"Edilizia penitenziaria? In Italia al massimo si dà una ritinteggiata" di Valentina Stella Il Dubbio, 18 febbraio 2017 L’architetto De Rossi interviene sul piano carceri, fermo dal 2009, sul quale si è espresso Orlando. Che fine ha fatto il Piano carceri, quello che, varato nel gennaio 2009 dal Consiglio dei ministri, avrebbe dovuto risolvere l’emergenza delle carceri italiane, diventata sempre meno sopportabile sia per detenuti che per tutta la comunità penitenziaria? All’allora capo del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, Franco Ionta, furono dati poteri straordinari per accelerare la costruzione di nuovi istituti di pena, addirittura "eco-compatibili e ad emissioni zero". Ma a distanza di sette anni nulla è stato realizzato e la situazione è sempre più drammatica: dal carcere di Enna a quello delle Vallette a Torino, passando per Trani e per il minorile Beccaria di Milano. Le criticità sono quasi sempre le stesse: bagni a vista, muffa sulle pareti, infiltrazioni di acqua piovana nelle celle e nelle stanze degli agenti di sorveglianza, ambienti freddi e fatiscenti. Carenze igieniche e strutturali che offendono "la dignità e la privacy dei detenuti ristretti" e costringono "i poliziotti penitenziari a lavorare in ambienti squallidi", dichiara Federico Pilagatti, segretario regionale del Sappe (Sindacato autonomo di polizia penitenziaria). Dopo aver dedicato un tavolo di lavoro all’architettura del carcere durante gli Stati Generali dell’Esecuzione Penale, il ministro della Giustizia Andrea Orlando è tornato a parlare di Piano carceri nella sua relazione per l’anno 2016: "Il nuovo modello penitenziario orientato al rispetto dei principi della Costituzione [...] richiede anche interventi di adeguamento delle strutture penitenziarie. Il tema dello spazio vivibile viene, così, a declinarsi secondo un valore qualitativo, funzionale al processo di risocializzazione. In questo campo, le linee d’azione dovranno, pertanto, essere orientate ad incrementare non solo le dimensioni, ma la qualità degli spazi destinati al movimento, alle iniziative culturali e trattamentali ed alla socialità. Pertanto, gli interventi di edilizia penitenziaria dovranno essere coerentemente orientati al processo di umanizzazione della pena". È davvero arrivato il momento di concretizzare quanto messo solo su carta? Lo chiediamo all’architetto Domenico Alessandro De Rossi, già consulente del Dap, esperto di edilizia penitenziaria e curatore del libro da poco uscito "Non solo carcere. Norme, storia e architettura dei modelli penitenziari", Mursia Editore. I propositi del ministro Orlando sono giusti, perché se si vuole davvero realizzare un Piano carceri bisogna fare prima un grande sforzo culturale. E lo devono fare coloro che progettano e amministrano, non dimenticando mai quali sono lo scopo della pena e la finalità della detenzione: risocializzare il detenuto, dargli un lavoro, farlo seguire da esperti. Purtroppo in Italia lo sforzo massimo che riusciamo a fare per gli istituti di pena è quello di ritinteggiare le pareti. Per non parlare di tutte le idee di modifica che vengono bloccate dall’eccessiva burocrazia. Servono professionisti veramente esperti e che abbiano un curriculum effettivo per poter trattare questa delicata materia. Quale sarebbe per Lei una soluzione? Il patrimonio di cui dispone lo Stato italiano per le carceri è tutto obsoleto; quindi inizialmente andrebbe istituita una commissione che si occupi della dismissione delle carceri ospitate da manufatti storici, che andrebbero destinati ad altra funzione. Penso, ad esempio, a quello di San Vittore a Milano, all’Ucciardone di Palermo, a quello napoletano di Poggioreale, al Regina Coeli di Roma. Quindi costruire nuovi istituti di pena? Sì, in prossimità dei tribunali e in posizione strategica, vicina ai nodi di scambio trasportistici: il carcere è una città nella città, deve essere una realtà che dialoga con la città. L’aiuto dei privati sarebbe utile? Un rapporto con i privati, se gestito bene e con trasparenza, non è detto che debba essere una cosa negativa. L’onere del controllo e della correttezza debbono spettare allo Stato. E con quale filosofia realizzare un carcere modello? Bisogna entrare nella logica di una ristrutturazione comportamentale, utilizzando una tipologia di edilizia differenziata in base al comportamento del detenuto, accompagnandolo nella penitenza attraverso un percorso che man mano gli dia più libertà, a seconda del suo livello di rieducazione. Riuscendo a trasmettere più fiducia a chi lo ha preso in carico, potrà essere trasferito in celle diverse, più confortevoli rispetto a quelle più dure dove è stato recluso ad esempio per essersi macchiato di un grave reato, fino ad arrivare addirittura in quelle senza sbarre, passando per le stanze dell’affettività. È necessario capire inoltre che non si può mettere nello stesso ambiente un terrorista o un omicida con uno che ha fatto assegni a vuoti, perché devono essere trattati in maniera diversa. Cantone spiazza tutti: "che autogol togliere i figli ai boss mafiosi" di Simona Musco Il Dubbio, 18 febbraio 2017 Il capo dell’Anac: "è il segno del fallimento dello Stato". "Resto molto perplesso rispetto a questo tipo di alternativa. sono scorciatoie perché non sappiamo come intervenire sull’ambiente". "Credo che questi esperimenti siano la prova del fallimento dello Stato, delle istituzioni, che utilizzano come al solito delle scorciatoie perché non sanno come intervenire sull’ambiente". Raffaele Cantone, presidente dell’Anac, risponde così alle domande dei ragazzi del Liceo Genovesi di Napoli, che gli chiedono se sia giusto togliere i figli ai boss della malavita. Un esperimento partito da Reggio Calabria, su iniziativa del presidente del Tribunale dei minori Roberto Di Bella, che nei giorni scorsi ha raccontato di come spesso siano gli stessi genitori a scrivergli per chiedere aiuto. Cantone, però, rifiuta l’idea che strappare i figli alle madri e ai padri sia buona. Un’idea che anche la Corte europea dei diritti dell’uomo considera solo come estrema ratio. In Italia, però, c’è una proposta di legge, presentata dalla deputata Enza Bruno Bossio, che prevede l’obbligo di avviso ai Tribunali dei i minori in caso di arresto, fermo, custodia cautelare o esecuzione di pena per condanna definitiva nei confronti di persone con figli minorenni, in linea con l’indirizzo indicato d Di Bella. Ma per Cantone questo è il sintomo del fallimento dello Stato, che "utilizza una scorciatoia per non fare la sua parte", dice. "Cioè lo Stato interviene sulla parte più debole, il bambino, perché ammette di non essere in grado di fare nulla sull’ambiente. Ho molte perplessità, è una di quelle questioni che, dal punto di vista umano ed etico, mi lascia molti dubbi". Il provvedimento mira ad allontanare i ragazzi da contesti sbagliati per evitare l’insorgere di devianze, dando per scontato, dunque, che non ci sia alternativa possibile. Ma, si chiede Cantone, "è davvero giusto scegliere di togliere la cosa più bella, che è il rapporto genitori- figli, in modo così violento in una logica unilaterale dello Stato?", dice, paventando il rischio che, raggiunti i 18 anni, i ragazzi possano vedere in questa soluzione un’altra vessazione. "Non avrà forse l’immagine di uno Stato come uno Stato che sa solo punire? Se togli un bambino in fasce è un conto se lo levi a 8 o 10 anni rischi di fare peggio", continua il capo dell’Anac. La soluzione migliore sarebbe "non provare a fare operazioni che ti levano direttamente dal contesto, ma far vedere che in quel contesto c’è altro. Ritengo preferibile seguire questa strada". Mani pulite. Le radici del populismo e la retorica dell’onestà di Carlo Nordio Il Messaggero, 18 febbraio 2017 Quando, nel dicembre del 1792, iniziò a Parigi il processo contro Luigi XVI, tutti capirono che si chiudeva la fase iniziale della Rivoluzione scoppiata nell’89. Quando invece, due secoli dopo - fatte naturalmente le debite proporzioni - iniziarono a Milano i processi della cosiddetta tangentopoli, pochi compresero che si apriva il capitolo di un libro nuovo, scritto anche qui tre anni prima, con la caduta del muro di Berlino. Liberatasi infatti della paura del comunismo sovietico, l’economia italiana non sopportò più l’ipoteca del cosiddetto arco costituzionale, che aveva prodotto un vessatorio sistema tangentizio finalizzato al finanziamento clandestino e illegale dei partiti. Bastò poco per far crollare un edifico già marcio. Una modesta tangente scoperta da un procuratore; un sistema di indagini e di carcerazioni condotte in modo spietato; un’organizzazione giudiziaria che moltiplicava in poche ore, e in modo esponenziale, il numero degli indagati, dei collaboratori, e dei nuovi arrestati; un’opinione pubblica esasperata e rivoltosa, eccitata da una stampa unanimemente giacobina. Tutto questo, e altro, demolì in pochi mesi un "ancien regime" mantenuto per quasi mezzo secolo. Si voleva dimostrare che la giustizia non si fermava alle soglie dei cosiddetti poveri cristi, e che neanche le cariche più alte erano affrancate dai rigori della legge. E soprattutto si ritenne che l’aria nuova giovasse a una nuova classe dirigente più giovane, più duttile e meno ideologizzata per trainare l’Italia nella nuova dimensione Europea. Ma il prezzo pagato fu altissimo. Prima di tutto, un’ubriacatura giustizialista che a tratti avvilì i più elementari diritti civili. Basti pensare alle centinaia di persone incarcerate e assolte, e a quelle ancor più numerose "sputtanate" da una sapiente divulgazione di intercettazioni teoricamente coperte dal segreto. Berlusconi ne fu la prima vittima, con la notifica a mezzo stampa di un’informazione di garanzia che ne compromise l’esordio politico. In secondo luogo, la funesta illusione che la magistratura fosse investita di una missione salvifica, tale da attribuirle la certificazione monopolistica di moralità politica. Ancora oggi, a Roma, prima di decidere sul destino della Raggi si aspetta l’opinione della Procura. Un concorso, o conflitto, di competenze, incompatibile con una democrazia matura. Infine, più importante ed attuale, il cosiddetto populismo. La dissoluzione dei cinque partiti che avevano presieduto alla ricostruzione dell’Italia del dopoguerra aveva infatti prodotto la rovinosa e infantile convinzione che il Pci, uscito quasi indenne dalle indagini, potesse costituire, con gli opportuni adattamenti, una nuova gioiosa aggregazione di onesti e capaci. Il realtà il Pci aveva costruito un sistema di finanziamento illegale e clandestino ancora più sofisticato di quello degli altri partiti. Ne è esempio l’immenso patrimonio immobiliare della cui creazione non ha mai dato rendiconto, e di cui ha fatto sparire la documentazione dopo le perquisizioni della Procura di Milano. Per di più è emerso il suo foraggiamento da parte dell’Urss, Paese che teneva i missili nucleari puntati sulle nostre teste. Gli italiani non sono caduti in questa trappola maldestra, e si sono rivolti ad altre formazioni, peraltro prive di tradizioni, consistenza e cultura politiche. In questo vuoto di potere, che dura da venticinque anni, due forze continuano a signoreggiare. La magistratura, con una involontaria ma inevitabile funzione di supplenza, e appunto il populismo, inteso come ondivago emigrare di una forte componente elettorale presso chiunque ne stimoli e ne assecondi le pur giustificate indignazioni emotive. Così, con la complicità di un’Europa burocratica e miope, molti italiani avendo perduto la fede nelle ideologie e la speranza nelle riforme, si accontentano di chiedere la carità al primo menestrello errante che agiti una medicina miracolosa, promettendo un’apocalittica rinascita. Mani pulite. Venticinque anni, ma non è una festa di Elide Rossi e Alfredo Mosca L’Opinione , 18 febbraio 2017 Sono pochi venticinque anni per offrire un’analisi e un giudizio su Tangentopoli, anche perché molti protagonisti, da una parte e dall’altra, sono ancora in scena. Noi siamo sempre stati convinti che la vera storia di quegli anni sia quella "non scritta", quella coperta da tonnellate di dubbi su troppe cose, quella fatta di indizi, guarda caso mai trasformati in prove. Sia chiaro, qui non si tratta di negare l’anomalia di una politica nostrana vastamente permeata di malaffare, disonestà e malcostume, si tratta di rispondere ai troppi perché rimasti orfani. Insomma, che piaccia o no, la sensazione che in quegli anni il diritto sia stato in parte una linea verticale piuttosto che orizzontale, è grande e costante. Oltretutto il concetto che allora si cercò di far passare di una magistratura deputata a moralizzare, purificare, redimere il Paese, è quanto di più sbagliato e pericoloso nella logica democratica. Ripensare, infatti, a quegli anni novanta, al clima di allora, agli show televisivi, alle reazioni di alcune piazze, non inorgoglisce e non esalta il diritto e il ricordo. Né può bastare la scontatezza con la quale molti liquidarono quel passaggio, rilevando che la magistratura facesse solamente il suo dovere, ci mancherebbe. Ci mancherebbe che non lo facesse, ma il problema di allora ovviamente non fu questo. Qui nessuno si sogna di opacizzare il ruolo di "tutta la magistratura", anzi, storicamente in Italia la gran parte dei magistrati si è distinta per una capacità e un coraggio eroico e da leoni. Ma negli anni novanta, con Tangentopoli troppe cose a Milano uscirono dal seminato, scivolando nel limbo di quel dubbio che proprio la magistratura avrebbe dovuto superare a vantaggio della verità. Bene, anzi male, con Tangentopoli tante verità rimasero appese, sospese, inchiodate a mezz’aria senza conclusione, soprattutto per alcuni. Chissà forse per questo, oppure no, a distanza di venticinque anni ci ritroviamo a dire che poco è cambiato e l’Italia va a remengo. Certo è che stranamente solo alcuni partiti, o segmenti di essi, riuscirono a passare indenni dalle indagini e alcuni personaggi a sfuggire misteriosamente dalle maglie della giustizia. Sia come sia una cosa è certa, se per volontà, per fortuna, oppure semplicemente per caso, un pezzo del male viene salvato e la fa franca, la recidiva è sicura e lo vediamo. Insomma, non c’è molto da festeggiare nel ricordo di quel periodo, non solo per quello che è apparso, ma per i tanti, troppi drammi che lo hanno accompagnato. Suicidi, drammi umani, fallimenti, vite devastate in processi finiti in troppi casi con assoluzioni, proscioglimenti e conferme d’innocenza. L’uso costante delle manette, della gogna mediatica, del cappio in piazza, della vergogna delle monetine, ha poco da spartire con la nobiltà del diritto e del rispetto umano. Alla Camera dei deputati quando " un parlamentare" con un grande discorso invitò chiunque si sentisse puro ad alzarsi in piedi per affermarlo, restarono tutti, proprio tutti, inchiodati alla poltrona, questa è la politica, questa è la verità. Non abbiamo fatto nomi, nessun nome, né da una parte né dall’altra, lo abbiamo fatto volutamente, perché per chi ha memoria non serve. La storia ha tempi di analisi lunghi, talvolta molto lunghi, ma alla fine arriva e disvela dubbi e mezze verità, basta aspettare e su Tangentopoli e di Tangentopoli si capiranno e conosceranno tante verità. Mani Pulite. Davigo (Anm): "se la crisi continua c’è il rischio di una tangentopoli bis" di Lodovica Palazzoli e Lorenzo Gherlinzoni reporternuovo.it, 18 febbraio 2017 Il pm di Mani Pulite racconta l’inchiesta 25 anni dopo, in un’Italia ancora corrotta: "Chi si vende è come un prostituta: non lo fa una volta sola". I suoi avversari lo chiamavano Vichinsky, il procuratore delle purghe staliniane, ma Piercamillo Davigo, oggi presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati e pm del pool di Mani Pulite, già 25 anni fa non pensava di poter vincere la corruzione una volta per tutte. Nonostante il furore della stampa e l’entusiasmo dei cittadini, portare avanti le inchieste di Tangentopoli non è stato sempre facile. Come arrivò la magistratura al socialista Mario Chiesa? "Un imprenditore segnalò che gli era stata chiesta una somma di denaro per avere un appalto. Era Luca Magni, titolare di un’impresa di pulizie per il Pio Albergo Trivulzio. Fu condotta un’operazione di polizia giudiziaria sotto il controllo della procura, fotocopiando le banconote destinate alla mazzetta. Se ricordo bene, Di Pietro le aveva controfirmate per identificarle. Quando l’imprenditore si incontrò con il presidente della Baggina e gli versò i soldi, i carabinieri intervennero e lo arrestarono in flagranza di reato. All’inizio Chiesa non collaborava, poi fece i nomi di altri imprenditori da cui diceva di aver ricevuto tangenti. Questi a loro volta confessarono, indicando altre persone. Così iniziò un effetto domino dalle proporzioni impensabili". La magistratura puntò fin da subito ai grandi papaveri della politica, o ci arrivò per gradi? "Non avevamo la minima idea che ci fosse un sistema di quelle dimensioni e con quelle caratteristiche. Ma avevo l’assoluta convinzione che questi fatti non fossero isolati. La corruzione è un reato seriale e diffusivo, nel senso che chi commette questi delitti in genere lo fa tutte le volte che ne ha occasione, con la certezza dell’impunità. Perché mai un funzionario pubblico che si vende dovrebbe farlo una volta soltanto? Sarebbe come pensare che una prostituta si prostituisca per un giorno solo. Chi è dentro queste pratiche cerca di coinvolgere altre persone per crearsi un ambiente sicuro, fino a quando saranno gli onesti a doversene andare perché rifiutati da un sistema ormai inquinato". Qualcuno parlò di caccia alle streghe, altri di caccia ai ladri. Lei chi sente di aver perseguito? "Ovviamente i ladri. La differenza tra i processi alle streghe e quelli ai ladri è che le streghe non esistono. Le tangenti, invece, esistevano eccome. Nessuno ha mai seriamente contestato quel sistema diffuso di corruzione. Chi parla di caccia alle streghe non sa di che cosa parla, se è in buona fede. Se è in mala fede, allora è inutile discuterne". Al Corriere della Sera, lei ha affermato che l’Italia di oggi è più corrotta di quella di 25 anni fa. È più corrotta la politica o sono più corrotti gli italiani? "Per essere corrotti bisogna ricoprire una carica pubblica, e pochi italiani lo fanno. Non si può neanche dire che la politica sia necessariamente corrotta. Piuttosto, è corrotta una parte della pubblica amministrazione. L’Italia aveva forme molto gravi di corruzione amministrativa accentrata, che interessava i vertici politico-amministrativi pagati con tangenti cospicue. Grazie a Mani Pulite questo fenomeno è stato contenuto. La corruzione decentrata, quella fatta di tante piccole mazzette destinate a un grande numero di persone, invece, è sostanzialmente la stessa. Bisognerebbe trovare soluzioni a questo problema, perché non si tratta di un reato commesso da un solo individuo una volta soltanto. È un sistema criminale, che è una cosa del tutto diversa". Con quale spirito affrontava ogni giorno il proseguire delle indagini? "Mi è sempre stato chiaro che non si poteva vincere davvero. Noi però eravamo i buoni, lo dicevo sempre ai miei collaboratori della polizia giudiziaria. E ho sempre ricordato loro di comportarsi di conseguenza, rispettando le regole. Il mio riferimento a Milano era il procuratore della Repubblica Francesco Saverio Borrelli: un magistrato dalle qualità eccezionali, sia professionali che umane". La spettacolarizzazione di Tangentopoli e il protagonismo dei giudici ha fatto perdere credibilità alla magistratura? "Forse agli occhi della classe politica, che era indifferente alla corruzione, quando non complice. Agli occhi degli italiani, invece, certamente no. Noi non abbiamo cercato la fama. Ma i fatti erano talmente enormi, che la visibilità fu inevitabile". Perché si arrivò allo scontro interno alla magistratura, come nel caso Salamone-Di Pietro? "È improprio parlare di scontro nella magistratura perché ogni magistrato fa il proprio mestiere e quindi ci possono essere valutazioni diverse. Io sono arrivato ad avere 38 procedimenti penali aperti in simultanea contro di me alla procura di Brescia, ma non ho mai alzato i toni. Da innocente mi sono sempre ricordato del principio "male non fare, paura non avere". Se uno fa questo lavoro deve metterlo in conto". Crede che ci sarà una nuova Tangentopoli? "25 anni fa, i risultati non furono raggiunti perché furono cambiate le leggi, furono fermate le indagini abolendo reati, accorciando le prescrizioni, azzerando le prove. Alla base di questi fenomeni ci sono sempre i soldi. Oggi le condizioni per una Tangentopoli-bis non ci sono, ma se la crisi economica continuasse, potrebbero crearsi di nuovo le condizioni. Bisogna avere la volontà di affrontare la corruzione, se la si vuole combattere davvero. Si dovrebbe prevedere una tutela premiale molto spinta, applicando le norme sui collaboratori e testimoni di giustizia, per proteggere anche chi parla di corruzione. E poi ricorrere alle operazioni sotto copertura per penetrare sistemi criminali, come già avviene per la droga o il terrorismo". C’è un momento di quegli anni che le è rimasto particolarmente impresso? "Sì, fui colpito dalle stragi di Capaci, di Via D’Amelio e poi del ‘93. Il terrorismo mafioso e la criminalità organizzata sono strettamente collegate al sistema della corruzione. Avvertivamo l’estremo pericolo che quella situazione determinava, non tanto per noi quanto per la tenuta delle istituzioni". Lavoro di pubblica utilità. Tre milioni in più nel fondo per l’assicurazione Inail di Mauro Pizzin Il Sole 24 Ore, 18 febbraio 2017 Per assicurare i soggetti elencati dalla nuova legge di bilancio il fondo ministeriale è stato integrato con ulteriori tre milioni. Dopo l’ampliamento della platea dei soggetti impegnati in attività gratuite di pubblica utilità, stabilito dall’articolo 1, comma 86, della legge 232/16 (Bilancio 2017), con la circolare 8/17, pubblicata ieri sul sito dell’istituto, l’Inail ha fornito le istruzioni per la loro copertura assicurativa, a garanzia della quale il Fondo apposito istituito presso il ministero del Lavoro, già previsto dalla legge 208/15 è stato integrato per l’anno in corso con tre milioni. I soggetti interessati dal provvedimento - che si aggiungono a detenuti, internati e migranti richiedenti asilo coinvolti in attività di volontariato a fini di utilità sociale - sono gli imputati ammessi alla prova nel processo penale, i condannati per guida in stato di ebbrezza o sotto effetto di sostanze stupefacenti e i tossicodipendenti condannati per un reato di "lieve entità" in materia di stupefacenti. Nella circolare si chiarisce che i soggetti promotori dei progetti di pubblica utilità, ai fini assicurativi, sono quelli che hanno stipulato con il ministero della Giustizia o con i presidenti dei Tribunali delegati le convenzioni previste dai Dm 26 marzo 2001 e dal Dm 88/15. Si tratta di Stato, Regioni, Province, Comuni, aziende sanitarie, nonché di enti e organizzazioni di assistenza sociale, sanitaria e di volontariato, anche internazionali, che operano in Italia. Anche per questi nuovi soggetti verrà applicato il premio speciale unitario stabilito con il Dm 22 dicembre 2014, dal valore di 258 euro annuali a persona, sulla base della retribuzione convenzionale giornaliera in vigore annualmente per tutte le contribuzioni dovute in materia di previdenza e assistenza sociale. Il premio è frazionabile in relazione alle giornate effettive di attività lavorativa di pubblica utilità prestate, in questo caso per un valore di 0,86 euro a giornata. La richiesta di attivazione della copertura assicurativa va inoltrata esclusivamente per via telematica almeno 10 giorni prima dell’inizio effettivo dell’attività della persona ammessa al lavoro di pubblica utilità secondo le modalità indicate dalla circolare Inail 45/15. Status rifugiati senza appello di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 18 febbraio 2017 In vigore il decreto legge che riforma tutto il procedimento ma le misure saranno operative solo dall’estate prossima Cancellato un grado di giudizio - Decisione possibile anche senza contraddittorio. Un nuovo procedimento per lo status di rifugiato. E anche nuovi giudici. Entra in vigore con la pubblicazione sulla "Gazzetta Ufficiale" il decreto legge 17 febbraio n. 13 in materia di immigrazione, approvato una settimana fa dal Consiglio dei ministri. Misure che stanno già facendo molto discutere. Sono di pochi giorni fa le perplessità del presidente della Cassazione, Giovanni Canzio, e ancora ieri dal Csm è stata ribadita l’intenzione di un parere, come peraltro è consueto avvenga per tutte le disposizioni sull’organizzazione degli uffici giudiziari. Cruciale nell’intervento è il cambiamento della procedura di riconoscimento della condizione di rifugiato politico. Perché è su questo fronte che sono emerse le maggiori difficoltà e che si è reso necessario l’utilizzo di misure d’urgenza. I numeri, infatti, sono eloquenti: in soli dieci mesi, da gennaio ad ottobre 2016, le impugnazioni del diniego amministrativo dello status di rifugiato presentate hanno dato luogo a quasi 38mila nuovi procedimenti davanti ai tribunali. Un esito dell’aumento degli sbarchi di migranti sulle nostre coste, che proprio nell’anno passato ha fatto registrare numeri mai raggiunti (181.436) con un incremento del 18% rispetto al 2015 (153.000). A fronte di questa situazione il Governo ha reagito con un pacchetto di misure, in larga parte operative solo dal prossimo agosto, che vede anzitutto la costituzione presso 14 tribunali ordinari (Bari, Bologna, Brescia, Cagliari, Catania, Catanzaro, Firenze, Lecce, Milano, Palermo, Roma, Napoli, Torino e Venezia) di sezioni specializzate in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini dell’Unione europea con competenza in tema di asilo e immigrazione. Previste nuove applicazioni straordinarie di magistrati presso i tribunali interessati dall’aumento dei procedimenti in materia di protezione internazionale e la formazione specifica dei magistrati ordinari assegnati alle nuove sezioni specializzate, a carico della scuola superiore della magistratura. Ma le novità più controverse riguardano il procedimento. Sul versante amministrativo è istituita l’obbligatorietà della videoregistrazione del colloquio personale dell’interessato davanti alla Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale. Videoregistrazione che riveste poi un ruolo di primo piano nel caso di ricorso in sede giurisdizionale. Il procedimento è trattato in camera di consiglio e la fissazione di un’udienza è solo eventuale. Potrà infatti essere decisa dal giudice solo quando, dopo avere preso visione della videoregistrazione, è ritenuta necessaria, oppure quando il giudice stesso ritiene indispensabile chiedere chiarimenti alle parti o, infine, quando dispone consulenza tecnica oppure, anche d’ufficio, l’assunzione di specifici mezzi di prova. Inoltre, l’udienza potrà essere decisa quando la videoregistrazione non è stata messa a disposizione oppure l’impugnazione è fondata su elementi che non sono stati proposti nel corso della procedura amministrativa di primo grado. L’altro elemento di criticità, oltre a un contraddittorio solo virtuale nella maggior parte dei casi, è determinata dalla cancellazione di un grado di giudizio. Entro 4 mesi dalla presentazione del ricorso, infatti, il tribunale decide sulla base degli elementi disponibili. Tuttavia il decreto non sarà appellabile, ma solo oggetto di ricorso in Cassazione. Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, la procura di Roma apre l’inchiesta sul depistaggio di Andrea Palladino Il Fatto Quotidiano, 18 febbraio 2017 La decisione di Pignatone dopo la denuncia dei genitori della giornalista uccisa in Somalia insieme all’operatore. E dopo che la corte d’appello di Perugia ha cancellato la condanna di Hashi Omar Hassan, tirato in ballo dal "testimone" Gelle, che poi ha ritrattato tutto affermando di aver ricevuto promesse di denaro da parte delle "autorità italiane". Da qui la nuova indagine contro ignoti per falso, calunnia e favoreggiamento. Il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone ha affidato al sostituto Elisabetta Cennicola la delega per un nuovo fascicolo sul caso del duplice omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, con l’ipotesi di reato di falso in atto pubblico, calunnia e favoreggiamento. Al momento il procedimento è a carico di ignoti. I nuovi accertamenti - che puntano a ricostruire l’ipotesi di un vero e proprio depistaggio delle indagini - sono nati su impulso dei legali di Luciana Alpi, madre di Ilaria, che nei giorni scorsi aveva pubblicamente indicato i tanti punti oscuri della vicenda. Lo scorso gennaio la corte di Appello di Perugia aveva depositato le motivazioni della sentenza di revisione della condanna a 26 anni di reclusione per il somalo Hashi Omar Hassan, accusato di aver fatto parte del commando che uccise Alpi e Hrovatin. Quel giudizio del Tribunale di Roma - poi annullato definitivamente dai giudici di Perugia - si era basato soprattutto sulla testimonianza di un altro somalo, Ahmed Ali Rage, detto Gelle. L’uomo era stato portato in Italia il 10 ottobre del 1997 dall’allora rappresentante speciale per la Somalia ambasciatore Giuseppe Cassini, che lo aveva individuato e ascoltato a Mogadiscio qualche mese prima. Gelle, dopo essere stato interrogato dalla Digos di Roma e dal pubblico ministero Franco Ionta, titolare all’epoca del fascicolo sul duplice omicidio, era sparito, lasciando definitivamente l’Italia. Nel verbale agli atti delle indagini aveva indicato Hashi Omar Hassan come uno dei sette uomini che bloccarono la jeep di Ilaria Alpi, aprendo il fuoco e uccidendola insieme a Miran Hrovatin. Un’accusa che, però, non ha mai sostenuto in udienza, lasciando definitivamente l’Italia prima dell’inizio del processo. Già nel 2002, quando la notizia della condanna di Hashi era diventata pubblica, Gelle aveva confessato al giornalista somalo Aden Sabrie di aver mentito in cambio di promesse di denaro da parte di "autorità italiane" e di non sapere nulla in realtà sul caso Alpi. Nel 2008 la Procura di Roma avviò una prima indagine per calunnia nei suoi confronti, che si concluse con un nulla di fatto del 2012: Gelle venne assolto perché non era possibile comparare la sua voce con la registrazione delle sue parole di smentita del 2002, realizzata da Sabrie, in quanto irreperibile. La svolta arriva nel febbraio 2015. L’inviata di Chi l’ha visto Chiara Cazzaniga incontra Gelle in Inghilterra e lo intervista. Anche in quella occasione il testimone conferma di aver mentito e che gli erano stati offerti soldi e un visto per l’Italia. Un anno dopo viene sentito dalla Procura di Roma in rogatoria, mettendo nero su bianco il suo racconto; davanti agli investigatori italiani Gelle affermerà, tra l’altro, di non riconoscere la firma sul verbale del 1997. Questa sua ultima testimonianza sarà la chiave di volta nel processo che ha scagionato definitivamente Hashi Omar Hassan, dopo 16 anni di carcere da innocente. Udienza preliminare, nullità assoluta per l’omessa notifica Rilevabile d’ufficio di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 18 febbraio 2017 L’omessa notifica all’imputato dell’avviso di fissazione dell’udienza preliminare fa scattare una nullità assoluta, insanabile e rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento, come conseguenza dalla mancata citazione dell’imputato. A dirimere il contrasto sono state le Sezioni unite con la sentenza 7697. In un’ordinanza di rinvio la quarta sezione penale aveva rilevato l’esistenza di una giurisprudenza contrastante sulla natura dell’invalidità. Malgrado in passato le Sezioni unite si siano già espresse nel senso indicato dalla sentenza di ieri, non mancano le decisioni con le quali alcune sezioni semplici hanno affermato che l’omessa notifica non integrerebbe una nullità assoluta (articolo 179 del Codice di procedura penale) ma una nullità sanabile a regime intermedio (articolo 180 del codice di rito). Secondo la tesi del regime intermedio, la "via" più severa della nullità assoluta sarebbe prevista tassativamente solo per l’omessa "citazione" dell’imputato e non per l’omesso "avviso", del quale è destinatario l’imputato che deve partecipare all’udienza preliminare, mentre la citazione riguarda il dibattimento. Nel caso esaminato la notifica dell’avviso di fissazione dell’udienza preliminare era stata fatta ad un indirizzo diverso da quello di residenza dell’imputato e "consegnata" ad una zia. Un’omessa notifica che la Corte d’appello aveva considerato come causa di nullità a regime intermedio, sanata da un’eccezione proposta in ritardo. Le Sezioni unite citano numerosi argomenti a sostegno della necessità di assimilare l’avviso alla citazione. Tra questi ci sono gli affetti delle riforme legislative e delle pronunce di legittimità e della Consulta, che hanno inciso sulla natura dell’udienza preliminare non più confinata a una funzione di semplice filtro. Del resto - precisano i giudici - sebbene l’epilogo dell’udienza preliminare non sia una condanna, l’imputato con la sua partecipazione manifesta tutto l’ interesse a ottenere una pronuncia di non luogo a procedere. Inoltre l’assimilazione dell’avviso alla citazione non è una novità nella giurisprudenza di legittimità: anche in materia di misure cautelari per l’udienza davanti al Tribunale del riesame non si parla di citazione ma di avviso. Lo stesso legislatore con l’indicazione "omessa citazione", contenuta nell’articolo 179 del codice di rito, non ha inteso escludere ipotesi di "vocatio" dell’imputato diverse da quelle per il giudizio ma piuttosto comprenderle. Se avesse, infatti, voluto limitare la sanzione dell’articolo 179 alla citazione in giudizio in senso stretto gli sarebbe stato facile precisarlo, mentre sarebbe stato molto più difficile stilare l’elenco di tutte le ipotesi di convocazione. Considerazioni che portano le Sezioni unite a ribadire la nullità assoluta e non sanabile dell’omessa notifica. La sinistra, il mercato e lo Stato di diritto di Piero Sansonetti Il Dubbio, 18 febbraio 2017 In un’intervista al "Corriere della Sera", giorni fa, Walter Veltroni osservava come in pochi anni la sinistra, in Occidente, ha disperso un enorme patrimonio. Governava quasi ovunque. Ora è ai margini, sbandata, sostituita dalla destra moderata o dai partiti radicali e populisti. È proprio così. Veltroni, però, come molti altri leader che hanno guidato la sinistra negli ultimi vent’anni, non si chiede perché questo sia successo. Le ipotesi sono due: o è colpa del "destino cinico e baro" (come diceva Giuseppe Saragat quando perdeva le elezioni) oppure degli errori compiuti dalla stessa sinistra. Sono propenso a dare più peso alla seconda ipotesi. Mi pare che la sinistra, negli anni novanta, di fronte alla crisi e al crollo delle ideologie marxiste e socialdemocratiche che avevano dominato i cento anni precedenti, non abbia saputo trovare una sua via alla modernità. Ha scambiato per modernità e innovazione il semplice ripiegamento su posizioni classiche della destra. A partire dalla esaltazione del mercato e dal ridimensionamento dello Stato di diritto. Oggi la questione si pone in maniera drammatica: i nuovi gruppi dirigenti della sinistra non sono riusciti a modificare e a mettere in discussione le posizioni precedenti, cioè non sono stati capaci di riflettere sui limiti del cosiddetto "blairismo", e sono finiti in un vicolo cieco. È successo così in Spagna, in Gran Bretagna, in Francia, è successo anche, seppure in modo diverso, negli Stati Uniti, e ora sta succedendo in Italia. La cosa curiosa è a mettere sotto accusa i nuovi gruppi dirigenti, qui da noi - e cioè a guidare la battaglia contro Matteo Renzi dopo la sua sconfitta al referendum - sono le stesse persone che avevano guidato il ripiegamento verso il centro e verso destra della vecchia sinistra italiana: D’Alema, Bersani, lo stesso Veltroni e altri ancora. I quali ora chiedono una svolta a sinistra del partito, quasi ignorando - credo in buonafede - di essere stati loro, e non Renzi, a guidarlo in fondo al vicolo. La cosa che colpisce nella discussione che si sta sviluppando furiosa dentro il Pd, è l’assenza dei contenuti politici. Il fatto che esista un problema di definizione di quello che deve essere il giusto rapporto, in una società moderna, tra mercato e diritti, tra diritti e spesa pubblica e welfare, tra regole e profitti e salari, è un fatto del tutto ignorato. Il dibattito si svolge attorno a temi, sicuramente importanti, ma che non riesco a considerare cruciali, come la data del congresso, le modalità di svolgimento del voto, le caratteristiche delle eventuali primarie, la scadenza delle elezioni politiche, la legge elettorale, i capilista bloccati. È su questi nodi che la sinistra ha subìto, in tutto il mondo, una clamorosa battuta d’arresto? Sulle regole del gioco? O piuttosto l’ha subìta perché non sa indicare una sua idea di modernità? La destra ha una idea chiarissima: la prevalenza del mercato libero, in parte globalizzato, in parte regolato su base nazionale. Le forze populiste hanno una idea altrettanto chiara: il dominio del mercato, ma solo in un quadro nazionale, con una inversione di tendenza della globalizzazione. La sinistra non ha nessuna idea. E oggi, non avere una idea sul rapporto tra mercato e diritto e anche tra liberismo, libertà e stato di diritto, vuol dire non avere una idea della modernità. È impossibile, in politica, vincere senza saper esprimere una propria idea di modernità. Sono rimasto molto colpito, nei giorni scorsi, ascoltando il dibattito che si è svolto alla direzione del Pd e poi ascoltando, quasi in contemporanea, l’apertura dell’anno giudiziario dell’avvocatura. Da una parte la riunione di un partito che raccoglie l’eredità del pensiero politico cattolico e di quello di tutta la sinistra socialista e comunista, dall’altra parte un incontro di categoria professionale. La riunione del Pd però mi è parsa una riunione di corporazione. Quella degli avvocati un momento di discussione politica vera, sulle grandi questioni che riguardano il futuro della nostra società e l’assetto dello Stato. È solo un paradosso questa inversione di ruoli? Oppure è il sintomo di una crisi che sta esplodendo nelle classi dirigenti di questo paese - e probabilmente di tutto l’Occidente, scosso dalla globalizzazione - e che può essere affrontata solo se la politica si decide ad accettare dei paradigmi nuovi, nuovi dialoghi, nuovi sistemi di alleanze (politiche, sociali e professionali)? Tendo a credere che la risposta giusta sia la seconda. Il linguaggio delle scissioni, delle rese dei conti nei gruppi dirigenti, della sottovalutazione dei programmi, è un linguaggio vecchio, vecchio, vecchio. E muto. Ormai non esprime più nulla, non corrisponde a nulla. La politica ha bisogno di rigenerarsi confrontandosi con le forze della società, e delle professioni, che sono in grado di portare non una griglia di rivendicazioni corporative ma una piattaforma di proposte di governo. Che non chiedono favori, non offrono dipendenze, ma pretendono di proporre e mettere in gara i propri punti di vista sul governo della società e dello stato. Ripartendo da qui, solo ripartendo da qui, la politica può ricostruire gli schieramenti e riaprire i grandi conflitti ideali. Sostituire il conflitto con l’odio e il progetto con le formule, può servire ai gruppi di potere a rinviare un pochino la propria morte, ma al paese serve come uno zero. L’Italia segue l’Europa sull’indifferenza alla morte di Ruggiero Capone L’Opinione , 18 febbraio 2017 In Italia s’aggira un demone dall’apparente volto umano. Il buon diavolo giustifica l’indifferenza che spande per il Paese come atteggiamento responsabile, utile a meglio integrarsi in Europa. Il demone sta forgiando il nuovo diffuso senso comune del Vecchio Continente: ovvero indifferenza al suicidio e consenso verso eutanasia e pena capitale. Qualche Solone (e ne contiamo sempre troppi) ribatterà che i concetti di Europa e di morte si sono sempre coniugati, favorendo vette letterarie impensabili per i nuovi mondi anglosassoni. Un po’ come Gustav "von" Aschenbach, personaggio di Thomas Mann in "Morte a Venezia", che ha interamente dedicato l’esistenza alla propria arte, concretando la propria ascesi con una morte preceduta dall’innamoramento efebico. Che bell’affresco decadente! Intanto la "gente inutile" (l’uomo della strada) si domanda: "Ma come, in Europa si chiede diminuisca la pressione demografica e poi s’aprono le frontiere a chiunque?". Nel quadro europeo denaro e lavoro assumono per i poteri forti il ruolo di una manna con cui bagnare i cosiddetti normalizzati, ovvero chi accetta di buon grado di essere servo cibernetico della gleba. Così a gran parte dei disoccupati non viene nemmeno concesso d’integrarsi come "servo della gleba". Ma capita anche che un trentenne si suicidi, e prima del gesto scriva una lettera che punta il dito contro la classe dirigente italiana ed europea. Le statistiche solo in parte rimbalzano sulle cronache di provincia, parlano ormai di 1,5 suicidi al giorno: giorni fa è toccato a una signora di 53 anni in difficoltà e ancora in Liguria un ragazzo pressato dai problemi familiari. Ma la politica va avanti e con sguardo altezzoso non si cura dei miserabili che ormai sono troppi. È evidente che per il "gruppo ristretto Ue" il denaro rappresenti solo una potente arma di potere e controllo. Così qualcuno si domanda se il ristretto gruppo non voglia sostituire l’europeo disoccupato e indigente con un extracomunitario addomesticabile, che di buon grado accetterebbe un sistema non democratico pur di vivere in una capitale consumistica come Parigi, Berlino o Roma. Per garantire l’estinzione dei socialmente esclusi in Italia e in Europa, lo Stato finge di non sentire il grido di disperazione dei disoccupati, parimenti s’insinua subdolamente l’idea dell’eutanasia per motivi economici. Ciliegina sulla torta è che certi caldeggiano la reintroduzione della pena di morte per contrastare il terrorismo. E sembra che obiettivo non tanto celato di certe politiche sia proprio costruire spazi che permettano d’isolare i socialmente esclusi. Fino a tre anni fa i detenuti condannati all’ergastolo in Italia erano 1500: un regime carcerario che non prevede né permessi né sconti di pena, "fine pena mai". Ma il loro numero aumenta ogni anno. La tendenza dei giudici è comminare il carcere a vita per i crimini più efferati: quando la scelta è tra i 30 anni di carcere e l’ergastolo, oggi si propende per la seconda soluzione. Va detto che chi ha scontato trent’anni difficilmente si potrebbe reinserire nell’attuale tessuto sociale, finendo ai margini o tra le maglie di un sempre più aggressivo sistema criminale. Di fatto l’Unione europea è per un miglioramento delle condizioni di vita nelle carceri ma, purtroppo, anche per un incremento delle pene da scontare in detenzione: ergo, l’Ue vede di buon occhio che aumentino i ristretti, soprattutto nei Paesi della fascia mediterranea, considerati nel Nord Europa a forte rischio criminale. La tendenza che si conferma un po’ in tutta l’Ue è la scelta detentiva, anche per reati lievi che un tempo prevedevano un percorso di reinserimento, o che il condannato continuasse il proprio lavoro col vincolo di pernottamento nel penitenziario. La tendenza alla reclusione piace all’Ue, che considera il carcere utile a contenere lo strabordante numero di disoccupati che si danno al crimine. Ma che l’Unione europea sia orientata verso il riempire le carceri e, almeno sulla carta, la reintroduzione della pena di morte non lo si deve certo alle politiche dell’ungherese Orban o alle pressioni della Le Pen. La "pena di morte" è stata introdotta nel Trattato di Lisbona del 2010 a seguito di uno studio della Commissione europea sull’incremento dei crimini e suoi eventuali deterrenti. Il problema di una sua reintroduzione era stato sollevato per la prima volta da un giurista tedesco, Karl Albrecht Schachtschneider, durante una sua lezione sulla "Carta di Nizza" del 2007. Il Trattato di Lisbona è entrato in vigore il primo dicembre del 2009, ratificato da tutti gli Stati membri dell’Ue: modifica ed integra due precedenti trattati (il Trattato sull’Unione europea, o Tue, ed il Trattato che istituisce la Comunità europea), apportando sostanziali modifiche all’ordinamento. Ma, fortunati noi, la pena di morte è rimasta monca, e nessuno ha ancora sollecitato l’applicazione della reintroduzione da parte dei Paesi membri. Perché potesse tornare la ghigliottina, è stato modificato l’articolo 6 del Tue, e nella parte che prevede la "salvaguardia dei Diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali". Di fatto l’Unione europea sta orientandosi verso scelte liberticide, e non si comprende come queste possano conciliarsi con la storia europea degli ultimi sessant’anni. Certo, chi migra da Paesi del Terzo e Quarto Mondo, o fugge da guerre e dittature, considera questi come aspetti marginali. Per tutti gli altri il passo indietro è evidente, e c’è tanta paura di finire nelle maglie pressappochiste della giustizia. Insomma, lo spirito europeo non è più quello dei padri fondatori, ed oggi ci parla d’indifferenza verso il suicidio e di desiderio di morte. A conti fatti, se gran parte dei disoccupati si suicidassero o chiedessero la "dolce morte" a spese dello Stato (come sperano gli oltranzisti olandesi dell’eutanasia) e nel frattempo tornasse la pena di morte... in un decennio l’Europa tornerebbe a trovarsi nelle stesse condizioni demografiche di fine Ottocento. E dove sarebbe la svolta? Soprattutto diamo in pasto all’opinione pubblica i nomi di chi subdolamente insinua queste idee, ma anche dei tanti di potere indifferenti al suicidio, al bisogno. Fake news. La prevenzione può fare più di una condanna di Caterina Malavenda Corriere della Sera, 18 febbraio 2017 L’idea di adattare norme penali, dettate per reprimere condotte diverse, è azzardata e non immune da rischi di incostituzionalità. Più efficace sarebbe la prevenzione, a partire dalle scuole. Caro direttore, come sempre in Italia, quando un problema sociale diventa ingovernabile, si ricorre al codice penale, con la convinzione che la repressione funzioni meglio della prevenzione. Oggi accade con le vituperate fake news, un modo elegante e un po’ criptico di definire le tradizionali bufale, un fenomeno che sembra inquietare maggiormente quando riguarda i social media e le piattaforme on line, di norma meno affidabili, piuttosto che i media tradizionali. Eppure non sono pochi i giornali e siti informativi inclini se non a generare, quantomeno a rincorrere false notizie appetitose, in una caduta verso il basso, che pare difficile arginare creando nuove figure di reato, destinate a gravare sui tribunali, senza alcuna reale forza dissuasiva ed introducendo regole ed obblighi di improbabile applicazione. Questo sembra il limite più evidente del primo disegno di legge in materia, ottimisticamente destinato a prevenire la manipolazione dell’informazione online, garantire la trasparenza sul web e incentivare l’alfabetizzazione mediatica, fin dal titolo un po’ velleitario, denso com’è di concetti sfuggenti, pene irragionevoli e aspirazioni irrealizzabili. L’idea, ad esempio, di adattare norme penali, dettate per reprimere condotte diverse, è azzardata e non immune da rischi di incostituzionalità. Gli artt. 265 e 656 del codice penale, infatti, puniscono chi diffonde notizie false, esagerate o tendenziose - il male dei nostri tempi, si direbbe - in tempo di guerra, se atte a fiaccare la resistenza della popolazione di fronte al nemico e in tempo di pace, se idonee a turbare l’ordine pubblico. Introdurre gli artt. 265 bis e 656 bis, punendo con un’ammenda chi lo faccia senza uno scopo preciso e, con buona pace del principio di uguaglianza, purché non lavori per giornali di carta o per quotidiani on line; e con la reclusione fino all’ergastolo - a causa della mancata quantificazione del massimo - oltre che con l’ammenda - due pene tecnicamente inconciliabili - chi lo faccia per nuocere o fuorviare l’opinione pubblica o fomentando generiche campagne d’odio, è idea piuttosto balzana, cui potrebbe interessarsi anche la Corte costituzionale. Né le altre previsioni appaiono più funzionali allo scopo. Tracciare le piattaforme che intendano informare il pubblico, obbligando l’amministratore a dichiararsi e costringerlo a divulgare le rettifiche, sanzionandolo economicamente, ne incentiverà il già diffuso espatrio; introdurre il diritto alla cancellazione dei contenuti, a semplice richiesta, è un invito alla censura immediata di notizie scomode; imporre ammende a chi non controlla i contenuti in entrata, dissuaderà chiunque sia sano di mente dall’aprirne una nuova. Che fare? La materia certo è complessa, i rimedi non sono agevoli da trovare e, soprattutto, nessuno avverte come un problema, se non le prova sulla sua pelle, le conseguenze di un uso distorto dei mezzi di informazione, di tutti i mezzi di informazione, si badi bene, che la comparsa di nuove forme di media ha solo acuito. È la prevenzione, dunque, che può dare i risultati più efficaci, almeno nel medio periodo, se parte davvero dalle scuole, se il previsto potenziamento degli strumenti a disposizione degli studenti, per imparare ad usare i media, introdotto dall’art. 10 - la parte più interessante del disegno di legge - non resterà una speranza per le anime belle, subordinato com’è all’assenza di nuovi o maggiori oneri finanziari. Se, con uno stralcio provvidenziale - e prima che l’intero provvedimento si impantani nei veti incrociati dei paladini della libertà del web a qualunque costo e dei fautori del diritto all’oblio del giorno dopo - quell’articolo verrà discusso ed approvato, con la necessaria copertura finanziaria ed il reclutamento di insegnanti capaci, però, chissà che per i gestori e i fruitori delle piattaforme di domani una nuova legge non risulti alfine del tutto superflua. Milano: tanti stranieri, nessun mediatore culturale, a San Vittore si parla a gesti di Stefania Consenti Il Giorno, 18 febbraio 2017 La denuncia della direttrice della casa circondariale Gloria Manzelli. Cala il sovraffollamento a San Vittore - ci sono tre reparti e mezzo chiusi e 850 detenuti - ma aumentano altri problemi legati alla presenza di stranieri che rappresentano il 70%. "Abbiamo detenuti che provengono da ogni parte del mondo ma non abbiamo un mediatore. Con alcuni, come i cinesi, dobbiamo sperare che parlino inglese oppure affidarci ai gesti". Lancia l’allarme Gloria Manzelli, direttrice del carcere milanese da 12 anni, e lo fa davanti ad una platea di amministratori e consiglieri regionali, riuniti a San Vittore nell’ambito dell’iniziativa Cento tappe. L’approccio con i detenuti, pare assurdo nel 2017, in assenza di queste figure importanti come i mediatori culturali, "sì, avviene a gesti, oppure con la collaborazione di altri detenuti come quelli di seconda generazione che parlano anche italiano", rincara la dose la direttrice. Il problema era emerso già diversi anni fa ma non si è mai risolto per problemi di finanziamenti. "Per i fondi dovrebbero intervenire altre istituzioni", insiste la direttrice di San Vittore, un carcere "diventato un grande contenitore di disagio sociale". Pronta la proposta dell’assessore al Welfare, Pierfrancesco Majorino: "Fa bene la direttrice a porre con forza la questione e noi siamo disposti a dare una mano ma si muova anche il Ministero di Grazia e Giustizia. Già supportiamo economicamente l’Icam che accoglie le detenute con figli piccoli". Quello dei finanziamenti sarà un tema cruciale per i prossimi anni se si vuole affrontare la sfida futura, considerare il carcere "come risorsa per la società civile". Tema dell’incontro è stato proprio "l’interazione fra carcere e città". Complessivamente in Lombardia il 21,4% dei detenuti con una condanna definitiva - pari a 1.116 persone - deve scontare al massimo un anno di pena e rappresenta la stima più immediata della potenziale domanda di interventi finalizzati al reinserimento sociale e lavorativo. Qui il punto. Il "tema dei temi" ha messo in guardia Raffaele Monteleoni dell’Università Bicocca che ha curato la ricerca "Sostegno al reinserimento sociale e lavorativo" per Eupolis, "è creare il lavoro, costruire il reinserimento che abbatte le recidive, combatte il sovraffollamento. Così si fa anche sicurezza sociale". Da qui la richiesta di maggiore "housing sociale" per gestire meglio i flussi in uscita dalle carceri. Ci vuole anche una maggiore integrazione fra la Regione e l’amministrazione penitenziaria, incalza il docente, anche se in questi anni, riconosce Luigi Pagano, provveditore regionale amministrazione penitenziaria, il rapporto con Palazzo Lombardia è stato "molto proficuo". Ma ora è necessario fare un salto di qualità "passare dalla cultura del progetto" a quella del servizio. Con una pianificazione strategica, continuativa, che punti al medio e lungo periodo. Palermo: lettera dall’inferno "torturato al Pagliarelli, ora mi ammazzo" di Alessandro Bisconti palermotoday.it, 18 febbraio 2017 L’incubo di Aldo Cucè, detenuto di 27 anni, che ha raccontato al padre le angherie e le percosse: "Sbattuto e trascinato contro gli spigoli e tenuto nudo in cella. I maiali vengono trattati meglio". Fatti denunciati ai carabinieri, alla Procura della Repubblica e al Dap di Roma. "Mi sbattono contro il cancello in ferro e contro i muri trascinandomi come un sacco facendomi sbattere contro spigoli e sporgenze. Temo per la mia incolumità. Aiutatemi, sono disperato. È urgentissimo". A parlare, anzi, a scrivere, è Aldo Cucè, 27 anni, detenuto nel carcere di Pagliarelli per stalking. Il giovane ha inviato una lettera disperata al padre denunciando continue aggressioni sia fisiche che psicologiche nei suoi confronti. Le accuse - rivolte ai secondini dell’istituto penitenziario palermitano - sono gravissime. Il padre - Mauro Cucè - ha raccolto il lunghissimo sfogo del figlio: una busta con 23 pagine scritte a stampatello. I fatti sono stati denunciati ai carabinieri, alla Procura della Repubblica e al Dap di Roma. Ci sono momenti in cui arriva il sole attraversa le sbarre e scalda il cuore. Momenti che Aldo ha dimenticato da un po’. Minacce, percosse, torture. "Un secondino stressato forse da problemi familiari si è sfogato con me", racconta il giovane nella lettera. E poi ancora: "Mi hanno tenuto in cella nudo, senza scarpe, né federe o lenzuola. Non c’era neanche il bagno. I maiali sono trattati meglio". Cucè racconta torture di gruppo: "I colpi contro muro e spigoli e la forza con cui mi tiravano e sbattevano sono stati tali da farmi mancare il respiro". Il ragazzo si sfoga: "Il carcere Pagliarelli non serve a rieducare ma a formare i criminali per torturare sia fisicamente che psicologicamente, a istigare ai suicidi. Infatti da quando sono qui dentro ho visto più morti impiccati che fuori in libertà. E qua c’è un commissario che partecipa alle violenze". Accuse pesantissime. "I secondini fanno gruppo tra di loro e agiscono quando non ci sono altri detenuti che possono fare da testimoni - attacca Cucè. Io voglio studiare e avere la possibilità di lavorare. Cosa ci sto a fare qua se il carcere mi ha insegnato a essere più violento? Se continuano così mi tolgo la vita. Aiutatemi, non ce la faccio più". Non ci sta Stefano Giordano, avvocato penalista, e presidente di Antigone, associazione non governativa con sede centrale a Roma che si interessa della tutela dei diritti e delle garanzie nel sistema penale: "Aspettiamo le autorizzazioni per andare a parlare con il ragazzo - dice a Palermo Today. Chiederò subito un incontro con la direttrice del Pagliarelli, Francesca Vazzana per chiarire questa situazione". Proprio negli scorsi giorni il deputato del Pd all’Assemblea regionale siciliana, Pino Apprendi, ha incontrato una delegazione di detenuti in rappresentanza dei 350 in sciopero della fame. Gli ospiti del carcere chiedono, fra le altre cose, di potere fare la doccia con regolarità, incontrare i familiari in un ambiente riscaldato e avere la possibilità di un contatto telefonico con i figli con meno di dieci anni". Giordano non usa troppi giri di parole. "È inutile negarlo - dice il presidente di Antigone - da lì dentro arrivano segnali allarmanti. È bene ragionare insieme per capre cosa sta succedendo, purtroppo non possiamo fare altro. Al Pagliarelli sta esplodendo il malcontento: questi segnali non vanno strumentalizzati ma neanche sottovalutati. La situazione sta degenerando". Sassari: detenuto morto in cella, affidata nuova perizia cagliaripad.it, 18 febbraio 2017 Per la sua morte sono tre imputati a giudizio. L’esperto dovrà chiarire i molti dubbi sui quali accusa e difesa si sono sempre scontrate in primo grado ed in appello, analizzando gli esiti dell’autopsia. Sarà la perizia del consulente nominato oggi dalla Corte d’assise d’appello di Sassari, il medico legale veneziano Sergio Lafisca, a stabilire se il detenuto Marco Erittu - trovato morto nella sua cella di San Sebastiano il 18 novembre 2007 - si sia ucciso o sia stato ammazzato. Per la sua morte sono tre imputati a giudizio. L’esperto dovrà chiarire i molti dubbi sui quali accusa e difesa si sono sempre scontrate in primo grado ed in appello, analizzando gli esiti dell’autopsia eseguita subito dopo la morte di Erittu, le perizie e le controdeduzioni precedenti, i rilievi tecnici dei carabinieri di Sassari, le foto della cella, del letto e della striscia di coperta che il detenuto aveva attorno al collo. Nella prossima udienza del 27 giugno sarà prodotta la perizia. In giudizio il pg Giancarlo Moi aveva chiesto l’ergastolo per i tre imputati: Pino Vandi, detenuto all’epoca dei fatti, accusato di essere il mandante dell’omicidio di cui sarebbe esecutore materiale Giuseppe Bigella, reo confesso, Nicolino Pinna, anch’egli allora detenuto a San Sebastiano, che avrebbe reso credibile la messinscena del suicidio di Erittu, e Mario Sanna, agente di polizia penitenziaria, che avrebbe favorito l’ingresso dell’omicida nella cella d’isolamento dove Erittu si trovava in seguito a un atto di autolesionismo. Altre due guardie carcerarie, Giuseppe Sotgiu e Gianfranco Faedda, sono accusati di favoreggiamento: per loro la procura generale ha chiesto rispettivamente un anno e sei mesi di reclusione. Bologna: alla Dozza detenuto aggredisce con le forbici tre poliziotti penitenziari Il Resto del Carlino, 18 febbraio 2017 L’uomo, in carcere per omicidio, non è nuovo a gesti simili. I sindacati: "È pericoloso, deve essere trasferito". Prima ha fatto una telefonata, poi ha aggredito con un paio di forbici due agenti e un ispettore della penitenziaria. È successo nel primo pomeriggio di oggi nel reparto infermeria della Dozza. Il personale, nel tentativo di neutralizzare il detenuto, un italiano di 36 anni recluso per omicidio, ha riportato varie ferite, refertate dal pronto soccorso. "Non è la prima volta che l’uomo si rende responsabile di gesti simili, ragione per cui sarebbe opportuno che i vertici dell’amministrazione assumessero provvedimenti immediati", hanno scritto i sindacati di polizia penitenziaria Sinappe, Sappe, Uil Penitenziaria e Cgil Fp. Le forbici usate dal detenuto, "già tristemente noto per la sua indole violenta", come spiegano ancora i segretari dei diversi sindacati, erano del tipo consentito, ma affilate artigianalmente. "È necessario l’allontanamento dalla struttura bolognese del detenuto, già oggetto di una serie di rilievi disciplinari perché responsabile di altre aggressioni a poliziotti", concludono i sindacati, esprimendo solidarietà ai colleghi feriti. Trento: carcere, ennesima protesta degli agenti di Erica Ferro Corriere del Trentino, 18 febbraio 2017 Il Sappe: "Situazione insostenibile". La contestazione degli anarchici. I rappresentanti della polizia penitenziaria tornano a lanciare il loro grido d’allarme: il carcere di Trento è sovraffollato (il numero dei detenuti, fanno sapere, ha raggiunto "la cifra record di 370 a fronte di una capienza di 240") e la carenza di organico fra gli agenti ha toccato il 35%, "la più alta del Triveneto" fa sapere Giovanni Vona, segretario nazionale del Sappe, il sindacato autonomo di polizia penitenziaria, che conta una sessantina di iscritti fra i 130 lavoratori di Spini. "Chiediamo l’invio immediato di personale, almeno 50 unità - spiega Vona - e il decongestionamento del numero di detenuti: non accettiamo che il protocollo sottoscritto a suo tempo fra Stato e Provincia venga disatteso in questo modo". Il Sappe, con il supporto dell’Ugl, il sindacato della polizia di Stato, e del Sinappe, ha organizzato ieri pomeriggio un presidio davanti alla casa circondariale di Spini, al quale hanno aderito anche numerosi esponenti del centrodestra comunale e provinciale (Lega Nord, Forza Italia, Fratelli d’Italia-Alleanza nazionale, Agire per il Trentino): "Siamo stanchi di essere presi in giro - sostiene Vona - non solo per le mancate risposte dovute a lavoratori che devono garantire la sicurezza, ma anche perché questo carcere, inaugurato come il migliore d’Italia, in queste condizioni non riesce a garantire la sua finalità istituzionale di recupero sociale dei detenuti". Il sindacalista denuncia le condizioni di lavoro cui sono costretti gli agenti, obbligati a "turni massacranti, anche doppi, con riposi e ferie stravolti": "Un poliziotto fa il lavoro di tre". Perché a fronte dei 214 agenti previsti, ne sono in servizio 130. "Esorbitante", inoltre, il numero di traduzioni di detenuti verso luoghi esterni di cura e dei piantonamenti necessari: "Si potrebbero evitare se la struttura fosse dotata di apparecchiature e strumenti e nei turni notturni fosse presente un medico" dice Vona. Durante la manifestazione si è avvicinato al carcere uno sparuto gruppo di anarchici intonando cori di protesta all’indirizzo degli agenti e sorreggendo uno striscione con le parole "Secondini aguzzini". Trapani: "Culture a confronto", incontro in carcere con gli studenti dell’I.T.C. "Sciascia" trapaniok.it, 18 febbraio 2017 Incontro organizzato dal Presidente dell’Associazione Co.Tu.Le.Vi. Aurora Ranno, in collaborazione con l’avvocato Michele Cavarretta e il dirigente dell’Istituto Tecnico Leonardo Sciascia di Trapani, si è tenuto oggi, nell’Aula Magna dello Sciascia un incontro alunni e i vertici della Casa Circondariale di Trapani: il direttore Renato Persico, il Comandante della Polizia Penitenziaria Commissario Giuseppe Romano e il Capo Area Trattamentale Antonio Vanella e alcuni detenuti, presenti grazie ad un permesso speciale concesso dal Magistrato di Sorveglianza di Trapani dottoressa Chiara Vicini anch’essa presente all’incontro. L’obiettivo dell’incontro, all’interno di un progetto più ampio denominato "Culture a confronto" ha lo scopo di educare l’alunno a confrontarsi con l’altro per stimolare la riflessione sul tema "indifferenti o solidali?". Una platea di studenti molto attenta ai temi dell’integrazione dei detenuti nella società, agli sforzi compiuti dall’Amministrazione Penitenziaria affinché venga applicato il dettato costituzionale, ovvero che "la pena deve tendere alla rieducazione". Molto toccanti gli interventi dei detenuti presenti: Gerlando Spampinato, Gaspare Augugliaro, Souadi Lofti, Errante Ascenzio, che hanno raccontato le proprie storie, che hanno colpito l’uditorio per i messaggi positivi di speranza e redenzione attraverso le opportunità di lavoro e trattamentali che oggi l’Istituto di San Giuliano può offrire alla popolazione detenuta. Aurora Ranno, nel ringraziare per l’ospitalità la Prof.ssa Concetta Mistretta Vicario del Dirigente Scolastico dichiara che "l’incontro di oggi ha offerto momenti di confronto con una realtà, quella carceraria, ancora semi sconosciuta e di riflessione su temi come la legalità e il reinserimento sociale del detenuto". Milano: carcere di Bollate, al teatro del carcere Erri De Luca è sold out di Monica Guerci Il Giorno, 18 febbraio 2017 Altri tre appuntamenti a marzo per la rassegna "Posto giusto". È tutto esaurito al Teatro In-Stabile del Carcere di Bollate il 21 febbraio per "Guerre perpetue e anelito di pace", incontro con Erri De Luca, primo appuntamento della rassegna "Posto giusto", a cura dell’amministrazione comunale. La programmazione 2017 e gli investimenti nella cultura del Comune hanno fatto centro anche questa volta. "In un momento particolarmente difficile e contrastato cresce il nostro impegno a costruire spazi di incontro dove il dialogo è strumento di Pace - dice Lucia Albrizio, assessore alla Cultura e Pace. Con questa edizione vogliamo proporre nuovi ponti entrando in carcere, avvicinandoci alle diverse religioni e accogliendo altre culture. Incontrarsi per conoscere, per costruire". Tre gli eventi a marzo, sempre ospitati alla biblioteca comunale di Bollate. Lunedì 20 marzo per la serie "Uomini, libri e montagne" due scrittori a confronto: "Le otto montagne" di Paolo Cognetti e "Mario Rigoni Stern. Vita, guerre, libri" di Giuseppe Mendicino. Mentre il 28 marzo tocca al dibattito "Religioni e culture insieme per la pace. Come costruire un mondo migliore" con Riccardo Burigana, direttore Centro Studi per l’Ecumenismo in Italia; Imam Yahya Pallavicini, presidente Co.re.is italiana ed Elia Richetti, presidente dell’Assemblea dei Rabbini d’Italia. Chiude il ciclo, il 25 marzo, l’inaugurazione della mostra "Las memorias del agua. Storie, visioni e colori del Tabasco maya", opere di Eliazar Hernández Árias e Nidia del Carmen de la Cruz. Informazioni sul sito: www.insiemegroane.it. "Figli di Caino", i papà in carcere si raccontano di Federica Pisani Ristretti Orizzonti, 18 febbraio 2017 Sono un funzionario giuridico pedagogico della Casa Circondariale di Como e mi tengo aggiornata con voi sulle diverse iniziative del mondo penitenziario e non, ma non informo mai su ciò che si fa qui così oggi ho deciso di dirvi che in questo istituto da diversi anni (2010) si è scelto di dedicare una particolare attenzione alla genitorialità dei detenuti ossia al loro legame con i figli così ci siamo impegnati a promuovere per loro percorsi di sostegno, approfondimento e maturazione e ad offrire momenti dedicati proprio ed esclusivamente ai figli, perché è un diritto di questi ultimi poter incontrare e crescere con il proprio padre. È nato così prima il progetto "Genitori crescono" e in seguito il progetto "Tra padri e figli" che, con l’aiuto di alcuni operatori riunisce papà che si rendono disponibili ad affrontare le diverse, e a volte critiche, declinazioni che l’essere genitori stando in carcere, comporta. Il gruppo approfondisce gli aspetti specifici partendo sempre dalle difficoltà o dalle situazioni particolari che proprio i detenuti rilevano e si sforza di approfondire il loro significato in termini educativi e relazionali per poter agire poi il proprio ruolo con maggiore consapevolezza e responsabilità. Essere genitori detenuti non è facile così come non lo è essere figli di detenuti: aver commesso reati anche particolarmente gravi non significa necessariamente essere un cattivo papà o avere scarse capacità genitoriali. I papà coinvolti nel progetto s’impegnano ad animare alcuni momenti d’incontro genitori-figli proponendo attività orientate alla condivisione di momenti ludici ed educativi: ogni mese i bambini possono trascorrere parte di una domenica (concessa come colloquio straordinario) con i loro papà dedicandosi un po’ alle "chiacchiere", al gioco condiviso con i genitori e al pranzo insieme. Tempo fa, con i papà abbiamo voluto cercare di rispondere alle domande che i figli ponevano sulla vita in carcere, e abbiamo scelto di utilizzare il linguaggio della fotografia come mezzo di comunicazione … così è nato il progetto "Click, ti racconto": un percorso fotografico che i detenuti hanno allestito nell’atrio delle sale colloqui e che racconta la giornata in carcere con orologi che permettono ai bambini di sapere cosa sta facendo papà mentre loro si alzano, sono a scuola, giocano ecc. Ogni detenuto può vedere in autonomia il percorso fotografico con i propri figli durante le ore di colloquio e raccontare ciò che ritiene più opportuno e adatto. Tutto ciò ha favorito un processo attraverso il quale si è accresciuta la consapevolezza educativa dei padri e la riflessione sui contenuti educativi offerti ai propri figli. Dopo aver proposto ai propri figli la visita, i papà che hanno lavorato a questo progetto si sono resi conto che il contenuto del loro lavoro avrebbe potuto interessare anche altri bambini e costituire un’opportunità per far conoscere la realtà del carcere. È così che abbiamo aperto anche alle scuole (dalle primarie alle superiori) la possibilità di vedere il percorso fotografico accompagnati dai detenuti. Ma i papà non si sono fermati e hanno voluto raccontare il loro lavoro e il loro sforzo di crescita personale nel ruolo genitoriale.... così hanno raccolto la proposta della regista Carolina Merati e hanno girato con lei un docu-film dal titolo "Figli di Caino" che ieri sera è stato proiettato in città e ha riscosso un grosso successo (settimanalediocesidicomo.it/2017/02/17/figli-di-caino-grande-successo-la-prima-al-cinema-astra). Questo è il nostro lavoro saldamente ancorato all’oggi e ai bisogni di chi vive in carcere ma anche rivolto al futuro di tutti noi, alle generazioni degli adulti di domani.. è in questa prospettiva che pensiamo alla prossima Festa del papà. Migranti. L’Italia torna di fronte alla Corte Europea per i Diritti Umani di Giacomo Zandonini La Repubblica, 18 febbraio 2017 Per un ricorso che ricorda il caso "Hirsi", per cui fu condannata nel febbraio 2012 per il respingimento in alto mare verso la Libia di 24 persone. Al centro, questa volta, i 40 sudanesi fermati a Ventimiglia e rimpatriati nell’agosto 2016. Cinque anni dopo essere stata condannata per i respingimenti in alto mare verso la Libia, l’Italia torna di fronte alla Corte Europea per i Diritti dell’Uomo per il rimpatrio - nell’agosto 2016 - di 40 cittadini sudanesi. A firmare il documento sono stati cinque degli uomini forzatamente rimpatriati, assistiti dagli avvocati Salvatore Fachile e Dario Belluccio. Secondo il testo inviato alla cancelleria della Corte lo scorso 13 febbraio da uno dei ricorrenti, il governo italiano era "consapevole che lo stesso sarebbe stato sottoposto a trattamenti disumani e degradanti". La denuncia del Tavolo Asilo. Sarebbe insomma una violazione voluta, che si inserisce, denuncia l’avvocato Fachile, "in un piano preciso dell’Unione Europea, che chiede a Italia e Grecia di violare i trattati internazionali per fermare l’arrivo di persone via mare, trasformando il nostro paese in un’enorme frontiera, dotata di centri di espulsione". Una prospettiva aspramente criticata dal Tavolo Nazionale Asilo, che riunisce diverse organizzazioni di tutela dei diritti umani, fra cui Centro Astalli, Caritas, Asgi, Arci, Amnesty International e Federazione delle Chiese Evangeliche. Trumpismo all’italiana. "Quello del rimpatrio dei sudanesi è uno degli episodi di un dilagante ‘trumpismo’ all’italiana", ha dichiarato Filippo Miraglia, vicepresidente di Arci, durante la conferenza stampa indetta per pubblicizzare il ricorso. "Sono politiche di corto respiro", ha proseguito, "confermate dal recente accordo con la Libia e dal cosiddetto piano Minniti per costruire nuovi centri di espulsione". Se la Corte UE si esprimesse, ha spiegato però Fachile, "potrebbe mettere in discussione le basi di queste operazioni di rimpatrio collettivo, come il Memorandum di intesa fra Italia e Sudan dello scorso agosto". L’accordo segreto con il Sudan. La vicenda del rimpatrio nasce infatti da un accordo di cooperazione fra le polizie di Italia e Sudan, firmato il 3 agosto 2016 e mai reso pubblico (oggi disponibile sul sito dell’Associazione Studi Giuridici per l’Immigrazione), per la "gestione delle frontiere e dei flussi migratori e in materia di rimpatrio". Il documento è applicato per la prima e - secondo gli estensori dei ricorsi - unica volta, nelle settimane successive, quando una sessantina di cittadini sudanesi è stata fermata nei pressi di Ventimiglia. Quaranta rimpatriati. In uno dei ricorsi depositati, il firmatario - giunto il 29 luglio sulle coste italiane - racconta di essere stato "prima preso a schiaffi e poi forzato dito per dito a lasciare le proprie impronte" e quindi "detenuto per la durata di cinque giorni all’interno di una caserma di polizia o di altra struttura militare". Altri concittadini, secondo le ricostruzioni degli avvocati, sarebbero stati condotti nell’hotspot di Taranto. In 40 sarebbero stati infine rimpatriati, come confermato da una lettera inviata al L’Espresso da Giovanni Pinto, direttore della Direzione Centrale dell’Immigrazione e della Polizia delle Frontiere. Rischio di trattamenti disumani. A differenza di quanto scritto da Pinto, il ricorso sostiene però che i cittadini sudanesi sarebbero stati privati "di fatto dell’informazione relativa al rimpatrio". In sette sarebbero stati poi fatti scendere dall’aereo, in partenza da Torino per Khartoum, a seguito della "strenua resistenza fisica opposta". Tutti e sette, ha spiegato Filippo Miraglia di Arci, hanno poi ottenuto lo status di rifugiato, "a riprova dei rischi che avrebbero corso tornando in Sudan". Le carte invocano dunque gli art. 3 e 4-4 della Convenzione Europea per i Diritti dell’Uomo, che proibiscono l’esposizione a "tortura e trattamenti disumani e degradanti" e le espulsioni collettive. Avvocati e parlamentari in Sudan. "Si tratta di un ricorso complicato", ha sottolineato Fachile, "che ci ha costretto a lavorare in condizioni difficili per noi e pericolose per gli assistiti". Le procure sono state infatti raccolte lo scorso dicembre durante una visita in Sudan di una delegazione di parlamentari Ue, del gruppo della Sinistra Unitaria Europea. Le conversazioni fra avvocati e ricorrenti sarebbero state ascoltate dai servizi segreti del regime di Khartoum, che hanno poi interrogato a lungo i legali italiani. "Possiamo solo dire che i nostri assistiti hanno ricevuto un divieto di espatrio per cinque anni", ha spiegato l’avvocato, "e vivono nascosti nei dintorni della capitale, non potendo tornare nella regione del Darfur, da cui sono partiti a causa delle persecuzioni". La partnership Bruxelles - Khartoum. L’operazione di rimpatrio è un tassello, segnalano le associazioni, di una rinnovata partnership tra UE e Sudan, avviata con il "processo di Khartoum" nel 2014, e rafforzata dall’Agenda Europea sulle Migrazioni e dal meeting UE-Africa de La Valletta, nel novembre 2015. "Ci sono in gioco fondi per centinaia di milioni di euro", dice Sara Prestianni, che ha partecipato alla missione in Sudan per conto di Arci. È di 115 milioni il primo stanziamento all’interno del Fondo Fiduciario per l’Africa. E soprattutto, come segnala un rapporto preparato dai parlamentari SUE, "c’è il grosso nodo degli equipaggiamenti per il controllo delle frontiere". Equipaggiamenti per gruppi paramilitari. Il Sudan chiede infatti tecnologie, mezzi militari e fondi per centri di trattenimento alle frontiere, che l’UE potrebbe fornire all’interno di progetti come il Border Migration Management, e tramite il Rock, acronimo per centro operativo regionale di Karthoum, da avviare nel 2017. Ma c’è il rischio che i materiali abbiano poi un altro impiego. Secondo gli europarlamentari, che citano attivisti e leader locali, la frontiera più "calda", ovvero quella con la Libia, è infatti controllata dalle Rapid Response Forces. Un gruppo paramilitare legato al presidente Omar al-Bashir, con cui condivide un mandato di cattura della Corte Penale Internazionale, per crimini commessi nella regione del Darfur. Sicurezza contro diritti umani? Per il parlamentare portoghese Pimenta Lopes, fra i membri della delegazione Gue, "l’Ue sta supportando le forze armate di un governo repressivo, legate a milizie e trafficanti, contribuendo così a violazioni dei diritti umani su scala sempre più ampia". Paese di origine e transito per migranti diretti in Libia ed Egitto, il Sudan di al-Bashir è dunque un partner importante per un’Unione Europea timorosa di nuovi arrivi via mare. Il ricorso di cinque cittadini sudanesi potrebbe aprire una crepa in una relazione che si gioca su dinamiche complesse, in cui l’Ue cercherà, come dichiarato nel progetto del Rock, "il giusto equilibro fra il sostegno a agenzie di sicurezza e l’approccio dei diritti umani". Migranti. In Ungheria nuove guardie di frontiera e migranti nei container di Carlo Lania Il Manifesto, 18 febbraio 2017 Sembra non avere fine l’ossessione xenofoba di Viktor Orban, tanto che non c’è praticamente settimana che passi senza che dall’Ungheria arrivi notizia di nuove e sempre più severe misure contro i migranti. Non contento della barriera costruita lungo i 175 chilometri di confine che dall’autunno del 2015 dividono l’Ungheria dalla Serbia, nei giorni scorsi il governo ha annunciato di voler rafforzare ulteriormente la frontiera costruendo delle mini caserme e dei campi con container dove trattenere i richiedenti asilo e quanti vorrebbero solo attraversare il paese per raggiungere il nord Europa. Inoltre si sta procedendo al reclutamento di un nuovo corpo di polizia da impiegare nella sorveglianza del confine. Un’operazione che sembra però procedere a rilento a causa di una serie di problemi, compresa la difficoltà nel superare i severi test psicologici ai quali vengono sottoposti i candidati. La nuova formazione - che dovrebbe contare su 3.000 agenti - servirà ad alleggerire i compiti delle normali forze di polizia che l’anno scorso hanno affiancato i 6.000 soldati presenti lungo il confine serbo-ungherese. Le nuove misure contro i migranti - che ora devono passare il voto del parlamento - rappresentano altrettanti messaggi all’Unione europea e alle sue politiche sull’immigrazione che Budapest giudica da sempre non solo troppo aperte, ma come un’intrusione nelle politiche nazionali. Al punto da spingere insieme agli altri pesi del blocco di Visegrad (Polonia, Slovacchia e repubblica Ceca) per un ritorno alla sovranità nazionale rispetto al centralismo di Bruxelles. "Non esiste un popolo europeo, ma esistono le nazioni in Europa", ha spiegato Orban. Convinzione che si è ulteriormente rafforzata con l’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca e con il rinnovato rapporto di vicinanza con la Russia di Vladimir Putin, che il premier ha incontrato il 2 febbraio scorso a Budapest. Ma a spingere il premier ci sono anche motivazioni di politica interna. Il 2018 sarà anno di elezioni e il Fidesz, il partito che dal 2010 governa il paese, deve fare i conti con la pressione esercitata da Jobbik, il movimento di estrema destra anti-immigrati il cui leader Gabor Vona (seppure contestato da alcune frange che lo accusano di voler spostare il partito su posizioni più "moderate") ha da poco concluso il congresso annuale al grido di "Niente governanti o padroni di casa, l’Ungheria agli ungheresi". Un’idea di cosa questo possa significare e come poi si traduca nella vita quotidiana l’ha data nei giorni scorsi Lazlo Toroczkai, membro di Jobbik e sindaco di Asotthalom, cittadina a ridosso della frontiera con la Serbia. Stando a quanto riferito dalla Bbc, Toroczkai ha proclamato il divieto di indossare abiti musulmani, ai muezzin di chiamare a raccolta i fedeli per la preghiera e di costruire moschee nel territorio comunale. Va detto che in paese ci sono solo due musulmani e sarebbero perfettamente integrati. Non fa niente: "Siamo tutti bianchi, europei e cristiani e vogliamo rimanere tali", ha spiegato il sindaco all’emittente. Non contento, visto che c’era ha anche vietato alle coppie omosessuale di manifestare pubblicamente il loro sentimento. Pur senza arrivare a questi estremi, Orban non arretra di un millimetro nella sua battaglia. Le nuove mini caserme delle quali è stata annunciata la costruzione (entro primavera ne verranno aperte quattro lungo la frontiera e la prima è già operativa al valico di Kelebija) ospiteranno ciascuna 150 militari e saranno fornite oltre che di internet anche di spazi per la ricreazione delle guardie di frontiera. I richiedenti asilo fermati in territorio ungherese verranno trattenuti all’interno di container allestiti vicino alle caserme in quelle che il governo ha definito "aree di transito" dalle quali non potranno uscire. Anche se è vietato trattenere in stato di detenzione chiunque faccia richiesta di asilo, le norme attualmente in vigore in Ungheria prevedono che un richiedete asilo possa essere trattenuto fino a quattro settimane, dopo le quali deve essere rilasciato. Le nuove misure - se approvate - cancellerebbero questo limite, estendendo la detenzione per tutta la durata della procedura di asilo. "Il governo ungherese aggiungerà nuovi e inutili traumi a persone che hanno già sofferto e che cercano protezione", ha recentemente dichiarato al Guardian Gauri van Gulik, vice direttore di Amnesty International per l’Europa. Migranti. Ceuta, in centinaia sfondano il muro di Luca Tancredi Barone Il Manifesto, 18 febbraio 2017 In 800 tentano di entrare nel territorio spagnolo dal Marocco assaltando la recinzione. Il muro che divide l’Africa dall’Europa continua a fare vittime. Ieri mattina all’alba, circa 800 africani hanno assaltato in più punti contemporaneamente il lungo doppio filo spinato che separa l’enclave spagnola di Ceuta dal Marocco. Circa cinquecento di loro sarebbero riusciti a saltare verso la città spagnola, mentre secondo la Croce rossa almeno 25 persone sarebbero rimasti gravemente ferite dal salto e dalle lame aguzze. Alcune Ong come CaMinando fronteras sostengono che molti sono precipitati al suolo anche dal lato marocchino e sono rimasti feriti. La recinzione è lunga più di 8 chilometri ed è alta sei metri. Alle 7 sono arrivati sul posto i servizi di emergenza. Il governo fa sapere che anche 11 poliziotti della guardia civil che hanno cercato di bloccarli sono rimasti feriti. La polizia marocchina è solita cercare di bloccare con la forza gli assalti anche dall’altro lato della frontiera. Gli africani che hanno raggiunto il sogno di toccare terra spagnola, euforici, cantando bossa ("vittoria" in fulano, la lingua parlata in molti paesi dell’Africa occidentale) avrebbero raggiunto il centro di permanenza temporale per immigrati. Questo tipo di assalti è relativamente frequente, soprattutto quando diminuisce la presenza della polizia sul confine (in questi giorni mobilizzata altrove per lo sciopero dei lavoratori portuali). Uno dei più imponenti di questi tentativi di "salto" si è verificato la notte di capodanno: 1.100 africani tentarono di arrivare su suolo spagnolo, ma ce la fecero solo in due. Secondo i dati diffusi da Frontex pochi giorni fa, nel 2016 per Ceuta e Melilla (l’altra enclave spagnola in territorio marocchino) sono entrate solo 1.000 persone, uno dei numeri più bassi degli ultimi anni. Amnesty International pochi giorni fa aveva denunciato a Madrid nel rapporto Ceuta y Melilla: un territorio sin derechos para personas migrantes y refugiadas che ci sono almeno otto tipi di violazioni di diritti umani nelle città di Ceuta e Melilla, tra cui le espulsioni sommarie, gli abusi della polizia e le pessime condizioni dei centri di permanenza temporale, soprattutto per il vulnerabile collettivo lgbt. Una delle questioni che ha sottolineato Amnesty è l’impossibilità di accedere legalmente alla penisola. A Ceuta dal 2015 non è stata ricevuta neppure una domanda di asilo politico, mentre a Melilla arrivano solo siriani previo pagamento di consistenti somme di denaro. Chiedere asilo in queste due città di frontiera è comunque problematico, perché anche se in teoria il permesso temporaneo di residenza sarebbe valido su tutto il territorio nazionale, le autorità non consentono di lasciare l’enclave. La questione dei rifugiati è un tema molto sentito a livello sociale in Spagna. Oggi alle 4 a Barcellona è stata convocata da diverse organizzazioni cittadine una grande marcia in favore dei rifugiati con lo slogan: "Basta scuse, accogliamo ora". La marcia arriva dopo che la piattaforma Casa nostra, casa vostra ha raccolto più di 70mila firme, fra entità, associazioni e privati cittadini sotto un manifesto che chiede al governo spagnolo e a quello catalano di fare della Catalogna una terra d’accoglienza, a favore di misure per l’inclusione sociale dei migranti, contro il razzismo, xenofobia, Lgbtfobia e il maschilismo, per difendere il diritto alla libera circolazione e per lavorare per combattere l’ingiustizia, la guerra e la violazione dei diritti umani. Gli organizzatori sperano sia la marcia più grande organizzata in Europa finora in appoggio dei rifugiati. La manifestazione arriverà fino al porto per ricordare i più di 5000 morti in mare dell’anno scorso. La settimana scorsa un concerto al Palau Sant Jordi di Barcellona aveva fatto il pienone (15mila persone) in solidarietà coi rifugiati. Fra i protagonisti, l’associazione di bagnini solidari Proactiva Open Arms, che salvano in mare i gommoni alla deriva da morte sicura. La Commissione Europea ha accolto solo 12mila dei 160mila richiedenti asilo da Grecia e Italia che si era impegnata a ricevere. La Spagna ne ha accolti solo 744 (600 dalla Grecia e 144 dall’Italia) a fronte dei 15mila per cui si era impegnata. Dei 22mila che la UE doveva ricevere dai paesi confinanti con la Siria, come Turchia e Libano, ne ha ricollocati 13mila, 289 dei quali in Spagna. Droga a scuola, si comincia a 14 anni: "è la prima piazza dello spaccio" di Claudia Voltattorni Corriere della Sera, 18 febbraio 2017 I presidi e gli esperti: spinelli già in terza media, poi si apre il mercato del web. Il sottosegretario all’Istruzione Toccafondi: "Dimentichiamoci i tempi di Woodstock. Quello che si consuma ora è ben più pesante". Si racconta che quando a scuola entrano carabinieri e cani, dalle finestre volino felpe e zaini e che i bagni si affollino di ragazzi. Si racconta che già all’ultimo anno delle medie, i tredicenni abbiano avuto un primo contatto con gli spinelli. E poi dai 14 anni in su uno studente su 4 ammette di aver consumato qualche tipo di stupefacente, spesso senza neanche sapere cosa sia. La droga è a scuola. Non solo davanti, intorno, vicino, ma anche dentro. La principale piazza di spaccio - "È la piazza principale dello spaccio", avverte Gabriele Toccafondi, sottosegretario all’Istruzione, che lancia un appello: "Questa è una vera emergenza, non si tratta più ormai solo di casi sporadici, ma della normalità. Però siamo impreparati, serve l’aiuto di tutti, una vera e propria alleanza tra famiglia, scuola e Stato". La sensibilità è sicuramente aumentata con il 43% delle scuole italiane che ha attività specifiche per la prevenzione, percentuale in crescita e che tocca il 51% delle superiori; lì il 33% organizza anche percorsi per genitori, come corsi di formazione o incontri con addetti ai lavori. Il problema - Perché se cani antidroga e carabinieri possono essere una delle soluzioni, rischiano di diventare solo "un atto occasionale, dimostrativo e poco efficace". Ne sa qualcosa Ludovico Arte, preside dell’Itt Marco Polo di Firenze che cani e carabinieri li ha lasciati fuori: "Sono per una collaborazione con le forze dell’ordine ma non con le perquisizioni, che utilità hanno? Nella mia scuola non voglio vedere cani puntati contro un ragazzo, non fa bene a nessuno". E allora, il problema lui lo ha affrontato "da dentro": "I ragazzi sono fragili, hanno bisogno di supporto e la lotta alla droga si fa creando un ambiente accogliente: ho disseminato la scuola di figure che aiutano". Cinque psicologi, un nutrizionista, educatori durante la ricreazione. E poi formazione dei più grandi per aiutare i più piccoli e perfino lo spazio "LiberaMente" con cuscinoni dove rilassarsi. I risultati ci sono, dice Arte, con i ragazzi che chiedono aiuto e sanno che qualcuno li ascolterà: "Se metti delle antenne, loro prima o poi le captano, bisogna lavorare su affettività ed emotività, rompiamo l’idea che la scuola sia solo trasmissione di conoscenza". Decine di progetti - In Italia sono decine i progetti ideati dagli istituti con forze dell’ordine, Asl, Associazioni, però la droga in classe dilaga, tra spaccio e consumo, a ricreazione e dal mattino con studenti già "sballati" dalla prima canna della giornata. "Dimentichiamoci lo spinello di Woodstock", dice Toccafondi, "quello che arriva in mano ai ragazzi è molto più pesante". Lo spinello, dice Fabio Voller coordinatore dell’Osservatorio di epidemiologia dell’Agenzia regionale di sanità della Toscana, è solo "la droga di entrata". Poi dai 15 anni si apre il grande mercato sul web: "Sostanze chimiche, sintetiche, da sole o associate a farmaci". Cose che si fumano, si sniffano, si sciolgono nei drink e che per pochi euro provocano danni irreparabili. Nuove droghe - Racconta Elisabetta Giustini, preside dell’Itis Galilei di Roma e dell’Istituto Carlo Urbani di Acilia e Ostia che "qualche giorno fa un ragazzo dopo aver fumato chissà cosa camminava sui tetti delle auto". Il problema "è che non sapendo cosa c’è in quella roba, non si sa come intervenire, ci sono delle droghe capaci di modificare il dna". Due anni fa ha ideato il progetto "S.o.n. (Save our net) Support" per spiegare quel deep web (web profondo) sconosciuto agli adulti ma "dove i ragazzi sanno muoversi benissimo trovando una piazza di commercio enorme", droga di tutti i tipi, ma anche pedofilia e illegalità di ogni genere. "Giù le mani dai nostri figli" - Ha girato l’Italia per parlare agli studenti, ma soprattutto a presidi, docenti e genitori: "Perché tutta la comunità educante deve essere allertata". C’è anche la app "Giù le mani dai nostri figli", dove trovare informazioni e chiedere aiuto. Alla Urbani carabinieri e cani sono entrati, "scelta difficile chiamarli, ma siamo in un’area a rischio, a Ostia hanno portato via quattro 14enni, è stato doloroso". Però, "non bastano le forze dell’ordine, le prediche e il controllo", riflette la preside. "Bisogna lavorare da dentro, seguire i ragazzi, farli sentire meno soli, noi facciamo il possibile e spesso è un Calvario, però poi i risultati ci sono". Turchia. L’università di Ankara cancella i corsi dopo le espulsioni dei docenti di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 18 febbraio 2017 Sono almeno 66 i corsi che sono rimasti senza professori all’università di Ankara in Turchia dopo contro le ultime epurazioni di 330 accademici, decise da un decreto dello stato d’emergenza post-golpe pubblicato il 7 febbraio. In più sono rimasti senza relatore anche 127 studenti che stanno preparando la tesi di laurea alla facoltà di Lingue, Storia e Geografia. I docenti rimasti non nascono il loro disappunto. "Noi del dipartimento di psicologia abbiamo difficoltà ad accettare quello che sta accadendo" si legge in una dichiarazione. Lo scrittore Tanil Bora ha deciso di lasciare il corso Storia del pensiero" dopo 15 anni all’università. Gli studenti nei giorni scorsi sono scesi in piazza e non sono mancati gli scontri con la polizia. Ha fatto il giro del mondo l’immagine di un gruppo di agenti in tenuta antisommossa che calpesta le toghe di alcuni docenti universitari, stese per terra in segno di protesta durante una manifestazione organizzata all’ateneo di Ankara. Allo stesso tempo un tribunale di Ankara ha decretato che la firma di una petizione, come l’appello degli Accademici per la Pace che lo scorso anno avevano criticato l’impatto delle operazioni contro il Pkk nel sud-est del Paese e che erano stati accusati di propaganda al terrorismo, non può portare al licenziamento. Tuttavia i professori cacciati, anche nel caso fossero reintegrati, porteranno il peso di quello che è successo per tutta la vita. Emirati. In carcere da un anno per aver accusato il governo di non sostenere i palestinesi di Riccardo Noury articolo21.org, 18 febbraio 2017 Tayseer Salman al-Najjar, poeta e giornalista di origine giordana, è in carcere dal 13 dicembre 2015 per "aver pubblicato informazioni allo scopo di danneggiare la reputazione e il prestigio degli Emirati Arabi Uniti", il paese dove era andato a lavorare nell’aprile dello stesso anno per il gruppo editoriale al-Jewa, diventando poi redattore delle pagine culturali del settimanale al-Dar. Le "informazioni" così tanto dannose pubblicate da al-Najjar erano contenute in un post pubblicato nel luglio 2014 sul suo profilo Facebook. Ecco il testo: "Messaggio a quei giornalisti e a quegli scrittori che non apprezzano la resistenza dei gazani. Non possono esserci due diritti in un’unica situazione. C’è il diritto alla resistenza di Gaza e tutto il resto non va bene: Israele, gli Emirati, [il presidente egiziano] Sissi e gli altri sistemi che non hanno neanche più il pudore di vergognarsi". Per oltre due mesi, fino al 18 febbraio 2016, al-Najjar è stato tenuto in regime duro d’isolamento senza poter comunicare con la sua famiglia. Per un anno, non ha potuto avere un avvocato. Al-Najjar è già comparso tre volte di fronte alla sezione penale della Corte d’appello federale: il 18 gennaio, il 1° febbraio e il 15 febbraio, in questa occasione per la prima volta con un avvocato a disposizione. La prossima udienza è fissata per il 15 marzo.