Il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute scrive alla Polizia Locale polizialocale.com, 1 febbraio 2017 Il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale scrive ai comandi di Polizia Locale la nota prot. 250 del 27.1.2017 per presentarsi, dare informazione sul proprio inquadramento nella normativa nazionale e internazionale e dei proprio poteri e funzioni. Il garante (o difensore civico o ombudsman) è un organo di garanzia che ha funzioni di tutela delle persone private o limitate della libertà personale. In particolare, per svolgere la propria attività, il Garante: chiede ai comandi la massima collaborazione nell’ambito delle prerogative e dei poteri attribuiti dalla legge, garantendogli poteri di visite e di accesso, senza necessità dì preavviso e di autorizzazione in tutti i luoghi di privazione della libertà e con possibilità di avere colloqui riservati con le persone private della libertà; chiede inoltre di trasmettere, entro il 31 gennaio di ogni anno, all’indirizzo email segreteria@garantenpl.it, il numero delle persone trattenute, fermate o arrestate, transitate nelle eventuali camere di sicurezza di disponibilità del Comando in indirizzo o in altro luogo ove si sia concretizzata la pur temporanea privazione della libertà. Il dato su base annuale, confluirà nella Relazione annuale al Parlamento che l’Ufficio è tenuto a redigere; rammenta la necessità di verificare l’identità dei componenti della delegazione che accompagna il Garante nel corso di una visita, ed evidenzia che i poteri attribuiti al Collegio del Garante Nazionale (Presidente e Componenti) non sono delegabili al personale assegnato al suo ufficio, anche se i membri della delegazione potranno certamente avere accesso, insieme a uno dei componenti del Collegio, ai luoghi e alla documentazione, nonché presenziare ai colloqui utili allo svolgimento della visita. Che cos’è il Garante dei diritti delle persone detenute? Istituito per la prima volta in Svezia nel 1809 con il compito principale di sorvegliare l’applicazione delle leggi e dei regolamenti da parte dei giudici e degli ufficiali, nella seconda metà dell’Ottocento si è trasformato in un organo di controllo della pubblica amministrazione e di difesa del cittadino contro ogni abuso. Oggi questa figura, con diverse denominazioni, funzioni e procedure di nomina, è presente in 23 paesi dell’Unione europea e nella Confederazione Elvetica. Nell’ordinamento italiano il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale è stato introdotto con il decreto legge 23 dicembre 2013 n. 146 (art.7) convertito con modificazioni dalla L. 21 febbraio 2014, n. 10. Con il d.m. 11 marzo 2015 n. 36 si è definito il regolamento sulla struttura e la composizione dell’Ufficio. Il quadro dei riferimenti normativi del Garante nazionale è completato dalla Direttiva UE n.115 del 2008 - Norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare (art.8 comma 6), e dal Protocollo opzionale alla Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti (Opcat) ratificato dall’Italia il 3 aprile 2013 (artt.20 e 21) L’Italia ha designato il Garante Nazionale come organismo di monitoraggio indipendente (Npm), previsto dal Protocollo opzionale alla Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti. Il Garante, agendo come Npm, coordina la rete dei Garanti territoriali per promuovere il monitoraggio della privazione della libertà e il dialogo istituzionale sulla tutela dei diritti fondamentali delle persone ristrette. Nella circolare prot 250 del 27.1.2017 il Garante ricorda che: in forza della disciplina normativa sopra illustrata il Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale è Organismo che si caratterizza per l’indipendenza da ogni potere dello Stato e per l’esercizio del potere di verifica delle situazioni di restrizione delta libertà personale. Prerogativa e potere a cui corrispondono i doveri di riservatezza e di collaborazione con l’Amministrazione competente e dettati dalle legge. Quali sono i compiti del Garante dei diritti delle persone detenute? Ai sensi del D.L. 146/2013, art. 7 comma 5, l’ufficio del Garante Nazionale: • vigila affinché le forme di limitazione della libertà personale siano attuate in conformità alle norme e ai principi stabiliti dalla Costituzione, dalle convenzioni internazionali sui diritti umani ratificate dall’Italia, dalle leggi dello Stato e dai regolamenti; • visita, senza necessità di autorizzazione, le camere di sicurezza delle Forze di Polizia, destinate ad accogliere le persone private della libertà personale, accedendo senza restrizioni, a qualunque locale adibito o comunque funzionale alle esigenze restrittive; • prende visione, previo consenso anche verbale dell’interessato, degli atti contenuti nel fascicolo della persona privata della libertà e comunque degli atti riferibili alle condizioni di privazione della libertà; • richiede alle Amministrazioni responsabili delle strutture indicate precedentemente le informazioni e i documenti necessari; • formula specifiche raccomandazioni all’Amministrazione interessata, se accerta violazioni alle norme dell’ordinamento. L’Amministrazione interessata comunica l’eventuale dissenso motivato nel limite di trenta giorni. Il pg di Bologna De Francisci: gli stranieri preferiscono scontare la pena in Italia di Cristina Degliesposti Il Resto del Carlino, 1 febbraio 2017 "Gli stranieri? Hanno la sensazione, fondata, che il nostro sistema penale sia morbido. Anche perché lento". Colpisce e affonda di nuovo il Procuratore generale di Bologna, Ignazio De Francisci dopo che, l’altro giorno, all’apertura dell’anno giudiziario emiliano-romagnolo, aveva parlato di "lavanderia giudiziaria". Ossia della dilagante tendenza tra cittadini dell’Est Europa, soprattutto romeni, a scegliere le carceri italiane per scontare le pene inflitte dal nostro Paese o da quello d’origine, sfruttando un "malinteso senso di accoglienza dello straniero" di alcuni giudici. Procuratore, come mai? "Per un doppio motivo. Perché da noi trovano un sistema sanzionatorio abbastanza mite e perché un sistema penitenziario che prevede istituti favorevoli come quello della liberazione anticipata". Com’è possibile finire in carcere in Italia per scontare una pena inflitta da un tribunale romeno? "Per effetto di una legge del 2010 che ne recepisce una quadro europea del 2009. Questa norma nasce dal presupposto di fondo che la pena deve avere funzioni rieducative e la rieducazione può avvenire solo nel Paese dove il soggetto è radicato". Ma? "La realtà è che conviene dire di essere radicati in Italia. Magari portando la moglie, facendola lavorare come colf e ottenendo un domicilio, quando in realtà il marito in Italia ci sta pochi mesi l’anno. E in caso di mandato d’arresto, meglio scontare qui la pena dicendo di essere radicati, con l’ammissione al gratuito patrocinio perché nullatenenti". Come si può arginare quest’abuso? "So che il ministero ha in corso uno stretto confronto con la Romania. Il radicamento va maggiormente dimostrato: con gli impieghi svolti, avendo pagato le tasse, verificando il lavoro dei familiari. Ma c’è un altro problema". Quale? "In Italia sotto i tre anni di pena è prevista la possibilità di richiedere l’affidamento in prova o i domiciliari. Basta fare domanda entro 30 giorni al Tribunale di sorveglianza. Che è intasato di pratiche e le risposte arrivano dopo mesi, aumentando la sensazione che delinquendo non si ha una pena immediata". Può fare un esempio? "Abbiamo avuto il caso di un cittadino che doveva scontare una pena secondo il codice romeno di un anno e tre mesi per guida in stato d’ebbrezza. Da noi avrebbe avuto quattro mesi. Anche nelle cose minime c’è una differenza di sanzione notevole. E ovvio che la gente venga qui". Bisogna armonizzare le pene. "E una scelta politica, che sarebbe utile e necessaria per alcuni reati, ma non facile. Da noi comunque c’è un complesso sistema di attenuanti, aggravanti e continuazione del reato che genera sconti di pena". Una sfida per l’Europa, ma in Italia ne abbiamo un’altra, Lei ha parlato di "disorientamento dei giudici" nelle loro pronunce, che a volte giustificano reati commessi da stranieri con ragioni di diversità etnica o religiosa. "Giustizia creativa, chiamiamola così. Un’apertura verso idee e costumi altrui, che si sta diffondendo nella magistratura, ma che a me pare eccessiva. Per fortuna la Cassazione fa buona guardia, quando qualcuno manda gli atti. Se non si sta attenti, eventuali sentenze passano in giudicato e poi fanno giurisprudenza". Ricorda qualche caso? "Uno da Piacenza, ad esempio. Un esponente della comunità Sikh con un kirpan (pugnale, ndr) nella fondina. Il giudice lo aveva assolto per l’illegittimo porto d’armi ritenendo il coltello simbolo religioso e parte integrante del costume; la Cassazione però ci ha dato ragione. Un conto è il turbante, un conto è un pugnale". In magistratura vi state confrontando su queste scelte? "Non è nostro compito il dialogo con i tribunali. Agiamo con gli appelli e i ricorsi per Cassazione, al limite alla Corte costituzionale". Qual è il rischio di queste sentenze? "Di creare cittadini con diritti diversi da altri, donne che possono essere picchiate dai mariti e altre no. Poi è vero che la magistratura interpreta una società che cambia: negli anni 60 si sequestravano film oggi da prima serata". Queste interpretazioni diverse sono frutto di assenza di leggi? "Non e questo il caso, le leggi ci sono e secondo me sono abbastanza chiare". La Cassazione smonta l’omicidio stradale: legge errata di Maurizio Tortorella La Verità, 1 febbraio 2017 È passata del tutto inosservata, nelle cronache dell’inaugurazione dell’anno giudiziario del 26 gennaio, ma il procuratore generale della Corte di cassazione, Pasquale Ciccolo, ha dato una bella strigliata al legislatore, segnalando che chi ha scritto le norme sull’omicidio stradale, varate nella primavera 2016, non ha fatto bene i calcoli e a volte si è confuso. Ciccolo ha introdotto il tema più 0 meno a un terzo della sua relazione, ricordando che "la materia è certamente di forte impatto mediatico e ciò spiega l’estrema severità delle sanzioni previste per condotte che si qualificano come colpose". Ma il procuratore generale ha sottolineato che "la disciplina incorpora qualche aspetto critico che l’esegesi dovrà risolvere". Per dirla in parole semplici: il Parlamento ha fatto degli errori, che i giudici di ogni grado (e soprattutto in Cassazione) dovranno correggere. Lo schiaffo del procuratore generale riguarda soprattutto le sanzioni stabilite dall’articolo 589-ter del Codice penale: il conducente di un’auto che si dà alla fuga dopo aver causato un omicidio, prevede la nuova legge, merita una pena che, rispetto a quella contenuta nell’art. 589-bis (che indica il reato e la pena base), "dev’essere aumentata da un terzo a due terzi e comunque non può essere inferiore a 5 anni" di reclusione. La formula, però, contiene un errore blu di matematica. O quantomeno una "critica incongruenza", per usare la più generosa terminologia adoperata da Ciccolo, visto che la pena per il reato base prevede un minimo di 2 anni di reclusione e che l’aggravante della fuga può aumentare quei 2 anni sino al massimo di due terzi: insomma, in base all’articolo 589-bis si può arrivare al massimo a una pena di 3 anni e 4 mesi, mentre l’articolo 589-ter dice "almeno 5". Come la mettiamo? La stessa incongruenza di pene riguarda le lesioni stradali, disciplinate in modo differente dagli articoli 590-bis e 590-ter. Mentre un terzo errore, ha aggiunto Ciccolo, riguarda il fatto che l’ipotesi della fuga del conducente dopo un incidente che abbia provocato danni a persone è disciplinata (ovviamente in modo diverso) sia dall’art. 189 del Codice della strada, al comma 6, sia dagli articoli 589-ter e 590-ter del Codice penale. Una bella confusione. Il reato di omicidio stradale è stato introdotto il 25 marzo 2016 e prevede in effetti pene particolarmente severe, fino a 12 anni di reclusione, per chi uccide dopo essersi messo alla guida in stato di ebbrezza 0 dopo aver assunto droghe. Nei 5 mesi dal 25 marzo al 31 luglio 2016, la Polizia stradale ha calcolato 19.893 incidenti, di cui 255 mortali, e in 123 casi è stato contestato l’omicidio stradale. La norma rispondeva a un forte richiamo dell’opinione pubblica, indignata per le sanzioni ricevute dai pirati della strada, in molti casi considerate troppo lievi. Il punto, contestato da molti giuristi, è però che pene così elevate per un reato colposo, quindi non volontario, sono eccessive. Uno degli obiettivi della norma, inoltre, era contrastare la pirateria stradale. Ma secondo. l’Asaps, l’Associazione amici sostenitori della Polizia stradale che da 8 anni monitora il fenomeno, dopo l’entrata in vigore della nuova legge le omissioni di soccorso negli incidenti con feriti 0 morti sono state 556, contro le 484 dello stesso periodo del 2015: quindi 72 in più, con un incremento del 14,9%. Secondo Beniamino Migliucci, presidente dell’Unione delle camere penali italiane, la legge "è stata emanata sotto la spinta dell’emotività e soltanto per ottenere consenso: non costituisce un deterrente, né favorisce comportamenti virtuosi, che dovrebbero essere premiati con un’attenuante". Al contrario, conclude il presidente dei penalisti, "proprio la durezza delle pene, e il rischio di subire un arresto obbligatorio, in alcuni casi potrebbe portare alla fuga e a non prestare soccorso". Più tutele per chi è intercettato dai trojan degli investigatori, ecco la proposta di legge di Rosita Rijtano La Repubblica, 1 febbraio 2017 I paletti all’uso indiscriminato dei captatori. Il testo presentato dal Gruppo Civici e Innovatori sarà disponibile sul web per un mese e mezzo. Maggiori tutele e garanzie per chi, durante le indagini penali, è intercettato tramite i trojan: cioè dei software che, una volta installati sui nostri dispositivi (dallo smart-phone al pc), consentono di monitorare la nostra vita digitale e no. È quanto prevede la proposta di legge presentata oggi dal Gruppo civici e Innovatori per regolare l’utilizzo dei cosiddetti captatori informatici, dal titolo "Disciplina dell’uso dei captatori legali nel rispetto delle garanzie individuali". Un lavoro iniziato nel 2015, che ha coinvolto oltre 40 esperti appartenenti a forze dell’ordine, magistratura, accademia (giuristi e tecnologi) e movimenti di difesa dei diritti civili. Il testo sarà disponibile sul sito forum.CivicieInnovatori.it per 45 giorni. Con l’obiettivo di ricevere dei suggerimenti che lo migliorino. I captatori informatici vengono utilizzati dalle forze dell’ordine da anni. Qualche esempio: il caso di Luigi Bisignani. Infatti, nell’inchiesta sulla P4 è stato fondamentale l’uso di un programma che ha trasformato il computer del faccendiere in una microspia: nome in codice "Querela". O, ancora, l’arresto di Rocco Schirripa accusato di essere l’omicida del procuratore Bruno Caccia, ucciso nel giugno del 1983. Anche qui, secondo quanto riportato dalle cronache, il trojan ci avrebbe messo lo zampino. Lo stesso Giulio Occhionero afferma di essere stato incastrato dalla polizia con un malware. "Un utilizzo che diventerà sempre più frequente man mano che internet verrà cifrata di default, determinando una perdita delle capacità investigative tradizionali", ha spiegato a Repubblica Fabio Pietrosanti, cofondatore del Centro Hermes per la trasparenza e i diritti umani digitali. Di quali siano le loro capacità ne abbiamo avuto un assaggio testando un software per il parental control, controllo genitoriale. Potenzialmente infinite. Se si pensa che in futuro il monitoraggio potrebbe non limitarsi a cellulari e pc, ma estendersi a tutti gli oggetti smart - dalla tv all’auto - lo scenario diventa ancora più preoccupante". Lo scorso aprile le Sezioni Unite penali della Cassazione hanno ammesso l’utilizzo di software spia in indagini per mafia e terrorismo. Tuttavia, manca una regolamentazione a tutto tondo. Ed è qui che si inserisce la proposta di legge, che mette dei paletti all’uso indiscriminato dei captatori. Prima di tutto si stabilisce che gli unici reati per cui è possibile sfruttarli sono "criminalità" organizzata di stampo mafioso o con finalità di terrorismo", se "non è possibile distinguere un ambito di attività o di vita personale estraneo all’associazione criminale". Poi l’uso del trojan non può essere disposto solo dal pubblico ministero. Ma autorizzato dal giudice per le indagini preliminari "soltanto quando risultino indispensabili, essendo inadeguato ogni altro mezzo di ricerca della prova". Nel decreto autorizzativo sono indicati i dispositivi che possono essere ‘infettatì. Il giudice può anche disporre, motivandola, l’installazione su device di "soggetti non indagati". Una concessione che potrebbe suscitare parecchie polemiche. Il monitoraggio va notificato agli utilizzatori del dispositivo bersaglio entro 40 giorni dall’inizio dell’attività. Ma è possibile ottenere proroghe fino a un massimo di 12 mesi. La polizia giudiziaria sarà l’unica a poter eseguire materialmente le operazioni, senza la possibilità di avvalersi di ausiliari esterni come accade adesso. Sono previste, inoltre, una serie di garanzie tecniche: gli strumenti informatici utilizzati devono assicurare che i dati presenti sul dispositivo non vengano alterati o modificati e che i dati acquisiti siano conformi a quelli presenti sul dispositivo in questione. Da qui la necessità di possedere determinati requisiti "stabiliti con regolamento del Ministro della Giustizia, di concerto con il Ministro dell’Interno e su parere conforme del Garante per la Protezione dei dati personali". A tal proposito si prevede: l’istituzione di un sistema di omologazione che sarà affidato all’Istituto superiore delle comunicazioni e delle tecnologie dell’informazione (Iscom); l’obbligo di deposito dei codici sorgenti presso un ente non ancora stabilito; un sistema che consenta alle parti di richiedere ed eseguire in modo indipendente la verifica del processo di omologazione, e il Registro nazionale dei captatori informatici che garantisce la rintracciabilità dello strumento. Un buon tentativo di disciplinare una materia complessa. Ma sicuramente il dibattito è solo all’inizio. Tanto che ci sono già delle voci critiche. Come l’avvocato Francesco Paolo Micozzi: "Il disegno di legge pare carente sotto diversi aspetti ed in alcuni punti del tutto incomprensibile", ci spiega. "Erronei anche alcuni presupposti: nella relazione iniziale, infatti, sembra sostenersi che l’intervento del legislatore sia dettato dalla necessità di colmare un vuoto normativo. In realtà non vi è alcun vuoto normativo posto che il nostro codice di procedura penale contempla già la possibilità di adattarsi ai nuovi strumenti d’indagine (mediante il richiamo alle prove atipiche). E le prove atipiche non sono affatto incostituzionali come sembrerebbe emergere dalla relazione. È apprezzabile lo sforzo del legislatore nel voler disciplinare una materia così complessa. Ma è lo strumento captatore informatico che, per la sua natura, non si presta ad essere disciplinato in modo semplice nel rispetto dei principi costituzionali". I visionari che raccontano le mafie di Roberto Saviano La Repubblica, 1 febbraio 2017 Dov’è oggi la mafia? Come facciamo a riconoscerla? Letizia Battaglia è stata l’occhio che ha raccontato al mondo, forse più di chiunque altro, rendendolo archetipo, il concetto complicatissimo di mafia. Attraverso immagini: bambini che giocano con armi, corpi dilaniati dalla lupara, volti sfigurati dalle urla, silenziosi drappi neri. La sua arte, mostrare senza fare scempio, descrivere senza creare distanza. Erano gli anni ‘80 e la mafia non esisteva, anzi, per esprimere meglio il concetto: non doveva esistere. Oggi chiudiamo un cerchio durato quasi quarant’anni e costato la vita a centinaia di persone. Oggi, come agli albori della lotta alla mafia, la mafia è tornata a non esistere. Chi ne parla è visionario, la vede ovunque, si arricchisce parlandone, scrivendone, raccontandola. Chi ne parla diffama, rovina nel mondo l’immagine dell’Italia. Della mafia non bisogna parlare e non solo per volontà della mafia, ma per preservare carriere politiche. Quando sentiamo dire che chi parla di mafie diffama, in realtà il sotto-testo è: chi parla di mafie mette in pericolo la credibilità politica di chi amministra territori a rischio; chi parla di mafie, ed è ascoltato oltre i confini dell’Italia, mina la credibilità di governi deboli, che non considerano la lotta alle mafie una priorità. Dov’è oggi la mafia? È la domanda che Letizia Battaglia, dopo averla raccontata per anni, ha fatto ad Attilio Bolzoni per il suo Blog "Mafie" su Repubblica.it. A me questa domanda la fanno spessissimo i giornalisti stranieri quando vengono in Italia, quando vanno a Palermo, a Reggio Calabria, a Bari o a Napoli e non riescono a riprendere o a essere testimoni di aggressioni o sparatorie. Quando non riescono a vedere da vicino come funziona il racket, quando non si accorgono della violenza che modella interi quartieri e che non si può sovrapporre a quella mostrata da un film o da una serie televisiva che condensa tutto, che sceglie una prospettiva. Chi non vede le mafie oggi, forse, non le sta cercando o non le sta cercando nel modo giusto. Prima mafia era sinonimo di povertà e degrado, oggi in parte è ancora così nei suoi luoghi d’elezione, ma altrove la mafia è imprenditoria, è appalti, è speculazione economica, è infiltrazione di aziende, è scalata a colossi bancari. Oggi è difficile vedere la mafia perché è simile a tutto il resto. Generazioni che hanno visto la mafia, da fenomeno sconosciuto al mondo, diventare centrale, conosciuto, affrontato, raccontato, persino cercato come fonte inesauribile di racconto, oggi devono mutare il proprio sguardo e capire che cercare la mafia dove si spara vuol dire osservare solo un segmento, vuol dire magari provare a raccontarlo e a fermarlo senza individuare la vena che lo alimenta. Oggi la mafia non è invisibile, è solo che non viene più cercata. E non viene più cercata anche perché ci siamo convinti di averla trovata, vista, conosciuta. E quindi finiamo per fare come i giornalisti stranieri, che alzano le braccia e dopo una settimana a Napoli, se non hanno ripreso una sparatoria, pensano di non aver portato a casa il lavoro. Di dover abbandonare l’argomento e, in ultima istanza, si convincono che in fondo la mafia non esiste davvero, che ormai è solo un’invenzione letteraria, qualcosa che nel passato c’era ma che la modernità ha debellato. Senza lupara diventa complicato raccontare. Eppure la lupara c’è e ci sono i morti a terra, e c’è sangue, innocente o colpevole, che lorda e non chiede più vendetta. Se muori per sbaglio, arrivano promesse di telecamere, di maggiore controllo e poi la realtà è che interi quartieri a Napoli per le forze dell’ordine sono off limits. Se muori da pregiudicato, sei nato e cresciuto in un territorio che spesso non dà scelta, non in determinate condizioni, "uno in meno", questo si ripete per non affrontare il fallimento. E allora si segue la regola cinica che molti hanno scelto di darsi, di mafia si può parlare, ma solo in tre casi: quando ci sono morti eccellenti (Falcone diceva, provocando, che ci vogliono due morti eccellenti l’anno per combattere la mafia); quando ci sono molti, moltissimi morti (nell’ordine di due, tre al giorno, uno a settimana non basta); oppure quando l’argomento mafia viene utilizzato per raccontare il potere, quando l’opinione pubblica mette immediatamente in connessione la criminalità organizzata e il governo in carica. E non si creda che sia più facile raccontare laddove si spara: non è stato così per anni, per decenni. Pur essendoci stati morti e processi, pur essendoci stati martiri, comunque non si arrivava oltre la pagina locale, l’informazione era considerata marginale dall’opinione pubblica nazionale e internazionale. Questo vale per il Messico, per l’Italia, per l’Albania e vale ancora di più per Paesi come l’Inghilterra, la Spagna, la Francia, che hanno sul loro territorio organizzazioni criminali assai complesse che tuttavia, anche quando ci sono morti, non riescono a essere raccontate, per impreparazione culturale e per i limiti di certo giornalismo. I morti in Inghilterra vengono ascritti a un problema minore; i morti in Francia mai collegati alla mafia. Si usano parole che abbiano un impatto diverso, che creino meno preoccupazione, meno allarme: e allora a sparare sono gang e non organizzazioni criminali strutturate, dedite al narcotraffico e che tengono sotto il loro giogo interi quartieri. In tutto questo l’Italia è vittima di un cortocircuito: invece di essere fiera di poter vantare la più forte antimafia del pianeta, capace di raccontare le mafie in tutto il mondo, si è vergognata e ha associato la parola mafia a una sintassi di delegittimazione. Ci siamo vergognati e ci nascondiamo dietro la giustificazione: non siamo solo mafia. E invece proprio non raccontandola si diventa un territorio fatto di corruzione nel quale non c’è spazio per alcuna distanza da questi mondi. E il cerchio si chiude: la Democrazia Cristiana per anni ha utilizzato un’espressione terrificante, omertosa, per fermare qualsiasi tipo di narrazione sulle mafie: stai parlando male dell’Italia. Oggi è esattamente quello che si sente dire chiunque parli di mafie a Napoli, a Palermo, a Bari, a Milano, a Reggio Calabria, a Modena, a Torino: stai parlando male e ti arricchisci con le mafie. Un mantra democristiano usato oggi da chiunque abbia interesse personale nel bloccare un racconto. Come se parlare di cancro, come se dare informazioni su come affrontare la malattia, facesse ammalare. Come se a chi analizza i nostri mari e trova le coste piene di fecalomi e cadmio (merda e veleno) si dicesse: stai insultando il nostro mare che è stato solcato dai Greci e che è la meraviglia della nostra terra. E attenzione a ritenere questo atteggiamento superficialità o orgoglio nazionale, non è né l’una, né l’altro, ma calcolo e omertà. Non stupiamoci, la parola mafia, per molto tempo impronunciabile, è tornata a esserlo. Parola per la quale ci si è battuti per farla esistere e che ora si è consumata, consumata dall’abuso non dall’uso: dove tutto è mafia, niente è mafia. Allora per capire dove sono le mafie oggi bisogna aguzzare la vista e strizzare gli occhi. I morti a terra ci sono ancora, ma non sono della quantità giusta e nei luoghi giusti per farli diventare morti d’interesse. Quindi, a ben vedere, non è solo la mafia ad essersi camuffata, a essersi capitalistizzata; non è solo la mafia ad essersi imborghesita: è il capitalismo che si è mafiosizzato; è la borghesia che si è mafiosizzata. Il comportamento che prima era evidentemente espressione di un Dna criminale oggi è espressione dell’economia tutta. E allora dov’è la mafia? Londra è la città del pianeta in cui si ricicla più denaro. Dov’è la mafia? Il Presidente Trump non avrebbe potuto avere vantaggio nell’edilizia senza la famiglia Genovese e la famiglia Gambino. Ma tutto questo ormai non conta più, perché per la comunicazione la criminalità organizzata, in ogni sua forma, è meno spaventosa delle teste mozzate e dei teatri in cui si sparge sangue. Salvo poi ignorare che quello che spacciano per radicalismo islamico non è altro che l’ennesima declinazione di organizzazioni criminali tradizionali, dedite alla produzione di sostanze stupefacenti, al narcotraffico, al contrabbando, all’estorsione. La differenza: Isis ha studiato, lavorato e scelto come presentarsi al mondo e, soprattutto, come farsi raccontare. I beni mafiosi e il tabù della vendita di Francesco Forgione La Repubblica, 1 febbraio 2017 La trama fra la dimensione sociale e repressione alle mafie è la sfida da vincere per superare l’esclusività della dimensione giudiziaria nella lotta alla mafia e uscire dalla crisi di identità e di credibilità che investe il movimento antimafia. La confisca e il riutilizzo dei beni mafiosi sono il terreno sul quale le istituzioni, la magistratura e una pluralità di soggetti sociali dovrebbero davvero misurare la coerenza delle proprie scelte. Si tratta di un’immensa ricchezza spesso abbandonata a se stessa: milioni assorbiti dal Fondo unico per la giustizia senza alcuna ricaduta sull’uso e la destinazione dei beni; comuni strangolati dal patto di stabilità impossibilitati a sostenere qualsiasi progetto di riutilizzo o di promozione sociale; istituzioni prima servili verso i mafiosi e di colpo solerti nell’ostacolare le attività economiche sottratte alle mafie; le banche controparti ostruzionistiche delle amministrazioni giudiziarie. Eppure la redistribuzione della ricchezza accumulata illegalmente è il solo banco di prova per dimostrare la convenienza della legalità. Soprattutto per la gestione delle aziende, con l’affermarsi di un lavoro pulito e redditizio anche in attività nate in un circuito economico-finanziario condizionato dal riciclaggio di capitali mafiosi. È questa la sfida da vincere senza ideologismi e fondamentalismi, ponendo anche fine al tabù della vendita dei beni senza il timore che gli appelli di Saviano e Camilleri blocchino ogni discussione. Pena, il subire l’onta infamante di voler riconsegnare i beni ai mafiosi. Ci sono beni inutilizzabili. Perché non rivenderli? Ci sono immobili fatiscenti e antieconomici per qualunque progetto di recupero; che farne? E che fare di centinaia di auto, camion, barche di lusso? Ci sono aziende rette su base famigliare, ma appena la "famiglia" viene esclusa dalla gestione (tutta in nero e alimentata da soldi riciclati) non possono sopportare i "costi" legali dei contratti di lavoro e delle forniture esterne al circuito di distribuzione precedente. Si tratta di decine di negozi, ristoranti, alberghi, piccole aziende. Bisogna essere onesti intellettualmente e discuterne. Lo devono fare anche le associazioni che su questi temi hanno rapporti privilegiati con prefetture e Agenzia. Il silenzio è solo ipocrisia, oppure serve al mantenimento di posizioni lobbistiche funzionali ad orientare progetti, destinazione e assegnazione dei beni. Il timore dell’accusa di voler riconsegnare i beni alle mafie ha impedito ogni discussione. E così ci si ferma alla propaganda, mantenendo uno status quo che si dice di voler cambiare, a partire dal ruolo dell’Agenzia nazionale che, al di la delle persone, è più un ostacolo che uno strumento per affermare una dimensione socialmente utile della lotta alla mafia. Aggravante cancellata dal Senato, il Ddl sul Cyberbullismo torna alla Camera di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 1 febbraio 2017 Nuovo stop per il ddl sul cyberbullismo che ora torna alla Camera dei deputati per la terza lettura. Ieri il Senato ha approvato praticamente all’unanimità dei presenti (224 a favore e 1 contro) il testo riveduto e corretto dalla I Commissione. L’intervento degli Affari costituzionali, che traeva spunto dalle dichiarazioni del senatore Lucio Malan, suggeriva di cancellare dal testo la parte integrata proprio dalla Camera e relativa al versante repressivo/penale della normativa, segnando di fatto il ritorno all’articolato approvato in prima lettura da Palazzo Madama nel lontano maggio del 2105. Secondo la Commissione, ampiamente avallata dal voto assembleare, il provvedimento in esame "non è rivolto agli adulti bensì ai minori in ambito scolastico, non verte sul fenomeno generale del bullismo, di cui è già previsto il reato, bensì sul fenomeno specifico del cyberbullismo che il legislatore intende contrastare con misure preventive anziché repressive, puntando sull’educazione, la sensibilizzazione, la diffusione della consapevolezza". La norma soppressa prevedeva la reclusione da uno a sei anni se gli "atti persecutori" (articolo 612-bis del codice penale) vengono commessi "attraverso strumenti informatici o telematici". La stessa pena era prevista, nell’ipotesi della Camera, se c’è sostituzione di persona con invio di messaggi o divulgazione di testi o immagini, o ancora realizzazione o divulgazione di documenti contenenti la registrazione di fatti di violenza e di minaccia. Secondo Lucio Malan "l’altro ramo del Parlamento, preso dall’entusiasmo, al disegno di legge approvato dal Senato aveva aggiunto anche il fenomeno del bullismo, estendendo enormemente il campo e introducendo una serie di comportamenti con definizioni molto vaghe, cosa che renderebbe inefficace la parte sulla quale noi ci eravamo focalizzati" e mettendo a rischio la stessa libertà di espressione con un eccesso di interventismo, perseguendo "un obiettivo talmente vasto da essere molto difficilmente raggiungibile". Secondo Malan, bullismo e cyberbullismo vanno perseguiti invece "separatamente, con un altro disegno di legge". Il problema del bullismo digitale è comunque drammatico, come ha sottolineato la senatrice Nicoletta Favero: "Secondo i dati Skuola net, Censis e Polizia postale, il 6 % degli adolescenti e preadolescenti in Italia è vittima di cyberbullismo; l’11 di questi ha tentato il suicidio; il 50% delle vittime è autolesionista e ha pensato al suicidio; il 77 % dei nostri presidi ci dice che ritiene che sul web sia più frequente il bullismo. La prevenzione ed il contrasto al cyberbullismo passano attraverso il contrasto alla dispersione scolastica e ad ogni forma di discriminazione e di bullismo, ma ci vogliono le risorse e le risorse ci sono e sono anche già state appostate all’interno della legge della buona scuola". A margine del dibattito parlamentare Elena Centemero, presidente della Commissione Eguaglianza del Consiglio d’Europa ha detto di augurarsi che "l’Italia recepisca le indicazioni contenute nel Rapporto della Commissione Equality del Consiglio d’Europa contro le cyber-discriminazioni e l’odio online, approvato la settimana scorsa a Strasburgo. Tra i punti cruciali, l’educazione delle giovani e dei giovani per far sì che rifiutino l’odio online e che sappiano come agire se diventano vittime di cyber-discriminazioni e cyberbullismo". Che cosa prevede il ddl per la prevenzione del Cyberbullismo La Repubblica, 1 febbraio 2017 Questi alcuni degli snodi del provvedimento per il contrasto al cyberbullismo, che prevede misure fuori dal circuito penale, approvato con modifiche dal Senato in terza lettura e quindi ora tornato all’esame della Camera. Cosa si intende per cyberbullismo? Si intende qualunque forma di pressione, aggressione, molestia, ricatto, ingiuria, denigrazione, diffamazione, furto d’identità, alterazione, acquisizione illecita, manipolazione, trattamento illecito di dati personali in danno di minorenni, realizzata per via telematica, nonché la diffusione di contenuti on line aventi ad oggetto anche uno o più componenti della famiglia del minore il cui scopo intenzionale e predominante sia quello di isolare un minore o un gruppo di minori ponendo in atto un serio abuso, un attacco dannoso, o la loro messa in ridicolo. A chi si rivolge. Ciascun minore ultraquattordicenne, nonché ciascun genitore o soggetto esercente la responsabilità del minore che abbia subito taluno degli atti di cui all’articolo 1 comma 2 della legge può inoltrare al titolare del trattamento o al gestore del sito Internet o del social media un’istanza per l’oscuramento, la rimozione o il blocco di qualsiasi altro dato personale del minore, diffuso nella rete internet Chi deve vigilare. Con decreto del presidente del Consiglio, da adottare entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore della legge, è istituito presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, il tavolo tecnico per la prevenzione e il contrasto del cyberbullismo, coordinato dal ministero dell’Istruzione, dell’università e della ricerca. Il tavolo ha lo scopo di portare alla definizione, entro sessanta giorni dal suo insediamento, di un piano di azione integrato per il contrasto e la prevenzione del cyberbullismo, nel rispetto delle direttive europee in materia e e realizza un sistema di raccolta di dati finalizzato al monitoraggio dell’evoluzione dei fenomeni. Le misure di contrasto. Il piano stabilisce le iniziative di informazione e di prevenzione del fenomeno del cyberbullismo rivolte ai cittadini, coinvolgendo primariamente i servizi socio-educativi presenti sul territorio, in sinergia con le scuole. Il ministero dell’Istruzione, dell’università e della ricerca, sentito il ministero della Giustizia - Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità, entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore della legge adotta linee di orientamento per la prevenzione e il contrasto del cyberbullismo nelle scuole, anche avvalendosi della collaborazione della Polizia postale, e provvede al loro aggiornamento con cadenza biennale. Chi si attiva. Salvo che il fatto costituisca reato, il dirigente scolastico che venga a conoscenza di atti di cyberbullismo ne informa tempestivamente i soggetti esercenti la responsabilità genitoriale ovvero i tutori dei minori coinvolti e attiva adeguate azioni di carattere educativo. Le risorse. Per le esigenze connesse allo svolgimento delle attività di formazione in ambito scolastico e territoriale finalizzate alla sicurezza dell’utilizzo della rete internet e alla prevenzione e al contrasto del cyberbullismo sono stanziate risorse pari a 203.000 euro per ciascuno degli anni 2017, 2018 e 2019 Le misure. Fino a quando non è proposta querela o non è presentata denuncia per taluno dei reati di cui agli articoli 594, 595 e 612 del codice penale e all’articolo 167 del codice per la protezione dei dati personali mediante la rete internet, da minorenni di età superiore agli anni quattordici nei confronti di altro minorenne, è applicabile la procedura di ammonimento. Ai fini dell’ammonimento, il questore convoca il minore, unitamente ad almeno un genitore o ad altra persona esercente la potestà genitoriale. Chi fiancheggia i terroristi non avrà lo status di rifugiato di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 1 febbraio 2017 Corte Ue - Sentenza 573/14. Gli Stati membri devono negare lo status di rifugiato anche a chi svolge un’attività indiretta per favorire atti terroristici, senza compiere direttamente l’azione. È la Corte di giustizia dell’Unione europea a mettere nero su bianco il principio che allarga gli spazi statali per fronteggiare le reti terroristiche internazionali e stringe sulla concessione della protezione internazionale. Con la sentenza depositata ieri (C-573/14), che ha visto la partecipazione di ben 8 Stati membri, inclusa l’Italia, la Corte ha chiarito che il no alla concessione dell’asilo deve essere opposto non solo se il richiedente è autore diretto di un atto terroristico, ma anche se partecipa, come appartenente a una rete, all’attività di reclutamento, organizzazione, trasporto o equipaggiamento dei foreign fighters. È stato il Consiglio di Stato belga a sollevare la questione pregiudiziale alla Corte Ue. Un cittadino marocchino, condannato dal Tribunale di Bruxelles per aver partecipato all’attività di reclutamento di terroristi da inviare in Iraq, aveva presentato una domanda di asilo che era stata respinta. La commissione per il contenzioso in materia di stranieri era di avviso contrario e il Consiglio di Stato, prima di pronunciarsi, si è rivolto agli euro giudici. La Corte di giustizia precisa che la direttiva 2004/83 recante norme minime sull’attribuzione della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale (recepita in Italia con Dlgs n. 251/2007) fissa i motivi in base ai quali uno Stato membro può rifiutare la concessione dell’asilo, prevedendo, tra le cause di esclusione, il fatto che il richiedente "si sia reso colpevole di atti contrari alle finalità e ai principi delle Nazioni Unite". Questa causa - osserva la Corte - non va interpretata limitandone l’applicazione ai soli casi di condanna per i reati terroristici stabiliti dalla decisione quadro 2002/475/Gai sulla lotta al terrorismo, ma va estesa anche ad atti come l’incitamento e la pianificazione del terrorismo. Tra l’altro, la direttiva va interpretata tenendo conto delle risoluzioni del Consiglio di sicurezza, inclusa la n. 1624 del 2005 che chiede agli Stati di negare l’asilo a un individuo "sul cui conto si dispongano di informazioni attendibili e pertinenti secondo cui sussistono fondati motivi per ritenere che egli sia colpevole di istigazione a commettere uno o più atti terroristici". Questo vuol dire anche prescindendo da una condanna in sede penale. La Corte Ue, poi, ha evidenziato l’importanza della repressione delle attività di reclutamento di combattenti stranieri. Tra l’altro, che la stessa direttiva intenda ampliare lo spettro di applicazione delle cause di esclusione, non limitandole ai soli casi di partecipazione diretta, deriva dal fatto che essa richiama ogni atto contrario "alle finalità e ai principi delle Nazioni Unite" e non unicamente la commissione di un atto terroristico. Spetta, poi, al giudice nazionale procedere ad un accertamento caso per caso. Con una chiara indicazione, però, di Lussemburgo che, in via di fatto, traccia la strada alle autorità interne le quali devono prendere in considerazione un’eventuale condanna dei tribunali nazionali nonché l’inclusione del richiedente nelle cosiddette black-list del Consiglio di sicurezza. Omicidio stradale: la pena più severa non si applica ai fatti avvenuti prima del marzo 2016 di Domenico Carola Il Sole 24 Ore, 1 febbraio 2017 Corte di Cassazione - Sezione IV - Sentenza 18 gennaio 2017 n. 2403. Il caso preso in esame dalla Cassazione con la Sentenza n. 2403 del 18 gennaio 2017, è quello di un uomo che, circolando sotto l’effetto dell’alcol, ha causato un sinistro stradale e la conseguente morte di due persone. L’evento, di gravità inaudita, viene così riassunto dalla Corte territoriale: "smodatamente ubriaco, circolando a velocità sostenuta in un centro abitato, privo di ogni controllo della guida, zigzagando e viaggiando contromano, con assoluto disprezzo per la altrui incolumità, l’automobilista aveva investito due ciclisti che procedevano regolarmente in fila indiana, uccidendo il padre e, del tutto fortuitamente, solo ferendo il figlio di otto anni". Il ricorso - Il conducente, condannato a tre anni e dieci mesi di reclusione per un concorso di più reati (fra cui omicidio stradale e guida in stato di ebbrezza) presenta ricorso in Cassazione lamentando, fra l’altro: • l’incompatibilità della doppia condanna ricevuta, per omicidio stradale e per guida in stato di ebbrezza, sostenendo che considerare lo stesso fatto (l’alterazione psicofisica dovuta all’alcol) per procedere alla doppia condanna rilevata violerebbe il principio del "ne bis in idem sostanziale che impedisce di porre a carico del soggetto due volte la stessa circostanza di fatto"; • la gravità della pena ricevuta, considerato il non riconoscimento delle attenuanti generiche. Il parere della Cassazione: la definizione di omicidio stradale - La Corte nel procedere al rigetto del ricorso presentato ricorda il testo dell’articolo 589-bis del codice penale, entrato in vigore nel marzo del 2016: "Chiunque, ponendosi alla guida di un veicolo a motore in stato di ebbrezza alcolica o di alterazione psicofisica conseguente all’assunzione di sostanze stupefacenti o psicotrope ai sensi rispettivamente degli articoli 186, comma secondo, lettera c), e 187 del codice della strada cagioni per colpa la morte di una persona, è punito con la reclusione da otto a dodici anni". Come si legge nel testo dell’articolo e come ribadito dai Giudici, la nuova legge prevede chiaramente chiunque sia alla guida di un veicolo in guida in stato di ebbrezza una pena più grave rispetto al "caso-base" (che si riferisce a "chiunque cagioni per colpa la morte di una persona" violando nella circostanza il Codice della Strada). Prima dell’entrata in vigore della cosiddetta legge sull’omicidio stradale il Codice Penale, all’articolo 589prevedeva, per l’ipotesi di omicidio colposo aggravato da guida in stato d’ebbrezza, una pena compresa fra i tre e i dieci anni di reclusione. Il problema che la Corte si pone è quella della successione delle diverse leggi nel tempo. Considerato che il reato è stato commesso prima del 2016, e quindi prima dell’entrata in vigore del testo citato in precedenza, quale norma applicare? Il principio della lex mitior - Alla luce della Sentenza n. 210 del 2013 della Corte costituzionale, la quale "non sancisce solo il principio della irretroattività delle leggi penali più severe, ma anche, e implicitamente, il principio della retroattività della legge penale meno severa", e del principio della lex mitior, secondo il quale una volta ricavata una legge meno severa questa è da applicarsi integralmente, appare evidente che l’imputato vada punito secondo la legge in vigore al momento dell’incidente. Da qui discendono i tre anni di pena applicati contro gli otto previsti dal reato di omicidio stradale. Quanto al riferimento al concetto del ne bis in idem la Corte ricorda "che uno stesso elemento ben può essere utilizzato più volte sotto differenti profili per distinti fini e conseguenze", come in questo caso accade per lo stato di ebbrezza alcolica, aggravante del reato di omicidio stradale e reato a sé stante che comporta l’aumento di quattro mesi della reclusione prevista. Riguardo alle circostanze attenuanti gli Ermellini ricordano che la motivazione data dal giudice non può essere sindacata in Cassazione "neppure quando difetti di uno specifico apprezzamento per ciascuno dei pretesi fattori attenuanti indicati nell’interesse dell’imputato". Rifiuto dell’alcoltest, condanna legittima anche senza difensore di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 1 febbraio 2017 Corte d’Appello di Cagliari - Sezione 1 - Sentenza 4 novembre 2016 n. 1070. In caso di rifiuto a sottoporsi alla prova dell’etilometro non vi è alcun obbligo di informare l’imputato del diritto di farsi assistere da un difensore. Con questa motivazione la Corte d’Appello di Cagliari, sentenza del 4 novembre 2016 n. 1070, ha respinto il ricorso di un motociclista contro la decisione del Tribunale di Cagliari che lo aveva condannato a 6 mesi di arresto, 200 euro di ammenda, ed alla pena accessoria della sospensione della patente di guida per 6 mesi, in quanto ritenuto colpevole del reato previsto dal comma 7 dell’articolo 186 del codice della strada "perché rifiutava di sottoporsi all’accertamento del tasso alcolemico". Una pattuglia composta da due agenti constatava "i classici sintomi dello stato di ebbrezza" in un individuo fermo presso un parco giochi e accertava che il motociclo parcheggiato poco distante era di sua proprietà. A questo punto, dopo un ammonimento verbale e la rassicurazione dell’imputato che di li a poco sarebbe arrivato un suo amico per accompagnarlo a casa, i carabinieri si allontanavano appostandosi 300 metri più avanti. Dopo mezz’ora però lo videro alla guida del motociclo "con un’andatura instabile e barcollante" e decisero di fermarlo per procedere all’alcol test. L’imputato si rifiutò "categoricamente" di sottoporsi all’accertamento e dopo poco si accasciò a terra. Quindi, su richiesta dell’imputato, i militari chiamarono il 118, ma all’arrivo i sanitari non trovarono più nessuno. Il giudice di primo grado ha riconosciuto la responsabilità del motociclista "in quanto era emerso sia l’elemento oggettivo che quello soggettivo, essendo il rifiuto connotato quanto meno da colpa". Ed ha negato la scriminante dello stato di necessità considerato che il malore è stato successivo al rifiuto di sottoporsi all’alcoltest, inoltre, argomentava, "se effettivamente l’imputato avesse avuto la necessità di essere soccorso avrebbe aspettato l’arrivo dei sanitari". Secondo l’imputato invece egli si era fermato per un bisogno fisiologico ma siccome il malore continuava si era rimesso alla guida per raggiungere la casa di un amico. A quel punto venne fermato e per il riacutizzarsi del malore cadde a terra ma poi decise comunque di allontanarsi a piedi visto il ritardo dell’ambulanza. I militari nel contempo con "un comportamento poco professionale, invece di vigilare si ritirarono nella volante per attendere i sanitari in luogo riscaldato e asciutto". Per il giudice di secondo grado, però, come chiarito dalla Suprema Corte (sentenza n. 43845/2014), "quando si procede per il reato di guida in stato di ebbrezza, l’obbligo di dare avviso al conducente della facoltà di farsi assistere da un difensore per l’attuazione dell’"alcoltest" non ricorre se l’imputato abbia rifiutato di sottoporsi all’accertamento". Non vi è dunque, conclude la sentenza, alcuna evidenza dell’innocenza dell’imputato, dovendosi rilevare unicamente "l’erroneo riferimento alla colpa contenuto in un passo della motivazione, circa la sussistenza dell’elemento psicologico "essendo il rifiuto connotato quanto meno da colpa" che non si comprende come possa non essere sorretto dal dolo". Ciononostante, "poiché il fatto è stato commesso il 18 novembre 2010, il reato si è estinto per prescrizione il 18 novembre 2015". Genitori, non c’è reato se i figli abbandonano prima di finire le medie di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 1 febbraio 2017 Corte di cassazione - Sezione III -Sentenza 31 gennaio 2017 n. 4520. Nessuna sanzione penale per il genitore che non impedisce ai figli di lasciare gli studi prima di aver terminato la scuola media inferiore. La Cassazione (sentenza 4520), accoglie il ricorso dei genitori contro la condanna all’ammenda disposta dal giudice di pace per la violazione dell’articolo 731 del codice penale, che punisce l’inosservanza dell’obbligo di istruzione elementare dei minori. Per il giudice di pace i genitori, senza un giustificato motivo, erano venuti meno all’obbligo di vigilare sulle assenze dei due figli che, protratte per tutto l’anno, si erano tradotte nell’abbandono scolastico. La difesa dei genitori era focalizzata su due aspetti. Il giudice di pace non aveva considerato l’abrogazione della norma (articolo 8 della legge 1859/1962) che consentiva l’applicazione dell’articolo 731 del Codice penale. Inoltre il giudice di prima istanza non aveva verificato se la mancata frequenza scolastica dei minori dipendeva da un loro categorico rifiuto non superabile con l’intervento dei genitori. Sul punto non era stata valorizzata una testimonianza secondo la quale i due giovani avevano deciso di lasciare perché discriminati in quanto rom. La verifica però non serve, visto che la prima obiezione sollevata dalla difesa è centrata. Con il cosiddetto decreto "taglia leggi" (Dlgs 212/2010) - che ha eliminato circa 200mila disposizioni precedenti al 1970 non esplicitamente indicate come necessarie - è stato definitivamente abrogato anche l’articolo 8 della legge 1858/1962: la norma sulla quale poggiava la contravvenzione penale. Secondo l’articolo cancellato l’obbligo scolastico é esteso fino al conseguimento del diploma di scuola media (secondaria di primo grado) o "al compimento del quindicesimo anno di età se il minore dimostri di aver osservato per almeno otto anni le norme sull’obbligo scolastico". Attualmente la legge 53 del 2003 afferma l’obbligo scolastico per almeno 12 anni a partire dalla iscrizione alla "scuola elementare" "o comunque sino al conseguimento di una qualifica di durata almeno triennale entro il 18 anno di età". Tuttavia non c’è - precisa la Cassazione - alcuna norma penale che punisce l’inosservanza dell’obbligo scolastico della scuola media anche inferiore. L’articolo 731 del Codice penale sanzionava, infatti, l’obbligo di istruzione originariamente previsto dal Rd 577/1928 per la sola scuola elementare. Un obbligo esteso poi alla media inferiore (articolo 8 legge 1859/1962) e successivamente ai due anni della superiore (legge 53/2003). Ma la norma penale non può essere usata in maniera "elastica" per sanzionare le diverse violazioni previste dalle varie leggi nel tempo. Il Codice penale vale solo in caso di abbandono della scuola elementare. Giovani e criminalità, punire il delitto non basta Massimo Krogh Il Mattino, 1 febbraio 2017 Sul Mattino di sabato scorso, dalle soglie alte della magistratura, il presidente della Corte di Appello Giuseppe de Carolis e il procuratore generale Luigi Riello avvertono la città sull’inquietante quadro delle infiltrazioni camorristiche giovanili, le cosiddette stese, che minacciano la vita del territorio nella forma e nella sostanza di un nuovo terrorismo. Purtroppo, si tratta di un morbo permanente per ciò che riguarda la mano della camorra, ma di un fatto nuovo quanto all’integrante partecipazione dei molto giovani; proprio per questo profilo la cosa è maggiormente preoccupante, perché tocca ai giovani di essere la speranza del futuro. Occorre prendere atto che questo doloroso fenomeno compromette il rapporto di Napoli con il Paese, nel senso che, volente o nolente, la nostra città finisce col divenire nell’immaginario collettivo una palla al piede. I due alti magistrati bene hanno fatto ad elevare questa denuncia, difatti la verità è un valore irrinunciabile ed è una spinta a cambiare per avviarsi nella direzione giusta. Forse solo lo sviluppo dell’economia, con risultati sull’occupazione, dando ai ragazzi meno fortunati una prospettiva di sistemazione e di sviluppo, potrebbe invertire culturalmente la piaga del territorio riducendo la pressione della tentazione criminale; ma ciò non può avvenire senza la sconfitta del crimine organizzato, che costituisce un blocco rigido sul progresso. Peraltro, il serpente si morde la coda poiché, se l’economia non può decollare sotto la cappa della camorra, è vero però come sia difficile sconfiggere la camorra senza lo sviluppo dell’economia, dalla cui debolezza essa trae gli elementi del suo nutrimento. La politica sembra liberarsi del complesso problema rimettendolo alla magistratura, immaginata come una frontiera, una sorta di muro alzato davanti alla criminalità; ma ciò è illusorio, soprattutto con gli strumenti di un processo il cui funzionamento, meglio disfunzionamento, è sotto gli occludi tutti. La certezza della pena sappiamo tutti che non esiste nei fatti, e si dovrebbe anche cominciare a capire che il delitto si punisce ma non si sconfigge con la pena. Al processo penale va contrapposta sul piatto della bilancia l’individuazione e la praticabilità di mediazioni che sottraggano alla giustizia tutto quanto sia possibile rimettendolo a soluzioni differenziate. Lo Stato dovrebbe dare un posto prioritario alla lotta al crimine organizzato, il quale incidendo a Napoli sull’omogeneità del Paese è una minaccia non da poco. Problema variegato poiché s’incrocia con il mondo degli appalti d’opere sia pubbliche che private, con la composizione delle istituzioni pubbliche, con le sfere del commercio, con l’esposizione dei ragazzi e delle ragazze alla tentazione della droga, insomma con gli infiniti passaggi del percorso di vita. Ecco perché lo Stato dovrebbe farsene un carico prioritario lasciando alla magistratura il compito di punire ma non di risolvere. Su queste cose, che inascoltato ho già scritto molto tempo fa (ciò è il segno che non si cambia), le quali non sono secondarie per i riflessi che hanno, non sembra potersi cogliere attenzione nelle riforme che sono in cantiere. Difatti, si continua nella distorta cultura che il pubblico ministero, e ciò non solo a Napoli, dovrebbe risolvere ogni cosa con le sue molte iniziative troppo spesso fondate, esclusivamente, sulla disperazione della gente, che spinge e preme non sapendo cosa fare. Io credo che Napoli, per dare fiducia ai suoi giovani, per distoglierli dalla criminalità, dovrebbe essere essa stessa protagonista di un risveglio di intelligenza che le consenta di risalire e assumere nell’immagine collettiva il posto di una grande capitale dell’intero Mezzogiorno, capace di dare ai giovani concrete e grandi speranze, vale adire ciò che la gioventù di ogni parte del mondo esige per sentirsi necessaria. Reggio Calabria: il tribunale di Sorveglianza ha una sede nuova, ma è occupata da altri di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 1 febbraio 2017 Da tempo il tribunale di sorveglianza di Reggio Calabria è al collasso. Una situazione lavorativa insostenibile, sia per quanto riguarda il i magistrati, che per il personale di cancelleria. Le piante organiche, sono datate nel tempo e non adeguate alle esigenze che la normativa vigente impone. Il tribunale ha lo stesso numero di magistrati al tempo in cui gestiva tre carceri, mentre attualmente gli istituti penitenziari da gestire sono cinque. A farne le spese, però, sono i detenuti. Come ha denunciato la delegazione del Partito Radicale, guidata dall’ex deputata Rita Bernardini e dall’avvocato Gianpaolo Catanzariti in occasione della recente visita agli istituti penitenziari ricadenti nella giurisdizione del Tribunale di Sorveglianza di Reggio Calabria, unanimi sono state le rimostranze dei detenuti sulle ritardate o addirittura mancate risposte alle istanze riguardanti la concessione della liberazione anticipata, della detenzione domiciliare, dei rimedi risarcitori e dei permessi premio. A sollevare questo problema, e non solo, è stato il vicepresidente della Camera dei deputati, Roberto Giachetti, con una interrogazione a risposta scritta rivolta al ministro della Giustizia e a quelli dell’Interno e dell’Economia. Nell’interrogazione denuncia anche un fatto ed esorta a prendere provvedimenti. Esiste un fabbricato, confiscato alla criminalità organizzata, che è stato assegnato al tribunale di sorveglianza di Reggio Calabria, ma gran parte di esso è occupato da una società di assicurazione rendendo quindi inutilizzabile l’edificio. Come spiega nell’interrogazione Giachetti il prefetto Umberto Postiglione, direttore dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata, in data 16 giugno 2016, ha decretato di destinare il fabbricato sito in Reggio Calabria, in via Biagio Camagna 4, a sede del tribunale di sorveglianza. Una buona notizia visto che lo stesso presidente del tribunale di sorveglianza, Vincenzo Pedone, nella relazione indirizzata al presidente della Corte d’appello di Reggio Calabria per il discorso inaugurale dell’anno giudiziario 2017, ha evidenziato la precaria e annosa situazione logistica del tribunale, dell’ufficio di sorveglianza e degli archivi. Per questo moti- vo, sempre il presidente Pedone, ha sottolineato che la commissione per la manutenzione ha deliberato all’unanimità di assegnare al tribunale di sorveglianza l’immobile, essendo del tutto adeguato alle esigenze logistiche e di decoro istituzionale. Ma nonostante abbiano le chiavi per poter finalmente accedere all’edificio, il tribunale di sorveglianza non può usufruirne. Giachetti, infatti, denuncia che "l’Agenzia del demanio, nel consegnare il fabbricato sito in via Camagna 4, escludeva le unità immobiliari occupate dalla Soc. Franco s. r. l., rendendo così del tutto impossibile l’utilizzo da parte del tribunale di sorveglianza dell’edificio assegnato. Eppure - si legge nell’interrogazione - secondo la sentenza 27711/ 2015 n. 5383, il Consiglio di Stato ha stabilito che la confisca di immobili appartenenti ad organizzazioni criminali fa decadere i contratti di locazione che erano stati stipulati per questi immobili". La sentenza ha precisato che, in base all’articolo 2 della legge n. 575 del 1965, se vi è un contratto di locazione, esso permane sino alla destinazione finale del bene confiscato. Nonostante la legge stia dalla parte del Tribunale di Sorveglianza, la società di assicurazione continua ad occupare gran parte dell’immobile. La sede del tribunale quindi rimane sempre la stessa e del tutto inadeguata. Agrigento: un progetto per valorizzare il penitenziario di Sciacca di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 1 febbraio 2017 Lunedì il capo del Dap, Santi Consolo, ha visitato l’istituto. C’è un progetto per il miglioramento del carcere di Sciacca (Agrigento), ospitato nell’antico convento dei Padri Carmelitani. È quanto ha appreso il sindaco Fabrizio Di Paola partecipando al sopralluogo, lunedì, nel penitenziario saccense del capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), Santi Consolo. "La visita a Sciacca del capo del Dap - dicono il senatore Giuseppe Marinello e il sindaco Fabrizio Di Paola ha avuto lo scopo di verificare da vicino le condizioni della struttura di via Gerardi e di illustrare anche le progettualità del Dipartimento. L’amministrazione penitenziaria intende confermare il mantenimento del carcere saccense con opere di miglioramento e di valorizzazione dell’antico edificio. Si pensa a interventi che facciano del carcere di Sciacca - aggiungono - una struttura pilota, con opere di adeguamento delle celle e dei servizi igienici, l’individuazione di spazi dove i detenuti possano essere coinvolti in attività lavorative, artigianali e artistiche e dove i prodotti del loro lavoro vengano esposti e fruiti dall’esterno. L’idea è quella di un "carcere aperto" che già si sperimenta nelle collaborazioni con le scuole cittadine". Durante la visita di Consolo, spiega il sindaco Di Paola, "sono stati apprezzati i pregi artistici, storici e architettonici dell’intero complesso, ulteriormente valorizzabili e recuperabili con il lavoro dei detenuti, previe intese con la Soprintendenza per i beni e culturali e ambientali". Potrebbero così essere riportati alla luce gli affreschi e i decori antichi oggi del tutto nascosti da sovrastrutture più recenti. Campobasso: morì in carcere in seguito ad un infarto, disposti altri accertamenti molisedoc.it, 1 febbraio 2017 A distanza di due anni si riapre il capitolo relativo al decesso di Alessandro Ianno, il giovane campobassano di 33 anni morto nel carcere di Campobasso il 19 marzo del 2015 per un arresto cardiocircolatorio. A disporre ulteriori accertamenti sulla morte del giovane è stato il gip del Tribunale di Campobasso, Teresina Pepe in seguito alla perizia di parte presentata dai legali della famiglia Ianno, gli avvocati Silvio Tolesino e Antonello Veneziano, nella quale si dichiara che nel caso Ianno c’è stata omissione. Ora il caso passa nelle mani di un altro pm. Per il caso Ianno furono indagate quattro persone, tra personale medico e infermieristico del carcere. Il giovane si trovava in cella con l’accusa di furto quando la mattina del 19 marzo venne colto da dolori lancinanti allo stomaco, al petto e alla spalla, i classici sintomi di un infarto. Il personale medico gli somministrò un Maalox, ma i dolori non scomparvero, anzi divennero più forti, fino al tragico epilogo: Alessandro Ianno crollò sul pavimento del corridoio mentre si stava recando di nuovo in infermeria. Erano le 17 del pomeriggio del 19 marzo. Una morte sopraggiunta sotto gli occhi di una decina di testimoni. Sul corpo del giovane venne eseguita l’autopsia che parlò di un infarto cosiddetto silente, non percepibile. Ma Alessandro Ianno fin dalla mattina aveva lamentato dolori e lo aveva detto a tutti. Nonostante il caso si presentasse molto particolare, il sostituto procuratore che si occupò delle indagini all’epoca chiese e ottenne l’archiviazione. Ora il caso Ianno si riapre alla luce della perizia dei legali della famiglia e in questa nuova fase è probabile che arrivino le riposte alle tante domande degli avvocati Tolesino e Veneziano: nell’infermeria del carcere c’era un apparecchio per l’elettrocardiogramma e un defibrillatore? E se c’erano perché non sono stati usati visto che Ianno aveva avuto problemi cardiaci in passato? Resta da chiarire anche perché non combaciano gli orari della morte del giovane. Ci sarebbe infatti uno scarto di almeno un’ora tra le dichiarazioni rese dai testimoni e quelle del personale medico. Insomma da questa nuova fase di accertamenti ci si aspetta che venga fuori solo la verità. Come da tempo reclama la famiglia di Alessandro Ianno. Isili (Nu): Fp-Cgil denuncia carenza di agenti "personale stressato anche da straordinari" Ansa, 1 febbraio 2017 Carenza di personale, cambio dei turni di lavoro, condizioni stressanti e inadeguate. È così che il sindacato Fp Cgil Polizia penitenziaria descrive la situazione del lavoro degli agenti in servizio nella Casa di reclusione di Isili. "L’attuale situazione dell’istituto non permette di assolvere il mandato istituzionale assegnato al Corpo di Polizia penitenziaria. Infatti, a causa della carenza di personale, gli agenti sono costretti sempre più a operare in condizioni di oggettiva difficoltà e con scarsissimi livelli di sicurezza - spiega Sandro Atzeni, del coordinamento regionale del sindacato. Al fine di garantire un minimo livello sicurezza, in palese violazione degli accordi siglati a livello nazionale, la direzione ha imposto arbitrariamente, la turnazione dei servizi su tre quadranti (otto ore di servizio), a fronte delle sei previste. La situazione potrebbe degenerare da un momento all’altro". Ma non solo, il sindacato sostiene che gli agenti siano costretti a sopportare "condizioni di lavoro stressanti" dovute anche agli straordinari, e aggiunge che non vengono loro pagati i servizi di missione in alcuni casi da luglio dello scorso anno. Il sindacato, puntando il dito contro il direttore della casa di reclusione di Isili e del provveditore regionale, chiedono l’intervento del Dipartimento in modo da "disporre con celerità l’invio di un congruo numero di unità di personale di Polizia penitenziaria" per innalzare i livelli di sicurezza e chiede, inoltre, che vengano sbloccate le pratiche burocratiche per il pagamento delle missioni. Cagliari: Caligaris (Sdr) "sieropositivo con epatite cronica richiuso nel carcere di Uta" Ristretti Orizzonti, 1 febbraio 2017 "È rinchiuso nella Casa Circondariale di Cagliari S.I. 45 anni, sieropositivo con complicazioni generali nonché epatite Hcv cronica. L’uomo, affetto da flebopatia con ulcere infettate negli arti inferiori, grave osteoporosi, non è in grado di camminare autonomamente e utilizza una carrozzina per muoversi. Le sue condizioni non sembrano compatibili con una struttura detentiva". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme", "sollecitando un intervento urgente del Magistrato di Sorveglianza". "La situazione sanitaria di S.I. - afferma - è aggravata da uno stato di prostrazione che rende l’uomo incapace di reagire positivamente. Piange con facilità e afferma di volere accudire l’anziana madre che non è in grado di andare in carcere a trovarlo. Sono anche evidenti sulla sua testa le cicatrici di un pregresso incidente stradale che aveva determinato a suo tempo un periodo di coma". "Nonostante non si tratti di uno stinco di santo - osserva la presidente di SDR - non sembra opportuno mantenere dentro una cella una persona non autosufficiente. Le condizioni di salute non appaiono tali insomma da potergli far scontare la pena in stato di detenzione anche per la necessità di ricorrere costantemente alle cure del personale infermieristico e medico". Milano: l’Idroscalo recuperato dai detenuti, "giardinieri" da Bollate e Opera di Paolo Foschini Corriere della Sera, 1 febbraio 2017 Sono in dieci. L’idea di Beppe Sala e Luigi Pagano: "Esportare il modello nei parchi pubblici. Idea che va trasformata in cooperative, in lavoro stabile". Rosario detto Tagliatella non ti puoi sbagliare, lo vedi una volta e non te lo scordi più, è il romano che usando il seghetto al posto dell’indice mostra al sindaco il lavoro fatto in quel punto e ripete quel che aveva detto a ottobre: "Lo so c’amo fatto tanti danni ar monno. Ma lavoramo per recuperà. Mo’ sse deve continnuà". Beppe Sala si guarda intorno. Fino a tre mesi fa il verde dell’Idroscalo era, salvo i miracoli compiuti da due cantonieri fin dove possibile, talmente incolto che per entrarci ci voleva il machete. Perché due anni senza manutenzione per mancanza di fondi hanno un peso. Adesso invece il peso è quello ottenuto da Rosario e dagli altri nove detenuti come lui: niente più erbacce, alberi puliti, cespugli in ordine, erba rasata. Dappertutto. Il sindaco guarda Tagliatella e gli risponde in un secondo: "Non solo continuare. Questa cosa bisogna moltiplicarla. Portarla dall’Idroscalo anche in altri parchi della città. E non solo. Va trasformata in coop, in lavoro stabile, in un progetto semplice e replicabile. Adottabile anche dai privati. Soprattutto dai privati, spero un giorno. Ci lavoriamo, va bene Gigi?". Gigi è Luigi Pagano, provveditore delle carceri lombarde. "Certo che sì", risponde. Hanno appena finito la visita fatta all’Idroscalo con Alberto Di Cataldo, direttore del parco, per vedere i risultati di quel che il 18 ottobre scorso era partito come un esperimento: dieci detenuti - nove di Bollate e uno di Opera - per rimettere a posto quel che la fine del budget nel passaggio di gestione da Provincia a Città metropolitana aveva lasciato andare. Certo, era già andato bene il precedente dell’Expo, dove i detenuti presi a lavorare erano stati addirittura cento. Ma stavolta in effetti era un passo in più, lavoro tecnico da imparare, spesso pesante. Ieri tanto i volontari delle Giacche verdi, che li hanno istruiti all’inizio, quanto l’architetto Andrea Garavaglia, che per la Città metropolitana li ha seguiti passo passo, hanno mostrato al sindaco i risultati: "Non solo la ripristinata manutenzione del verde ma la ri-imbiancatura di diverse strutture in zona tribune, la costruzione di due nuovi box per i cavalli, l’autonomia nell’uso di mezzi, la disponibilità sempre e comunque...". Finora il loro inquadramento è stato per il primo mese quello di volontari dentro l’articolo 21 sul lavoro esterno dei detenuti, e in seguito quello di rimborsati con i fondi della Borsa-lavoro. Alcuni di loro si son presi l’incarico così a cuore che finite le ore pagate della settimana (lunedì -venerdì, 9-15) tornano all’Idroscalo come volontari anche nei weekend. L’esperienza però scade ad aprile. È chiaro che a questo punto sono tutti un po’ sulle spine. "Da dove vieni?", chiede Sala a uno che sorride sempre. "Albania. Spero che sia veramente un inizio". Accanto alla sede delle Giacche verdi, verso la Punta dell’Est, hanno costruito una casetta di legno in cui per il sindaco hanno allestito uno spuntino. Pasquino, a cui mancano tre anni e mezzo per finire i 22 della sua pena, sintetizza: "L’auspicio è che tutto questo si possa non solo ripetere con altri detenuti ma anche trasformare in un lavoro dopo". Pagano cita un dato: "Su 55mila detenuti presenti oggi in Italia almeno 20mila avrebbero già tutti i requisiti per accedere a misure alternative e lavoro esterno, ma vengono tenuti in carcere solo perché non hanno né casa né lavoro. Con un costo, tra l’altro, molto superiore a quello ipotetico di dar loro un alloggio popolare e un lavoro per pagarselo". "Noi faremo la nostra parte - dice Sala - e questo sarà veramente un modello. Troveremo la formula tecnica con cui renderlo sempre più stabile". Anche tra i privati. Alcuni dei quali, come lo storico vivaista Francesco Ingegnoli che con l’Idroscalo collabora da una vita, la loro disponibilità a vario titolo l’hanno già praticata in passato e l’hanno rinnovata ora. Nella speranza che altri se ne aggiungano presto. Milano: le detenute con bambini rischiano di restare senza casa di Oriana Liso La Repubblica, 1 febbraio 2017 È una struttura di eccellenza, un progetto unico: l’Icam di via Melloni è l’unico istituto a custodia attenuata per le madri detenute che non è all’interno di un carcere, ma in un palazzo distinto. Qui vivono sette mamme e otto bambini da zero a sei anni, ma adesso Città metropolitana e l’amministrazione regionale alle carceri devono trovare una soluzione stabile e definitiva per la sede. Sette mamme, otto bambini tra zero e sei anni: gli ospiti dell’Icam, oggi, sono loro. Ed è per il loro futuro prossimo, e per quello di chi prenderà il loro posto, che si cerca una soluzione finalmente stabile. Soluzione che adesso la Città metropolitana sembra intenzionata a trovare. In via Macedonio Melloni da poco più di dieci anni esiste una struttura che, per il suo genere, è unica in Italia. L’Icam di Milano, l’istituto di custodia attenuata per mamme detenute, è infatti il solo a non essere all’interno di un carcere, ma in una palazzina completamente staccata, lontana diversi chilometri da San Vittore. La palazzina che ospita Icam è di proprietà della Città metropolitana, che l’ha ereditata dalla Provincia: una vasta struttura, con alcuni spazi all’aperto, circondata da alte mura controllate, con le porte blindate di ogni prigione e le sbarre alle finestre. La differenza dal carcere - che ha reso questa struttura una novità studiata anche dalle altre città - è la parvenza di normalità che i bambini ospitati con le loro mamme possono avere, rispetto al reparto femminile di una prigione. Perché qui le guardie carcerarie non hanno divise e le volontarie accompagnano i bambini a scuola o alle feste a casa - nelle case vere - dei compagni. Se l’ex Provincia è proprietaria dei muri - e in passato si era ventilata l’idea di vendere tutto per dare ossigeno al bilancio, è l’amministrazione penitenziaria, attraverso il Provveditorato regionale alle carceri, a gestire Icam, mentre il Comune mette un finanziamento di 11mila euro al mese per pagare gli educatori e per l’accompagnamento dei bimbi al nido e alla materna. Un lavoro di squadra, insomma, ma che adesso ha bisogno di una svolta: perché la convenzione tra Città metropolitana e Icam vive di continui rinnovi che non danno certezze a lungo termine. In più, nella cronica mancanza di fondi delle amministrazioni, è difficile fare i lavori di manutenzione che servirebbero. Per questo il provveditore regionale alle carceri Luigi Pagano ha scritto alla Città metropolitana. La risposta è arrivata dalla Vice Sindaca Arianna Censi, che ha assicurato di voler trovare "una soluzione per dare stabilità all’istituto, perché Milano non vuole rinunciare a questa esperienza" e ha chiesto a Icam di formulare una proposta. Un’ipotesi sul tavolo è che Città metropolitana affidi direttamente i locali all’amministrazione penitenziaria, senza però chiedere un affitto: a quel punto Icam potrebbe avere più certezza della permanenza in quella sede, avviando gli interventi necessari. Presto dovrebbe esserci un incontro tra le parti. Pagano è fiducioso: "Mi sembra ci sia la sensibilità necessaria da parte di tutti e anche la disponibilità: speriamo di trovare presto una soluzione". Enna: "infiltrazioni d’acqua dentro il carcere", interrogazione del deputato M5S Villarosa ennaora.it, 1 febbraio 2017 "Ci hanno segnalato, anche con materiale video, una situazione veramente allarmante all’interno della casa circondariale di Enna, con il personale che deve arrangiarsi utilizzando secchi ed asciugamani per evitare situazioni pericolose. Ho deciso di presentare un’interrogazione al ministro per chiedere spiegazioni". Così il deputato del Movimento 5 Stelle, Alessio Villarosa, comunica che, dopo diverse segnalazioni ricevute, depositerà a breve un’interrogazione sullo stato strutturale del carcere di Enna per chiedere quali interventi siano previsti affinché vengano garantiti gli standard minimi di sicurezza previsti per legge per i detenuti e per gli agenti di polizia penitenziaria che lavorano all’interno dell’istituto. "Abbiamo ricevuto una lettera da parte del sindacato Sappe, inoltrata anche agli uffici competenti, in cui viene denunciata una situazione molto grave verificatasi il 22 gennaio che vede l’acqua piovana entrare all’interno della struttura carceraria. Segnalando inoltre che non è il primo caso di grosse infiltrazioni d’acqua all’interno della struttura negli ultimi 5 anni. Capisco che la struttura ha quasi ottant’anni però il ministro deve sapere e fare il possibile per garantire che fenomeni del genere non si verifichino più!". Bari: arrestato due volte per errore, veniva da Tirana per incontrare il padre detenuto La Repubblica, 1 febbraio 2017 Il primo arresto nel porto del capoluogo pugliese e il secondo nello scalo greco di Igoumenitsa: colpa di un’ordinanza di custodia cautelare per traffico di droga emessa a Brescia nel 2016 e non più valida. Un 22enne albanese, Klevis Bregu, è stato arrestato per errore due volte in una settimana, prima in Italia e poi in Grecia. Qualche giorno fa era arrivato a Bari dall’Albania per far visita al padre, detenuto nel carcere del capoluogo pugliese per reati di droga, e ha trascorso due giorni in cella con lui perché al porto lo hanno arrestato: gli è stata notificata un’ordinanza di custodia cautelare per traffico di droga emessa dal tribunale di Brescia nell’agosto 2016. La famiglia, dall’Albania, non riuscendo più a mettersi in contatto con il 22enne, ha allertato l’avvocato che difende il padre. Il quale, tramite le forze di polizia, ha rintracciato il ragazzo in carcere. Nell’interrogatorio di garanzia celebrato a Bari per rogatoria, il difensore ha eccepito che quell’ordinanza aveva ormai perso efficacia perché il giudice di Brescia si era all’epoca dichiarato incompetente e aveva inviato gli atti al tribunale di Brindisi, che tuttavia, non aveva emesso una nuova misura cautelare. Il 22enne è stato quindi immediatamente scarcerato e ha ripreso il viaggio per tornare a casa. Allo scalo greco di Igoumenitsa, tuttavia, è stato nuovamente arrestato sulla base di un ordine di cattura europeo collegato alla stessa indagine, anche questo ormai inefficace. Ci sono voluti altri due giorni, che il ragazzo ha trascorso in un carcere greco, per ottenerne nuovamente la scarcerazione e consentirgli di tornare in Albania. Opera (Mi): il teatro entra in carcere come agente di trasformazione di Serena Savardi lifegate.it, 1 febbraio 2017 Sfruttare il teatro come agente di trasformazione di una realtà senza voce, quella dei detenuti di Opera. In Italia ci sono 193 prigioni e accolgono oltre 54mila detenuti a fronte di una capienza massima di 49.700 posti. Questo sovraffollamento e l’inquietante tasso di suicidi avvenuti dietro le sbarre (quasi uno a settimana dal 1992 ad oggi) fanno collocare l’Italia al sesto posto in Europa per la qualità dei suoi servizi in ambito detentivo. Secondo Openpolis, l’associazione indipendente la cui mission è la trasparenza e che offre strumenti per la comprensione di dati e informazioni pubbliche, a rendere la situazione ancora più complessa sarebbe l’alto tasso di stranieri, il 33,6 per cento del totale, molto spesso in difficoltà per lingua e cultura. Solo il 4 per cento dei detenuti, infatti, frequenta corsi professionali o attività formative nel periodo di pena. Meno del 30 per cento lavora. Una condizione che va a incidere sia sui costi di gestione (quasi 150 euro al giorno a persona), ma anche sul tasso di reiterazione dei reati. Sono varie le associazioni e le organizzazioni, anche internazionali, che a più riprese hanno denunciato le condizioni di vita nelle prigioni italiane. Le istituzioni, per, sembrano non aver ancora trovato una soluzione definitiva diversa da indulti saltuari, amnistie o pene alternative alla detenzione. Il teatro in carcere è considerato un importante strumento antropologico, sin dagli anni Trenta del Novecento. Negli istituti di pena, infatti, i detenuti non sono solo reclusi fisicamente e a tempo pieno, ma vengono anche privati di qualsiasi forma di espressione individuale e relazionale. Ciò porta il carcere a essere un luogo di regressione in cui il recluso è isolato e costretto ad affidare la propria vita alle scelte di un’autorità, proprio come un bambino. Ecco perché, in tale contesto, l’azione drammaturgica diviene un potente strumento linguistico, educativo, capace di emancipare in modo costruttivo e corale le singole personalità. "La prima volta che sono entrata in prigione ero pervasa da eccitazione e paura. Poi, un giorno, durante uno dei miei training un detenuto ha aperto una porta, cosa categoricamente proibita all’interno di un carcere. Si è giustificato dicendo "mi scusi mi ero dimenticato di essere in una casa di reclusione". Ecco quello è stato il migliore momento della mia carriera". È questo il caso dell’associazione Inside associazione detenuti Opera Onlus che, in collaborazione con Dundas Foundation e Europassione per l’Italia, in occasione del Giubileo straordinario della misericordia, è riuscita a realizzare un progetto unico nel suo genere: mettere insieme i detenuti del carcere di Opera e le detenute di Bollate per uno spettacolo sulla vita di Gesù, scritto da Peter Hutely. Suzanne Lofthus è la regista che, da quasi vent’anni, ha scelto questa via per insegnare la libertà di scelta, di pensiero, di coscienza. Sfruttare l’azione drammaturgica come agente di trasformazione di una società caratterizzata da una necessità comunicativa più accentuata che mai. Così il teatro stabile all’interno della Casa di detenzione di Opera ha saputo distinguersi nel panorama italiano come modello di recupero sociale. Salerno: i detenuti hanno realizzato i ceri pasquali per la Diocesi Nocera - Sarno puntoagronews.it, 1 febbraio 2017 "Misericordia e luce di perdono" è il nome del progetto che ha visto impegnati alcuni detenuti nella realizzazione di ceri pasquali per le parrocchie e i conventi della Diocesi. La proposta del cappellano del carcere di Salerno, don Rosario Petrone, accolta dal vescovo, S.Ecc.za Rev.ma Monsignor Giuseppe Giudice, si è tramutata in un segno di grande attenzione a quanti vivono la speranza che, una volta ritornati ai loro affetti, non si sentiranno per sempre emarginati, esclusi e condannati. "Anche il cuore di chi ha sbagliato può essere vinto dall’amore che sconfigge ogni forma di male. La luce di Cristo brilli nelle nostre comunità nella notte di tutte le notti, la luce del Risorto brilli nei cuori di quanti desiderano luce e perdono", ha dichiarato don Alessandro Cirillo che come Caritas diocesana ha seguito il progetto. I ceri saranno distribuiti domani sera, nella festa della presentazione di Gesù al tempio. Il Vescovo li consegnerà ai rappresentanti delle comunità parrocchiali durante la Celebrazione in Cattedrale che inizierà alle ore 20.00. Milano: il "Sogno" di Scutellà passa per il carcere minorile di Antonio Garbisa metronews.it, 1 febbraio 2017 Scoprire la grande forza del teatro e da qui ripartire per una totale rinascita personale. Sensazioni e conquiste che hanno invaso alcuni giovani detenuti del Carcere minorile Beccaria trasformati in attori assieme ad alcuni loro coetanei grazie a Puntozero, l’associazione che, da vent’anni, forma all’interno del Beccaria attori, collaboratori teatrali e tecnici per provare ad insegnare delle professionalità che torneranno utili una volta fuori dalle quattro mura del carcere. È così che nasce anche la messinscena di un classico come "Sogno di una notte di mezza estate" di William Shakespeare che con loro, attori detenuti e non, debutterà, da stasera al 5 febbraio, al Teatro Studio Melato. Un’occasione per vedere all’opera questi giovanissimi talenti che, diretti dal regista Giuseppe Scutellà, hanno trovato dietro le sbarre l’acquisizione di nuove competenze che permettono e facilitano loro la rielaborazione del reato. "In questo contesto - spiega Scutellà - il "Sogno" di Shakespeare, dove fantastico e reale si intrecciano, ci è sembrato potesse offrire un utile esercizio di fantasia che ha permesso agli attori di conoscere nuovi mondi. È in questo recitare nuovi ruoli e creare nuovi contesti che il teatro in carcere esprime tutta la sua forza dirompente. Iniziare dalle tavole del palcoscenico per spostarsi nel più grande teatro della vita. Ne è venuto fuori uno spettacolo che si inserisce nel solco registico di scuola strehleriana dove la "tradizione" è di per sé sperimentalismo e dove la semplicità è il punto d’arrivo" (Info: piccoloteatro.org). "Un altro me", Claudio Casazza. Viaggio tra i detenuti accusati di reati sessuali di Simona Spaventa La Repubblica, 1 febbraio 2017 Nel carcere di Bollate, al settimo reparto sono rinchiusi i detenuti "protetti", quelli che nelle celle comuni rischierebbero ritorsioni, pestaggi o di peggio. Quelli che nel gergo dei carcerati sono gli "infami", e in quello tecnico i "sex offenders": i condannati per reati sessuali. E qui è entrato con la macchina da presa Claudio Casazza, film maker milanese classe 1977, per raccontare in "Un altro me" una realtà su cui è difficile posare lo sguardo. L’idea del film - premiato al Festival dei Popoli di Firenze e ora a Milano per il "Mese del documentario" con due proiezioni con l’autore, oggi al Beltrade e il 5 a CineWanted - nasce dall’incontro con il criminologo Paolo Giulini, che con l’associazione Cipm-Centro italiano per la Promozione della Mediazione da dieci anni porta avanti a Bollate il primo (e unico) esperimento italiano di "trattamento intensificato" per rei di violenze sulle donne: "La loro équipe di psicologi, criminologi e terapeuti - racconta Casazza, già autore del documentario "Era la città del cinema" (2009) sulle sale che hanno chiuso a Milano - segue per un anno un programma che coinvolge 25 detenuti, divisi in gruppi che ogni settimana fanno incontri di scavo intenso su di sé. L’idea, sviluppata in Canada, è che solo arrivando a una presa di coscienza, all’ammettere quello che si è fatto, il condannato non tornerà a commettere gli stessi reati". I numeri danno ragione a questa singolare terapia di gruppo. Sui 248 uomini seguiti fino ad oggi, solo sette i casi di recidiva: il 3% contro una media del 70% nelle statistiche. E se la sperimentazione è un successo, resta arduo andare a guardare da vicino una realtà cruda e repulsiva, accostarsi alla mente disturbata dei carnefici. Casazza lo fa per sottrazione, negando ogni voyeurismo e rifiutando ogni tentazione di ritrarre il "mostro", inquadrando i "suoi" detenuti fuori fuoco: "Volevo entrare in carcere con un atteggiamento il più aperto possibile, senza pregiudizi. Non ho voluto nemmeno sapere i reati che avevano compiuto, sono venuti fuori poco a poco durante l’anno intero in cui li ho seguiti. E filmati, con una troupe minima: solo io e un fonico. Niente luci, e nemmeno telecamera: ho girato con una macchina fotografica digitale. Essere il più sobrio possibile era fondamentale per avere la loro fiducia, e mantenerla. Per tutelare loro, ma anche le vittime, e gli spettatori". Un rigore che non attenua la forza disturbante del film, che va al cuore di tenebra dell’uomo, in abissi "che queste persone all’inizio negano, arroccandosi in una posizione di difesa totale. La colpa è sempre degli altri, della vittima, della società. Solo con l’ascolto di altri iniziano a scavare su di sé. Il mio è un film non dà giudizi. Posa lo sguardo su esseri umani che hanno fatto cose gravissime e crudeli, e si mettono in gioco, sul dialogo a due che si instaura tra condannati e terapeuti. Ma è un dialogo anche con lo spettatore, perché ciascuno possa farsi delle domande, e abbattere gli stereotipi". "Più libero di prima". Cinque anni all’inferno in un carcere indiano di Massimiliano Salvo La Repubblica, 1 febbraio 2017 Lui ligure, lei di Torino condannati all’ergastolo per un omicidio che non avevano commesso. Hanno passato cinque anni in un carcere indiano, condannati all’ergastolo per un omicidio che non avevano commesso. Tomaso Bruno di Albenga e Elisabetta Boncompagni di Torino sono stati arrestati nel febbraio del 2010 e liberati a fine gennaio 2015. La loro storia è diventata un documentario, "Più libero di prima", in onda giovedì 2 febbraio alle 23 su Rai3 per Doc3. Martedì 31 gennaio alle 18 sarà proiettato in anteprima nel cinema Multiplex di Albenga. La sventura di Tomaso ed Elisabetta cominciò all’inizio del 2010, quando entrambi vivevano a Londra e partirono per un viaggio in India insieme a Francesco, il compagno di Elisabetta. La notte del 4 febbraio a Varanasi, nella regione dell’Uttar Pradesh, Francesco Montis morì dopo aver fatto uso di droghe. Tomaso ed Elisabetta vennero arrestati con l’accusa di omicidio e - dopo una richiesta di pena di morte - il 23 luglio 2011 furono condannati all’ergastolo, poi confermato in appello. In attesa della sentenza definitiva Tomaso ed Elisabetta hanno passato più di 1800 giorni nel carcere di Varanasi, dove il clima è torrido per gran parte dell’anno e la prigione particolarmente dura anche per gli standard indiani: i detenuti sono ammassati in "barak" da 140 persone e dormono per terra su stuoie e coperte, bevono acqua non potabile e condividono servizi igienici senza carta e acqua corrente. Sulla storia di Tomaso ed Elisabetta ci sono state da subito molte ombre. Ai due non è mai stata concessa la libertà su cauzione e nemmeno il permesso di usare internet o telefonare a casa. Il processo si è trascinato tra ferie dei giudici, festività religiose, assenze degli avvocati e irreperibilità dei testimoni. Per il giudice che li ha condannati il movente del delitto era passionale ma "non dimostrabile per insufficienza di prove". Nonostante questa odissea giudiziaria, il caso di Tomaso ed Elisabetta non ha colto l’interesse della politica e dei media italiani, che dal 2012 si sono definitivamente concentrati sul caso dei marò Salvatore Girone e Massimiliano Latorre. Tomaso ed Elisabetta sono stati assolti il 23 gennaio 2015. Anche grazie alla raccolta fondi lanciata on line - il gruppo a loro dedicato su Facebook sfiorava gli 8 mila membri - la loro storia è diventata un film, "Più libero di prima": un documentario sulla capacità di affrontare l’imprevedibilità della vita, a volte ingiusta e inesorabile, che può toccare chiunque. Prodotto da Ouvert e Articolture - con il supporto della Regione Piemonte, della Film Commission Torino Piemonte e della Genova Liguria Film Commission, in collaborazione con l’Associazione Alziamo La Voce e in associazione con Cemas Elettr - il film è diretto dal regista Adriano Sforzi, vincitore di un David di Donatello e amico di Tomaso sin da bambino. La prigionia è raccontata attraverso gli occhi di Tomaso, che nei cinque anni di cella si trasformato da un giovane confuso e sperso in un uomo cosciente e determinato. Migranti. "Non siamo gendarmi", no da Tripoli al piano Ue di Marco Bresolin La Stampa, 1 febbraio 2017 Il piano dell’Ue per frenare le partenze dei migranti dalle coste libiche sembra mettere tutti d’accordo. Al vertice straordinario in programma venerdì a Malta non ci sarà spazio per le divisioni che invece rimangono sulla riforma del diritto d’asilo. A Bruxelles però si respira un po’ di preoccupazione riguardo alla collaborazione con la Libia. "Al momento è una delle maggiori incertezze" assicura un ambasciatore, sottolineando il fatto che la gestione dei "respingimenti" (anche se nessuno vuole usare questa parola) spetterà alla Guardia Costiera libica, che avrà il compito di "riaccompagnare" a terra (e poi in appositi centri) i migranti lasciati in mare dagli scafisti. Ieri è arrivato un segnale per nulla rassicurante dalla Marina di Tripoli, legata al governo di Fayez al-Sarraj. Il generale Ayoub Omar Qassem, portavoce della Marina, ha messo subito le mani avanti: "Non vogliamo essere i gendarmi dell’Europa nel Mediterraneo". I libici chiedono un maggior coinvolgimento nel processo decisionale: "Questo tema deve essere discusso con il nostro governo - ha aggiunto Qassem contattato dall’agenzia Ansa -, non può essere che gli europei decidono e la Libia attua le loro decisioni". L’impressione raccolta a Bruxelles è che, capita l’importanza del ruolo-chiave, ora i libici vogliano alzare la posta. La questione economica è infatti uno dei nodi del piano Ue: la Commissione ha già promesso uno stanziamento di 200 milioni di euro per il 2017, ma dai governi non ci sono ancora impegni precisi. La due giorni di Sarraj a Bruxelles, proprio alla vigilia del vertice di Malta, servirà dunque a fare maggiore chiarezza. Il premier libico oggi è atteso al quartier generale della Nato, dove incontrerà il segretario Jens Stoltenberg, mentre domani la sua visita proseguirà nei palazzi istituzionali della Ue per incontrare il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk, il presidente della Commissione Ue Jean-Claude Junker e l’Alto Rappresentante per la politica estera Federica Mogherini. Per Sarraj sarà un’opportunità importante per il riconoscimento del suo ruolo a livello internazionale, anche se il suo problema è la delegittimazione sul fronte interno. Ma sarà anche un’occasione per chiedere maggiore sostegno "materiale". Il piano Ue prevede infatti una serie di interventi per favorire "lo sviluppo socio-economico delle comunità locali". L’obiettivo è poi quello di intensificare l’addestramento della Guardia Costiera libica. Lunedì è partita la seconda fase prevista dall’Operazione Sophia: 20 ufficiali libici riceveranno una formazione a Creta che riguarderà, oltre alle modalità pratiche del salvataggio dei migranti, anche alcuni "aspetti legali, dei diritti umani e una sensibilizzazione sulla questione di genere". Su questi ultimi aspetti, nelle Capitali, ci sono un po’ di preoccupazioni. Migranti. Morte a Venezia di Dénètem Touam Bona* Il Manifesto, 1 febbraio 2017 La morte nel Canal Grande di Pateh Sabally, un giovane rifugiato gambiano di 22 anni. Tra gli insulti dei turisti e dei residenti. Domenica 21 gennaio, Pateh Sabally, un giovane rifugiato gambiano di 22 anni si è gettato nel Canal Grande a Venezia, dove è annegato tra gli insulti dei turisti e dei residenti. Sono stati lanciati dei salvagenti, troppo tardi. La profezia del filosofo Gilles Châtelet si è dunque realizzata: viviamo e pensiamo come porci! Dei cyber-zombies reclusi nel recinto di un reality show globalizzato, ciechi rispetto alla nostra schiavitù, finiremo un giorno per divorarci tra di noi. Non fate finta di non vedere, aprite gli occhi sull’immondo che incombe su di noi: questo complesso di superiorità razziale profondamente radicato nelle società occidentali - a causa di un’eredità nauseabonda non problematizzata (quella del colonialismo) - e palesato dalla morte di un giovane subsahariano, sotto lo sguardo dei passanti divertiti. Aprite gli occhi sulla cancrena del razzismo che le politiche migratorie non fanno che alimentare attraverso l’equazione che stabiliscono nelle menti in modo insidioso: "Migranti" e "giovani di origine straniera" = pericolo per le società europee, ovvero terrorismo, criminalità organizzata, delinquenza, ecc.. A chi ride dell’umanità che annega, vorrei dire questo: il "negro" che agonizza sotto i vostri occhi e che voi insultate, questo "negro" creato dalla fantasia, questo "negro" nato dalla decomposizione del "bianco", questo "negro" non c’è! Semplicemente perché vive nel più profondo di voi. Ma che vi credete?! Non ci si libera con così poco della propria parte d’ombra… Sì, lo so, voi non avete detto "negro", vi siete accontentati di trattare Pateh Sabally da "negro", vale a dire da scarto umano, da vita indegna d’essere vissuta. Non l’avete detto solo perché "negro" è una parola che disumanizza tanto il padrone quanto lo schiavo. Ma laddove voi vedete un "negro" io vedo un ragazzo, vedo la promessa, il desiderio, il soffio, il sogno, il coraggio e l’umanità che si sono spenti in voi - e che segretamente voi invidiate. Questo screenshot, sul quale sono capitato stamattina, in cui si vede un puntino scuro emergere dalle onde, a qualche bracciata da un vaporetto veneziano, questa scena quasi innocua mi ha ricordato subito i "Tarzan" della mia infanzia: quei film in bianco e nero che passavano la domenica sera su TF1, cari vecchi Tarzan con la storia d’amore tra l’uomo-scimmia e Jane al di sopra della foresta, con l’urlo tirolese che spezzava il silenzio della giungla e lo stile libero supersonico di Johnny Weissmuller che si barcamenava tra i coccodrilli e, sempre in secondo piano, quasi fuori dall’inquadratura, la massa indistinta dei negri - creature scolpite nelle tenebre della barbarie, la cui caduta da una scogliera o l’essere sbranati dalle belve non suscitava più compassione della morte di una bestia da soma. La prima volta che ho visto un Tarzan, mio padre - nero quanto gli uomini che si vedevano sullo sfondo del nostro piccolo televisore - doveva essere seduto accanto a me, e tuttavia io non lo associavo affatto ai negri di Tarzan. Non riesco a ricordarmi la sua espressione nel vedere tutti questi negri superstiziosi, stupidi e, soprattutto, di una docilità tremenda. Come avrei potuto immaginare la possibilità della sua umiliazione visto che io stesso, come i giovani antillesi descritti da Fanon, m’identificavo completamente con Tarzan? Come avrei potuto vedere in mio padre un "negro", lui che non era che rivolta, lui che passava le sue serate a discutere di Rivoluzione coi suoi compagni esiliati, lui che mi terrorizzava con un solo sguardo ed era ai miei occhi - niente di più comune per un figlio - l’uomo più forte e più coraggioso al mondo? Ricordo che il giorno dopo questa prima diffusione di Tarzan a cui assistei, mi successe una cosa strana a scuola, come se il film proseguisse o piuttosto mi perseguitasse: urli di scimmie, degli "umgawa", dei "cita", dei "bwana", dei "negro", dei "ritorna nella tua giungla" fioccavano da tutte le parti. Ho capito in quel momento che non facevo parte del campo dei vincitori, il campo dei conquistadores, dei cow-boys, dei Livingstone. Volevo sparire sotto terra, pulire, pulire, pulire con più sapone, più detersivo, più candeggina, questa pelle che non poteva essere la mia, avrei voluto scartavetrarla fino a rimuoverne qualsiasi oscurità, fino a diventare trasparente. Diventare invisibile. Ma no, questo sporco colore non se ne va così, è attaccato alla pelle come il petrolio: non ero altro che un gabbiano invischiato in un mare nero. Con la distanza, questo genere di esperienze mi appare innocua, ma a volte basta un piccolo impatto, una piccola onda di choc perché uno specchio s’incrini e la mia immagine si crepi al punto da non riuscire a riconoscerla. Chissà cosa ha vissuto Pateh Sabally, quest’ombra che emerge dall’onda… Che riposi in pace. Proust, per spiegare la terribile delusione che si può provare di fronte a una città sognata, diceva che non si può trovare nella realtà il fascino di un sogno.. Dallo scrigno di un sogno veneziano io oggi ho ricevuto l’indicibile atrocità di un incubo ad occhi aperti. * professore di filosofia a Mayotte, ha scritto "Fugitif, où cours-tu?". Paris 2016. ** Traduzione dal francese di Annalisa Romani Migranti. "Due profughi per 1.000 abitanti". Ma i sindaci di destra frenano il piano di Francesco Grignetti La Stampa, 1 febbraio 2017 Il 29 gennaio sono sbarcati a Messina 285 migranti, recuperati su un barcone al largo del canale di Sicilia. Il piano del Viminale per redistribuire l’accoglienza risponde a una logica semplice: dato che le migrazioni sono in corso, e bisogna attrezzarsi, non è meglio sforzarsi un po’ tutti piuttosto che creare concentrazioni indigeste e pericolose? È stata prevista pure una formula aritmetica: 2,5 richiedenti asilo ogni mille residenti, con una correzione per le grandi città, e l’impegno del ministero a non mandare nuovi profughi in quei Comuni che finora sono stati disponibili e rischiano di restare da soli. Il piano, però, ha trovato un formidabile ostacolo: la politica. Non è un caso, infatti, che laddove ci sia una amministrazione di destra, sia a livello comunale, sia regionale, i prefetti incassino solo rifiuti. E dicono al ministero dell’Interno: "Se presto matureranno le elezioni, è scontato che ci saranno ulteriori irrigidimenti". Questo è lo scenario, dunque. La redistribuzione dei migranti al momento non decolla perché nessuno ha voluto forzare la mano e quindi si procede con la "moral suasion". I prefetti sono stati incaricati di incontrare tutti i sindaci della loro area e tentare opera di convincimento. Possono mostrare la buona volontà del Viminale che ha appena distribuito 100 milioni di euro (era una sorta di premio: 500 euro per ogni migrante ospitato) come incentivo eccezionale a favore dei Comuni che finora hanno collaborato. Ma è presto per dire se l’offensiva del sorriso funzionerà. Al Viminale stanno con il fiato sospeso. Il momento della verità sarà quando, entro il 31 marzo, i Comuni dovranno presentare la loro adesione alla rete Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) che è il punto di congiunzione tra enti locali e governo centrale. "Finché i sindaci non vengono allo scoperto, non possiamo dire nulla", si ragiona ai piani alti del palazzo dove è Marco Minniti. Oltre i prefetti, la speranza segreta del ministero è l’Anci, associazione nazionale dei Comuni. In questi giorni è in viaggio una lettera indirizzata a ciascuno degli 8000 sindaci per invitarli ad aderire al Piano di Ripartizione Nazionale. Li si invita a seguire dei corsi via web per conoscere i vantaggi che possono derivare a un Comune se aderisce alla rete Sprar. Siccome la lettera è arrivata anche ai sindaci leghisti, l’altro giorno è insorto Paolo Grimoldi, Segretario Nazionale della Lega Lombarda, deputato leghista. "L’Anci - dice - di fatto è diventato il braccio operativo del Pd e quindi del suo governo. I seminari via web servono a indottrinarli...". La Lega ha capito che molti potrebbero essere tentati dal sistema degli incentivi. E quindi è partita la controffensiva: "È imbarazzante - sostiene ancora Grimoldi - che l’Anci si spinga al punto da chiedere carattere strutturale alla misura dei bonus". La partita, insomma, è squisitamente politica. E la prospettiva di elezioni, come sanno bene al Viminale, non aiuta i ragionamenti a mente fredda. C’è un cartello di Governatori di centrodestra - Toti, Maroni e Zaia - che promettevano di mettersi di traverso a ogni piano di Angelino Alfano. Ora al suo posto c’è Marco Minniti, che convince anche a destra in quanto cerca di coniugare espulsione per gli illegali ed accoglienza per i regolari; e a questi Governatori, per dire, è piaciuto l’annunciata riapertura dei Cie. Ad un incontro con Minniti sul piano migranti, la settimana scorsa, i tre non hanno sollevato obiezioni. Ma la questione elettorale è sempre dietro l’angolo... Di Vetta e Fagiano sorvegliati speciali, un eccesso di potere incostituzionale di Paolo Di Vetta Il Manifesto, 1 febbraio 2017 Appello. Giuristi democratici contro le misure di prevenzione e controllo in corso di decisione da parte del Tribunale di Roma. Presto la Corte d’appello di Roma, sezione applicazione misure di prevenzione per la sicurezza e la pubblica moralità, sarà chiamata a decidere sui ricorsi presentati da due esponenti dei movimenti di lotta per il diritto all’abitare, Paolo Di Vetta e Luca Fagiano, colpiti da decreti che dispongono nei loro confronti la misura della sorveglianza speciale: provvedimenti fortemente limitativi della libertà personale (con sacrificio dei diritti di riunione ed espressione e manifestazione del pensiero) e di movimento (con la sospensione della patente di guida). L’utilizzo di questo tipo di armamentario, costruito fondamentalmente per il contrasto e la repressione del fenomeno mafioso e utilizzato invece per comprimere e di fatto negare diritti fondamentali del vivere civile e sociale, è senza dubbio alcuno preoccupante. Al di là dei rischi di incostituzionalità dell’intero sistema delle misure di prevenzione per contrasto con i principi della riserva di legge, della tassatività, della non colpevolezza e dell’eguaglianza, pare di cogliere una concezione del diritto della prevenzione come diritto punitivo del sospetto, con l’elusione delle garanzie sostanziali e processuali. Quando al centro della valutazione giudiziaria si fa rientrare la presunta personalità "antagonista" dei proposti e dalla loro militanza politica si fanno discendere i comportamenti di rilevanza penale, la valutazione di stampo preventivo assume particolare delicatezza: in discussione rientrano allora non solo la presunta capacità di mettere a repentaglio la sicurezza pubblica ma, soprattutto, i principi costituzionalmente tutelati della libertà di esprimere le proprie opinioni e di associarsi insieme ad altri per sostenerle. Il rischio di una torsione delle misure preventive e di un loro -improprio- utilizzo quali strumenti di controllo del dissenso e del conflitto sociale diviene così sempre più concreto. E laddove le misure preventive assumano un’indebita funzione surrogatoria della sanzione penale, divenendo la "stampella" di questa, ad essere messo in discussione è il rispetto del principio di legalità, ossia l’accertamento delle specifiche situazioni di pericolosità attraverso un rigoroso rispetto degli indici tassativamente previsti dal legislatore. Così facendo, si realizza esattamente una torsione delle misure preventive ed un loro utilizzo quale strumento di controllo del dissenso e del conflitto sociale. Ciò che, dal punto di vista amministrativo, potrebbe essere definito come un eccesso, ovvero uno sviamento di potere. Attribuire perciò la qualifica di soggetti socialmente pericolosi a due lavoratori impegnati nel volontariato sociale in aiuto di persone svantaggiate, attivisti dei movimenti sociali e costanti interlocutori delle autorità politiche ed amministrative locali a ogni livello, protagonisti del percorso istituzionale di approvazione della recente delibera della Giunta della Regione Lazio che riconosce il diritto a coloro che abitano "immobili pubblici o privati impropriamente adibiti ad abitazione" (così le delibera 110/2016 Giunta Regione Lazio e 50/2016 del Commissario comunale Tronca) all’assegnazione di una quota di alloggi di edilizia popolare, risulta un’evidente forzatura. Non riteniamo che si possa chiedere ai Tribunali di giudicare una dinamica sociale. Tanto più quando le denunce giungano in ragione del fatto di essere persone note e riconoscibili, per aver sempre agito una politica pubblica, per essere stati i referenti nei rapporti con le istituzioni. Ritenere oggi pericolosi socialmente Di Vetta e Fagiano perché, come espresso nelle richieste, hanno partecipato a manifestazioni anche sfociate in disordini non è accettabile. A meno che non si intenda far rispondere personalmente gli stessi di ogni comportamento di ogni singolo manifestante, o peggio, ricondurre a loro di tutte le dinamiche che si determinano in momenti di piazza. Primi/e firmatari/e: Luigi Ferrajoli, Livio Pepino, Cesare Antetomaso, Giuseppe Mosconi,Franco Russo, Irene Di Noto, Luigi Manconi, Giorgio Cremaschi, Roberto Lamacchia, Emiddia Papi, Giovanni Russo Spena, Tina Stumpo, Carlo Guglielmi, Paola Palmieri, Pietro Adami, Daniele Nalbone, Antonello Ciervo, Italo Di Sabato, Margherita D’Andrea, Giovanni Michelon, Leonardo Arnau. La Relazione e il contrasto antidroga di Grazia Zuffa Il Manifesto, 1 febbraio 2017 Una Relazione senza politica, così Salvina Rissa (il manifesto, 25 gennaio) ha definito la Relazione 2016 sulle droghe. C’è però un altro aspetto da esaminare: se la struttura della Relazione, in termini di trasparenza dei dati offerti, risponda alla sua finalità istituzionale, di strumento utile a valutare gli esiti delle strategie intraprese e a operare le scelte per il futuro. Si osservi che, ancora una volta, la struttura della Relazione non rispecchia i "pilastri" su cui si reggono le politiche. Per meglio dire: mentre c’è una parte sui pilastri sociosanitari (al cui interno trova finalmente ampio spazio la riduzione del danno), paradossalmente il pilastro penale-sanzionatorio (che rimane quello principale) non è citato e trattato come tale. Ovviamente i dati sulle attività di repressione ci sono, ma disseminati fra "l’offerta" e la "domanda" di sostanze, sì da privare il lettore di un immediato quadro d’insieme dell’applicazione della legge penale. Così le segnalazioni al Prefetto per il consumo personale sono curiosamente elencate nella "domanda" di sostanze, quasi fosse una neutra indagine epidemiologica sui trend di consumo, e non invece un settore di rilievo dell’attività repressiva. Nel 2015 le persone segnalate sono state 31.317, mentre le sanzioni amministrative erogate assommano all’imponente cifra di 13.500. Ovviamente le segnalazioni sono di più (32.478, una persona può essere fermata più volte dalle forze dell’ordine), ma per avere questo dato bisogna ricorrere al Settimo Libro Bianco redatto da alcune Ong (www.fuoriluogo.it), che peraltro offre una chiara e sintetica visione dell’applicazione di quell’articolo di legge (il 75) con minore spreco di carta. Da notare: di queste 32.478 segnalazioni, ben 26.400 sono per la sostanza a minor rischio, la cannabis. Tanto sforzo per poco, si potrebbe dire. La scelta di non mettere a fuoco il pilastro penale come tale ha conseguenze anche nel calcolo economico: sappiamo che il mercato illegale delle droghe principali incide per 14 miliardi di euro, ma non sappiamo i costi del sistema di contrasto, né come questi si distribuiscono fra penale e sociale. Veniamo alle denunce per spaccio, traffico, associazione finalizzata al traffico (73 e 74): nonostante il 6% di diminuzione rispetto al 2014, nel 2015 si registrano 25.420 denunce per spaccio, e 2.286 per associazione nel traffico (diminuite del 20%). Questi denunciati, in stragrande maggioranza, sono finiti agli arresti (19.524). Pochi trafficanti dunque, e un esercito di spacciatori presumibilmente piccoli. Dico piccoli, pensando alle indicazioni emerse dalle ricerche sul "peso criminale" delle persone in carcere per droga, condotte qualche anno fa in Toscana; e dico presumibilmente, perché la Relazione non permette di sapere quanti di questi denunciati sia stato condannato per l’ipotesi di spaccio "di lieve entità". Non avere un quadro esauriente circa il profilo degli autori di reati di droga che affollano le nostre prigioni è un grave limite della Relazione: specie se si considera che il proposito di riservare il carcere ai reati più gravi è stato evocato più volte all’Assemblea Generale Onu dell’aprile scorso, ripreso con vigore dal ministro Orlando. Infine, il dato sulle misure alternative: la maggioranza è in affidamento speciale (il 44% in comunità), ma alcuni, circa un quarto, sono affidati in prova ai SerD. Si spera che questi ultimi aumentino, come auspicato dagli Stati Generali della Giustizia nel 2015. Che fare? Il confronto del Dipartimento Antidroga con le Ong ha prodotto miglioramenti su alcuni contenuti. Occorre ora un salto, per adeguare la Relazione alle sue finalità. Stati Uniti. 900 funzionari del Dipartimento di Stato firmano contro il decreto di Trump La Stampa, 1 febbraio 2017 Il neopresidente Usa intanto precisa: un milione di persone possono entrare, non è un bando. Nonostante il monito del portavoce della Casa Bianca Sean Spicer ad "accettare il programma o andarsene", circa 900 funzionari del dipartimento di Stato Usa hanno firmato un memorandum interno di dissenso critico nei confronti della sospensione temporanea dell’ingresso dei rifugiati e dei cittadini provenienti da sette Paesi islamici. Lo riportano alcuni media Usa. Il presidente americano ha defenestrato il segretario alla Giustizia ad interim, Sally Yates, dopo che aveva ordinato agli avvocati del suo dicastero di non difendere il provvedimento quando verranno esaminati i ricorsi nei tribunali. "Ha tradito" il suo dipartimento rifiutandosi di applicare un ordine esecutivo "volto a proteggere" i cittadini americani, ha tuonato in una nota la Casa Bianca, che ha punito l’insubordinazione del ministro rimpiazzandolo con Dana Boente. Il nuovo Attorney general reggente rimarrà in carica fino a quando la nomina di Jeff Sessions come procuratore generale non supererà lo scoglio della ratifica al Senato. Oggi è previsto il passaggio preventivo in Commissione giustizia. Boente ha giurato alle 21 di lunedì sera e ha già fatto sapere che sosterrà il bando, da lei definito legittimo "tanto nella forma che nel contenuto". La Yates, nominata nel 2015 da Barack Obama come vice Attorney general, aveva avvertito che difendere questa misura non risponderebbe all’obbligo del suo Dipartimento di "cercare sempre la giustizia e sostenere ciò che è giusto". Intanto, Trump ha chiarito che il decreto sull’immigrazione non è un bando sui musulmani: "se un milione di persone possono entrare non è un bando". Lo afferma il portavoce della Casa Bianca, Sean Spicer. Regno Unito. Appello dei vescovi per la riforma carceraria di Isabella Piro radiovaticana.va, 1 febbraio 2017 Il governo del Regno Unito deve raddoppiare gli sforzi per avviare una riforma carceraria: è quanto chiedono i vescovi di Inghilterra e Galles in una nota diffusa dopo che il Ministero della Giustizia britannico ha diffuso un rapporto sui casi di suicidio dietro le sbarre. E i numeri, purtroppo, parlano chiaro: nel Paese, i detenuti che pongono volontariamente fine alla propria vita sono in drammatico aumento. Episodi scioccanti ed inaccettabili - Secondo il rapporto, infatti, nel 2016 si sono contati 119 morti autoinflitte; 34.784 incidenti provocati da autolesionismo e 25.049 episodi di assalti e violenza. Si tratta di dati "scioccanti ed inaccettabili", ha detto mons. Richard Moth, vescovo di Arundel e Brighton e coordinatore dei cappellani carcerari, indicando nella carenza di personale e nel sovraffollamento di detenuti i principali fattori scatenanti simili episodi. Lo scorso anno, infatti, si sono verificate proteste degli addetti carcerari che hanno lanciato l’allarme sulla salute e la sicurezza sul lavoro, mentre numerosi detenuti hanno manifestato seri disturbi. Carenza di personale e sovraffollamento di detenuti tra le cause dei suicidi - "Le statistiche attuali sui suicidi e gli atti di autolesionismo in prigione- afferma mons. Moth - sono scioccanti. Ogni morte rappresenta una tragedia per la persona stessa, per i suoi familiari e per il personale carcerario che ha cercato di evitarla". "Consentire che nelle nostre carceri si arrivi a questo livello è inaccettabile - ha aggiunto il presule - Bisogna affrontare urgentemente le questioni riguardanti la carenza di personale ed il sovraffollamento di detenuti, anche per assicurare le giuste e necessarie cure ai prigionieri affetti da malattie mentali". L’impegno della Chiesa nella Pastorale carceraria - "Lo scrittore Dostoevskij - ha ricordato il vescovo di Arundel and Brighton - ha scritto che il grado di civiltà di una società può essere giudicato entrando in una delle sue prigioni". Per questo, "è responsabilità di tutti affrontare questa situazione". Di qui, l’appello del vescovo al governo affinché "proceda il più presto possibile alla riforma carceraria" Dal suo canto, la Chiesa di Inghilterra e Galles si impegna, "insieme ai cappellani ed ai volontari, a proseguire nell’impegno di supportare i detenuti più vulnerabili, lavorando al fianco delle istituzioni e dei responsabili degli istituti di detenzione". Stati Uniti. Il jail-food è tortura, detenuto denuncia il carcere dopo 5 giorni di "dieta" rainews.it, 1 febbraio 2017 Il "nutraloaf" è una specie di sformato usualmente servito in certi penitenziari americani ai detenuti indisciplinati Tweet 31 gennaio 2017 Il "nutraloaf" è costituzionale o è una punizione crudele e in ultima analisi un modo per torturare i prigionieri? Il detenuto di un penitenziario del Delaware ha citato in giudizio la direzione del carcere denunciando di essere stato affamato di proposito dopo che per cinque giorni consecutivi è stato messo a dieta stretta con quella che tra compagni di cella viene comunemente definita "la sbobba cotta", il cosiddetto "nutraloaf". Mentre altri Stati dell’Unione negli ultimi tempi stanno gradualmente abbandonando questo sistema - eufemisticamente definito non una punizione ma uno "strumento di gestione comportamentale utilizzato in risposta a condotte che mettono a rischio la sicurezza della normale vita carceraria" - i funzionari pubblici del Delaware si oppongono e chiedono al giudice federale di respingere le accuse del denunciante. La direzione del carcere dal canto suo nega in modo assoluto qualsiasi violazione dei diritti. Negli ultimi due anni in Delaware sono una cinquantina i detenuti a cui è stato somministrato il "nutriente sformato". Ogni Stato ha la sua versione locale della "ricetta" ma si tratta in genere di un ammasso informe di quelli che sembrano scarti di cucina: verdure, pane, riso e altri ingredienti non meglio identificati. Filippine. Con la scusa della droga la polizia dichiara guerra ai poveri di Riccardo Noury Corriere della Sera, 1 febbraio 2017 "Ci pagano a singolo incontro. Si va da 8.000 a 15.000 pesos (da 151 a 283 euro) a persona, quindi se l’operazione è contro quattro persone possono essere almeno 32.000 pesos (600 euro). Ci pagano in contanti, in segreto, all’interno degli uffici. Non c’è alcun incentivo ad arrestare perché non ci pagano. Quindi, non accade mai che ci sia una sparatoria e non ci scappi il morto". Questa testimonianza di un agente del reparto antidroga della polizia di Manila chiarisce come vanno le cose nelle Filippine: con la scusa della guerra alla droga, è in atto una strage. Agendo su istruzioni provenienti dai vertici del governo, la polizia delle Filippine uccide direttamente o attraverso sicari remunerati una media di 1000 persone al mese, per lo più appartenenti ai settori più poveri della società, per presunti motivi di droga: si tratta di esecuzioni extragiudiziali che potrebbero costituire crimini contro l’umanità. I nomi delle vittime sono contenuti in elenchi privi di controlli di presunti consumatori e spacciatori, a volte ingrossati per motivi di vendetta privata o semplicemente perché più morti significano maggiori incentivi economici. Falsificando i rapporti, la polizia sostiene regolarmente di aver risposto a colpi d’arma da fuoco. I testimoni ascoltati da Amnesty International hanno contraddetto questa ricostruzione, spiegando che la polizia compie raid notturni, non tenta neanche di arrestare le persone e apre il fuoco. In un caso la polizia ha piazzato droga e armi sulla scena del delitto, utilizzandole poi come prova. Esiste anche un racket dei funerali, in base al quale le famiglie che rivogliono indietro i corpi devono pagare la polizia. Un altro modo di arricchirsi è quello di trafugare beni personali, spesso di grande valore sentimentale, dalle abitazioni delle persone assassinate. Poi ci sono i sicari. Due di loro hanno ammesso ad Amnesty International di prendere ordini da un agente di polizia che li paga 5000 pesos (95 euro) se le persone da uccidere sono consumatori o da 10.000 a 15.000 pesos (da 190 a 285 euro) se sono spacciatori. Prima dell’elezione di Rodrigo Duterte alla presidenza, hanno raccontato, avevano due "lavori" al mese, ora ne hanno tre o quattro alla settimana. Insomma, col presidente Duterte al potere la polizia nazionale sta violando le leggi che dovrebbe far rispettare e trae vantaggio dalle uccisioni di persone povere che il governo dovrebbe tutelare. Le stesse strade che Duterte aveva promesso di ripulire dal crimine ora sono piene di cadaveri di persone uccise dalla sua polizia. Due giorni fa, c’è stato un annuncio contraddittorio: fine delle operazioni di polizia e proseguimento della "guerra alla droga". Chi la porterà avanti? Ciò che sta accadendo nelle Filippine dovrebbe allarmare il mondo intero. Amnesty International ha chiesto al presidente Duterte di ordinare l’immediata fine di tutte le esecuzioni extragiudiziali e al dipartimento della Giustizia di svolgere indagini e procedimenti nei confronti di chiunque sia implicato nelle uccisioni, a prescindere dal rango o dal ruolo all’interno della polizia o del governo. Se questo non accadrà in tempi brevi, allora dovrà muoversi il Tribunale penale internazionale, la cui procuratrice alla fine del 2016 aveva ipotizzato l’apertura di un’indagine preliminare sulla mattanza in atto nelle Filippine. Russia. Depenalizzare i reati in famiglia fa tornare al Medioevo di Mara Carfagna Il Tempo, 1 febbraio 2017 "Se ti picchia vuol dire che ti ama" è un vecchio proverbio russo che forse può aiutarci a comprendere quanto e come la violenza domestica sia radicata in profondità nella cultura russa. Perché non può esserci altra spiegazione, altra motivazione, se non un retaggio culturale distorto alla base della decisione, incomprensibile, della Duma di approvare una legge che depenalizza la violenza domestica. La violenza domestica, sulle donne e sui bambini, è una piaga che sanguina e causa sofferenze, dolore e morte in ogni angolo del mondo. Dovunque esistono uomini che si sentono liberi di picchiare le loro mogli ed i loro figli, in tutto il mondo esistono uomini che pensano di poter disporre delle vite di chi dovrebbero amare di più. In tutto il mondo esistono uomini che pensano di vivere in un’altra epoca storica, quell’ epoca in cui prima il padre e poi il marito, di fatto, erano i "proprietari" della vita di una donna. Ma esistono luoghi, e purtroppo la Russia è uno di questi, in cui gli atteggiamenti violenti, in cui i retaggi di una cultura passata e speravamo totalmente superata, sono più diffusi, o peggio, sono ritenuti "normali". Il ministero dell’Interno russo ha stimato che 14.000 donne muoiono ogni anno per le ferite inflitte dai loro mariti o partner. Parliamo di quasi 40 al giorno. Per le statistiche ufficiali il 40% dei crimini violenti in Russia avviene all’interno del nucleo familiare. Uno studio indipendente (fonte Human Rights Watch) dice invece che il fenomeno sarebbe decisamente più esteso e che nel 2013 1’80% dei crimini violenti nei confronti delle donne sarebbe stato commesso dal coniuge o dal partner. Vogliamo tradurlo in numeri? Parliamo di 36.000 donne e 26.000 bambini che ogni giorno si ritrovano afa - re i conti con la violenza in famiglia. Ed infine, il 19% dei russi pensa apertamente che picchiare la moglie ed il figlio sia accettabile. Ed è di fronte a questi numeri che assistiamo sconvolti all’approvazione da parte delle Duma, con 380 voti favorevoli e 3 contrari, di questa legge con cui i maltrattamenti in famiglia vengono declassati da reati penali a reati amministrativi. Per intenderci, con questa legge un cittadino russo, se viene coinvolto per la prima volta in un reato di violenza domestica pagherebbe soltanto una multa di 500 dollari o in alternativa potrebbe andare a prestare servizio in una comunità. Qualora venisse dimostrato dalla vittima, che avrebbe quindi l’onere di presentare le prove delle violenze subite in modo reiterato, che non è la prima volta, solo allora si potrebbe prendere in considerazione una pena detentiva. La tesi che ha mosso la senatrice Yelena Mizulina a presentare questa proposta di legge è che quanto accade all’interno di una famiglia non sia un "affare di Stato" e che anzi in questo modo la famiglia venga in un certo senso "tutelata" ed "incentivata". In parole povere, quello che accade all’interno delle mura domestiche non deve interessare a nessuno e nessuno deve mettervi bocca o intervenire. Come se, le mura domestiche, annullassero d’un tratto i diritti umani di donne e bambini e rappresentassero uno scudo d’immunità per chi ritiene di poter ridurre il proprio congiunto a merce di sua esclusiva proprietà. Come se la famiglia non fosse il primo luogo all’interno del quale riconoscere e garantire quei diritti fondamentali di donne e bambini che poi debbono trovare sviluppo e promozione nella società, nel mondo del lavoro, a scuola, nelle professioni, in politica, nelle Istituzioni. Lascia basiti che nel 2017 venga approvata una legge del genere, così come lascia attoniti che sia stata proprio una donna a presentarla. Con questa decisione si rischia di vanificare decenni e decenni di battaglie per i diritti ed il rispetto delle donne portate avanti con sacrifici enormi in giro per il mondo. Non ci sfugge che sono ancora troppi i Paesi nel mondo dove alle donne vengono negati ben e più elementari diritti. E infatti il nostro dovere è quello di non tacere mai per spingere questi Paesi a mettere fine a forme di discriminazioni e di violenze inaccettabili. Ma quando poi accade, come in questo caso, che anziché compiere passi in avanti si rivolga lo sguardo all’indietro, la comunità internazionale non può far finta di nulla. La decisione in Russia, anche se manca ancora qualche passaggio legislativo formale, è di fatto presa. Ma ora, paradossalmente, il potere è passato in mano alle donne. Sono le donne adesso, quelle russe e non solo, a poter disinnescare e annullare tutti gli effetti nefasti che una legge del genere potrebbe portare. Come? Reagendo. Perché al contrario di quanto dice il vecchio proverbio russo, la violenza non è direttamente proporzionale all’amore. La violenza uccide l’amore, ma soprattutto la violenza uccide le donne.