddisfare il requisito del risarcimento del danno. Pesa inoltre la mancanza di strutture territoriali dove svolgere la messa alla prova". C’è anche una questione di mentalità, secondo Carlo Morace, vicepresidente dell’Ordine degli avvocati di Reggio Calabria: "Qui si preferisce cercare di ottenere l’assoluzione. In ogni caso la soglia di quattro anni di detenzione è troppo bassa: la messa alla prova andrebbe incentivata alzandola". Utilizzo molto limitato, almeno rispetto alla popolazione, anche nel Lazio. "È un problema di strutture - dichiara Mario Scialla, avvocato del Consiglio dell’ordine di Roma - e di procedure. L’impressione è che molti avvocati del Centro-Sud conoscano la situazione e temano di rimanere impastoiati nel percorso amministrativo". Parte la banca-dati del Dna: 30.000 schedati, tra detenuti e chi ha commesso reati di Antonietta Ferrante adnkronos.com, 20 febbraio 2017 L’attesa è finita: i primi profili genetici sono stati inseriti nella Banca dati del Dna e ora si attende il "match" che potrebbe risolvere un caso o riaprirne uno irrisolto. L’obiettivo del progetto, istituito con una legge nel giugno 2009 ma operativo solo da poche settimane, è quello di raggiungere i risultati di chi da anni dispone di questo strumento: nel Regno Unito il 62% dei dati inseriti ha restituito un legame tra la traccia trovata sul luogo di un crimine e il possibile autore. Semplice intuire le potenzialità del "cervellone" interforze: in Italia sono oltre 2,4 milioni i reati registrati nelle ultime statistiche ufficiali del Ministero dell’Interno (dal 1 agosto 2015 al 31 luglio 2016), di cui circa 32mila rapine e oltre 1,3 milioni furti. L’impiego potrà rivelarsi utile anche per omicidi, ricerca di persone scomparse, "cold case" e lotta al terrorismo. "A fine gennaio - annuncia all’Adnkronos Egidio Lumaca, Primo dirigente tecnico della Polizia scientifica - abbiamo immesso il primo profilo. Si tratta di una banca dati con finalità giudiziarie, l’inserimento di ogni informazione genetica deve essere autorizzato dall’Autorità Giudiziaria". I tamponi salivari da cui estrarre il Dna, raccolti dal 10 giugno 2016 sono circa 30.000 tra detenuti e chi ha commesso reati, ma presto anche il resto della popolazione carceraria sarà sottoposta a prelievo. Il Dna ottenuto viene confrontato con quello estrapolato dalle tracce rinvenute sulla scena del crimine, attualmente sono stati inseriti in banca dati alcune decine di profili, ma presto diventeranno centinaia e poi migliaia. A ogni profilo genetico viene associato un codice alfanumerico, se due profili combaciano c’è il "match", ma chi accede al sistema non trova un nominativo ma quei codici che per ragioni di sicurezza saranno decodificati in un momento successivo. Complesse misure per rendere inattaccabile il sistema e rispettare la privacy. La polizia penitenziaria raccoglie i tamponi salivari dei detenuti, invece la polizia, i carabinieri e la guardia di finanza raccolgono quelli di chi è ai domiciliari, a esclusione dei reati meno gravi per i quali non è previsto il prelievo. La Polizia Scientifica o il Ris analizzano e valutano invece i profili genetici sconosciuti estratti dalle "prove" del crimine, cioè dal materiale biologico rilasciato sulla scena. Le tracce vengono analizzate in laboratori accreditati a norma Iso 17025, che garantisce la competenza del personale, dei processi, delle prove eseguite e assicura la tracciabilità di ogni fase di lavoro. Se il Dna su una sigaretta trovata su un luogo di una rapina combacia con quello di un soggetto già inserito in banca dati, solo allora si potrà chiedere all’Afis, la banca dati delle impronte digitali che ha generato il codice anonimo del profilo genetico, di decodificare quel codice fornendo nome e cognome. "Il profilo del Dna di ciascun individuo - sottolinea Egidio Lumaca - ha caratteristiche che lo rendono praticamente unico, con la sola eccezione dei gemelli identici, e ci consente di identificare con certezza una singola persona. Tanti più dati verranno inseriti, maggiore sarà la possibilità di trovare un ‘match’, il che non vuol dire automaticamente risolvere un caso, ma identificare in modo certo colui che ha rilasciato la propria traccia biologica sulla scena del crimine. Possiamo dire che dall’esito positivo del confronto tra traccia e soggetto può partire con più forza una nuova indagine alla ricerca del colpevole". L’esperienza - il Regno Unito si è dotato nel 1995 di un banca dati, nel 2004 le corrispondenze tra profili erano pari al 45% e sono salite al 62% nel 2014 - "ci dice che la banca dati di per sé non diminuisce il tasso di criminalità, ma sicuramente incide sui reati seriali e sul numero di risoluzioni. Un deterrente forse meno efficace per i delitti d’impeto come molti omicidi, ma sapere che esiste potrà comunque avere un effetto preventivo". La banca dati del Dna - l’Italia sta cercando di recuperare i ritardi rispetto agli altri Paesi - consentirà all’autorità giudiziaria di chiedere confronti con profili genetici delle omologhe banche dati estere "intensificando l’interscambio di informazioni che è fondamentale". Il "cervellone" con profili genetici "sarà utile soprattutto per aiutare nella risoluzione di reati seriali, come i furti o le rapine", sottolinea il direttore della divisione dove operano i laboratori biologici della Polizia Scientifica. "Probabilmente la banca dati aiuterà a risolvere anche alcuni "cold case", ma il valore della banca dati si misurerà principalmente negli anni futuri, quando si arricchirà di sempre più numerosi dati. Oggi le tecniche consentono di ottenere ben più dei 10 marcatori genetici, considerati il numero minimo per avere la sicurezza di identificazione; mentre in passato - conclude - si disponeva di un numero inferiore di informazioni, che portava ad esprimere solo un giudizio di compatibilità, ma non di certa identità". Corte giustizia Ue: tendenza al ribasso per durata dei procedimenti e aumento dei ricorsi di Maria Cristina Coccoluto radiowebitalia.it, 20 febbraio 2017 L’anno trascorso è stato segnato da un’attività molto sostenuta alla Corte di giustizia dell’Unione europea. Così, il numero complessivo di cause definite nel 2016 si mantiene a un livello elevato (1628). Il 2016 costituisce inoltre l’ultimo anno di esistenza del Tribunale della funzione pubblica dell’UE, sciolto il 1° settembre scorso, con la competenza a pronunciarsi in primo grado sulle controversie tra l’Unione e i suoi funzionari o agenti trasferita al Tribunale dell’Unione europea (da gennaio ad agosto 2016, tale organo giurisdizionale ha definito 169 cause). La Corte di giustizia ha definito 704 cause nel 2016 (+14% rispetto all’anno 2015), un numero maggiore rispetto a quelle ricevute durante l’anno trascorso (692). Cifre che rivelano una produttività notevole e che hanno condotto a una leggera diminuzione del numero di cause pendenti al 31 dicembre 2016 (872). Quanto alle cause promosse nel 2016, 470 sono legate a domande di pronuncia pregiudiziale provenienti da giudici nazionali. Questa cifra rappresenta un record nella storia della Corte di giustizia, che riflette allo stesso tempo l’importanza del procedimento pregiudiziale nell’edificazione del diritto dell’Unione europea e la fiducia riposta dai giudici nazionali in questa forma di cooperazione giudiziaria ai fini dell’interpretazione e dell’applicazione uniformi di tale diritto. Un’altra tendenza significativa dell’anno trascorso è legata alla durata media dei procedimenti dinanzi alla Corte di giustizia. Per quanto riguarda le cause pregiudiziali, tale durata media è stata pari, nel 2016, a 15 mesi. Si tratta della durata più breve registrata da oltre trent’anni. Questa cifra si spiega con il fatto che la Corte si impegna costantemente a migliorare la propria efficienza utilizzando in modo razionale tutte le possibilità offertele al riguardo dalle norme procedurali. Per ciò che concerne le impugnazioni, la durata media è stata di 12,9 mesi. Si tratta della durata più breve dalla creazione del Tribunale. Considerando tutte le materie insieme, la durata complessiva dei procedimenti ammonta a 14,7 mesi. L’analisi delle statistiche giudiziarie del Tribunale dell’Unione rivela essenzialmente un duplice fenomeno : l’aumento del numero di cause promosse e del numero di cause pendenti, da un lato, e la sensibile riduzione della durata del giudizio, dall’altro. Il numero di cause promosse ha segnato un aumento del 17%, passando da 831 cause nel 2015 a 974 nel 2016, come conseguenza, in amplissima misura, del trasferimento della competenza di primo grado a pronunciarsi sulle controversie in materia di funzione pubblica dell’Unione (che rappresentano, da sole, 163 cause). Il numero di cause pendenti è cresciuto con proporzioni simili, passando da 1267 nel 2015 a 1486 nel 2016. Quanto alla produttività del Tribunale, essa si inserisce nel solco del rendimento raggiunto dal 2013, con un numero di cause definite tra i migliori tre dell’organo giurisdizionale dalla sua creazione (755). Il calo osservato rispetto agli anni 2015 e 2014 si spiega con l’effetto combinato dello smaltimento dell’arretrato, del rinnovo triennale della sua composizione e della riorganizzazione interna, resa necessaria dall’arrivo di nuovi giudici, i quali non possono contribuire in maniera visibile e sostanziale alla produttività durante i primi mesi del loro mandato. Parallelamente, l’indicatore principale del rendimento, costituito dalla durata del giudizio, prosegue la sua tendenza favorevole. La dinamica di riduzione della durata dei procedimenti, osservata dal 2013, conosce una nuova conferma, con una media complessiva di 18,7 mesi (cause definite con sentenza o ordinanza, considerando tutte le materie insieme), ossia un calo di 1,9 mesi rispetto al 2015 e di 8,2 mesi rispetto al 2013. Peraltro, in seguito alla riorganizzazione del Tribunale e delle nuove possibilità offerte dall’attuazione della riforma dell’architettura giurisdizionale dell’UE, il numero di cause rinviate a una sezione a cinque giudici è stato pari a 29 nel 2016, mentre la media annuale osservata per simili rinvii era inferiore a 9 cause l’anno. Infine, l’evoluzione del contenzioso è stata segnata dalla progressione delle cause sulla proprietà intellettuale (+11%), dal trasferimento della competenza di primo grado a pronunciarsi sulle cause in materia di funzione pubblica dell’Unione (123 ricorsi trasferiti dal Tribunale della funzione pubblica al Tribunale il 1° settembre e 40 ricorsi di nuova introduzione fino al 31 dicembre 2016, per un totale di 163, pari a circa il 17% delle cause promosse) ; dal calo relativo del numero di cause in materia di misure restrittive (28 promosse nel 2016), dal mantenimento di un livello elevato di cause sugli aiuti di Stato (76) - in particolare per quanto riguarda la fiscalità degli Stati membri - nonché dall’emergere di una nuova fonte di contenzioso relativa all’applicazione delle regole di vigilanza prudenziale nei confronti degli enti creditizi. I magistrati onorari in sciopero per una settimana, le ragioni della protesta di Paolo Padoin firenzepost.it, 20 febbraio 2017 Per tutta la settimana durerà lo sciopero della magistratura onoraria, con pesanti ripercussioni nelle aule giudiziarie. Questa categoria è cresciuta fino a comprendere quasi 7mila laureati in legge (contro i 10.800 magistrati professionali), per lo più avvocati o docenti universitari di diritto, fra giudici di pace, esperti di tribunali di sorveglianza, giudici ausiliari di tribunali e Corte d’appello, e così via. La sua importanza è diventata centrale vista la cronica carenza di organici della magistratura ordinaria, nonché "di supporti logistici e materiali" che hanno comportato una crescita esponenziale dei processi arretrati, oggi 4,5 milioni di cause pendenti penali e tre milioni quelle civili. "Siamo senza previdenza, senza ferie né maternità, sottopagati al livello del caporalato: 74 euro netti per un’udienza di cinque ore, raddoppiabili solo se si protrae per altre cinque", dice Raimondo Orru, presidente della Federmot, una delle organizzazioni dei magistrati onorari. Un articolo di Eugenio Occorsio su Repubblica spiega bene quanto sia diventata essenziale l’opera della magistratura onoraria. I primi ad essere istituiti furono i giudici di pace nel 1995, demandati ai reati minori (diffamazione, minacce semplici, occupazione abusiva di terreni ed edifici, il tutto con competenza fino a 5000 euro di sanzione). Nel 1998, in occasione della cancellazione delle Preture, nasce il giudice monocratico di tribunale e con esso il giudice onorario di tribunale, e parallelamente nell’ufficio della Procura il vice procuratore onorario. Intanto le deleghe si ampliano: ormai i giudici onorati occupano il posto del pubblico ministero, e spesso anche del giudice giudicante unico di primo grado (dove non è prevista la corte) per rapine, evasione fiscale, stalking, spaccio, furto, ricettazione, fino a ben 20 anni di reclusione. Molte disposizioni sono state emanate, con la promessa di addivenire a una riforma organica della magistratura onoraria, che ancora, dopo tante promesse, non c’è e non è neppure all’orizzonte, tanto da indurre la categoria alla protesta per una settimana. Forse molti saranno curiosi di conoscere i compensi di questi magistrati, niente a che vedere naturalmente con i faraonici emolumenti della magistratura ordinaria. Meno di cento euro lordi per un’udienza di cinque ore. Se la procedura per diventare giudici onorari è la stessa (un concorso per titoli valutati dal Csm che emette la nomina nonché, valutate le prestazioni, gli eventuali rinnovi), diversa è la retribuzione a seconda delle funzioni. I giudici di pace percepiscono un’indennità mensile di 258,23 euro lordi, un’indennità di udienza (36,15) e un’indennità di sentenza o altro provvedimento di definizione del giudizio (56,81 euro). I giudici onorari dl tribunale hanno solo l’indennità d’udienza dl 98 euro lordi, raddoppiati se l’udienza si protrae oltre le cinque ore. Stessa indennità per i vice procuratori onorari. Un po’ poco per una categoria che contribuisce in buona parte a tenere in piedi la macchina della giustizia. L’internazionalizzazione delle mafie di Roberto Galullo Il Sole 24 Ore, 20 febbraio 2017 L’ultima relazione della Dia mostra la mappa della loro espansione all’estero. La parola mafia è mafia in ogni lingua del mondo e a nulla serve sapere che chi la pronuncia non parla più neppure l’italiano, al massimo, si esprime nel dialetto della terra di provenienza. Gli affari sporchi son pur sempre affari e non guardano all’idioma. Mafia è mafia in ogni angolo del globo, che assiste - dopo la prima ondata all’inizio del secolo scorso - a una continua ondata di investimenti, basi logistiche e profonde radici della criminalità italiana. Mafia - oggi - è soprattutto ‘ndrangheta, che ha scalato le vette del riciclaggio e delle attività apparentemente lecite, dopo aver accumulato risorse immense con il narcotraffico. Dando del tu prima ai cartelli colombiani e, più di recente, a quelli messicani. Attività internazionali Il quadro che emerge dall’ultima relazione che la Direzione investigativa antimafia (Dia), guidata da Nunzio Antonio Ferla, ha consegnato, meno di un mese fa al Parlamento, è chiaro. Un solo semestre di indagini, il primo del 2016, ha confermato che ‘ndrangheta, Cosa nostra, camorra e, in misura minore, Sacra corona unita (spesso mafia servente rispetto alle altre) sono attive tanto dentro quanto fuori i confini nazionali ed europei. A farne per primi le spese sono i francesi. In passato sono stati numerosi i latitanti italiani localizzati e arrestati in Francia, specialmente sulla Costa Azzurra, ma oggi la Dia svela l’esistenza di una seconda generazione di criminali collegati alla ‘ndrangheta e radicati in Francia, in grado di riprodurre lo schema criminoso proprio della regione d’origine e che, attraverso il legame realizzato con la criminalità francese, si occupa prevalentemente (ma non esclusivamente) del traffico internazionale di sostanze stupefacenti. La collaborazione della Dia con il Servizio di informazione, intelligence e analisi strategica sulla criminalità organizzata della Direzione centrale della polizia giudiziaria francese ha permesso di incrementare gli accertamenti finanziari e patrimoniali su vari gruppi criminali calabresi dediti ad attività di riciclaggio sul territorio transalpino. Del resto questo matrimonio nel nome degli affari criminali è quasi fisiologico, visto il particolare rilievo assunto dalla "locale" imperiese (vale a dire una cellula strutturata con almeno 50 affiliati) di Ventimiglia e la sua funzione di camera di compensazione (o di transito), destinata a regolare i rapporti con i gruppi criminali calabresi stanziati prevalentemente a Nizza, Antibes, Vallauris e Mentone. Edilizia (con le storiche ramificazioni della cosca reggina De Stefano, tra le più potenti in Calabria), commercio, turismo e ristorazione vedono svettare le cosche calabresi. Anche la Francia, con la Direzione centrale della polizia giudiziaria e della Gendarmerie nationale, è partner della Dia di "Operational network@on", che ha consentito di avviare il progetto che traspone in chiave europea il cosiddetto "modello Falcone", caratterizzato dalla centralizzazione delle informazioni su fenomeni di criminalità transnazionale, evitandone la frammentazione e consentendo così di affrontare con una strategia comune una minaccia concreta e attuale per la sicurezza dei cittadini europei. Non solo Francia - Con la strage di Duisburg del Ferragosto 2007 la Germania si è svegliata dal torpore e ha scoperto che dietro le vetrine immacolate di un ristorante potevano celarsi commerci leciti e illeciti della ‘ndrangheta, ma la relazione della Dia svela che l’attualità della presenza in Germania di soggetti della criminalità organizzata siciliana resta, nel semestre in esame, invariato. L’attività di analisi ha permesso di evidenziare come i Länder a maggior infiltrazione di elementi criminali originari della Sicilia siano concentrati nella parte meridionale e occidentale del Paese, in particolare in Renania Settentrionale-Westfalia, Baviera e Baden-Wurttemberg. In questi territori la componente agrigentina appare quella maggiormente radicata, al punto da poter offrire, anche nel recente passato, assistenza logistica e rifugio ai latitanti. Spagna - Tutta la penisola iberica è un crocevia vitale per le nuove radici delle mafie italiane, che qui investono nel settore immobiliare, in quello del turismo e nell’immancabile traffico di droga, polmone finanziario che tutto alimenta. La realtà degli investimenti supera, però, la fantasia e così l’operazione "Passion fruit" della Gdf di Roma del 25 gennaio 2016 ha svelato che il clan camorristico Moccia puntava a espandersi nel mercato ortofrutticolo di Barcellona. Ancora la Spagna emerge in un’ordinanza della Dda partenopea, che l’8 febbraio 2016 ha interessato alcuni soggetti campani, da anni trasferitisi a Madrid, dove gestivano un ristorante, punto di riferimento del clan Contini nei traffici di stupefacenti provenienti dall’Olanda e dalla Spagna. Usa e Canada - Aprire l’intero ventaglio degli interessi mafiosi in Europa, Centro e Sudamerica (dove si è ormai alla seconda e terza generazione di calabresi tra Città del Messico e Bogotà) è impossibile e allora è bene fare un salto oltreoceano, dove il Canada, ma soprattutto gli Stati Uniti, rappresentano sponde sempre valide per riciclaggio e investimenti. Per quanto stretta dalle mafie dell’Est e dallo strapotere della ‘ndrangheta - che fa sempre più affari con le società di import-export, a partire da quelle del settore agroalimentare - Cosa nostra è ancora attiva a Philadelphia, Detroit, Chicago, New Jersey, New England e New York. La nuova generazione di mafiosi è composta da individui con un alto livello d’istruzione, per i quali il ricorso ad azioni violente ed eclatanti diventa un evento eccezionale. New York, in particolare, area nevralgica dell’economia statunitense, rappresenta per i clan siciliani un centro d’interessi per riciclaggio di capitali illeciti in ogni attività commerciale, immobiliare o finanziaria, usura, estorsioni, traffico di droga, gioco d’azzardo, traffico di esseri umani, sfruttamento di manodopera. Non va, poi, dimenticato che Cosa nostra - fin dagli anni Quaranta, quando, per acquisire forza con il consenso dei lavoratori, fece proprie le rivendicazioni finalizzate al miglioramento delle condizioni economiche e di lavoro degli operai - è inserita all’interno delle più importanti organizzazioni sindacali del settore edile, sanitario e dello smaltimento dei rifiuti. I sindacati, negli Stati Uniti, hanno anche un potere - strategico - di collocamento. E i giudici dissero: "Non è mafia" di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 20 febbraio 2017 Il conflitto tra la Procura e il tribunale che accusa le associazioni antiracket. Si parla poco della mafia nel Gargano. Della guerra tra i clan e degli omicidi. Dei boss scarcerati e del conflitto tra la Procura e il tribunale che non ha riconosciuto l’aggravante della mafia. L’ultimo (per ora) l’hanno ammazzato tre settimane fa, a fucilate; si chiamava Onofrio Notarangelo, aveva 46 anni. Dieci giorni prima era stato ucciso Vincenzo Vescera, 33 anni, a colpi di pistola, stesso cognome e stesso clan di Giampietro Vescera, 27 anni, assassinato a settembre, pure lui a revolverate. In mezzo ci sono stati il ferimento di un altro pregiudicato agli arresti domiciliari, e diversi incendi dolosi: una discarica, molte macchine e un aliscafo. "A Vieste colpiscono così, qui in città invece mettono le bombe", dice Piernicola Silvis, sessantaduenne questore di Foggia, spiegando la mafia del Gargano in cui s’è scatenata una vera e propria guerra. Con epicentro Vieste, 14.000 abitanti che nel 2016 ha raggiunto due milioni di turisti attirati dal mare, dal clima e altre attrazioni. Che portano tanti soldi e scatenano appetiti criminali. Silvis è anche un affermato scrittore di thriller; nell’ultimo, Formicae, ambientato in quest’angolo di Puglia, ha dedicato alcune pagine alla descrizione delle organizzazioni criminali della provincia; quella del Gargano, che vive di tangenti imposte alle strutture dove in estate si affollano "mucchi di gente in costume da bagno e macchina fotografica a tracolla"; i cerignolani che fanno rapine da film in tutta la penisola; la Società foggiana che traffica in droga e estorce il "pizzo" all’ottanta per cento dei commercianti in città. "E nessuno nel Paese ne sa niente, i giornali tacciono. Perché Foggia è padre Pio, è il Gargano. Deve essere questo, nient’altro", scrive il questore-romanziere. Come se ci fosse voglia di negare una realtà che, proprio a Vieste in queste settimane, uccide come niente fosse. La guerra tra cosche - Tre anni fa un tribunale ha sconfessato la matrice mafiosa del racket in quella zona, sostenuta dalla Procura antimafia di Bari. Gli imputati appartenenti al clan Notarangelo (legato ai vecchi mafiosi della cosca Libergolis, certificata come tale dopo un accidentato percorso giudiziario) sono stati riconosciuti colpevoli e condannati e pene severe: il capo, Angelo Notarangelo, s’è preso 11 anni di galera. Ma senza l’aggravante del "metodo mafioso", il che gli ha consentito di uscire dal carcere a luglio 2014, in attesa della sentenza definitiva, per "affievolite esigenze cautelari". Il tempo di provare a riprendere in mano le redini del comando e sei mesi più tardi l’hanno ammazzato. I maggiori sospetti si concentrano sul suo ex braccio destro Marco Raduano, condannato nello stesso processo, forse irritato dalla scoperta che il boss aveva accumulato beni per milioni di euro (sequestrati dalla Procura, ma non confiscati dai giudici) tenuti nascosti ai complici. È stato l’inizio della guerra, che ha portato agli omicidi successivi. Nel frattempo Raduano era stato condannato anche per il possesso di un arsenale ma assolto in appello (sebbene su una delle armi ci fosse una sua impronta digitale). Ora è tornato libero, e deve guardarsi dalle vendette dei Notarangelo; i Vescera già sterminati erano suoi uomini. Una catena di morti ammazzati che sembra confermare la mafiosità del contesto negata dai giudici. Il procuratore di Bari Giuseppe Volpe, 66 ani, pubblico ministero di esperienza ed equilibrio, commenta: "Noto un certo ritardo culturale della magistratura giudicante, che appare non del tutto consapevole di ciò che accade sul territorio". Per esempio a Vieste, dove i commercianti prima subivano attentati - dai locali bruciati alla benzina gettata nelle piscine, passando per sparatorie e furti - e poi venivano avvicinati dagli emissari del boss, o dal boss stesso, con frasi inequivoche: "È normale che ti succedono queste cose se non paghi"; "Riferisci a tuo fratello che se non vuole più danni deve mettere noi come guardiani... se non paga entro quattro giorni faccio saltare tutto". Assistiti dalla Federazione antiracket guidata da Tano Grasso, un folto numero di taglieggiati s’è convinto a denunciare gli estorsori e costituirsi parte civile nel processo al clan Notarangelo; ogni mattina partivano in pullman da Vieste per arrivare a Foggia, 100 chilometri più a sud, e assistere Piernicola Silvis, 62 anni (foto), è questore di Foggia e affermato scrittore di thriller. Nell’ultimo suo libro "Formicae" ha dedicato alcune pagine alla descrizione dei clan nella zona del Gargano. alle udienze. Col risultato che i giudici hanno avvertito un tentativo di condizionare il processo; andato a vuoto, hanno precisato nella sentenza. Il clima di omertà - Un colpo duro per gli inquirenti e l’Antiracket, che non volevano condizionare nessuno bensì smascherare una mafia familistica e senza pentiti come la ‘ndrangheta, feroce e senza cupola come la camorra. Pericolosa anche perché negata sul piano locale e ignorata a livello nazionale. "L’ostacolo per noi insormontabile è il clima di omertà diffuso in quella provincia - spiega il procuratore Volpe; a Vieste hanno alzato la testa ma la sentenza ha generato sconforto. Noi però andiamo avanti, malgrado le difficoltà, anche materiali, in cui lavorano i magistrati che si dedicano a tempo pieno alla criminalità foggiana". Uno di loro è Giuseppe Gatti, pubblico ministero del processo al clan Notarangelo. Pure lui ha pubblicato un libro (La Legalità del Noi, scritto insieme al giornalista del Tg3 Gianni Bianco) in cui sottolinea l’importanza del gioco di squadra tra forze dell’ordine, magistrati e società civile, com’era accaduto a Vieste. Ma soprattutto ha scritto un lungo e articolato atto d’appello per provare a ribaltare il verdetto che ha negato la mafiosità del metodo utilizzato dai taglieggiatori del Gargano. I quali ora si ammazzano tra loro, proprio come nelle guerre di mafia. Senza che quasi nessuno se accorda, fuori dalle contrade di Vieste. La marijuana dall’Albania - Ma l’emergenza è reale, perché l’ultima indagine antidroga ha svelato che le spiagge locali vengono utilizzate per il traffico di marijuana con l’Albania (due anni fa ne fu sequestrata una tonnellata), dietro il quale si registrano alleanze tra la Società foggiana e i clan del Gargano. Che hanno inviato un loro killer, probabilmente su richiesta della stessa Società, per ammazzare un ventenne in un bar di Foggia, in pieno giorno, con un fucile a canne mozze, a fine ottobre. Tutto coperto dal clima diffuso di reticenza che il questore Silvis ha denunciato alla commissione parlamentare antimafia prima che nell’ultimo romanzo: "Se un libro di finzione può servire a sensibilizzare i lettori di questa città, ben venga. Del resto io non scrivo per far ridere, ma perché la gente pensi". In estate il poliziotto andrà in pensione, ma continuerà a scrivere. Così come gli imprenditori di Vieste continuano la loro battaglia, nonostante si siano sentiti traditi dalla giustizia che ha rimesso i boss in circolazione. Spalleggiati da un sindaco che ha intenzione di negare le concessioni pubbliche a chi non denuncia le richieste di "pizzo". Per non alzare bandiera bianca. Evasione per chi lascia i domiciliari per una visita medica di controllo di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 20 febbraio 2017 Corte d’Appello di Roma - Sezione 3 - Sentenza del 7 novembre 2016 n. 9221. Scatta il reato di evasione per chi si allontani dalla abitazione in cui si trova costretto agli arresti domiciliari per andare in ospedale per una "banalissima visita specialistica di controllo". Lo stabilito la Corte d’Appello di Roma, con la sentenza del 7 novembre 2016 n. 9221, respingendo il ricorso di una donna con numerosi precedenti penali, anche specifici, che aveva impugnato la decisione invocando lo stato di necessità a causa di un malore. In primo grado, il Tribunale di Latina, considerata la recidiva infra-quinquennale, aveva condannato (ex articolo 385 del Cp) la donna a 10 mesi di reclusione. L’imputata però si era difesa chiedendo l’assoluzione per l’insussistenza del prescritto elemento psicologico nella commissione del reato, in quanto, come riferito ai carabinieri, si era allontanata dalla sua abitazione di Aprilia, per recarsi all’ospedale Sant’ Eugenio di Roma, a causa di un malore. E l’accesso era documentato dalla certificazione medica rilasciata dalla struttura, per cui la situazione era "idonea ad integrare l’esimente dello stato di necessità, quanto meno nella forma putativa". Nel dichiarare l’appello infondato, la Corte territoriale ribadisce che la condizione patologica dell’imputata era "del tutto priva dei requisiti dell’assoluta urgenza e necessità". E che, in ogni caso, l’accesso all’ospedale "essendosi protratto solamente fino alle ore 10,00 del mattino (presso una struttura sita proprio all’inizio della via Pontina, arteria di collegamento diretto con la città di Aprilia), non giustificava comunque l’assenza da casa in occasione del controllo dei militari alle 12,00". Del resto l’Autorità di Polizia giudiziaria era stata informa dell’allontanamento "solo dopo l’infruttuoso accesso presso l’abitazione, al cui interno era presente solamente la suocera dell’imputata". Il Collegio ricorda, poi, che, secondo l’insegnamento della Cassazione (n. 11679/2012), "il delitto di evasione si consuma nel momento stesso in cui il soggetto attivo si allontana volontariamente e consapevolmente dal luogo della detenzione o degli arresti domiciliari senza autorizzazione, non assumendo alcun rilievo, a tal fine, né la sua durata, la distanza dello spostamento ovvero i motivi che hanno indotto il soggetto ad allontanarsi". Per cui trattandosi di delitto punito a titolo di dolo generico, "la coscienza e volontà di porre in essere una condotta integrante gli estremi di una evasione discende dalla mera consapevolezza di trovarsi legalmente in stato di detenzione e dalla coscienza e volontà di lasciare il luogo di detenzione domiciliare in assenza di qualunque autorizzazione o reale causa di forza maggiore". Mentre l’esimente dello stato di necessità, anche nella forma putativa, "richiede comunque che la proiezione psicologica soggettiva dell’agente circa la sussistenza dei presupposti richiesti dalla legge (la "necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona non altrimenti evitabile"), non si risolva in un mero stato d’animo dell’agente, bensì emerga da dati di fatto concreti tali da giustificare l’erronea persuasione di trovarsi in una situazione di necessità". Infine, il semplice fatto di essere rientrata a casa non giustifica la richiesta della diminuente prevista per chi si costituisca spontaneamente, ma rivela "esclusivamente il (vano) tentativo di giustificare, una volta appreso del controllo effettuato dai Carabinieri, l’allontanamento con il pretesto di un malore (al fine di evitare la denuncia per evasione), preannunciando, in coerenza con tale linea difensiva, il suo imminente rientro presso l’abitazione". Querela di falso contro le aggiunte al foglio firmato di Selene Pascasi Il Sole 24 Ore, 20 febbraio 2017 Corte d’appello di Roma, sentenza 6038 del 12 ottobre 2016. Occorre presentare la querela di falso per denunciare l’abusivo riempimento di un foglio firmato in bianco. Si tratta di un passaggio obbligatorio per chi vuole disconoscere il contenuto del documento compilato, senza previo accordo, dopo l’apposizione della firma. Lo precisa la Corte d’appello di Roma, con la sentenza 6038 del 12 ottobre 2016. La questione - La causa coinvolge la titolare di un’azienda, contro la quale viene emesso, su ricorso di una Srl, un decreto ingiuntivo per una somma di quasi 100mila euro, per il mancato pagamento di forniture di elettrodomestici e materiale da arredo. L’imprenditrice si oppone e chiede la revoca del decreto, affermando che non aveva ricevuto la merce indicata nelle fatture e nei documenti di trasporto allegati: in particolare, un documento di trasporto recava la sottoscrizione del marito, "sostanzialmente diversa da quelle dal medesimo apposte in calce alle altre bolle"; quanto a un’altra fattura, sottoscritta dall’imprenditrice stessa, era stato consegnato solo uno dei materiali descritti. Il primo grado - Ma il Tribunale di Frosinone boccia l’opposizione, condannando la titolare dell’azienda anche per lite temeraria. Secondo il tribunale, infatti, per denunciare il riempimento abusivo, avvenuto senza accordo, di un foglio firmato parzialmente in bianco, non sono applicabili le norme dettate in tema di disconoscimento e verifica di scrittura privata. Piuttosto, sarebbe stato necessario presentare una querela di falso. Ma l’imprenditrice non lo aveva fatto, così lasciando l’accertamento dell’autenticità delle scritture contestate al libero apprezzamento del giudice. E, dato che i tratti grafici della firma del coniuge risultavano molto simili a quelli delle firme da lui apposte nel verbale di causa e sugli effetti cambiari depositati agli atti, si poteva ritenere provato il credito. L’appello - L’imprenditrice impugna la sentenza di primo grado, ma la Corte d’appello di Roma conferma la pronuncia del tribunale. La Corte ribadisce infatti che la denuncia di "abusivo riempimento di un foglio firmato in bianco postula la proposizione del rimedio della querela di falso, tutte le volte in cui il riempimento sia avvenuto" senza che l’autore sia stato autorizzato dal sottoscrittore con un patto preventivo. Non è invece necessario presentare la querela di falso, si legge nella sentenza, nel caso in cui il riempimento sia "difforme da quello consentito dall’accordo intervenuto preventivamente". La differenza di disciplina trova giustificazione nel fatto che, mentre nel primo caso "l’abuso incide sulla provenienza e sulla riferibilità della dichiarazione al sottoscrittore", nel secondo "si traduce in una mera disfunzione interna del procedimento di formazione della dichiarazione medesima, in relazione allo strumento adottato"; in questo secondo caso, quindi, si tratta di una semplice "non corrispondenza tra ciò che risulta dichiarato e ciò che si intendeva dichiarare". Punti già chiariti anche dalla Cassazione (da ultimo, con la pronuncia 5417 del 7 marzo 2014). Di conseguenza, l’imprenditrice, per poter contestare che il documento di trasporto fosse stato compilato arbitrariamente, senza preliminare pattuizione, avrebbe dovuto proporre la querela di falso. Dato che non l’ha presentata, il tribunale può decidere in base ai documenti, disconosciuti dalla donna, ma comunque utilizzabili, e dai quali emergeva la sussistenza del debito. Per questo, la Corte d’appello conferma la condanna emessa a carico della titolare dell’azienda. Confisca beni acquistati prima e durante il reato con il limite della ragionevole distanza di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 20 febbraio 2017 Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 2 gennaio 2017 n. 51 - La confisca prevista dall’articolo 12-sexies del decreto legge 8 giugno 1992 n. 306, convertito dalla legge 7 agosto 1992 n. 356, può essere disposta in relazione a beni acquistati dal condannato prima e durante l’epoca di commissione del reato, con il limite peraltro della "ragionevole distanza" dal reato, giacché la presunzione di illegittima acquisizione da parte dell’imputato deve essere circoscritta in un ambito di ragionevolezza temporale, dovendosi dar conto che i beni non siano ictu oculi estranei al reato perché acquistati in un periodo di tempo eccessivamente antecedente alla sua commissione. Lo ha detto la Cassazione con la sentenza n. 51 del 2 gennaio 2017. Beni acquistati dopo la sentenza di condanna - La confisca prevista dall’articolo 12-sexies del decreto legge 8 giugno 1992 n. 306, convertito dalla legge 7 agosto 1992 n. 356, non può essere disposta in relazione a beni acquistati dal condannato "dopo la sentenza di condanna", giacché, da un lato si vanificherebbe ogni distinzione della disciplina di tale tipo di confisca con quella delle misure di prevenzione e, dall’altro, si attribuirebbero al giudice dell’esecuzione compiti di accertamento tipici del giudizio di cognizione. Con la precisazione, peraltro, che a tal fine deve aversi riguardo non tanto alla data di pronuncia della sentenza, quanto piuttosto alla data di irrevocabilità della sentenza: soltanto l’irrevocabilità della sentenza di condanna, infatti, determina il momento fino al quale opera la presunzione di illecita accumulazione patrimoniale posta alla base dell’istituto. E con l’ulteriore precisazione, comunque, che resta esclusa l’operatività dell’indicato principio, limitativo della confiscabilità dei beni acquistati dopo la condanna, nell’ipotesi in cui il bene sia stato sì acquistato successivamente alla sentenza, ma con denaro che risulti essere stato in possesso del condannato prima della sentenza: è in questo caso richiesto uno specifico accertamento sulla circostanza che le risorse finanziarie impiegate per l’acquisto fossero nella disponibilità del condannato in epoca anteriore. Struttura e presupposti - La confisca prevista dall’articolo 12 sexies del decreto legge 8 giugno 1992 n. 306, convertito in legge 7 agosto 1992 n. 356, ha struttura e presupposti diversi da quella ordinaria, in quanto, mentre per quest’ultima assume rilievo la correlazione tra un determinato bene e un certo reato, nella prima viene in considerazione il diverso nesso che si stabilisce tra un patrimonio ingiustificato e una persona nei cui confronti sia stata pronunciata condanna o applicata la pena patteggiata per uno dei reati indicati nell’articolo citato. Ne consegue che, ai fini del sequestro preventivo di beni confiscabili ai sensi di tale articolo, è necessario accertare, quanto al fumus commissi delicti, l’astratta configurabilità, nel fatto attribuito all’indagato, di uno dei reati in esso indicati e, quanto al periculum in mora, la presenza di seri indizi di esistenza delle medesime condizioni che legittimano la confisca, sia per ciò che riguarda la sproporzione del valore dei beni rispetto al reddito o alle attività economiche del soggetto, sia per ciò che attiene alla mancata giustificazione della lecita provenienza dei beni stessi. In particolare, dalla accertata sproporzione tra guadagni (desumibili dal reddito dichiarato ai fini delle imposte) e patrimonio scatta una presunzione (iuris tantum) di illecita accumulazione patrimoniale, che può essere superata dall’interessato sulla base di specifiche e verificate allegazioni, dalle quali si possa desumere la legittima provenienza del bene sequestrato in quanto acquistato con proventi proporzionati alla propria capacità reddituale lecita e, quindi, anche attingendo al patrimonio legittimamente accumulato. Turbata o compromessa la quiete pubblica se il disturbo coinvolge l’intero condominio di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 20 febbraio 2017 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 16 gennaio 2017 n. 1746. Integra il reato di disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone (articolo 659, comma 1, del Cp)la condotta del responsabile di una società avente a oggetto l’organizzazione di corsi scolastici, la cui sede sia allocata in un condominio, che attraverso i rumori derivanti dallo svolgimento dell’attività scolastica e dal flusso continuativo della relativa utenza (nella specie, con andirivieni quotidiano, mattutino e pomeridiano di persone tra studenti, docenti, personale d’ufficio, personale delle pulizie; continua apertura e chiusura delle porte dell’ascensore e della porta d’ingresso dell’appartamento destinato a scuola), risulti avere disturbato le occupazioni e il riposo delle persone abitanti nel condominio. Lo hanno stabilito i giudici penali della Cassazione con la sentenza n. 1746 del 16 gennaio 2017. La fattispecie incriminatrice di cui all’articolo 659, comma 1, del Cp punisce il disturbo della pubblica quiete da chiunque cagionato, con le modalità espressamente e tassativamente indicate ("mediante schiamazzi o rumori, ovvero abusando di strumenti sonori o di segnalazioni acustiche ovvero suscitando o non impedendo strepiti di animali"). Si tratta, precisa la Cassazione, di reato di pericolo concreto, sicché, al fine della sua integrazione, è necessario verificare l’effettiva idoneità della condotta, secondo una valutazione da compiere in concreto ed ex ante,, ad arrecare disturbo al riposo o alle occupazioni di un numero indeterminato di persone. Con la conseguenza che, nel caso di attività che si svolge in ambito condominiale, è necessaria la produzione di rumori idonei ad arrecare disturbo o a turbare la quiete e le occupazioni non solo degli abitanti dell’appartamento sovrastante o sottostante la fonte di propagazione, ma di una più consistente parte degli occupanti il medesimo edificio, pur se, poi, in concreto, soltanto alcune persone se ne possano lamentare, configurandosi in caso contrario un illecito civile che resta confinato nell’ambito dei rapporti di vicinato. In proposito, sotto il profilo probatorio, ha ulteriormente chiarito la Corte, la dimostrazione della sussistenza di una situazione di pericolo concreto per la quiete pubblica può essere offerta anche alla stregua delle dichiarazioni dei soggetti disturbati, potendo tale valutazione essere compiuta alla stregua di un parametro di comune esperienza, purché idoneo a dimostrare la sussistenza di un fenomeno in grado di arrecare oggettivamente disturbo della pubblica quiete. Si tratta di puntualizzazioni in linea con un orientamento pacifico, secondo cui la condotta produttiva di rumori, in ambito condominiale, per assumere rilevanza penale deve avere l’attitudine a disturbare la quiete e il riposo di un numero indeterminato di persone, non essendo sufficiente il disturbo arrecato ai soli abitanti l’appartamento superiore o inferiore (tra le altre, Sezione I, 17 gennaio 2014, Frasson). Per l’effetto, per poter configurare il reato è necessario che i rumori prodotti, oltre a essere superiori alla normale tollerabilità, abbiano l’attitudine a propagarsi, a diffondersi, in modo da essere idonei a disturbare una pluralità indeterminata di persone, in quanto il bene giuridico protetto è da ravvisare nella quiete pubblica e non nella tranquillità dei singoli soggetti che denuncino la rumorosità altrui. Pertanto, quando l’attività disturbante si verifichi in un edificio condominiale, per ravvisare la responsabilità penale del soggetto cui si addebitino i rumori, non è sufficiente che questi, tenuto conto anche dell’ora notturna o diurna di produzione e della natura delle immissioni, arrechino disturbo o siano idonei a turbare la quiete e le occupazioni dei soli abitanti l’appartamento inferiore o superiore rispetto alla fonte di propagazione, i quali, se lesi, potranno semmai far valere le loro ragioni in sede civile, azionando i diritti derivanti dai rapporti di vicinato, ma deve ricorrere una situazione fattuale diversa di oggettiva e concreta idoneità dei rumori ad arrecare disturbo alla totalità o a un gran numero di occupanti del medesimo edificio, oppure a quelli degli stabili prossimi: insomma, a una quantità considerevole di soggetti. Soltanto in tali casi potrà dirsi turbata o compromessa la quiete pubblica. Puglia: situazione delle carceri, ispezione dei radicali a Lecce e Taranto puglianews24.eu, 20 febbraio 2017 "Tutte le dieci carceri esistenti nella Regione Puglia sono gravemente sovraffollate. Potrebbero ospitare, al massimo, 2.298 detenuti ed invece, attualmente, ne contengono 3.192, 486 dei quali di nazionalità straniera. Conti alla mano, ci sono 894 persone in più per cui l’indice di affollamento del 138,9%. Ai primi posti c’è la Casa di Reclusione di Altamura (156,62%), poi le Case Circondariali di Lecce (150,41%) e Brindisi (150%)". Lo sostiene Emilio Enzo Quintieri, già membro del Comitato Nazionale di Radicali Italiani che, nei prossimi giorni, insieme agli esponenti radicali Valentina Anna Moretti e Annarita Digiorgio, si recherà negli Istituti Penitenziari di Lecce e Taranto per una visita ispettiva autorizzata dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia. Nelle carceri pugliesi oltre al sovraffollamento quello che desta preoccupazione è la diffusa carenza del personale del Corpo di Polizia Penitenziaria che, purtroppo, incide negativamente non solo sulla sicurezza ma anche sul trattamento dei detenuti. Dovrebbero esserci 2.448 Poliziotti Penitenziari, divisi per ruoli, come prevede la pianta organica mentre ne sono in servizio soltanto 2.159. Casa Circondariale di Taranto - Mancano 289 unità, molte delle quali appartenenti al ruolo dei Commissari (30/26), Ispettori (242/131), Sovrintendenti (249/103) e Agenti/Assistenti (1.927/1899). Gli stabilimenti penitenziari con meno personale sono quelli di Brindisi (161/127), Taranto (340/285) e Foggia (322/281). Un pochino meglio, ma non troppo, tutti gli altri sette. Mercoledì pomeriggio, la Delegazione di Radicali Italiani, ispezionerà la Casa Circondariale di Lecce e la mattina seguente quella di Taranto. Nel primo Istituto diretto dalla Dott.ssa Rita Russo, avente una capienza di 617 posti, sono presenti 928 detenuti, 169 dei quali stranieri (311 sono in esubero). 365 sono gli imputati e 563 i condannati. L’indice di affollamento è del 150,41%. Mancano 72 unità di Polizia Penitenziaria (15 Ispettori, 49 Sovrintendenti e 8 Agenti/Assistenti). Al completo solo i Commissari (4/4). Nel Penitenziario di Taranto, diretto dalla Dott.ssa Stefania Baldassari, la cui capienza è di 306 posti, sono ristrette 438 persone, 47 delle quali straniere. 203 sono gli imputati e 235 i condannati. Qui i detenuti in esubero sono 132 e l’indice di affollamento è del 143,14%. Anche qui sono numerose le unità di Polizia Penitenziaria mancanti (55). La pianta organica prevede 340 Poliziotti Penitenziari ma ne sono in servizio appena 285. Escluso il ruolo dei Commissari (4/4), gli altri sono tutti sottorganico: Ispettori (35/14), Sovrintendenti (29/13) e Agenti/Assistenti (272/254). Insufficienti in entrambi gli Istituti Penitenziari anche i Funzionari della professionalità giuridico pedagogica (a Lecce c’è ne sono 8 su 10 ed a Taranto 4 su 8) nonché il personale amministrativo (a Lecce 39 in servizio su 50 ed a Taranto 14 su 25). "Probabilmente, nel carcere di Lecce, la percentuale di sovraffollamento è ancora più alta - conclude il radicale calabrese Emilio Enzo Quintieri - poiché alcune Sezioni, proprio di recente, sono state chiuse per lavori di ristrutturazione, comportando la riduzione dei posti disponibili. Ne sapremo di più soltanto dopo aver fatto la visita". Cuneo: sopralluogo al nuovo padiglione di Alta Sicurezza del carcere di Saluzzo di Vilma Brignone e Cristina Mazzariello targatocn.it, 20 febbraio 2017 In visita il garante regionale dei detenuti Bruno Mellano e la garante comunale Bruna Chiotti. Sono 71 i nuovi detenuti attualmente ospitati. Sopralluogo al carcere Morandi di Saluzzo. Il garante regionale dei detenuti Bruno Mellano e la garante comunale Bruna Chiotti hanno visitato le due sezioni del nuovo padiglione dell’Alta Sicurezza inaugurato il 10 dicembre scorso. Attualmente sono 71 i nuovi detenuti ospitati: quasi tutti giovani e provenienti in prevalenza dalla Campania. "È stata una presa d’atto delle problematiche della nuova sezione - ha dichiarato Bruna Chiotti -. In questo sopralluogo abbiamo riscontrato disponibilità e collaborazione da parte del personale carcerario. Sono emerse alcune problematiche che avevamo già rilevato per la popolazione stanziale: lontananza, isolamento, difficoltà per i parenti in visita di raggiungere Saluzzo, difficoltà di telefonate, problematiche di salute. Non sono emerse invece lamentele dal punto di vista logistico della struttura che è nuova con celle a tre letti, come previsto dai nuovi criteri di residenza detentiva". La nuova popolazione ospitata nei padiglioni di Alta Sicurezza è principalmente giovane e nelle carceri di provenienza studiava o lavorava: esigenza che hanno fatto emergere anche nella nuova struttura. Prima dell’inaugurazione del nuovo padiglione, l’istituto Morandi ospitava 260 detenuti, in sette sezioni: due di alta sicurezza e cinque di media sicurezza. La prima composta al 90 per cento da italiani, la seconda al 50 per cento da stranieri di Albania, Marocco, Romania, Tunisia. Il nuovo padiglione di Alta Sicurezza arriverà ad ospitare complessivamente 196 detenuti: 48 per ogni reparto. Al momento sono aperte due delle quattro sezioni previste. In questo modo il carcere Morandi si prepara a diventare il secondo più grande del Piemonte dopo Torino. Lamezia: il Comune chiede la riapertura del carcere per detenute con figli al seguito lameziainforma.it, 20 febbraio 2017 Quarto punto all’ordine del giorno in Consiglio comunale è la questione della sede del Provveditorato Regionale della Polizia Penitenziaria, la cui collocazione attuale è a Catanzaro e su cui un eventuale spostamento dovrà decidere solo il Ministero della Giustizia. Nonostante ciò, e con un medesimo consiglio comunale tenuto solo qualche mese prima (l’8 luglio 2016), il dibattito politico è tornato ad infiammarsi, come già avvenuto dopo la chiusura del carcere lametino, tra i due fronti dell’istmo di Catanzaro: il consigliere comunale, ma anche provinciale, Chirumobolo (Ncd) chiede così di indicare l’ex carcere cittadino ed i locali di proprietà della Provincia su Piazza Mazzini come sede dell’ufficio regionale, poiché "la norma ministeriale non vieta che la sede sia fuori dal capoluogo di Regione, specie in Calabria dove giunta e consiglio regionale possono stare in due città diverse, anche come segno di avvio reale dell’area vasta tra Catanzaro e Lamezia Terme". Come in un caleidoscopio, però, la questione viene vista in modo differente a seconda del punto di vista. Se il gruppo consiliare del Pd di Catanzaro ha alzato gli scudi in difesa dell’attuale collocazione, nello stesso partito il gruppo lametino parimenti perora la causa del fronte lametino, anche contro le indicazioni offerte dal presidente della Provincia, Bruno, anche lui esponente del Pd, così come il Ministro Orlando. Nicola Mastroianni (Pd) lancia così l’idea che "nel documento unico ed unitario si affidi al sindaco il compito di assumere una posizione chiara con il Ministero, ente che deve darci le indicazioni e le spiegazioni della sede, compito che non spetta alla Provincia in una guerra tra poveri". Nicotera (Cdu) elogia "la coesione sui grandi temi che maggioranza ed opposizione trova in consiglio comunale, ma non avviene tra i rappresentanti lametini a livello nazionale e regionale", evidenziando come "già sul sito del Ministero, nella scheda della trasparenza 2017 dell’istituto di Siano, si dà una visione distorta parlando di svincolo autostradale ed aeroporto di Catanzaro e non di Lamezia", annunciando poi in conclusione l’intenzione di presentare esposto alla Corte dei Conti dati i lavori effettuati nell’ex carcere dallo stesso Ministero che poi l’ha chiuso. De Biase (Acm) sostiene che "Catanzaro ci è ostile" verso "una battaglia comune e dovere morale", Muraca (Lamezia Unita) lamenta il problema delle scarse relazioni istituzionali in città "aspetto che non può essere demandato solo al consiglio comunale o al sindaco", la Villella (Città Reattiva) ricorda il proprio incontro da consigliere provinciale con il Provveditore "facendo presente come il Ministero aveva già assunto un impegno preciso sul tema, ma che dopo un primo sopralluogo l’ex carcere era stato ritenuto inidoneo. Le polemiche non credo quindi siano fondate visto che nonostante tutto non si ottengono risultati", Gianturco (Sovranità) reputa che "la lotta a Roma debba essere fatta per il carcere per non perdere anche il tribunale". Cristiano (Mtl) si associa al coro dei delusi delle promesse non mantenute dal Ministro Orlando, volendo capire "cosa sia successo per non adeguare con lavori i locali dell’ex carcere per ospitare i 200 dipendenti attualmente a Catanzaro". Ripercorre tutto l’iter nato nella passata amministrazione comunale l’attuale primo cittadino, sottolineando l’impegno assunto dal capo di gabinetto prima del 23 luglio 2015, quando Mascaro sollevava nuovamente il problema tra carcere chiuso e provveditorato rimasto a Catanzaro. "A gennaio tramite posta certificata ho nuovamente sollecitato la questione ai vari interlocutori istituzionali, indicando adeguate strutture a Lamezia sia di proprietà della Provincia che dell’Asp, oltre che quelle comunali", rimarca Mascaro, "ed avevo allo stesso tempo denunciato l’assenza di una casa circondariale in un territorio come il nostro, specie quando a livello nazionale è vivo il problema del sovraffollamento carcerario. Non si può lasciare chiusa una struttura abilitata ad ospitare 80 detenuti come quello di Lamezia, quando in Italia al 31 gennaio 2017 c’è una capienza regolamentare di 54.174 detenuti mentre se ne registrano più di 5.000 in più, un trend in crescita negli anni". Come a luglio, quindi, anche a 7 mesi di distanza si torna a chiedere la riapertura del carcere (anche come sezione femminile destinata a detenute con figli al seguito, proposta che già era stata avanzata in precedenza anche dalla Caruso di Forza Italia) prima che il trasferimento del Provveditorato. Nel documento approvato all’unanimità si porta avanti anche questo aspetto, con la richiesta di essere ricevuti tramite delegazione comunale al Ministero. Milano: l’arte del pane insegnata ai detenuti "Stringo mani e capisco tutto di loro" di Paolo Di Stefano Corriere della Sera, 20 febbraio 2017 Giorgio Fumagalli, volontario a 67 anni nel forno dell’Istituto Beccaria a Milano: "Li abituo alla fatica, per loro sogno un futuro sano". Ci sono storie apparentemente ordinarie in cui si può scorgere, nel bene e nel male, il carattere di un’esemplarità pur senza luci della ribalta. Anzi, forse proprio per questo. Piccole storie senza eroismi, storie di tenacia quotidiana che aprono spiragli e invitano al coraggio. "Storie parallele" che si collocano in una penombra di sorprendente vitalità. Apprendisti panettieri - Ecco il senso di questo laboratorio interno di panificazione, battezzato "Pezzi di pane": lavorare insieme per costruire, insieme, un’idea di futuro. Fuori. Il maestro Fumagalli è qui per questo dal 2013, con la sua faccia un po’ così, la barba bianca, la calvizie, i suoi silenzi, il suo sorriso timido. Qui si producono ogni giorno pagnotte, panini, pizzette, focacce, biscotti, panettoni non solo a Natale, colombe non solo a Pasqua. Funziona così: i ragazzi, se vogliono, si propongono come apprendisti panettieri; dopo un colloquio vengono selezionati a due a due. Con un principio saldo: il lavoro è lavoro. La bottega artigiana interna sforna una quarantina di "pezzi di pane" al giorno da distribuire all’interno, a pagamento: insegnanti, responsabili, istruttori, agenti, la direttrice. Sono loro a raccogliere gli ordini, poi impastano, infornano, danno una mano al maestro Giorgio, consegnano, gestiscono la cassa. "Pezzi di pane" - "In due o tre anni sono stati coinvolti circa quindici giovani", dice Lorenzo Belverato, anche lui anziano maestro dell’arte bianca, amministratore della piccola impresa sociale, che comprende anche la panetteria "Buoni Dentro" di piazza Bettini: anche lì vengono coinvolti i giovani, quelli in libertà vigilata che la sera tornano al Beccaria o a San Vittore, come il marocchino Youssef e l’albanese Samir, o come il senegalese Ibrahim che ha scontato la pena e che ha ancora bisogno di un sostegno. E gli italiani, tanti. Una rete della solidarietà fondata sulla concretezza del lavoro. Lavorare insieme e stare vicini - Fumagalli ci mette qualcosa di più: "Lavorare insieme ma anche stare vicini". Lui ha un dono che non avrebbe mai sospettato di avere: riesce a raccogliere le confidenze dei detenuti (i cosiddetti giovani adulti arrivano ai 25 anni), ma senza cadere nel paternalismo: "Ci vuole fermezza, prendono un piccolo salario e se non si adeguano alle regole o non si impegnano, sanno che ci sono tanti altri ragazzi pronti a venire... Quel che conta è il rispetto per se stessi e per gli altri...". Parla di una funzione trasversale: una specie di mediazione tra i ragazzi e gli educatori. "Non è volontariato, è qualcosa di più. Io non chiedo che cosa hanno fatto, se vogliono sono loro a parlare, a raccontare, ma appena li conosco, capisco subito: la prima stretta di mano è un indicatore assoluto, e raramente sbaglio". La passione del pane - Un ventenne siciliano, Renato, ha fatto l’esperienza di aiuto panettiere con il maestro Fumagalli. Prima di "prendere male la curva" (come dice), faceva il gommista nel Comasco. Quando l’ho incontrato, il suo sogno era tornare finalmente a Varese dalla sua ragazza ("stiamo insieme da due anni e mi manca tantissimo"), ma intanto si è lasciato appassionare dal pane ogni mattina dalle 9 a mezzogiorno: "Sto imparando il trucco dell’impasto, ma mi piace chiacchierare con Giorgio, molto meglio che passare il tempo in cella a giocare alla play, a calcetto o a carte. Con Giorgio, al forno, si impara a stare insieme, lavorando". Teglie che escono ed entrano, pale di legno che adagiano pagnotte sul tavolone al centro della stanza, l’impastatrice, la spezzatrice, la sfogliatrice per la frolla e i biscotti, la raffinatrice per le mandorle e la frutta secca... "Certo, sarebbe ora di cambiare il forno", sospira Giorgio. Forse verrà accontentato. L’impasto - Giorgio Fumagalli comincia la sua giornata di pensionato prestissimo, attraversa Milano in auto e sale al primo piano del Beccaria verso le 8, apre il laboratorio, prepara l’impasto, aspetta i ragazzi e spiega come fare: "Bisogna sapere che il pane ha bisogno di tempo per prendere forza ed essere lavorato al meglio. Io dico sempre: imparate a muovere le mani". È convinto che "il circolo virtuoso parte dalle farine". Racconta che ha passato buona parte della sua vita a lavorare nella panetteria di papà Ambrogio, "Ambroeus el Prestiné", quartiere Paolo Sarpi, zona "cinese" fin dagli anni Quaranta. Il negozio nasce nel 1956: "Un bel punto vendita, mamma era addetta al banco e alla cassa, papà panificava: a vent’anni, dopo il servizio militare, mi sono messo a lavorare con lui. Ho cominciato a sperimentare nuovi modi di impasto per il pane e per i dolci, vendevo quasi solo prodotti miei. Avevo tanti clienti, anche stranieri, già usavo i cereali, la segale, la soia, il farro... Ero diventato una specie di pioniere del pane, ma la gente entrava anche soltanto per chiacchierare". La giovane fidanzata Roberta, che era commessa in una profumeria, cominciò a lavorare con i "prestiné" Fumagalli nel ‘74 e avrebbe sposato Giorgio due anni dopo. Intanto i panettoni di Ambroeus e di suo figlio facevano il giro del mondo. Poi nel dicembre ‘99, quando papà Ambrogio non c’era più, Giorgio fu costretto a lasciare, perché la proprietà richiese il locale, e dovette accettare di lavorare in altri laboratori per raggiungere l’età della pensione. Verso un’altra vita - Quando riceve la telefonata con la proposta di dare una mano ai ragazzi del Beccaria, per Giorgio è una fortuna: "È un modo non per insegnare il mestiere ai giovani e neanche per risolvere i loro problemi, ma per avviarli a una vita onesta quando saranno fuori. Io non voglio dare né togliere niente, chiedo solo che si comportino con correttezza. E loro forse sentono che ho un orecchio diverso rispetto agli psicologi e agli assistenti sociali: con me parlano, sono più liberi, mi prendono per uno zio o per un nonno, si sentono meno abbandonati". La soddisfazione migliore? "Quando mi dicono che dopo una mattinata al forno tornano in cella stanchi, e che la fatica li fa sentire bene, più tranquilli". Ma non tutto funziona sempre: "Alle volte - dice - non hai quel che ti aspetti, specie quando tornano fuori e ci ricadono. Sono ragazzi e si comportano da ragazzi, si sentono compressi e tutto, qui dentro, viene amplificato". E ricorda, con un sorriso, quando il giovane Youssef, per la prima volta, mise il naso fuori dal carcere: "Quasi barcollava, non riusciva a camminare, era senza il confine dei muri e delle sbarre, e aveva perso il senso degli spazi. Adesso lavora in negozio, un’altra vita". Sassari: detenuto 15enne tenta evasione dal Centro di prima accoglienza La Nuova Sardegna, 20 febbraio 2017 Ha sfondato la porta della camera e aggredito gli agenti. Controlli in carcere a Bancali, trovata droga. Un detenuto extracomunitario di 15 anni ha tentato di evadere ieri dal Centro di prima accoglienza di Sassari dove è arrivato dopo l’arresto per reati di droga. Il ragazzo avrebbe sfondato con una spallata la porta della camera e poi si sarebbe scagliato contro i due agenti della polizia penitenziaria distaccati per la vigilanza colpendoli con calci e pugni. Gli agenti hanno riportato contusioni e traumi e poco più tardi sono stati accompagnati in ospedale per accertamenti. Sull’episodio sono intervenute ieri le segreterie regionali della Fns-Cisl, Osapp e e l’Uspp per sottolineare la gravità della situazione e per ricordare che gli agenti distaccati per il servizio al Cpa - che nel 2016 sarebbe stato aperto solo quattro volte, in pratica viene utilizzato all’occorrenza - sono stati sottratti dall’organico della casa circondariale di Bancali che già ha una carenza di personale del 40 per cento rispetto alla pianta organica prevista del Ministero. Proprio nel carcere di Bancali, il Reparto cinofili regionale della polizia penitenziaria di stanza a Badu e Carros a Nuoro, durante un servizio di controllo ha recuperato diverse dosi di marijuana. Nell’operazione di controllo sono stati impiegati Jedro (un rottweiler), Jeson e Badiane (due pastori belga Melinois) e il loro fiuto è stato provvidenziale per individuare la droga che un 25enne sassarese che si apprestava a fare il colloquio con un familiare detenuto aveva appena depositato in uno dei cassetti. I controlli sono poi stati estesi anche all’auto del giovane e sono state trovate alcune dosi di "Subotex". I sindacati hanno colto l’occasione per sottolineare le condizioni di precarietà in cui si trova ad operare il personale: "Nonostante ciò, l’impegno della polizia penitenziaria è continuo e i sacrifici vengono ripagati con risultati che sono preziosi per tutta la comunità". Verona: lo scrittore Marco Buticchi torna per la terza volta ad incontrare i detenuti di Erica Benedetti (MicroCosmo) Ristretti Orizzonti, 20 febbraio 2017 Giovedì 23 febbraio 2017 lo scrittore Marco Buticchi torna per la terza volta ad incontrare i detenuti del laboratorio MicroCosmo ed i lettori detenuti all’interno della Casa circondariale di Verona. Sarà accompagnato da rappresentanti del Consorzio Pro Loco Valpolicella e del territorio. Nel 2012 per il "Concorso di letteratura avventurosa Emilio Salgari" Marco Buticchi ha vinto il premio della Giuria MicroCosmo, lettori dal carcere di Verona, con il romanzo "La voce del destino". Ad ogni edizione del Premio i detenuti leggono la terna dei libri finalisti, forniscono le motivazioni della loro scelta, realizzano materialmente il premio da consegnare al vincitore e incontrano gli scrittori. Nel 2012 Marco ha ricevuto un bellissimo veliero, completamente realizzato in carcere: non poteva avere approdo migliore che un uomo di mare come lui. Giovedì Marco Buticchi presenterà nel carcere di Verona il suo ultimo libro "Casa di mare". Intorno alla biografia del padre Albino Buticchi appare sullo sfondo il riverbero di una Italia che muove i suoi passi nel Novecento. Le esistenze individuali attraversano, intrecciano e intessono la cultura e gli eventi collettivi. Marco Buticchi questa volta va oltre la narrativa e apre una grande finestra sulla famiglia, luogo relazionale privilegiato attraverso cui guardare il mondo, le sue dinamiche e le sue contraddizioni. Questa narrazione, espressione del profondo amore di un figlio verso il padre, è un racconto appassionante, ricco di spunti di riflessione. Anche per chi dentro un carcere può lasciarsi accompagnare, attraverso le vicende di Albino, nei territori che dalla legalità vanno oltre i suoi stessi confini; potrà confrontarsi con il demone dell’azzardo e con la tensione verso il raggiungimento di obiettivi progressivamente emergenti che possono condurre molto lontano, tanto da rischiare di esserne travolti e di perdersi. Albino conquista per la sua autenticità, una persona che si lascia amare per le sue qualità umane. Grazie a letture e incontri di questo tipo è possibile rileggere anche le proprie esperienze, le scelte o i condizionamenti, paure od esaltazioni, aspetti della propria vita. Aiutano a trovare la forza per ricostruirsi. Nei dialoghi e nello scambio tra scrittori e detenuti si riconosce la dignità di esseri umani che si confrontano, che conoscono le vie impervie del destino e della fragilità umana. Ma che sanno anche decidere di ricominciare a partire da sè. Ci sono dunque tutte le premesse perché questo incontro metta un seme positivo e lasci un’impronta fra i partecipanti, siano essi detenuti o liberi, foriero di ulteriori riflessioni che potranno dispiegarsi anche nel gruppo di detenuti partecipanti al laboratorio in Microcosmo. Santa Maria Capua Vetere (Ce): l’associazione Casmu organizza un concerto nel carcere campanianotizie.com, 20 febbraio 2017 Tra tradizione canora napoletana e musica popolare campana": è il titolo dello spettacolo che si terrà nel carcere di Santa Maria Capua Vetere lunedì prossimo, 20 febbraio 2017, a partire dalle ore 10:00. Ancora una volta a promuovere l’evento sono l’Associazione Casmu di Carinaro, presieduta da Mario Guida, la Rassegna Nazionale di Teatro Scuola PulciNellaMente, di cui è direttore Elpidio Iorio, con la collaborazione dell’Associazione Artistica "Borgo e Musica" di Aversa, e in sinergia con i vertici della Casa Circondariale di Santa Maria Capua Vetere, diretta da Carlotta Giaquinto, con il comandante commissario Gaetano Manganelli e la responsabile del progetto di socializzazione per i detenuti Antonella De Simone Prosegue dunque l’impegno dei due sodalizi casertani all’interno delle strutture carcerarie per donare attraverso l’arte, un’occasione di solidarietà, speranza e spensieratezza a chi la vita ha riservato un destino non proprio clemente. Proprio nel penitenziario sammaritano, in passato hanno già organizzato diverse iniziative, tra cui l’interessante proiezioni del docu-film "Nisida. Storie maledette di ragazzi a rischio" cui seguì un incontro - dibattito con il regista e gli attori del film. Questa volta invece sono di scena la musica popolare campana e le canzoni tipiche della tradizione napoletana. La città partenopea parla tanti linguaggi, si esprime attraverso i suoi modi di dire, la sua lingua, la canzone, la poesia, e si racconta nelle sue storie e nelle sue molteplici tradizioni. Alla città di Napoli e in particolare al linguaggio musicale della posteggia è dedicato l’incontro di lunedì. Il termine posteggia indica un complesso musicale ambulante, o anche il luogo dove si ferma a suonare un complesso musicale, il Puosto. Nella tradizione napoletana i posteggiatori sono quattro o cinque, dei quali uno canta e gli altri suonano prevalentemente con chitarra e mandolino. Lunedì mattina nell’istituto di S. Maria C.V., questa tradizione sarà interpretata da cinque grandi maestri, più volte ospiti di note trasmissioni televisive quali "Uno Mattina" e "La Vita in diretta": Carmine Pignolosa e Antonia Pignolosa (voce), Roberto Castagna (chitarra), Ivano Grimaldi (mandolino) e Nicola Mellino (fisarmonica). A seguire, l’esibizione di un altro grande artista, Gianni Di Meo, accompagnato alla tastiera dal musicista Salvatore Conte, che interpreterà canzoni intramontabili della musica classica napoletana. La direzione tecnica dell’evento è affidata al Maestro Sio Giordano, mentre Marina Puocci si occuperà di animazione. Trani: "L’opera di Pulcinella" rappresentata nel carcere femminile borderline24.com, 20 febbraio 2017 Lo spettacolo avrà luogo il 21 febbraio alle 16 nel carcere femminile di Trani. "L’opera di Pulcinella" di Paolo Comentale e Anna Chiara Castellano Visaggi sarà messa in scena in un teatro del tutto particolare: il penitenziario femminile di Trani. Promosso dall’associazione "Presidi del libro", in collaborazione col Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria di Puglia e Basilicata, lo spettacolo avrà luogo il 21 febbraio alle 16. Le avventure della maschera napoletana saranno accompagnate dalla musica dal vivo di Andrea Gargiulo e rientrano nel progetto "Parole senza barriere", che promuove la diffusione di teatro e cultura nei carceri pugliesi. "Presentare uno spettacolo tradizionale di burattini in un istituto di pena - spiegano gli organizzatori - è un’ autentica novità che raccoglie una tradizione antichissima del teatro musicale di figura riproponendolo in contesti di cura e disagio sociale". "In questo modo - aggiungono - la benemerita azione di promozione e diffusione dei libri e della lettura portata avanti dall’associazione Presidi del Libro, grazie al sostegno Regione Puglia, vive un altro capitolo originale della sua attività". Dalla sinossi: "Bianco e nero, drammatico e tragicomico, vecchio e allo stesso tempo dal cuore giovane, spontaneo e generoso, credulone e imbroglione, ingenuo e arguto, è Pulcinella, imperturbabile eroe senza tempo! È lui il protagonista del nostro spettacolo, il beniamino Pulcinella che riesce a coinvolgere grandi e piccini in un rapporto diretto e creativo con il pubblico. Il protagonista Pulcinella ritrova l’antica voce dell’Arte grazie all’uso sapiente della pivetta, un sottile fischietto di metallo che dona alla voce un timbro inconfondibile. Tra capitomboli, frizzi, lazzi e sonorissime bastonate si rinnova l’incanto del teatro dei burattini che vive dell’appassionato abbraccio con il pubblico la sua forza più originale. Alla fine i protagonisti balzeranno tutti insieme sulla ribalta per la classica sorpresa finale". "Il corpo del reato". Daniele Vicari dirige la serie tv su Stefano Cucchi di Cristiano Ogrisi movieplayer.it, 20 febbraio 2017 La triste e torbida vicenda della morte del geometra romano verrà portata sugli schermi da Daniele Vicari, già autore di "Diaz", per la Fandango. Daniele Vicari, regista di "Diaz" e "Il nuovo Sole, cuore, amore", sta per tornare dietro la macchina da presa con una nuova pagina inquietante dell’Italia moderna che negli ultimi anni ha fatto molto discutere. La Fandango ha comprato i diritti del libro Il corpo del reato di Carlo Bonini, sulla dura storia di Stefano Cucchi, e ne farà una serie tv. Stefano Cucchi fu arrestato a Roma il 15 ottobre del 2009 dopo essere stato trovato in possesso di 21 grammi di hashish. Morì una settimana dopo durante la custodia cautelare nel reparto detenuti dell’ospedale Pertini in circostanze non chiare, che hanno trasformato la vicenda in una dei casi giudiziari più controversi degli ultimi anni: l’autopsia rivelò la presenza di lesioni e traumi che Cucchi non riportava al momento dell’arresto. Il 17 gennaio, dopo la riapertura di un fascicolo di indagine, è arrivato il rinvio a giudizio per omicidio preterintenzionale e abuso di autorità nei confronti di cinque militari. Il produttore Domenico Procacci dichiara: "Stiamo lavorando ad un progetto di serie Tv. Il broadcast non è ancora definito, ma è intanto iniziato il lavoro di scrittura che vede coinvolto lo stesso Bonini insieme a Daniele Vicari, Laura Paolucci ed Emanuele Scaringi, lo stesso gruppo di scrittura di Diaz. A Daniele Vicari, con cui lavoriamo sin dal suo esordio, verrà affidata la regia". Il Papa: "Praticare la giustizia, non la vendetta" Adnkronos, 20 febbraio 2017 "Gesù ci vuole insegnare la netta distinzione che dobbiamo fare tra la giustizia e la vendetta. La vendetta non è mai giusta. Ci è consentito di chiedere giustizia; è nostro dovere praticare la giustizia. Ci è invece proibito vendicarci o fomentare in qualunque modo la vendetta, in quanto espressione dell’odio e della violenza". Lo dice papa Francesco durante uno dei passaggi della catechesi dell’Angelus domenicale. Il Pontefice spiega che il rifiuto di Gesù alla violenza significa "rinunciare a un diritto", ma questo "non vuol dire che le esigenze della giustizia vengano ignorate o contraddette". Al contrario, aggiunge il pontefice, "l’amore cristiano, che si manifesta in modo speciale nella misericordia, rappresenta una realizzazione superiore della giustizia". Inimicizie in famiglia, rispondere con il bene - "Quando parliamo di ‘nemicì non dobbiamo pensare a chissà quali persone diverse e lontane da noi; parliamo anche di noi stessi, che possiamo entrare in conflitto con il nostro prossimo, a volte con i nostri familiari. Quante inimicizie nelle famiglie, quante! Pensiamoci" afferma il Papa. "Nemici sono coloro che parlano male di noi, che ci calunniano e ci fanno dei torti e non è facile digerire questo. A tutti costoro siamo chiamati a rispondere con il bene, che ha anch’esso le sue strategie, ispirate dall’amore". Rappresaglia non porta mai a soluzione conflitti - "Il male è un vuoto di bene, e non si può riempire con un altro vuoto, ma solo con un ‘pieno’, cioè con il bene. La rappresaglia non porta mai alla risoluzione dei conflitti" dice papa Francesco. La "via della vera giustizia", sottolinea il Pontefice, è espressa nel Vangelo di questa domenica, "una di quelle pagine che meglio esprimono la rivoluzione cristiana". Appello per pace in Congo - "Continuano purtroppo a giungere notizie di scontri violenti e brutali nella regione del Kasai Centrale della Repubblica Democratica del Congo" dice il pontefice. "Sento forte il dolore per le vittime, specialmente per tanti bambini strappati alle famiglie e alla scuola per essere usati come soldati". Stop per violenze in Pakistan e Iraq - Il Papa al termine dell’Angelus fa un appello per tutte le popolazioni del mondo che "soffrono a causa della violenza e della guerra". "Penso, in particolare, alle care popolazioni del Pakistan e dell’Iraq, colpite da crudeli atti terroristici nei giorni scorsi - sottolinea Bergoglio. Preghiamo per le vittime, per i feriti e i familiari. Preghiamo ardentemente che ogni cuore indurito dall’odio si converta alla pace, secondo la volontà di Dio". Bufale, democrazie e post-verità di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 20 febbraio 2017 Da interessante discussione sul valore e la qualità dell’informazione, il nuovo bla bla sulle fake news si è trasformato in un’invettiva insensata, in un nuovo chiacchiericcio che sostituisce la spiegazione razionale con il complottismo rabbioso e risentito. Peccato, che delusione. Questo dibattito sulla "post-verità", sulle fake news, sul mare di bufale che si amplificano sulla Rete ha preso una brutta piega, persino un po’ paranoica. Peccato, perché da interessante discussione sul valore e la qualità dell’informazione, il nuovo bla bla sulle fake news si è trasformato in un’invettiva insensata, in un nuovo chiacchiericcio che sostituisce la spiegazione razionale con il complottismo rabbioso e risentito. Adesso dicono che Trump ha vinto nel Wisconsin con le fake news (quali esattamente? Non si sa), che la Brexit pure, che una gigantesca Spectre tipo quella che tenne impegnato 007 sta inondando il mondo con bufale gigantesche orientando pesantemente la politica di grandi nazioni. Che esiste una centrale tenebrosa della post-verità. Ian Fleming, perdonaci. A questo punto, spento il dibattito, la bandiera della guerra alle fake news sembra essere sventolata da alcune correnti di pensiero che sentono la sconfitta incombere. Dai politici e dai partiti abbandonati dagli elettori e che non sembrano farsene una ragione. Da autorità istituzionali variamente distribuiti, Garanti e Presidenti di diverso conio, che vorrebbero garantire e presiedere complessi e possibilmente sovranazionali organismi burocratici chiamati a bonificare il terreno della Rete selezionando con decreti ingiuntivi le bufale dalle non bufale. Dai giornali e dai giornalisti molto offesi e rancorosi per la diserzione dei lettori e dei non lettori che abbandonano le edicole per immergersi nelle acque limacciose del web. Dai censori che non rinunciano mai, ma proprio mai, all’idea di imbavagliare qualcuno o qualcosa sempre con motivazioni nobili per carità. Dai faziosi di professione che hanno sempre bollato l’elettorato che vota contro di loro come una massa di ebeti in balìa dei ciarlatani. Dai pessimisti antropologici che vedono in ogni segno della modernità, aiuto la Rete!, l’indizio di una decadenza, di un imbarbarimento. Dalle persone autorevoli che soffrono la percezione della loro diminuita autorevolezza. E così via. Poi ci sono le bufale, o i siti cospirazionisti o negazionisti sull’11 settembre che hanno un sacco di adepti ma che non hanno impedito, per dire, la doppia elezione di Obama. Fake news che non hanno funzionato. A cosa serve raccontare la mafia di Roberto Saviano L’Espresso, 20 febbraio 2017 Su Facebook mi invitano a parlare d’altro. Eppure le sconfitte subite negli anni dai clan sono dovute anche all’attenzione mediatica. In risposta a uno dei miei ultimi post su Facebook (avevo fatto gli auguri di compleanno a Fabiano Antoniani, il dj quarantenne vittima di un incidente stradale che, rimasto tetraplegico e cieco, si sta battendo perché in Italia il Parlamento si occupi di regolamentare il fine-vita) un utente mi scrive: "Sono anni che parli di mafie, ma oggi le cose stanno peggio di ieri. A cosa sono serviti i tuoi libri? Parla d’altro". Viviamo facendo bilanci, dobbiamo essere però accorti a non sovrapporre la percezione che noi abbiamo della realtà alla realtà stessa. Se io dovessi fare un bilancio di questi ultimi dieci anni, dovrei senz’altro prescindere da come ho vissuto, dagli attacchi subiti. Nel 2006 esce "Gomorra" e il processo al clan del casalesi subisce un’accelerazione inattesa. Le minacce che il clan mi ha rivolto hanno dato impulso al processo e portato (per ammissione dei magistrati che se ne occupavano) le condanne all’attenzione dell’opinione pubblica. Dal 2006 vivo scortato, quindi la mia valutazione di ciò che è accaduto è negativa. Eppure il processo Spartacus, iniziato nel 1998 e il cui primo grado si era concluso nel 2005, ha celebrato i due gradi successivi arrivando a conclusione nel 2010. Sette anni per il primo grado e cinque per i successivi due: dopo "Gomorra" la mia vita è cambiata in peggio, ma il più grande processo alla mafia continentale italiana ha trovato una accelerazione. Quindi percezione personale degli eventi e dimensione pubblica non coincidono. Lo stesso potrei dire sull’infiltrazione mafiosa al Nord: quando ne parlai in televisione, mi accusarono di diffamare il Nord e raccolsero firme contro di me. Dopo poco le sentenze mi diedero ragione (non poteva essere altrimenti, dato che il mio lavoro si basava sullo studio degli atti processuali). La mia valutazione personale di quei momenti è negativa: Roberto Maroni impose la sua presenza a "Vieni via con me" per smentire le mie parole; tempo prima, un noto settimanale aveva diffuso la bufala secondo cui l’ex capo della mobile di Napoli, Vittorio Pisani, avrebbe dato parere sfavorevole alla mia scorta, bufala girata per anni e smentita dallo stesso Pisani in tribunale, dove ammise che non era mai stato suo compito valutarla. E dire che non sapendo di questa smentita, c’è ancora chi cita Pisani per delegittimarmi. Se è vero, però, che gli ultimi dieci anni sono stati per me complicati, posso dire che invece per l’antimafia, quella delle parole che si traducono in azioni - perché non esistono azioni senza parole - sono stati anni mirabili, anni di attenzione e processi giunti a termine, anni in cui l’opinione pubblica ha capito che le mafie ci sono anche quando non spargono sangue. Eppure, se l’utente di Facebook mi dice che il mio lavoro è stato inutile, ho necessità di capire dove sta il gap, lo scarto, la falla. E se l’utente di Facebook ripete quello che sente dire dai politici (che poi è quello che hanno sempre detto i mafiosi) allora la risposta è sotto gli occhi di tutti. Siamo tornati a quando parlare di mafia era considerata una perdita di tempo, quando si consigliava di parlare di altro. E il consiglio veniva da politica e mafia. Siamo tornati a quando i cronisti raccontavano nel dettaglio cosa accadeva e poi c’era chi raccontava le dinamiche criminali riducendole a mera imitazione. E se negli anni Ottanta una scazzottata tra ragazzi era mutuata da "Altrimenti ci arrabbiamo", se negli anni Novanta si sparava come in "Pulp Fiction" tenendo la pistola di piatto, oggi si delinque guardando "Gomorra". E si arriva al paradosso che se in "Gomorra" non c’è un precedente, quello che accade non è crimine, ma è casualità. A Casal di Principe minorenni armati, nipoti di un boss deceduto, entrano in una scuola superiore. La ricostruzione sulla stampa locale è stata più o meno questa: minorenni imitavano i boss delle serie che raccontano solo il male (io ci ho letto "Gomorra", ma magari ho la coda di paglia). La notte successiva a questa incursione la scuola si allaga e i ragazzi non sono ritenuti colpevoli. Mi sbaglierò, ma se in "Gomorra - la Serie" ci fosse stato un allagamento, avremmo letto questo titolo: "Casal di Principe: minorenni armati entrano a scuola e la allagano come in Gomorra". Fino a che non sarà chiaro che con o senza la cresta di Genny Savastano i ragazzi sparano, allora l’utente di Facebook continuerà a chiedersi perché parlare di camorra: se si delinque per imitazione, basta smettere di raccontare. Migranti. Nei tribunali è boom di ricorsi per ottenere l’asilo di Valentina Errante Il Messaggero, 20 febbraio 2017 In dieci mesi del 2016 sono stati 38 mila i richiedenti che hanno impugnato le decisioni delle commissioni territoriali. Record di sbarchi nei primi due mesi del 2017: dal 1 gennaio al 17 febbraio il Viminale ha registrato una crescita del 43,51 per cento rispetto allo stesso periodo del 2016. Ma c’è anche un’altra cifra record e riguarda lo stato dei ricorsi contro il respingimento delle richieste di asilo, presentate dai migranti e bocciate dalle Commissioni territoriali. Da gennaio a ottobre 2016 le impugnazioni presentate hanno dato vita a 37.899 nuovi procedimenti davanti ai tribunali. È il punto sul quale è intervenuto il governo con il decreto voluto dal ministro dell’Interno Marco Minniti, che prevede adesso l’istituzione di quattordici sezioni specializzate nei distretti e l’eliminazione del secondo grado di giudizio per le domande di asilo respinte. Ma la mancata previsione di un aumento dell’organico delle toghe rappresenta già un problema. I dati, che vedono in cima alla classifica i Tribunali di Napoli, Milano e Palermo, sono il risultato di un monitoraggio tra gli uffici giudiziari condotto dalla settima Commissione del Csm. A fronte di queste cifre non crescono invece i ricollocamenti nei paesi Ue. I ricorsi contro la bocciature delle commissioni territoriali hanno investito soprattutto i distretti di Napoli (3.593), Milano (3.354), Palermo (2.906), Roma (2.837), Venezia (2.668), Firenze (2.102) e Catania (2.077). Appena sotto la soglia di 2.000 si collocano invece i tribunali di Bari (1.969), Torino (1951) e Bologna (1.830). I procedimenti pendenti, invece, sono 40.443. Negli stessi dieci mesi sono state invece 3.958 le decisioni dei giudici di primo grado appellate: il primato, con 881 ricorsi, è della Corte di appello di Ancona, seguono Bologna (521), Brescia (489), Cagliari (445), Catanzaro (276) e Perugia (244). Mentre per quanto riguarda le Corti d’appello, procedimenti in entrata e pendenti tendono a equivalersi: i primi sono 3.958, i secondi 4.086. Per fare fronte alla nuove misure previste dal governo, e istituire le 14 sezioni specializzate nei tribunali, il Csm ipotizza la pubblicazione di posti negli uffici. Si tenterà cioè di fare fronte alle nuove esigenze con il trasferimento volontario di magistrati di altre sedi giudiziarie. A fronte di 9.456 sbarchi avvenuti solo nel 2017 (nello stesso periodo del 2016 erano 6.589), sono poco più di 176mila i migranti ospitati nelle strutture del governo. In testa alla classifica c’è ancora la Lombardia, con 23.565 persone, seguita da Lazio (14.678) e Veneto (14.415). Intanto, proprio per l’equa distribuzione sul territorio, che punta ad evitare la concentrazione di migranti in piccoli comuni ed evitare fatti come quelli di Cona e Goro, è stato avviato il cosiddetto "Progetto Sprar", concordato tra il Viminale e l’Anci, con lo stanziamento di 100milioni per gli enti locali che accoglieranno i richiedenti asilo. Di fatto però al piano hanno aderito solo 2.600 comuni su ottomila. In tutto sono 3.204 le persone ricollocate dall’Italia negli altri paesi Ue, una cifra minima rispetto ai 39.600 trasferimenti previsti nel 2015 dal piano Junker, che avrebbe dovuto essere attuato in due anni. Altre 883 richieste da parte dell’Italia sono state approvate e i migranti sono in attesa di partire, mentre sono 1.858 le domande inviate agli altri stati che non hanno ancora dato risposta. Droghe: "legalizzare…", il Sindaco di Palermo Orlando ai presidenti di Camera e Senato La Repubblica, 20 febbraio 2017 Il sindaco Leoluca Orlando ha inviato nei giorni scorsi una lettera ai presidenti di Senato e Camera, Pietro Grasso e Laura Boldrini, con la quale interviene sul tema della legalizzazione delle cosiddette "droghe leggere". "L’undici ottobre scorso - è l’incipit di Orlando - il Consiglio Comunale di Palermo ha approvato la delibera n.524 che ha per oggetto una mozione "per il passaggio da un impianto normativo proibizionista ad un impianto che punti alla legalizzazione della produzione e distribuzione delle droghe definite comunemente leggere". È mio dovere - continua il sindaco - rappresentarle questa presa di posizione politica del Consiglio, ottenuta senza alcun voto contrario e con un consenso trasversale, in quanto testimonia come la nostra città abbia a cuore ogni azione che contrasti gli interessi della criminalità organizzata, in sintonia con le dichiarazioni del Procuratore Nazionale Antimafia e la condizione drammatica delle nostre carceri, oggi affollate di tossicodipendenti e giovani, rei solamente di aver posseduto una pianta di cannabis o qualche dose di erba". "La mozione, proposta dal comitato ‘Esistono i Dirittì e presentata dal consigliere Alberto Mangano - conclude il primo cittadino - mi affida il compito di sollecitare il Parlamento a varare un provvedimento, peraltro già proposto da un folto numero di Deputati e Senatori di quasi tutti i gruppi parlamentari e approdato a Montecitorio lo scorso mese di luglio, che costituirebbe un esempio virtuoso, come già accaduto in diversi Paesi occidentali, di una legalizzazione controllata che tuteli la salute dei consumatori e tolga potere economico alle mafie". Stati Uniti. 24 anni in carcere da innocente: non era stato lui a uccidere una turista di Federica Macagnone Il Messaggero, 20 febbraio 2017 L’incredibile storia di Robert, accusato di omicidio per un errore giudiziario. Quando la polizia fece irruzione alle 4 del mattino nella sua casa di New Orleans e gli mise le manette ai polsi, pensava fosse uno scherzo. Robert Jones non aveva alcuna idea di cosa stesse succedendo: sapeva solo che la squadra omicidi lo stava portando in prigione. "Non avevo fatto nulla di male - ha raccontato - Pensavo che mi avrebbero lasciato stare, ma non è successo". Oggi lui ha 44 e ha trascorso 24 anni nel carcere di Angola, in Louisiana, da innocente, con l’accusa di aver ucciso la turista britannica Julie Stott, di aver stuprato un’altra donna e di essere coinvolto in tre rapine. L’arresto. Dal 18 aprile 1992, data dell’arresto, sono passati quasi 25 anni, ma solo adesso Robert può considerarsi un uomo libero: è uscito di prigione a dicembre del 2015, ma solo a fine gennaio l’accusa ha dichiarato che non ricorrerà in appello. Un terribile errore giudiziario che aveva preso il via dal quotidiano The Sun che aveva sbattuto Robert in prima pagina, definendolo "una bestia cresciuta in un inferno puzzolente" e vantandosi di aver inchiodato l’assassino di Julie, 27enne di Greater Manchester, uccisa la sera del 14 aprile 1992, mentre era in vacanza a New Orleans con il fidanzato, Peter Ellis. I due stavano camminando in strada quando un uomo armato intimò loro di sdraiarsi a terra. Peter e Julie reagirono all’ordine troppo lentamente e il malvivente fece fuoco, colpendo fatalmente la donna alla testa. Pochi giorni dopo fu chiaro che quello faceva parte di una serie di attacchi premeditati, tutti messi in atto da un uomo che si aggirava per la città su una Delta 88 marrone con un tetto bianco: sei giorni prima dell’omicidio, lo stesso uomo aveva rapinato e violentato una donna e poco dopo aveva messo in atto altre due rapine. Per giorni la polizia ha brancolato nel buio fino a quando non è entrato in scena il giornale The Sun: offrendo la cifra di 10mila sterline a chiunque avesse informazioni, scatenò una "corsa all’oro" tra la gente della povera comunità di colore di New Orleans che iniziò a bombardare di telefonate la polizia dando informazioni. È stato durante una di quelle conversazioni che uscì fuori il nome di Robert, che venne arrestato nel suo appartamento mentre era a letto con la sua fidanzata Kendra. L’inferno della prigione. "Sono stato portato all’Orleans Parish Prision, un luogo violento, pericoloso, pieno di tossicodipendenti che tentavano di disintossicarsi - ha raccontato Robert - Sono stato rinchiuso in una cella minuscola con quattro letti a castello e dove c’erano continuamente scontri soprattutto per il cibo. In pochi mesi ho subìto diversi infortuni, tra cui polsi e dita rotte. Lì dentro c’era l’anarchia, i prigionieri erano fuori controllo. Dopo due settimane di carcere, Kendra mi ha comunicato che sarei diventato padre: ero felice e triste allo stesso tempo. Prima di mettere piede là dentro non avrei mai potuto immaginare quante persone innocenti vengano condannate ingiustamente. Adesso so che è possibile e che tutto ciò accade veramente". E i numeri gli danno ragione: in Louisiana, dal 1991, quarantaquattro prigionieri condannati all’ergastolo o nel braccio della morte sono stati scarcerati. Ma Robert non avrebbe mai potuto immaginare che sarebbe successo l’impensabile. Due giorni dopo il suo arresto, un uomo armato chiese a una coppia di sdraiarsi a terra e rubò loro i gioielli. Poi sfrecciò su una Delta 88 con il tetto bianco. Questa volta, la polizia, guidata dal detective James Stewart, rintracciò l’auto e arrestò il suo proprietario, Lester Jones: nella sua casa venne trovata la refurtiva delle rapine e una pistola identica a quella usata per l’omicidio di Julie. L’uomo finì in carcere e nel 1994 venne condannato al carcere a vita. Tuttavia Robert non venne rilasciato: secondo il procuratore Harry Connick, tra i due c’era un legame: sarebbe stato lo stesso Lester, infatti, ad aver raccontato di una complicità in realtà totalmente inesistente. Perché in Brasile vince il narcotraffico di Daniele Mastrogiacomo La Repubblica, 20 febbraio 2017 Sei arresti su dieci a Rio de Janeiro avvengono per reati legati alla droga. Ma la maggioranza di questi (il 52 per cento) è per possesso di piccole quantità, tra i 10 e i 15 grammi di marijuana. La cosa mi ha fatto subito venire in mente la tragedia del ragazzo di Lavagna che si è lanciato dalla finestra dopo che la Guardia di Finanza, chiamata dalla madre, gli aveva scoperto in casa una bustina simile di hashish. Ci ho pensato perché anche in Brasile il grande tema degli stupefacenti è regolato da una legge del 2004. Una legge contraddittoria. Come capita spesso quando si tratta di temi condizionati dalla morale piuttosto che dall’analisi di una realtà: non risolve il narcotraffico e rende molto più faticoso, costoso e alla fine inutile il lavoro della polizia. C’è uno studio, appena uscito, realizzato dall’Istituto da Segurança Pública del Governatorato di Rio de Janeiro, che lo dimostra in modo lampante e sulla base del quale lo stesso Brasile, sempre riluttante ad una depenalizzazione delle droghe, ha deciso di avviare una nuova proposta. Il rapporto cita l’esempio di un ragazzo di 20 anni, Fabio de Oliveira, sorpreso il 1 dicembre scorso dalla polizia mentre si faceva uno spinello davanti casa a Santa Teresa, nel centro della città. Gli agenti lo hanno fermato e poi convinto a farli entrare; qui hanno scoperto altri 6 grammi avvolti in un foglio di cellophane. I poliziotti hanno fatto quello che impone la legge: gli hanno sequestrato l’erba, l’hanno mandata in laboratorio, hanno registrato tipo, quantità e purezza, hanno denunciato il ragazzo e l’hanno spedito davanti ad un giudice. "Abbiamo perso 6 ore", hanno spiegato i poliziotti "per un risultato quasi inutile. Ma lo abbiamo dovuto fare perché ce lo impone la legge. Le pratiche sono così complesse che molto spesso lasciamo perdere". Una delle contraddizioni di una legge che obbliga ma non risolve è dimostrata dai dati dello stesso rapporto. Il record di sequestri di marijuana a Rio riguarda quantità che non superano i 15 grammi. Tra i 2008 e il 2015 hanno rappresentato il 67 per cento. Nel solo 2015 ci sono stati 130 mila arresti: una media di 38 al giorno. "Per quantità", precisano i ricercatori dell’Istituto da Segurança Pública, "insignificanti". Le energie che si perdono per inseguire piccoli consumatori impediscono il lavoro più efficace: quello svolto dell’intelligence che colpisce il narcotraffico, la rete che smercia a livello internazionale montagne di erba e fiumi di cocaina. Anche qui i numeri sono illuminanti. Tra il 2010 e il 2016 le 400 operazioni contro i grandi Cartelli di Rio hanno portato al sequestro di 60 tonnellate di erba; negli 80 mila interventi su piccoli consumatori ne sono state sequestrate, invece, solo 16. Quattro volte di meno. Gli esperti consultati dai ricercatori giungono tutti alla stessa conclusione: "Non esiste un manager al mondo che sosterrebbe l’efficacia della strategia usata: nel 99 per cento delle azioni della polizia solo il 15 ottiene i risultati prefissati dalla legge". Insomma, si arresta senza bloccare il narcotraffico. Si sa che in Brasile 6 detenuti su dieci stanno dentro per reati di droga. L’80 per cento per detenzione di piccole quantità. I veri trafficanti, quelli dei Cartelli, ogni tanto finiscono dietro le sbarre. Ma vengono sostituiti all’istante, oppure continuano a dirigere il grande business seduti comodamente in cella. Per evitare l’ondata di violenza che ha provocato 200 morti nei penitenziari del nord del paese in due settimane per spartirsi un affare da un milione di dollari al giorno, basterebbe solo un po’ di pragmatismo. "Fare ciò che hanno fatto Spagna e Portogallo", suggeriscono gli autori del rapporto. "Nella prima si può detenere fino a 100 grammi, nel secondo 25".