Parlamentari, basta rinvii sui diritti di Claudia Fusani L’Unità, 17 febbraio 2017 Per una strana coincidenza, oppure no, mentre il Pd implode, Senato e Camera mettono in calendario provvedimenti come ius soli ed eutanasia. Nel caos del Pd, lo stesso Pd decide di fare qualcosa di sinistra. E di approvare tre leggi fondamentali che riguardano i diritti delle persone e che languono da troppo tempo in Parlamento. Al Senato sono state calendarizzate (martedì la capigruppo), la legge sui minori stranieri non accompagnati e l’altra sulla cittadinanza per gli stranieri. Alla Camera il 27 febbraio potrebbe andare in aula la legge sul fine vita: mai, in anni e anni di dibattito, dopo le tante battaglie dei Radicali, il diritto di decidere di interrompere le cure se non restano alternative e di morire è stato così avanti nell’iter legislativo. Si tratta di sfide di civiltà che nel 2013 il Pd dichiarò di voler vincere ma che ancora rischiano di restare impantanate tra i veti di maggioranze che non ci sono mai state e che si compongono ogni volta a seconda delle utilità. Martedì il testo sui minori stranieri non accompagnati arrivati in Italia - 20mila nel 2016 contro i 13mila dell’anno precedente - arriverà in Commissione Affari costituzionali al Senato ancora orfana di un presidente da quando Anna Finocchiaro è stata nominata ministro. "Aspettavamo la relazione del governo e il parere sul capitolo di spesa, contiamo di portarla in aula mercoledì senza modifiche" assicura la senatrice Doris Lo Moro, capogruppo del Pd in commissione Affari costituzionali. È un provvedimento urgente visto il numero sempre più alto di minorenni stranieri non accompagnati che arrivano in Italia. Sono di ieri, raccolti dalla Fondazione Migrantes, le ultime cifre: nel 2016 ci sono stati 25.772 sbarchi, il doppio dell’anno precedente. Nel 2016 i minori erano il 14% del totale degli sbarchi, negli anni precedenti la percentuale non superava il 9 per cento, Ma è di ieri anche un fatto di cronaca che dimostra quanto sia urgente quella legge: in un centro per minorenni in Puglia (a Cassano delle Murge) la responsabile è stata sequestrata per oltre un’ora da una trentina di giovanotti furiosi perché "non abbiamo futuro e qui passiamo le giornate senza fare nulla, neppure andiamo a scuola". C’è un acronimo orribile sul testo della nuova legge: Msna, minori stranieri non accompagnati. Il provvedimento punta a differenziare il circuito di identificazione, accoglienza e rilascio dei permessi. A renderlo più celere, protetto e sicuro. Contiene il divieto assoluto di respingimento e di espulsione; fissa in 30 giorni il tempo massimo di permanenza nei Centri come quello di Cassano delle Murge; in dieci giorni le procedure per l’identificazione; individua strutture di accoglienza specifiche. Soprattutto i minori stranieri non accompagnati entrano nella banca dati del ministero del Lavoro (sistema informativo nazionale), sono subito iscritti al Sistema sanitario nazionale e per loro diventa obbligatorio e tassativo l’obbligo scolastico e formativo. Insomma, un sistema che privilegia l’affidamento alle famiglie anziché ai centri e crea un circuito più protetto soprattutto per evitare che i ragazzi vengano reclutati nei circuiti criminali. Il testo era stato approvato alla Camera 1126 ottobre scorso. Le associazioni di volontariato lo reclamano con urgenza. Il timore è che intervenga qualche modifica per cui il testo dovrà tornare ancora una volta dalla Camera. C’è urgenza delle misure previste. Dall’inizio dell’anno ne sono già arrivati 395. Se la prossima settimana sarà galeotta per la legge sui minori stranieri, subito dopo, promette Lo Moro, "andremo avanti con la legge sullo ius soli", la cittadinanza per i nuovi italiani, stranieri nati in Italia e che hanno già concluso le scuole dell’obbligo ma anche non nati qua ma che hanno concluso un ciclo di studi. Ci sono il 9% dei bambini nelle scuole dell’obbligo che aspettano la cittadinanza. In tutto circa un milione di giovani, perfettamente integrati ma costretti a rinnovare ogni anno il permesso di soggiorno. Tutte persone che vogliono diventare italiani. Qui la situazione è un po’ più complicata. La Lega alza la solita muraglia di emendamenti (8.000) prodotti con l’algoritmo di Calderoli. Il Pd sembra però deciso a forzare e ad andare in aula senza il voto della Commissione. È solo una questione di volontà politica. In questo caso, nelle votazioni, si potrebbe assistere alla ricomposizione del vecchio schieramento di sinistra. Anche cattolici e centristi fanno però il tifo per la legge. I 5 Stelle non si sono ancora espressi sul punto. In questa strana congiuntura di cose di sinistra che accadono mentre il Pd sta per implodere, il dato più clamoroso è la calendarizzazione in aula delle legge sul fine vita e sull’eutanasia, una lunga battaglia Radicale che prende corpo quando anche i compagni di una vita di Pannella se le stanno dando di santa ragione. Il testo deve lasciare la Commissione Sanità e Affari sociali e arrivare in aula il 27 febbraio o il 3 marzo. Per il Pd il tema è "riconoscere alle persone la possibilità di scegliere della propria vita e stabilire i limiti di una vita ritenuta dignitosa". Gli ultimi dati Eurispes spiegano che il 60% degli italiani (+4,8% rispetto al 2015) è favorevole ad una legge sul fine vita. "Mani pulite", così il pool dei Pm cancellò la Repubblica del 25 aprile di Piero Sansonetti Il Dubbio, 17 febbraio 2017 25mila persone indagate, meno di 2.000 condannate, 4.000 arresti e il sistema dei partiti raso al suolo. vinse l’alleanza, imprevista, tra magistratura e informazione. "Mani pulite" fu una grandiosa operazione politica. L’obiettivo era "purificare". Il risultato fu la demolizione della prima Repubblica, quella di De Gasperi, Togliatti, Nenni ed Einaudi. L’operazione "mani pulite" iniziò esattamente 25 anni fa, il 17 febbraio del 1992, con l’arresto di Mario Chiesa, funzionario socialista milanese piuttosto ignoto, beccato con sette milioni di tangente in tasca. Anche se dall’arresto di Chiesa all’esplodere dello scandalo politico che travolse la prima repubblica passarono poi diversi mesi. In mezzo ci fu una campagna elettorale, la vittoria della Lega Nord, l’uccisione del big democristiano (andreottiano) siciliano Salvo Lima, il terrificante attentato mortale a Giovanni Falcone, e infine l’elezione del nuovo presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. Poi arrivò l’estate e in una caldissima giornata di fine giugno ci si preparava a dare notizia della nomina di Bettino Craxi a presidente del consiglio incaricato, e invece successe il finimondo. Nelle redazioni dei giornali arrivarono delle carte nelle quali si parlava del coinvolgimento diretto di Bettino Craxi in una storia di tangenti milanesi. Le carte - presumibilmente: molto presumibilmente - erano state inviate dalla stessa procura di Milano, dove - agli ordini del Procuratore Saverio Borrelli - si era costituito un pool di magistrati, incaricato esplicitamente di muovere l’assalto al quartier generale della politica, e in particolare all’asse Dc-Psi, e ancor più in particolare alla persona di Bettino Craxi. I nomi dei magistrati del pool sono i nomi più noti tra tutti i nomi dei magistrati del mondo: Di Pietro, D’Ambrosio, Colombo, Davigo. La prima mossa fu quel dossier fatto giungere anonimamente alla redazioni. La notizia rimbalzò a Montecitorio e al Quirinale, e Scalfaro da un mese presidente della repubblica, decise di soprassedere alla nomina di Craxi. Fece qualcosa di più: avvertì Craxi che il suo nome era fuorigioco e che toccava a lui scegliere tra i suoi due delfini: Claudio Martelli o Giuliano Amato. Craxi scelse Amato, facendo infuriare Martelli (che mai gliela perdonò) e il 28 giugno Amato fu incaricato. È da quel momento che "mani pulite", eliminato il nemico numero 1, inizia in grande stile. Il Psi viene travolto in pochi mesi. La destra Dc altrettanto. La sinistra Dc e il Pci vengono colpiti di striscio, ma escono quasi incolumi dal bombardamento. I numeri dell’inchiesta "mani pulite" sono incerti. Ieri Repubblica par- lava di 4520 indagati e di 661 tra condannati e persone che accettarono di patteggiare (i condannati veri e propri furono 316, cioè circa il 7 per cento degli indagati). In realtà questi numeri si riferiscono solo alla Procura di Milano, che fu il motore di "mani pulite", ma le inchieste, e gli avvisi di garanzia, e gli arresti, si estesero a tutt’Italia. I numeri finali sono incerti: più o meno gli indagati furono 25mila, gli arrestati circa 4.000, il numero delle condanne non si conosce ma comunque la media nazionale è simile a quella milanese: circa il 7 per cento. Capite bene che 25 mila indagati è un numero enorme. Un pezzo gigantesco del ceto politico fu messo alla sbarra. E nel clima che si era creato, soprattutto per la partecipazione attiva della stampa e della televisione alle indagini, si era realizzata una situazione nella quale chiunque ricevesse un avviso di garanzia era costretto a dimettersi e a lasciare la politica. Di quelle circa 20 mila persone che furono costrette a lasciare la politica e poi risultarono innocenti (o comunque non furono condannate) si e no una decina riuscì a rientrare nel giro. Gli altri furono messi fuori dal campo e basta. Gli avvisi di garanzia arrivavano quasi sempre al momento giusto. A Craxi arrivò l’avviso nel dicembre del ‘ 92, dieci giorni prima di Natale, e fu un siluro che lo costrinse a lasciare la segretaria del partito. Claudio Martelli si mise in corsa per prendere il posto di Craxi, disse che voleva "salvare l’onore politico del Psi", ma il 19 febbraio del 1993, mentre era in corso una riunione dell’assemblea nazionale del Psi all’hotel Ergife di Roma, e mentre Martelli si stava per candidare alla segretaria, arrivò l’avviso anche a lui. Lui era il ministro della Giustizia, era il leader politico che aveva promosso e protetto Falcone: non piaceva alla Procura di Milano, che se ne disfò in quattro e quattr’otto. Martelli, che era uno dei dieci uomini più potenti d’Italia, scomparve dalla scena in quell’esatto momento. Naturalmente questo meccanismo da Santa Inquisizione non poteva funzionare se la magistratura fosse stata sola a guidare l’operazione. Ma la magistratura non era sola: con lei si era schierata praticamente tutta la stampa italiana. Quella di destra, quella di sinistra, quella di centro, quella politica e quella scandalistica. Guidata dai giornali della Fiat, dal Corriere della Sera, ma anche dai giornali più vicini al Pci come la Repubblica e naturalmente anche l’Unità. La magistratura in un primo tempo aveva spaventato anche gli editori dei giornali, perché aveva colpito duro i vertici della Fiat e aveva persino, per qualche ora, messo in arresto De Benedetti. Ma l’imprenditoria si arrese quasi subito e accettò di collaborare con la magistratura e di mettere a disposizione i propri giornali, in cambio dell’impunità. Così fu. È ancora così. Dicevamo dei 25.000 procedimenti avviati e conclusi con un po’ più di mille condanne. Possiamo dire che dal punto di vista giudiziario "mani pulite" fu un fallimento. Fu però un successo senza precedenti dal punto di vista politico. Il pool di Milano riuscì a portare a termine la più clamorosa riforma istituzionale mai realizzata nell’Italia repubblicana. Il sistema democratico fondato sui partiti - sulle loro strutture, sulle loro idee, sui loro meccanismi popolari - fu raso al suolo in poco più di un anno. I leader di quel sistema politico scacciati e messi in fuga o alla berlina. I rapporti tra politica e magistratura rovesciati. Diciamo che la prima repubblica fu cancellata. Quando si dice prima repubblica spesso si intende un sistema politico partitocratico e corrotto, che stava rovinando il paese. Non è esatto. La prima repubblica era quella costruita sui valori della lotta partigiana e sulle idee di grandi tradizioni politiche come quelle del cristianesimo sociale, del comunismo, del socialismo e del liberalismo. Immaginata e costruita da personaggi come De Gasperi, Einaudi, Croce, Togliatti, Nenni, Calamandrei, La Malfa. Sarebbe quella compagine che ricostruì l’Italia distrutta dal fascismo, la portò pienamente dentro un regime democratico, ne promosse lo sviluppo economico e sociale, la modernizzò attraverso grandiose riforme di tipo socialista o di tipo liberale. Non proprio una schifezza. Se uno prova a fare un bilancio storico politico e sociale della prima repubblica e lo mette a confronto con un bilancio della seconda repubblica (quella nata sulla spinta dell’inchiesta "mani pulite") si mette a ridere. La fine della prima repubblica pone fine al primato della politica. E dunque ridimensiona fortemente la portata della democrazia. Il potere si trasferisce. In particolare nelle mani dei potentati economici, che dettano le scelte di fondo. In parte nelle mani della magistratura, che da quel momento diventa largamente in grado di controllare il ceto politico e di determinarne la selezione e anche le scelte. "Mani pulite fu un complotto"? No, io non lo credo. Però "mani pulite" riuscì perché perseguì un disegno politico. Che era duplice: "purificare" la società italiana e abolire i partiti. Il pool di Milano credeva sinceramente e con passione che le due cose coincidessero. La seconda parte di questo disegno è perfettamente riuscita. La prima no. E da quel momento la magistratura si convinse che il proprio compito non fosse quello di giudicare i colpevoli e gli innocenti, come dice la Costituzione, ma quello di assumere un ruolo di Guida Etica della società e dello Stato. E di garante della moralità. Intervista a Luigi Pagano: "la lezione di Mani pulite" di Piero Colaprico La Repubblica, 17 febbraio 2017 Accadde il 17 febbraio di 25 anni fa: l’arresto di Mario Chiesa diede inizio alla slavina che ha travolto la Prima Repubblica. Ben 4520 persone vennero indagate nel solo filone milanese di Mani Pulite. Anni difficili, segnati dalle stragi di mafia e dalla crisi economica, in cui l’Italia è cambiata. Ma il Paese non ha saputo fare tesoro di quella lezione e oggi il problema della corruzione è addirittura più forte. Gli snodi sono gli stessi: il finanziamento della politica non è trasparente, i partiti continuano a lottizzare società ed enti pubblici. "Repubblica" ha scelto di ricordare quella stagione con le parole del direttore di San Vittore che si trovò a gestire gli episodi più drammatici di Tangentopoli Il 17 febbraio del 1992 lei era da meno di un anno direttore del carcere di San Vittore. Che cosa ricorda Luigi Pagano del primo detenuto di Tangentopoli, il socialista Mario Chiesa? "Rivedersi "dentro" fu uno shock per entrambi. Chiesa era il presidente del Pio Albergo Trivulzio ed ero andato a chiedergli qualche possibilità di lavoro per i detenuti. E invece, tac, me lo ritrovai là, quasi incredulo per l’arresto. Nelle celle allora si assiepavano 2mila e 400 persone, una situazione da non credere". Di che parlò con il neo-detenuto Chiesa? "Mi chiese anche che cosa pensassi della magistratura. Gli citai il grande avvocato Carnelutti, "Se m’accusano di aver rubato la madonnina dal Duomo, prima vado in Francia e poi chiedo di mostrarmi le prove", nel senso che sempre uomini sono e possono sbagliare". La percentuale di confessioni durante Mani Pulite non ha dato ragione ai magistrati? "Sì, bisogna però ricordarsi il periodo. Chiesa venne arrestato dal sostituto procuratore Antonio Di Pietro in flagranza di reato. Dopo un po’, cominciò a rispondere agli interrogatori, va bene, ma chi pensava che si stesse per scoperchiare la pentola e che i detenuti per tangenti sarebbero diventati, solo da noi, circa 700?". Lei quando lo capì? "Verso fine aprile, quando Di Pietro mi disse: "Bisogna che ci trovi un bel po’ di posti in più". Se n’era reso conto dopo aver interrogato otto imprenditori che pagavano le tangenti". Lei, dottor Pagano, è stato un testimone della stagione in cui i "colletti bianchi", i padroni e padroncini d’Italia, entravano in cella in massa. Perché li mettevate nei raggi comuni? "Lo decidemmo non appena ci rendemmo conto che non c’erano tensioni, gli altri detenuti facevano come se quelli di Tangentopoli manco ci fossero. Una volta scattò nei raggi un allarme rosso perché Primo Greganti, accusato delle mazzette al Pci, era riuscito a chiamare casa con un Ecco, il "Lei non sa chi sono io", qui a San Vittore non esisteva proprio". Nessuna polemica? "Beh, famosa quella con il portavoce democristiano Enzo Carra. Per noi "Alta sorveglianza" significa che va osservato anche di notte, per i carabinieri che sarebbe potuto scappare, finì che gli misero gli schiavettoni ai polsi e lo portarono così in aula, e in diretta tv. Quando tornò a San Vittore, era ancora su di giri, ma era un stato equivoco, e glielo spiegai. A una Prima della Scala l’ho rivisto. Mi guardava fisso, "Sì, sono io", gli ho detto, ed è stato simpatico". Zero incontri con i detenuti eccellenti, quindi, dopo la detenzione? "A parte con Cusani, con il quale litighiamo di carcere, nessuno. Moltissimi hanno scritto una volta usciti, compreso Ligresti, per ringraziare sia i detenuti, sia gli agenti, che lavoravano per elidere le tensioni. E non è sempre facile, per esempio ero andato io stesso da Gabriele Cagliari, il giorno prima del suo suicidio". Perché era andato dal top manager dell’Eni? "Per domandargli se volesse lavorare, ma lui aveva già preso purtroppo quell’altra decisione. La sua tragedia ha scatenato un temporale, nel vero senso della parola, come quando l’aria si riempie di elettricità. Tutto il carcere in quel luglio del ‘93 era come pieno di fulmini, anche un altro ragazzo, N., che non dimenticherò mai, si uccise quella sera stessa nel reparto di neuropsichiatria". Come si spiega che quei detenuti da prima pagina di 25 anni fa non abbiamo fatto nulla per cambiare il carcere? "Nel carcere avviene una sorta di riscoperta di se stessi, ma poi esci e non ci vuoi più pensare. Durante Tangentopoli scoppiò una rimozione ancor più grande perché più potenti entravano dentro una cella, più il carcere nei commenti delle persone comuni diventava il posto giusto per corrotti e corruttori. C’erano anche tanti parlamentari che venivano in visita e all’uscita, in piazza Filangieri, parlavano di condizioni di vita difficilissime. Ci speravo in un loro intervento, invece niente". Davigo (Anm): in carcere per corruzione non ci va più nessuno, gli italiani sono rassegnati Agensir, 17 febbraio 2017 "In carcere per corruzione non ci va nessuno". Lo ha detto il presidente dell’ Associazione nazionale magistrati, Piercamillo Davigo, ospite di "Avanti il prossimo", il talk show di Tv2000 condotto da Piero Badaloni. "Sulla corruzione - ha aggiunto Davigo - oggi la popolazione è rassegnata perché pensa che tutti la facciano franca. Praticamente nessuna condanna è stata eseguita: il 96% delle condanne è nei limiti della sospensione condizionale della pena, per la parte fino a 3 anni è previsto l’affidamento ai servizi sociali e per l’1% è intervenuto l’indulto che ha ridotto le pene". "Le norme non aiutano - ha sottolineato Davigo - infatti la maggior parte delle condanne sono di livello molto basso. Per buttare fumo negli occhi ai cittadini si sono alzate le pene massime ma quelle che devono essere alzate sono le minime. Una persona colpevole del reato di corruzione deve invece sapere che meno di una certa pena non prende, questo può essere un deterrente altrimenti non ci crede nessuno. Per tre furti d’auto in Italia si può andare da 17 giorni a 30 anni di reclusione. Siccome non si può investire una persona di una simile discrezionalità è chiaro che i giudici si attestano verso i minimi". Reato di bufala: ecco come una legge nata morta può nascondere la vera censura di Marco Palombi Il Fatto Quotidiano, 17 febbraio 2017 Una verdiniana venuta fuori dalle liste grilline, tale Adele Gambaro, piddini vari, qualche berluscones e persino leghisti: tutte quarte file, se non decime. Chiunque abbia un minimo di esperienza di Parlamento sa che una legge con questi firmatari - e si parla di quella sulle cosiddette fake news - non ha alcuna speranza di essere approvata. Tanto più che è scritta davvero male, con picchi che ne denunciano a occhio nudo tanto l’intento censorio, quanto la sostanziale illegalità. Solo due esempi che abbiamo già fatto ieri: nell’articolo 1 si vieta la pubblicazione su "piattaforme informatiche" di "notizie false, esagerate o tendenziose" pena un’ammenda fino a 5mila euro. La formulazione, generica, è presa pari pari dall’articolo 656 del codice penale che punisce sì "notizie false, esagerate o tendenziose" ma solo se "atte a turbare l’ordine pubblico". Specifica non da poco. All’articolo 2, invece, si promette la galera a chi diffonda le solite notizie contro notizie "tendenziose" in grado di "fuorviare l’opinione pubblica". Se non è la boutade di alcuni buontemponi, una volta calendarizzato in commissione Giustizia - complice l’incessante campagna di stampa in corso in tutto l’Occidente sul pericolo fake news - la bomba sarà innescata. Funzionerà così: magari anche grazie all’arrivo di una proposta di legge diversa, il presidente (l’avvocato verdiniano Nico D’Ascola) nominerà un relatore col compito di predisporre un "testo base" per la discussione. Solo allora si capirà se questo Parlamento ha davvero voglia di mettere la mordacchia al web: a pensar male, si sa, si fa peccato ma spesso ci si azzecca, tanto più che tentativi in varie forme sono già stati esperiti in questa legislatura (dalla legge contro il cyber-bullismo a quella sulla diffamazione). Il tutto per il bene della democrazia minacciata dalle bufale online, ovviamente. Il modo in cui queste cose accadono è noto. L’attuale presidente della Commissione Ue, Jean Claude Juncker, ne diede un’efficace descrizione in un’intervista del 1999 (parlava del Consiglio europeo): "Noi prendiamo una decisione, poi la mettiamo sul tavolo e aspettiamo un po’ per vedere che succede. Se non provoca proteste né rivolte, perché la maggior parte della gente non capisce cosa è stato deciso, andiamo avanti passo dopo passo fino al punto di non ritorno". E se qualcuno protesta, sarà solo il ddl presentato da alcuni senatori semi-sconosciuti. Laureati in giurisprudenza, raddoppiano le assunzioni di Miriam Romano Libero, 17 febbraio 2017 L’80% trova impiego a un anno dalla tesi. L’avvocato Danovi: importante l’esperienza all’estero. Girare e rigirare le pagine dei libri infiniti, mentre le dita si consumano a sfogliare i codici dalle mille, duemila e tremila leggi. Vai avanti e torna indietro, sottolinea, appunta, rileggi e ripeti. È il ritratto dello studente di giurisprudenza che, piegato sui "libri-mattone", impara a memoria le norme, comma per comma. Tenta di arrivare alla soglia dei cinque anni per conquistare l’alloro. Una scalata che costa fatica, ma a quanto pare produce i suoi frutti: i laureati in legge, infatti, si posizionano senza difficoltà nel mondo del lavoro. A dirlo sono i dati pubblicati dalla Camera di commercio di Milano: quasi l’80% dei laureati in giurisprudenza a un anno dalla laurea è impegnato. Il doppio rispetto al 2014. Ma non sono in tanti ad arrivare all’agognato traguardo. In Lombardia sono circa 2 mila studenti di giurisprudenza all’anno a laurearsi. Sono pochi: solo il 7% dei laureati in tutta la regione. Molti rimangono incastrati tra le maglie ingarbugliate dei codici di procedura penale o civile. Di questi le più temerarie sono le donne, che non si scoraggiano di fronte alle schizofrenie del legislatore e rappresentano ben il 60% dei laureati in legge. "Si laureano prima e sono considerate più affidabili", spiega l’avvocato Nicolò Mardegan, fino a poco tempo fa impegnato nella politica milanese e ora tornato a esercitare la professione a tempo pieno. La cosa curiosa è che non tutti i laureati sognano di indossare la toga forense, diventare principi del foro o pronunciare famose sentenze. Ma non è un problema perché i giuristi sono ricercati in tutti gli ambiti. Infatti solo il 40% dei laureati in Lombardia dello scorso anno ha intrapreso la pratica legale, il faticoso percorso di 18 mesi, spesso poco retribuito che dà accesso all’esame di stato per il titolo di avvocato. Il 20%, invece, non opta per il classico "lavoro-dipendente" e, per scelta o per necessità, diventa lavoratore autonomo. Mentre sono in pochi, solo il 10%, a ottenere un contratto stabile. "I laureati in giurisprudenza sono molto flessibili", commenta Mardegan, "e la laurea in legge è sempre un bel biglietto da visita". E infatti il profilo del giurista è molto richiesto dalle aziende. Basti pensare che sono state circa 300 le assunzioni di laureati in indirizzo giuridico previste dalle imprese milanesi nel 2016. D’altronde nel settore amministrativo leggi, decreti e riforme sono all’ordine del giorno, e chi meglio di un giurista può uscirne indenne? I settori dei trasporti, logistica e servizi sociali sono quelli che accolgono più favorevolmente gli esperti di diritto. "È positivo che dopo un anno i 4/5 dei laureati risulti "impegnato"", commenta il presidente dell’Ordine degli avvocati Remo Danovi, "l’importante è, fin dagli anni dell’università, cogliere le migliori occasioni di formazione, in Italia e all’estero, come stages e i tirocini che, se si riesce ad anticipare durante gli studi, sono tempo risparmiato dopo e riducono gli anni di incertezza". Entrano in carcere perché hanno infranto la legge, ne escono con una laurea in Giurisprudenza. A Milano è possibile, grazie alla collaborazione tra Prap (Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria) e diverse università del territorio: Bicocca, Statale e Bocconi in primis, più una convenzione tra Prap e Politecnico e un accordo diretto tra il carcere di Bollate e l’Accademia di Brera (tre iscritti, uno vicino alla laurea triennale). Cattolica e Iulm al momento prediligono attività di laboratorio - studio e ricerca - mentre 5 reclusi sono iscritti ad altre università lombarde o extraregionali. Ad oggi, 64 detenuti trascorrono le loro giornate assorti tra i testi d’esame. "La mia vita trascorre sempre ugualmente monotona. Anche lo studiare è molto più difficile di quanto non sembrerebbe". Difficile, sì, ma non impossibile per chi si impegna. Come Julian Dosti, ragazzo albanese che nella vita precedente faceva il trafficante di droga - era conosciuto come "il Piccolo" ed è finito in carcere nel 2007 dopo aver ucciso un altro criminale, detto "il Baffo". Dal 2010 è detenuto a Bollate, dove ha potuto intraprendere la carriera universitaria come studente della Statale. Oggi è laureato in Filosofia e la sua foto profilo Facebook lo ritrae con la ghirlanda d’alloro, mentre bacia il sua anziano papà. "La chiave non è la soluzione", esordisce il ragazzo. "Finalmente le persone cominciano a considerare l’idea che la cultura serva più della punizione. Da due anni trascorro la mattina alla Statale e la sera torno a Bollate". Parlando del rapporto con gli studenti comuni, Dosti confida: "All’inizio c’era sempre una distinzione, poi questa barriera tra carcerati e "non" è scomparsa: eravamo tutti studenti, colleghi". Tra le facoltà, quelle più gettonate sono Scienze giuridiche-Giurisprudenza, Sociologia, Storia. Vi sono iscritti anche ad Agraria, Economia, Psicologia, Scienze dell’educazione, Informatica, Scienze politiche. Per loro sono previste una serie di agevolazioni economiche. Soddisfatto il professor Alberto Giasanti (Bicocca): "Varie ricerche internazionali dimostrano che le attività culturali volte alla formazione dei detenuti portano a una diminuzione della recidiva e un aumento di possibilità di reinserimento sociale. È questo il valore aggiunto che ho riscontrato durante i corsi tenuti a Opera - conclude il docente: la presa di consapevolezza degli atti compiuti, riconoscendo le proprie ombre più oscure e la volontà di studiare per riappropriarsi di una vita nuova". Legge Pinto alla Consulta sul "processo presupposto" di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 17 febbraio 2017 Corte di cassazione - Ordinanza interlocutoria 4180/2017. La legge Pinto finisce davanti alla Corte costituzionale. Lo ha deciso la Corte di cassazione con l’ordinanza n. 4180 della sesta sezione civile depositata ieri. A finire sotto la lente della Consulta è quella parte della legge che condiziona la proponibilità della domanda per l’equa riparazione per eccessiva durata del processo alla definizione del procedimento presupposto. La Cassazione nell’affrontare la questione ricorda lo sviluppo che ha subìto la disciplina su punto: nella versione originaria infatti, la legge n. 89 del 2001, non evitava infatti la possibilità di presentare la domanda anche in pendenza del giudizio presupposto. All’esclusione, ricostruisce l’ordinanza, si arrivò successivamente, per effetto dell’interpretazione fondata anche sulla volontà del legislatore. Tuttavia la Corte costituzionale, nel 2014, con la sentenza n. 30, ha ritenuto che lo slittamento della praticabilità del ricorso alla definizione del procedimento in cui è maturato il ritardo ne pregiudica l’effettività anche alla luce di quanto previsto dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Non ritenendo possibile un intervento di estensione "della fattispecie relativa all’indennizzo conseguente al processo tardivamente concluso a quelli caratterizzati dalla pendenza del giudizio,", la Consulta ha invitato il legislatore a porre mano alla normativa. Il legislatore, chiamato in causa, è intervento con la legge n. 208 del 2015, con la quale è stata introdotta una serie di rimedi preventivi indirizzati a impedire la formazione stessa del ritardo processuale. Ora la Cassazione, con l’ordinanza di ieri, torna a pronunciarsi a sua volta, ritenendo che l’intervento del 2015 non ha affatto risposto all’invito della Corte costituzionale. Infatti non è neppure sfiorato il problema della effettività della tutela una volta che il ritardo si è verificato. Resta cioè irrisolto il nodo della inammissibilità della domanda proposta durante la pendenza del procedimento presupposto, anche quando, nell’attesa, la definizione di quest’ultimo è passata in giudicato. È vero, ammette l’ordinanza, che le perplessità non possono estendersi sino rivedere il principio base per il quale il riconoscimento dell’indennizzo può avvenire solo dopo che è concluso il procedimento presupposto. È per esempio incontestabile la scelta del legislatore di escludere il risarcimento in caso di condotte colpevoli della parte, verificabili solo una volta che il procedimento presupposto è stato definito. Però questo non può condurre alla definitiva inammissibilità della richiesta avanzata. "In altre parole - sottolinea l’ordinanza -, la previsione che la domanda di equo indennizzo possa validamente proporsi solo dopo il passaggio in giudicato del provvedimento che ha definito il giudizio presupposto, non può tradursi, sul piano della legittimità costituzionale nella definitiva inammissibilità della domanda erroneamente proposta prima di tale passaggio in giudicato". Picconata Ue alle mediazioni: no all’assistenza obbligatoria da parte del legale di Eden Uboldi Italia Oggi, 17 febbraio 2017 L’avvocato generale della Corte europea smonta la mediazione italiana. Con una conclusione non vincolante, infatti, ha dichiarato che la normativa sulla mediazione preventiva obbligatoria in materia civile e commerciale è incompatibile con il diritto europeo. Invitato a presentare una soluzione giuridica alla causa C-75/16 riguardante un contratto di apertura di credito in conto corrente presso il Banco Popolare Società Cooperativa contestato dai consumatori Livio Menini e Maria Antonia Rampanelli, l’avvocato generale Henrik Saugmandsgaard Øe ha contestato l’obbligo, nelle controversie insorte tra un professionista e un consumatore, all’assistenza necessaria di un avvocato, stabilito all’articolo 5, comma 1-bis del dlgs 28/2010. Infatti l’articolo 8, lettera b) della direttiva europea 2013/11 prescrive espressamente che gli stati membri devono garantire l’accesso alle procedure extragiudiziarie senza dover ricorrere ad avvocati o consulenti legali. Inoltre, l’avvocato generale ribadisce che detta direttiva europea sancisce la piena libertà di ciascuna delle parti, o quantomeno del consumatore, di ritirarsi dalla procedura, quando lo desideri e anche per motivi puramente soggettivi, come per esempio la semplice insoddisfazione per le prestazioni o il funzionamento della mediazione. Ben diverso dalle conseguenze sfavorevoli che statuisce l’articolo 8, comma 4-bis del dlgs 28/2010 secondo il quale il giudice, a seguito dalla mancata partecipazione senza giustificato motivo alla mediazione, condanna la parte al versamento di una somma d’ugual importo del contributo unificato dovuto per il giudizio e può desumere argomenti di prova nel successivo giudizio. Saugmandsgaard Øe, rammentando i principi enunciati dalla corte nella sentenza Alassini e altri (datata 18 marzo 2010, cause C-317- 320/08) sull’obbligo al ricorso alla conciliazione, ha sostenuto che queste valgano pure nel caso della mediazione. Secondo questi parametri, dunque, la mediazione deve sospendere il corso della prescrizione, essere accessibile non solo per via telematica, non deve prevedere una decisione vincolante o comportare ritardi, spese eccessive e impedire l’ottenimento di misure cautelari urgenti. Quindi, gli stati membri ben possono imporre una fase preventiva di composizione amichevole con procedure di risoluzione alternativa delle controversie che aiutano a decongestionare i tribunali nazionali ma senza mai pregiudicare il successivo accesso al sistema giudiziario, nel pieno rispetto della carta dei diritti fondamentali dell’Unione. Inadempimento civilistico per il ricercatore che non versa il compenso dell’ente di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 17 febbraio 2017 Corte di cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 16 febbraio 2017 n. 7484. In caso di opera d’ingegno progettata da un ricercatore alle dipendenze di un istituto pubblico di ricerca, il corrispettivo pagato dal privato destinatario dell’attività di ricerca e di utilizzazione del brevetto spetta unicamente all’inventore, il quale, a sua volta, è tenuto a riversare nei confronti del suo ente di appartenenza una quota percentualmente prestabilita. Se tale quota non viene però versata, in capo al ricercatore non si configura il delitto di peculato, per via della mancanza del requisito della altruità del denaro appropriato, bensì un semplice inadempimento civilistico. Questo è quanto si desume della sentenza 7484 della Cassazione depositata il 16 gennaio con cui la Corte fa chiarezza sui diritti dei ricercatori nello sfruttamento dei brevetti. Il caso. Protagonista della vicenda è un dirigente e responsabile della ricerca di un’Azienda pubblica di servizi alla persona, nonché esperto in progettazione di arredi e giochi per l’infanzia, il quale era indagato dalla Procura della Repubblica per il delitto di peculato, per aver incassato in 8 anni circa 150mila euro, a titolo di compenso per la progettazione di opere d’ingegno, versati da una società che aveva acquisito i diritti di sfruttamento economico di tali opere. In particolare, il funzionario-ricercatore era accusato di non aver versato al suo ente di appartenenza il 30 per cento delle somme ricevute, così come previsto dall’articolo 65 del Codice della proprietà industriale per le invenzioni dei ricercatori degli enti pubblici di ricerca. La questione arrivava, poi, dinanzi ai giudici in seguito al ricorso del ricercatore che contestava il sequestro delle somme disposto dal Pm.L’indagato faceva notare l’impossibilità di applicare alla fattispecie la normativa posta dal Codice di proprietà industriale e dal Codice penale in tema di peculato, dovendosi ritenere la somma ricevuta dalla società acquirente di sua esclusiva spettanza e non dell’ente. La decisione. Il caso arriva fino in Cassazione dove i giudici di legittimità confermano quanto stabilito da quelli di merito confermando sostanzialmente la tesi del funzionario-ricercatore. Ebbene, per la Corte, le somme che il ricercatore, nel caso di cui all’articolo 65 del Codice della proprietà industriale, è tenuto a versare all’ente di appartenenza "sono oggetto di un mero rapporto obbligatorio a carico del ricercatore medesimo, non ricorrendo quindi il requisito costitutivo dell’altruità della res". In altri termini, spiega la Cassazione, la norma impone al ricercatore di devolvere all’ente di appartenenza una percentuale della somma ricevuta per l’opera d’ingegno da lui creata, ma tale obbligo non assume rilevanza penale in quanto "non esula dai confini di un semplice rapporto obbligatorio". I soldi, in sostanza, appartengono unicamente al ricercatore e, di conseguenza, non può configurarsi il delitto di peculato, ma al più un inadempimento di un obbligo civilistico nei confronti dell’ente. Campania: nelle carceri della Regione 7mila detenuti, ma i posti sono solo 6mila La Città di Salerno, 17 febbraio 2017 Sono 475 le persone detenute nel carcere di Salerno (intitolato ad Antonio Caputo, il vice comandante delle guardie carcerarie della casa circondariale di Salerno ucciso in un agguato della camorra il 28 luglio 1981), rispetto ad una capienza regolare di 367 unità. È questo l’ultimo rilevamento effettuato dal Ministero al 31 gennaio scorso. Dei 475 detenuti 48 sono donne e 82 stranieri. Nel carcere di Vallo della Lucania, invece, i reclusi sono 48, rispetto ad una capienza regolare di 40; qui gli stranieri sono 11. A Vallo, in particolare, sono detenute soprattutto persone accusate di reati a sfondo sessuale. Altra struttura penitenziaria in provincia di Salerno è l’Icatt (Istituto a custodia attenuata per il trattamento delle tossicodipendenze e/o alcoldipendente). L’Istituto accoglie attualmente 38 persone; la capienza regolamentare è di 50 detenuti con caratteristiche ben definite: giovani di età compresa tra i 19 e 45 anni, tossicodipendenti e/o alcoldipendenti provenienti dalla provincia di Salerno o dal territorio della Campania, con un basso indice di pericolosità sociale. Al 31 gennaio scorso i detenuti nelle carceri ed istituti campani erano 7.066, rispetto ad una capienza regolare complessiva di 6.114 unità. Numeri che descrivono in tutta la loro drammaticità la condizione carceraria nella nostra regione. Nella classifica delle carceri più affollate spicca Poggioreale (Napoli) con 2.090 detenuti rispetto ad una capienza regolamentare di 1.611; quindi Secondigliano (Napoli) con 1.353 detenuti rispetto a 1.029 posti. Non va meglio nell’Avellinese: Ariano Irpino 295 detenuti rispetto a 252 regolamentari; Sant’Angelo dei Lombardi (177 rispetto a 122 regolari), meglio a Bellizzi Irpino (513 rispetto a 501). Nel Casertano: Arienzo (81 su 52 posti), Ospedale psichiatrico di Aversa (106 su 272 posti), Carinola (389 su 581 posti regolamentari), Santa Maria Capuavetere (973 detenuti su 833 posti). Nel carcere di Benevento 369 detenuti su 254 posti. Nella casa circondariale di Pozzuoli, infine, ci sono 159 detenute per 107 posti. Lazio: il Garante "camera per detenuti presso l’Ospedale San Paolo di Civitavecchia" garantedetenutilazio.it, 17 febbraio 2017 È stata inaugurata oggi la camera riservata ai detenuti ricoverati nell’Ospedale San Paolo di Civitavecchia. L’intervento di riqualificazione è stato realizzato grazie alla sinergia tra Amministrazione Penitenziaria e Azienda Asl Roma 4, già da tempo impegnata a garantire adeguati livelli di cura e assistenza alla popolazione detenuta nelle carceri di Civitavecchia. "L’apertura nell’Ospedale San Paolo di Civitavecchia di una camera dedicata ai detenuti con problemi di salute che non possono essere curati in carcere rappresenta un ulteriore passo in avanti nel territorio della Asl RM4 nell’attuazione della riforma della sanità penitenziaria che prevede, è bene ricordarlo, per i detenuti gli stessi livelli di assistenza dei cittadini liberi in materia di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione" ha detto il Garante dei detenuti Stefano Anastasia presente all’inaugurazione con il Direttore Generale della ASL RM4 Giuseppe Quintavalle, il Provveditore dell’Amministrazione Penitenziaria per il Lazio Abruzzo e Molise Cinzia Calandrino e il Responsabile della cabina di regia del Servizio Sanitario della Regione Lazio Alessio Amato. Dal Garante dei detenuti della Regione Lazio, Stefano Anastasia L’Aquila: "mio marito, malato di cuore, è morto perché gli negarono coperte e lenzuola" di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 17 febbraio 2017 La moglie di Salvatore Caramuscio, che era detenuto al 41 bis all’aquila, ha scritto a rita bernardini. Nonostante il nullaosta, quando fu trasferito al carcere duro gli chiesero di rifare la domanda. si arrabbiò e, dopo un battibecco con gli agenti penitenziari, si sentì male e fu ricoverato. Dormiva senza lenzuola e coperte, nonostante il freddo e soffrisse di una malattia al cuore. Era in regime del 41 bis, pena l’ergastolo. Morì di infarto. Parliamo del 27 settembre dell’anno scorso quando è deceduto. Fu un mese particolarmente freddo e il detenuto dormiva coprendosi con un telo di mare. Nonostante avesse il nullaosta per tenere le sue coperte e lenzuola, una volta trasferito al carcere duro dell’Aquila gli chiesero di rifare la domanda. Si arrabbiò e ci fu un battibecco con gli agenti penitenziari, ebbe un malore tanto da accasciarsi a terra. Fu trasportato prima all’ospedale dell’Aquila e poi a quello di Chieti dove subì tre lunghe operazioni chirurgiche. Infine è arrivata la morte. Si chiamava Salvatore Caramuscio, aveva 47 anni ed era uno dei boss della Sacra Corona Unita. L’uomo stava scontando l’ergastolo per l’omicidio di Antonio Fiorentino, il titolare del bar Papaja a Lecce, avvenuto il 6 marzo del 2003. Caramuscio, conosciuto con il soprannome di "Scaramau", fu arrestato per il delitto e poi tornò in libertà per decorrenza termini, facendo perdere le sue tracce e diventando uno dei 100 latitanti più pericolosi d’Italia. Fu rintracciato ed arrestato nel 2009 a Cassano delle Murge dopo 9 mesi. La misura cautelare fu ripristinata dopo la condanna in appello per associazione a delinquere, droga, ed estorsioni. Rita Bernardini, l’esponente del Partito radicale nonviolento transnazionale e transpartito, ha ricevuto una lettera di denuncia dalla moglie di Caramuscio che rendiamo pubblica. "Di questa morte, che probabilmente ci sarebbe stata comunque - spiega Rita Bernardini che, ricordiamo, è al dodicesimo giorno dello sciopero della fame anche per chiedere di riformare il 41 bis - a me colpisce quella coperta negata e precedentemente autorizzata. Insomma, le vessazioni, la loro banalità, l’indifferenza verso l’umano che esprimono". Mio marito S. C. è deceduto il 27 settembre scorso (2016) presso l’ospedale di Chieti. Lui era in regime di 41- bis con la pena dell’ergastolo. Gli ultimi 6 anni li ha passati a Rebibbia e da solo due mesi si trovava all’Aquila. Era una persona combattiva e infatti a Rebibbia non so quante denunce ha fatto per avere i suoi diritti… ultima, ha passato un’odissea per avere il nullaosta ad usare le sue lenzuola e le sue coperte perché soggetto allergico. Non appena lo trasferiscono all’Aquila, nonostante i nullaosta del Dap e di tutti gli specialisti, non gli danno né lenzuola né coperte richiedendogli di rifare tutta la trafila per riottenere i nullaosta. Il 26 settembre mattina, litiga molto inalberato con gli agenti perché con il freddo agghiacciante, lui dormiva con un telo da mare, unica cosa che gli avevano consentito di comprare. Mentre litigava, si è accasciato a terra. È stato portato all’ospedale dell’Aquila e poi a quello di Chieti, dove ha subito tre operazioni di cui la prima è durata 11 ore, e poi è deceduto il 27 settembre allo ore 14:10. Dissecazione aortica. Io mi trovavo a Rebibbia perché dovevo far colloquio nel mese di ottobre, ma purtroppo ho saputo della tragedia il 27 alle ore 21 e solo grazie ai miei familiari. Ho presentato querela alla Procura dell’Aquila perché ho saputo che quando è successo il fatto i compagni di mio marito hanno fatto la battitura a seguito della quale è arrivato anche il Magistrato di Sorveglianza. So che mio marito ha lasciato la sezione alle 11 - 1/ 4; so che è arrivato all’ospedale di Chieti alle 13: 30! Insomma, il problema è che non quadrano gli orari. Devo la verità a mio marito e a mio figlio e voglio sapere se mio marito è stato soccorso nei tempi giusti. Le scrivo perché so quanto lei e i suoi colleghi vi battete per i diritti del detenuto anche ora che il nostro Marco non c’è più. So anche che ha tremila impegni, ma se trovasse un po’ di tempo per seguire questo "caso", le sarei davvero riconoscente. Voglio farle sapere che, riguardo la pena dell’ergastolo, stavo facendo riaprire il processo perché mio marito non era certo un santo, ma quell’omicidio non l’ha commesso. Anche se lui non c’è più farò riaprire il processo perché ho le prove che me lo consentono. Napoli: "contesto pregiudizievole", via i figli ai boss della camorra Avvenire, 17 febbraio 2017 Disposta la collocazione in case famiglia fuori regione per sei bambini d’età compresa tra i 3 e i 14 anni. Figli sottratti alla potestà dei genitori, perché boss di camorra, in carcere già da un mese. Questa mattina i carabinieri hanno eseguito i provvedimenti decisi dal Tribunale dei minorenni di Napoli, accompagnando in case famiglie in diversi regioni d’Italia, comunque non in Campania, sei bambini e ragazzi tra i 3 e 14 anni: due coppie di fratelli, un loro cugino e il figlio di due pregiudicati. Cinque dei sei minorenni sono figli di persone considerate esponenti del clan Elia, attivo nella zona del Pallonetto di Santa Lucia e coinvolte nell’operazione dello scorso 17 gennaio, coordinata dalla Dda partenopea, che portò all’esecuzione di misure cautelari nei confronti di 45 persone. In quell’occasione fu anche smantellata una piazza di spaccio nella quale erano impiegati anche minori sia nelle attività di vendita che nel confezionamento della droga. Due ragazzini, un maschio e una femmina, vivevano con una zia a cui erano stati arrestati il marito e i figli, in un appartamento diventato la base logistica per la preparazione della droga. Il maschietto viveva praticamente in strada, giocando a pallone fino a notte fonda. Entrambi non andavano regolarmente a scuola, tanto che erano stati segnalati ai servizi sociali. La bambina per le troppe assenze era stata anche bocciata. I giudici dei minorenni hanno deciso che quello non era l’ambiente giusto per crescere e hanno allontanato i sei ragazzini. Restare nelle loro abitazioni, hanno scritto i giudici, "affidati alle cure delle rispettive famiglie, significherebbe farli restata in un contesto che è stato per loro gravemente pregiudizievole". Non solo: i piccoli prendevano parte "al confezionamento e spaccio delle dosi di stupefacente". Per loro ora è in vigore il divieto assoluto di intrattenere rapporti con la propria famiglia, perché è necessario "recidere i deleteri legami ambientali che hanno già potenzialmente compromesso l’equilibrato sviluppo dei minori". Ferrara: bando per il nuovo Garante delle persone private della libertà personale www.emiliaromagnanews24.it, 17 febbraio 2017 Avviata la procedura di presentazione delle domande. Emanato avviso con scadenza 16 marzo alle 13. Scadrà alle 13 di giovedì 16 marzo 2017 il termine per la presentazione delle candidature all’elezione di Garante per i diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Ferrara, avviso emanato dall’Ufficio di Presidenza del Consiglio Comunale di Ferrara, secondo quanto previsto dal Regolamento approvato con deliberazione del Consiglio comunale. "Il Garante - si legge nell’avviso - è scelto tra cittadini italiani che, per comprovata competenza nel campo delle scienze giuridiche, dei diritti umani, ovvero delle attività sociali negli Istituti di prevenzione e pena, e nei Centri di servizio sociale e per esperienza acquisita nella tutela dei diritti, offrano la massima garanzia di probità, indipendenza, obiettività, competenze e capacità di esercitare efficacemente le proprie funzioni". L’avviso integrale e il facsimile della di domanda sono pubblicati sulle pagine Internet del Comune di Ferrara (www.comune.fe.it). Milano: il Papa a San Vittore, incontro con l’anima delle persone di Luisa Bove chiesadimilano.it, 17 febbraio 2017 La direttrice Gloria Manzelli e il cappellano don Marco Recalcati descrivono i preparativi in atto nell’istituto penitenziario in vista della visita del 25 marzo, la prima nella storia. Per la prima volta nella storia un Papa entra a San Vittore. Una notizia che ha colto tutti di sorpresa, ma che ora si traduce in "entusiasmo". "Il Papa viene per i detenuti e per il personale - dice la direttrice Gloria Manzelli, quindi sia per chi è privato della libertà, ma anche per chi lavora con impegno e dedizione nell’Istituto penitenziario. Al di là degli aspetti organizzativi, siamo tutti molto, molto contenti, ma il termine giusto è emozionati. Il personale è entusiasta di incontrare il Papa, in particolare Francesco. Sarà un incontro di fede, dell’uomo che incontra l’uomo. Sono certa che andrà tutto bene". Bergoglio incontrerà "il più elevato numero di detenuti", assicura Manzelli. Tuttavia in due ore di visita è difficile dare spazio a tutte le iniziative che si svolgono a San Vittore: "Tanti volontari che organizzano laboratori durante l’anno ci hanno chiesto di fare una piccola performance davanti al Santo Padre, ma non c’è il tempo". Comunque ciò che a San Vittore vogliono evitare è la formalità. "Lasceremo che le persone incontrino Francesco, senza il filtro dell’organizzazione, perché possa essere un incontro di anime, di persone", dice la direttrice. "Un po’ come avviene a San Pietro: il Papa va nella piazza e incontra i fedeli. Qui sarà la stessa cosa. Non vorremmo dare l’impressione di una differenza di approccio fra il cittadino libero che incontra il Santo Padre e il cittadino detenuto. Questo secondo me è il valore aggiunto". In piazza Filangieri stanno già lavorando sodo perché la visita sia gestita al meglio. "Si darà prevalentemente spazio ai detenuti - spiega il cappellano don Marco Recalcati, e poi a chi opera in carcere: polizia penitenziaria, educatori, figure professionali, sanitari, volontari...". Il Papa sarà accolto all’ingresso, poi passerà da alcuni raggi, andrà in "rotonda" dove incontrerà un centinaio di detenuti, mentre il pranzo, con altri cento commensali, si terrà al terzo reparto, disponendo i tavoli nel grande corridoio. "I piatti saranno preparati dalla "Libera Scuola di Cucina" con uno chef affiancato dai detenuti - dice il cappellano -. È previsto un menù meneghino (risotto e cotoletta) e si è scelto che quel giorno tutto il carcere abbia lo stesso menù per non creare privilegi all’interno". L’ipotesi è che a tavola, vicino a papa Francesco, siano seduti alcuni detenuti dell’America Latina così da permettergli di parlare nella sua lingua. "Abbiamo chiesto, per quanto possibile, di non selezionare i detenuti - dice ancora don Recalcati, ma che pur dietro le sbarre, da lontano o mentre passa in "rotonda", tutti riescano a sentire le parole del Papa e a vederlo. Ci sarà anche una rappresentanza del volontariato a salutare il Papa, perché Francesco vuole incontrare chi è in carcere: detenuti, polizia, operatori e volontari, che sentiamo come figure ben coinvolte nel lavoro che si fa in carcere. Non sono ospiti, ma una parte importante di San Vittore". Al di là dei tanti aspetti pratici, da alcune settimane i cappellani stanno preparando i detenuti dal punto di vista spirituale all’incontro col Papa il 25 marzo. "Ogni domenica durante le Messe leggiamo un brano e raccontiamo un episodio delle visite dei Papi nelle carceri: siamo partiti da Giovanni XXIII a Regina Coeli, poi Paolo VI, Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e infine le visite di Francesco in diversi istituti, non solo italiani, ma anche del mondo". Questi testi vengono utilizzati anche durante la settimana nei vari incontri di preghiera, recita del Rosario o momenti di carattere religioso, così da creare un dialogo con i carcerati in un tempo più lungo. Intanto alcuni detenuti, di loro iniziativa, stanno preparando dei doni per Francesco: si va dalle classiche navi realizzate con gli stuzzicadenti e i fiammiferi, a un canto, uno scritto, una poesia... L’idea è che qualche detenuto in rappresentanza di tutti possa consegnare questi regali al Papa prima che lasci San Vittore e continui la sua visita milanese. Milano: arriva Papa Francesco e San Vittore prova a darsi una sistemata di Chiara Sirianni Il Foglio, 17 febbraio 2017 Francesco sarà il primo Papa a visitare il carcere di San Vittore. Nella sua ottica "misericordiosa", sarà un appuntamento chiave della visita del 25 marzo. Lo sarà anche per la città e il suo sistema di giustizia. Nel quadrilatero di mattoni e cemento nel centro di Milano inaugurato nel luglio del 1879, "il gran serraglio" della Porta Romana bella di Nanni Svampa, fervono i preparativi per l’arrivo di Bergoglio. Che ha scelto la struttura più simbolica ma anche più problematica, rispetto ai penitenziari di Opera e Bollate. Una scelta che, certamente, avrebbe messo meno in ansia i vertici delle case di reclusione milanesi. Dietro le sbarre di quello che Patrizia Reggiani ama definire "il Grand Hotel", in questa casa circondariale a poche fermate di metropolitana dal Duomo - che qualcuno vorrebbe far diventare un museo, o magari un grande albergo come l’ ex carcere Kataianokka di Helsinki - le condizioni di vivibilità sono ogni giorno una denuncia al la concezione penitenziaria dello stato. Ma dentro c’ è chi lavora, e per l’occasione si lavora anche di più. La direttrice Gloria Manzelli e il cappellano don Marco Recalcati stanno preparando i detenuti dal punto di vista spirituale e organizzativo (c’è chi prepara doni fatti a mano, con gli stuzzicadenti, c’ è chi scrive poesie). Il Papa sarà accolto all’ ingresso, quindi farà un giro nella storica rotonda centrale, e passerà per i vari raggi. Poi il pranzo, nel corridoio del terzo braccio: risotto giallo e cotoletta, i piatti meneghini preparati e serviti dai carcerati. "Siamo molto onorati", dice al Foglio Luigi Pagano, che di San Vittore è stato per tanti anni direttore. Oggi è provveditore dell’Amministrazione penitenziaria e recentemente ha annunciato l’ avvio della ristrutturazione del sesto raggio, quello in cui le condizioni di detenzione sono più difficili, anche se il calo del sovraffollamento ha attenuato le tensioni del passato. Più critica la garante dei detenuti di Milano, Alessandra Naldi: "Il mio timore è che si tratti solo di un maquillage in previsione della visita del Papa. Il secondo raggio è chiuso da almeno dieci anni. Il quarto è completamente vuoto. Se ristrutturato ai sensi del regolamento di esecuzione, conterrebbe tra i duecento e i trecento detenuti". Pagano sostiene che la pratica per la ristrutturazione del sesto raggio, chiuso dal 2006, sarebbe iniziata prima dell’annuncio della visita del Pontefice. Ma ammette che "negli anni ci si è limitati a una manutenzione basica, anche perché le sorti della struttura sono sempre state incerte". Quello dei raggi vuoti è un tema delicato. A quattro anni dalla sentenza Torreggiani, che ha costretto l’Italia a varare riforme per risolvere il dramma di una popolazione carceraria tornata a livelli peggiori di quelli precedenti all’ indulto del 2006, ci sono ancora diversi nodi da sciogliere. San Vittore ha una capienza di 700 posti. Al momento - ha spiegato la direttrice Manzelli - i detenuti sono 877, di cui 800 uomini e 77 donne. Ogni detenuto ha diritto a tre metri quadrati calpestabili, in base alla soglia stabilita dalla Cedu. È sufficiente? "Se ci basiamo sul calcolo dei metri quadri San Vittore rientra nei parametri della Corte europea dei diritti dell’uomo perché le condizioni di detenzione non si definiscano automaticamente inumane e degradanti" spiega Naldi. "Ma non è a norma rispetto alle leggi italiane e alle direttive ministeriali". Gli Stati generali dell’Esecuzione penale e gli interventi del ministro Orlando hanno solo tamponato il problema. Di certo non sarà la visita del Papa a cambiare le cose. Ma gli operatori del settore confidano che i riflettori puntati su San Vittore portino a una riflessione a livello politico: "Papa Francesco lancia un segnale chiaro, e lo fa dal capoluogo milanese. Ci auguriamo che la politica non lo ignori", conclude la garante dei detenuti. Milano: ora anche i detenuti di Bollate possono inviare mail Redattore Sociale, 17 febbraio 2017 Da 15 giorni è stato attivato "Zeromail", servizio gestito da una cooperativa sociale che permette ai reclusi di inviare e ricevere messaggi nel giro di poche ore. Finora inviate più di 500 mail: dagli auguri di San Valentino alle richieste agli avvocati. Fino ad oggi potevano scrivere solo lettere. Chi ormai scrive lettere nell’era di internet e della mail? Qualche nostalgico e i detenuti. Questi ultimi non hanno accesso alla Rete e quindi devono affidarsi ancora a carta e penna. Con un problema però: tra la trafila in carcere e le poste, la missiva arriva a destinazione dopo 10 giorni. E la risposta, di un parente, della moglie, dei figli o di un amico arriva almeno dopo altrettanti. Ed è per questo che sta riscuotendo un grande successo "Zeromail", il servizio di invio e ricezione delle mail per i detenuti del carcere di Bollate, gestito dalla cooperativa sociale Zerografica. Partito il primo febbraio, ha già permesso l’invio di almeno 500 mail: dai romantici messaggi d’amore per san Valentino a quelli più austeri verso gli avvocati. Sono 60 i detenuti che, senza pensarci un attimo, si sono abbonati subito. E ogni giorno se ne aggiungono altri, man mano che il passa parola fa conoscere il servizio. Il meccanismo è semplice: il detenuto scrive il suo messaggio su un foglio, ogni giorno uno dei detenuti della cooperativa passa nelle celle a ritirare le lettere, che vengono scansionate e inviate entro il giorno dopo. La risposta del destinatario segue il processo inverso: viene stampata, chiusa in busta e consegnata al detenuto. "Chi vuole può mandare anche disegni o foto - spiega Luca, uno dei detenuti incaricati. Possono scrivere in qualsiasi lingua. Per gli stranieri è veramente la soluzione di un problema che sembrava insormontabile: se per un italiano i tempi per far arrivare una lettera è in media di dieci giorni, per loro potevano passare anche mesi". Il servizio è in abbonamento: quello base costa 12 euro per 30 mail. "È un risparmio notevole per il detenuto -aggiunge Luca-, visto che la lettera classica costa circa 1,50 euro". In Lombardia, per ora, solo i detenuti di Bollate hanno la possibilità di inviare in questo modo delle mail. In alcune carceri italiane, come quello romano di Rebibbia o quello di Frosinone, è attivo un servizio simile da alcuni anni. Nola (Na): maxi-gara per la costruzione di un nuovo carcere, avrà 1.200 posti di Alessandro Lerbini Il Sole 24 Ore, 17 febbraio 2017 Sarà il terzo istituto di pena della Campania per numero di detenuti dopo Poggioreale e Secondigliano. Il bando del ministero delle Infrastrutture scade il 29 marzo. Va in gara il nuovo carcere di Nola. Il ministero Infrastrutture e Trasporti - provveditorato interregionale alle Opere pubbliche per la Campania, il Molise, la Puglia e la Basilicata - affida i servizi di architettura e ingegneria per la redazione della progettazione di fattibilità tecnica ed economica, progettazione definitiva, progettazione esecutiva e coordinamento della sicurezza in fase di progettazione delle opere per la costruzione del nuovo istituto penitenziario da realizzare mediante l’uso di materiali e tecniche a ridotto impatto ambientale durante il ciclo di vita dell’opera. Per i professionisti è prevista una maxi-parcella di 5,7 milioni mentre il costo complessivo dell’opera è di circa 75 milioni. Il nuovo carcere avrà una capienza di 1.200 persone e sarà il terzo istituto di pena della Campania per numero di detenuti dopo Poggioreale (ormai di nuovo al limite per densità) e Secondigliano. Il luogo individuato per la costruzione è quello della località Boscofangone in un’area distante sia da Nola che dal centro abitato della frazione di Polvica. Si tratterà di un carcere sperimentale, senza mura di cinta, dove sconteranno la pena quei detenuti che dovranno essere prontamente reinseriti in società. L’avviso rimane aperto fino al 29 marzo. Scade invece il 7 marzo la gara del ministero per i servizi di ingegneria finalizzati alla riqualificazione del carcere di Poggioreale di Napoli. Il bando prevede la redazione del progetto definitivo e del progetto esecutivo dell’intervento di adeguamento al Dpr 230/2000 dei padiglioni Salerno, Napoli, Genova (completamento), Venezia, Italia presso la casa circondariale "G. Salvia". Il valore del servizio è di 824.065 euro. Napoli: raccolta fondi per Campo Aperto, l’impresa agricola nel carcere di Secondigliano napolitime.com, 17 febbraio 2017 A Napoli, l’iniziativa della società Cooperativa Sociale L’Uomo e il Legno. L’impresa, operativa da oltre un anno, è nata con lo scopo di offrire ai detenuti un percorso concreto di riabilitazione tramite un lavoro regolarmente retribuito: Campo Aperto focalizza inoltre la produzione agricola sui prodotti tipici campani famosi in tutto il mondo, combinandone l’eccellenza con il concetto di consumo critico: agricoltura bio, filiera corta, tradizione artigianale. Pomodorini del Piennolo del Vesuvio, melanzane lunghe napoletane, zucchine San Pasquale. Due ettari di terreno che, grazie ad un contratto di comodato d’uso stipulato con l’Amministrazione Carceraria, danno vita a questi ed altri prodotti grazie proprio al lavoro dei detenuti, sostenuti dal tutoraggio e dall’accompagnamento da parte degli operatori della cooperativa. "Con Campo Aperto - spiega Vincenzo Vanacore, presidente dell’Uomo e il Legno - cerchiamo di provare a dare una risposta concreta al bisogno di lavoro salariato espresso dai detenuti, in considerazione del fatto che il sistema penitenziario, caratterizzato da sovraffollamento, incremento dei suicidi e degli atti di autolesionismo, non sempre riesce a garantire ai detenuti un autentico percorso di riabilitazione. L’impresa sociale, inoltre, intende anche sensibilizzare la comunità locale sui temi della detenzione anche per prepararla ad accogliere tutti coloro che, in uscita, hanno bisogno di accoglienza e sostegno per potersi reinserire. Garantire ai detenuti un impegno stabile e quotidiano, inoltre, è fondamentale per valorizzarne le competenze e le energie in vista del successivo reinserimento nel tessuto sociale, oltre che per diminuire l’impatto sociale ed emotivo della restrizione della libertà". D’altronde l’articolo 27 della nostra Costituzione non potrebbe essere più chiaro: "Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato". Non essendo un progetto sostenuto da finanziamenti pubblici, L’Uomo e Il Legno ha deciso di creare una raccolta fondi per sostenere la costruzione di due nuove serre, ampliando così la produttività dell’impresa e di conseguenza aumentando la possibilità di coinvolgere nuovi detenuti: le serre saranno incentrate sulla produzione specializzata di fragole e frutti di bosco. Napoli: "Diamo un calcio all’indifferenza", torneo della solidarietà per i detenuti vocedinapoli.it, 17 febbraio 2017 La squadra di calcio dell’Ordine dei giornalisti della Campania parteciperà ad un torneo di solidarietà organizzato presso il carcere di Secondigliano che vede in prima linea squadre di detenuti ma anche rappresentative di alcuni licei. La squadra di calcio dell’Ordine dei giornalisti della Campania partecipa al torneo "Diamo un calcio all’indifferenza" che è in corso a Napoli presso il campo di calcetto del carcere di Secondigliano. All’evento, promosso dall’associazione La Mansarda, sono iscritte anche otto formazioni di detenuti del reparto Mediterraneo, due del liceo Mazzini e una capitanata da Antonio Insigne, fratello di Lorenzo calciatore del Napoli. I premi messi in palio per i vincitori sono le magliette del Napoli offerte dallo store Robe di Kappa. La squadra dei giornalisti scenderà in campo venerdì 17 febbraio alle 13,30. Il presidente dell’ASD Giornalisti Campania Gianni Russo ha sottolineato che "Fin dalla fondazione la nostra squadra è in prima linea in eventi di solidarietà e nelle manifestazioni sportive contro la camorra. Un team di amici e colleghi che, sotto il simbolo dell’Odg Campania, testimoniano l’attenzione della categoria verso temi scomodi. In questo caso riteniamo che bisogna rimuovere i pregiudizi e sostenere coloro che, dopo aver sbagliato, stanno intraprendendo un difficile percorso di riabilitazione e recupero". In merito all’iniziativa Samuele Ciambriello, presidente dell’associazione La Mansarda, ha dichiarato: "La persona che sbaglia deve essere tolto il diritto alla libertà ma non il diritto alla dignità. La disponibilità di tanti amici ad entrare in carcere per giocare a pallone per socializzare con i reclusi non è un atto formale ma un gesto per rimuovere pregiudizi, per aiutare i reclusi a ritrovarsi e a recuperarsi". Sala Consilina (Sa): dalla cella alla chiesa "io così sono rinato" di Erminio Cioffi La Città di Salerno, 17 febbraio 2017 Droga, rapine e 22 anni di carcere. Ora è assistente del parroco. Tornare a vivere nella legalità si può, basta volerlo. Dal baratro della droga, passando per diverse carceri della Campania fino a rinascere nella chiesa di Santo Stefano di Sala Consilina dove per quattro ore al giorno dà una mano al parroco Don Elia come assistente. Sono queste le tappe del viaggio di Michele Brescia, 40 anni, di Sala Consilina che ha deciso di raccontarsi e raccontare gli errori che negli ultimi 22 anni lo hanno fatto finire in carcere tantissime volte, per reati legati soprattutto alle sostanze stupefacenti e ad alcune rapine compiute per procurarsi i soldi necessari per poter acquistare la droga. La storia di Michele - che proprio questo mese finirà di scontare l’ultima condanna per diventare finalmente libero da ogni obbligo con l’Autorità giudiziaria e carceraria - è soprattutto una storia di speranza; una storia che serve a far capire come, una volta toccato il fondo, con l’aiuto della forza di volontà e della fede, si possa risalire la china e riabilitarsi. Michele oggi è un uomo nuovo. E questo è stato possibile grazie anche a strutture carcerarie dove ai detenuti viene data la possibilità di poter studiare e apprendere in modo concreto un mestiere, qualcosa che serva davvero quando, pagato il debito con la giustizia, si torna liberi, tra la gente. Incontriamo Michele nella chiesa di Santo Stefano, nel cuore del centro storico di Sala Consilina, una delle chiese più belle della città. Ha da poco finito di rassettare e mettere in ordine prima della messa. Siede su una panca e guarda verso l’altare. "Tutto in ordine", dice soddisfatto. E comincia così il suo racconto: "Di errori ne ho fatti tanti, ma dal 2008 ho chiuso con tutto - sottolinea con decisione e con un pizzico di orgoglio - e se penso ai miei ultimi venti anni di vita, la metà li ho vissuti tra carcere e arresti domiciliari. Mi vergogno per quello che ho fatto e in questo tempo ho preso coscienza del male fatto agli altri e anche a me stesso". Lo spaccio e l’arresto. "Tutto è iniziato quando avevo 16 anni, insieme ad altri miei amici abbiamo cominciato a spacciare droghe leggere perché ci siamo resi conto che si riusciva a guadagnare denaro facilmente e da allora è stato l’inizio della fine perché oltre a spacciare ho iniziato a fare anche uso di sostanze stupefacenti e la dipendenza mi ha portato a commettere anche altri reati perché avevo bisogno di soldi per poter acquistare la droga". Michele l’ha fatta franca fino al 1994, aveva compiuto 18 anni da poco quando venne coinvolto in una operazione antidroga e finì per la prima volta dietro le sbarre. "Il primo impatto con il carcere è stato devastante per me. Mi hanno arrestato, portato e in caserma e poi nel carcere di Sala Consilina. Non dimenticherò mai il suono metallico dei cancelli che si chiudevano alle mie spalle man mano che mi avvicinavo alla mia cella, che ho condiviso per lungo tempo con altri 11 detenuti. Quando sono entrato e ho sentito le mandate della serratura che chiudeva la porta di ferro la prima cosa che ho pensato è stata: ma chi me lo ha fatto fare? E adesso quando uscirò?". Il demone della droga. Nel suo racconto Michele ricorda anche i suoi genitori che da qualche anno non ci sono più. "Ho dato tanti dispiaceri a mia madre ed a mio padre, ma in quegli anni ero posseduto dal demone della droga. Non ero più io, quando al mattino mi svegliavo il mio unico pensiero era quello di organizzare qualcosa per poter fare soldi. A tutto pensavo tranne che a lavorare. Mio padre, giustamente, è stato sempre molto duro con me e non mi ha mai difeso. Mi diceva sempre che il carcere era la giusta punizione per quello che facevo e più volte ha minacciato anche di denunciarmi se non avessi smesso di delinquere. In carcere per anni non è mai venuto a trovarmi, lo ha fatto solo quando mia madre si è ammalata ed è stata lei a convincerlo perché venisse a trovarmi. Non dimenticherò mai invece quando, dopo essere stato arrestato per la prima volta mia madre venne a trovarmi. Appena entrai nella sala colloqui lei non disse niente, mi diede soltanto uno schiaffo con tutta la sua forza e porto ancora nel cuore il dolore di quel ceffone che purtroppo all’epoca servì a ben poco". Il giro nelle carceri. Michele fino al 2012 ha girato diverse carceri della Campania. Dopo Sala Consilina è stato recluso a Sant’Angelo dei Lombardi, Secondigliano e all’Istituto di Custodia Attenuata di Eboli. "In carcere finisci di rovinarti solo se sei tu a volerlo - racconta - altrimenti se hai la volontà quello può diventare un punto di partenza per la rinascita e così per me è stato. Secondigliano è un inferno invece un carcere che non umilia e anzi favorisce il reinserimento è quello di Sant’Angelo dei Lombardi in provincia di Avellino dove ho avuto la possibilità di imparare un mestiere lavorando in tipografia. Eravamo in 20 e tra i tanti lavori realizzati ci sono anche i calendari ufficiali della Polizia Penitenziaria. Lì mi sono anche riavvicinato alla fede frequentando la chiesa presente nel penitenziario e questo è servito ancora di più a farmi capire gli errori commessi". Ci sono state anche diverse persone che in questi anni hanno teso la mano a Michele per aiutarlo a rialzarsi. "Sarò per sempre grato a Pinuccio Lamura, un imprenditore di Sala Consilina, scomparso da poco, e a sua figlia Carol che hanno dato la disponibilità a farmi lavorare presso la loro azienda per circa tre anni come misura alternativa alla detenzione. Mi sono stati sempre vicini, anche quando, mentre lavoravo da loro, sono finito di nuovo in carcere. Non mi hanno fatto mancare mai nulla e tutte le volte che ho avuto bisogno di un sostegno economico non si sono mai tirati indietro". L’incontro col parroco. A tendere una mano a Michele è stato anche il parroco di Santo Stefano e con lui monsignor Antonio De Luca, vescovo della diocesi di Teggiano - Policastro che, insieme al Piano Sociale di Zona, gli hanno dato la possibilità di continuare in parrocchia il suo percorso di ritorno alla vita. Ed infine c’è zia Gerarda e la sua famiglia che da febbraio dello scorso anno lo hanno accolto in casa come un figliuol prodigo che, dopo essersi reso conto degli errori e del male fatto, ha chiesto perdono ed ha ricominciato la sua nuova vita grazie al respiro della speranza che, con l’aiuto indispensabile della sua fede, non è stato mai soffocato in questi anni. Sorride Michele e si apparta in preghiera. Tra poco inizia la messa. Migranti. Contatti con scafisti, indagine sulle Ong di Francesco Viviano e Alessandra Ziniti La Repubblica, 17 febbraio 2017 Dalla missione Frontex erano arrivate accuse di collusione alle associazioni umanitarie attive nel Mediterraneo. Ora anche la procura di Catania apre un fascicolo sulla "flotta parallela" di navi che salvano i migranti in mare. C’è il vascello di lusso Astral da trenta metri che l’imprenditore italiano Livio Lomonaco ha ceduto ad una associazione di bagnini spagnoli. C’è il vecchio peschereccio Sea Whatch dí gamberi acquistato da un commerciante di Berlino e messo a disposizione di un gruppo di amici volontari, ci sono le due navi con droni di una coppia di milionari italo-americani, Cristopher e Regina Catrambone trasferitisi a Malta, e il grande rimorchiatore d’altura di Medici senza frontiere Bourbon Argos. Sulla flotta parallela privata che da qualche anno affianca il dispositivo di navi militari nei soccorsi delle centinaia di migliaia di migranti che attraversano il Canale di Sicilia, dopo le pesantissime accuse di Frontex che ipotizza addirittura una "collusione con gli scafisti", ora accende i riflettori anche la magistratura. "Vogliamo capire chi c’è dietro tutte queste associazioni umanitarie che sono proliferate in questi ultimi anni, da dove vengono tutti questi soldi che hanno a disposizione e soprattutto che gioco fanno" - dice il procuratore di Catania Carmelo Zuccaro che conferma di avere aperto una indagine conoscitiva - "insieme a Frontex e alla Marina militare stiamo cercando di monitorare tutte queste Ong che hanno dimostrato di avere una grande disponibilità finanziaria. È ovvio che non mettiamo in discussioni organizzazioni umanitarie di chiara fama". Un’indagine ancora allo stato embrionale dunque, ma che muove dalle pesantissime accuse rivolte da Frontex in un rapporto presentato all’Unione europea in cui si afferma che ai migranti "verrebbero date chiare istruzioni prima della partenza sulla direzione da seguire per raggiungere le imbarcazioni delle Ong". Insomma, secondo Frontex, le navi umanitarie - che per altro spesso si spingono fin sotto le coste libiche - si presterebbero a fare da taxi portando i migranti in salvo poche miglia dopo la partenza. A sostegno del suo sospetto, l’agenzia europea per le frontiere porta un dato riferito al mese di ottobre 2016 quando le navi umanitarie avrebbero risposto a oltre il 40 per cento delle richieste di soccorso contro il 5 per cento dell’inizio dell’anno. Dati confermati ad una semplice consultazione del "Marine traffic", il sito che traccia la presenza delle imbarcazioni civili nel Canale di Sicilia. La presenza delle navi umanitarie, anche nei mesi invernali, è sempre consistente. E a loro, nel solo 2016, si deve il soccorso a più di 70.000 migranti, più di un terzo dei circa 180.000 arrivati in tutto l’anno. Un anno con un record negativo, quello dei morti durante naufragi, quasi 5.000. Oggi, di fronte alle accuse di Frontex sfociate nella prima inchiesta giudiziaria sul loro operato, tutti rispondono sdegnati. "Sono accuse assurde, noi salviamo solo vite in accordo con la Guardia costiera e seguiamo le loro indicazioni - dice Valeria Calandra di Sos Mediterranee. Se hanno delle prove le tirino fuori. Il contatto con queste persone, per sbaglio o per fortuna, non lo abbiamo mai avuto. Quanto ai nostri finanziamenti, al novanta per cento sono libere donazioni di privati". Migranti. Tunisi accoglierà 200 profughi al mese partiti dalla Libia di Federico Fubini Corriere della Sera, 17 febbraio 2017 L’accordo con l’Italia: in cambio aiuti e "corridoi umanitari". Avrebbero diritto a ripartire per l’Europa i rifugiati se viene accettata la domanda d’asilo. Con l’appoggio politico della Commissione Ue, l’Italia è vicina a un accordo che potrebbe segnare un punto di svolta nella gestione dei rifugiati. Per la prima volta, la Tunisia accetta di ricevere migranti di qualunque nazionalità partiti dalla Libia e intercettati in acque extraterritoriali dalle squadre italiane e europee di salvataggio. In contropartita l’unico governo democratico del Maghreb ottiene dall’Italia e dall’Unione Europea sostegno su alcuni fronti che lo interessano: non solo un nuovo, forte sostegno finanziario, ma anche ulteriore cooperazione degli apparati di intelligence e di polizia contro il terrorismo islamico e il rischio di destabilizzazione del Paese. Avrebbero poi diritto a ripartire verso l’Italia o il resto d’Europa, attraverso "corridoi umanitari", solo i rifugiati di cui viene accolta la domanda di asilo. Modello da esportare in Nord Africa - Tre persone molto vicine ai negoziati, a Roma e a Bruxelles, confermano che c’è il consenso delle parti coinvolte sulle linee generali dell’accordo. Niente di tutto questo significa che i flussi di migranti e rifugiati attraverso il Canale di Sicilia siano destinati ad arrestarsi. Quella con la Tunisia è solo una prima intesa quasi solo sperimentale. L’Italia aveva chiesto alle autorità di Tunisi di accogliere circa mille migranti al mese, fra quelli intercettati in mare (a confronto con i 181 mila sbarchi solo nel 2016). Ma il governo guidato dagli islamici moderati di Ennahda per ora accetta di ricevere solo 200 persone al mese, anche se tutti sanno che il numero potrebbe salire nel tempo. Finora, dal 2011, Tunisi aveva accettato solo di riaccogliere un numero limitato di propri connazionali irregolari su voli charter da Palermo. Adesso però il nuovo "modello tunisino" potrebbe estendersi ad altri Paesi del Nord Africa. Fra due settimane sbarcherà al Cairo una delegazione europea guidata da Simon Mordue, il funzionario (britannico) della Commissione Ue che concluse gli accordi sui rifugiati con la Turchia. Dall’Egitto in questa fase sta arrivando in Italia un flusso crescente di migranti, oggi circa il 10% del totale. Anche lì, su spinta della Germania, la missione europea esplorerà i margini di un accordo, se possibile sul modello tunisino. Non sarà semplice, anche perché quest’ultimo necessita ancora della messa a punto di dettagli fondamentali. In primo luogo si tratta di garantire che i migranti accolti in Tunisia siano trattati in maniera dignitosa: negli ultimi giorni il governo italiano ne ha parlato con i vertici dell’Alto commissariato per i rifugiati e con l’Organizzazione internazionale delle migrazioni a Ginevra e entrambe le agenzie delle Nazioni Unite sarebbero disponibili a co-gestire i campi in Tunisia, in modo da garantirne le condizioni. Il nodo delle procedure giudiziarie - C’è poi anche da definire chi, sul suolo tunisino, esamina e decide sulle richieste di asilo in Europa. L’accordo rientrerebbe in una cornice europea (con un ruolo di punta dell’Italia e della Francia), tanto che i capi di Stato e di governo ne hanno parlato al vertice di Malta questo mese. Ma il prossimo Consiglio dei ministri dell’Interno a Bruxelles dovrà iniziare a sciogliere il modo delle procedure giudiziarie. Inviare in Tunisia dei giudici di un tribunale italiano o di un altro Paese europeo sarebbe possibile solo se i governi coinvolti cambiassero la legislazione nazionale. D’altra parte una Corte tunisina non avrebbe alcun titolo ad accettare o respingere richieste di asilo in un Paese della Ue. Potrebbe esservi un ruolo per la nascitura Euaa, l’Agenzia dell’Unione Europea per l’asilo, ma prima andrà stabilito se la Tunisia possa essere definita formalmente "Paese terzo sicuro" nel quale le richieste di accoglienza dei migranti vengono trattate. Con un rischio in più: chi ha davvero titolo all’asilo, per esempio i fuggitivi dalla cleptocrazia militare dell’Eritrea, potrebbe iniziare a affluire direttamente in Tunisia senza affrontare il mare. Comunque vada, la svolta sembra matura. Con Ankara l’accordo del 2015 prevedeva di trattare in Grecia le richieste di asilo e di rinviare in Turchia coloro che non sono accolti. Con la Tunisia si pensa di muovere un passo più in là: le persone sono fermate in mare e gestite direttamente in un Paese terzo. Anche l’Europa, in assenza di idee migliori, costruisce i suoi muri. Droghe. Le tossicodipendenze in Italia e quei dati imprecisi della Relazione di Carla Rossi* Il Dubbio, 17 febbraio 2017 Mancano le cifre aggiornate sul numero dei consumatori delle varie sostanze stupefacenti. Non sono rispettate le indicazioni dell’osservatorio europeo sulle droghe e tossicodipendenze. Curiosa e bizzarra storia, questa della "Relazione annuale al Parlamento 2016 sullo stato delle tossicodipendenze in Italia". Si può cominciare dalle condivisibili "osservazioni" e dai commenti critici circa le modalità di "presentazione". Dire che è avvenuta in sordina, è poco; ed è certamente bizzarro che dal 6 dicembre al 13 gennaio, la si poteva trovare solo su un sito, poco frequentato, quello del Senato; ma non in quello dove era naturale trovarlo, il sito del Dipartimento Politiche Antidroga (Dpa), che della Relazione è "redattore" e responsabile. La Relazione non fornisce alcuna chiave di lettura adeguata e soddisfacente sul fenomeno; piuttosto si tratta di dati affastellati alla rinfusa, imprecisi quando non incompleti. La Relazione del 2016 infatti contiene dati perfino più "vecchi" e datati della Relazione del 2015. Decisamente discutibili, poi, le metodologie usate per l’elaborazione dei dati. È il caso, per esempio, delle stime sul numero di consumatori delle varie sostanze: mancando dati aggiornati per il 2015 si dovrebbe far riferimento a quelli del 2014; e invece troviamo, all’interno di un paragrafo, solo quelli del 2013. Il documento risulta inutilmente prolisso: e infatti sono stati inseriti argomenti poco attinenti il tema; come le ben 45 pagine relative all’United Nations General Assembly Special Session (Ungass), dell’aprile scorso: riguardano solo progetti futuri a livello mondiale. Più in generale tutto il sito del Dpa risulta fortemente datato, zeppo di notizie ormai superate: e basti citare il "piano d’azione italiano" per il 2010- 2013, mai aggiornato, e dunque non aderente agli standard europei. Ancora: nella Relazione sono inseriti anche i resoconti di progetti di ricerca che risalgono alla precedente gestione del Dpa; purtroppo la gestione attuale non ha attivato alcuna ricerca dal 2014 al 2016. L’unico progetto completato e descritto in modo corretto e comprensibile (ma nel quale il Dpa non ha avuto parte alcuna), è la rilevazione sull’uso di droga nelle scuole superiori, l’European School Survey Project on Alcohol and Other Drugs (Espad), coordinata dall’Istituto di Fisiologia clinica del Cnr di Pisa. Non mancano vistose inesattezze. I dati relativi al 2015 e al primo semestre del 2016 sono parziali; dati fondamentali come le stime dei consumatori delle diverse sostanze risalgono addirittura al 2013; e dire che nella Relazione del 2015 ci sono quelli del 2014. Come poi si possa sostenere che si sono rispettate le indicazioni dell’Osservatorio europeo sulle Droghe e Tossicodipendenze, senza inserire ben due "indicatori" epidemiologici di impatto sociosanitario su cinque, è un mistero. L’affermazione forse più discutibile è: "Il Gruppo redazionale istituito dal Dpa, a supporto del Tavolo Inter-istituzionale, nel rispetto dei contenuti tecnico scientifici elaborati dalle varie Istituzioni nazionali, ha condiviso la struttura del documento, revisionato i testi e le tabelle ed evidenziato le principali novità intervenute nel 2015 per ciò che attiene al fenomeno della droga e delle dipendenze". Basta leggere con attenzione il documento per notare testi e tabelle incongrui, che non spiegano l’andamento dei fenomeni; non sorprende: il Dpa non ha attivato l’Osservatorio italiano sulla droga previsto per legge. Eppure uno statistico neolaureato avrebbe sicuramente saputo legare i dati provenienti da fonti diverse (Ministeri, enti di ricerca); e avrebbe facilmente evidenziato, per esempio, la sempre maggiore presenza dei minori sia tra i consumatori, sia tra gli spacciatori: "annuncio", per gli anni futuri di ulteriori, gravi, degenerazioni. La presentazione si conclude con un’affermazione decisamente azzardata: "Pur nella complessità della tematica trattata, la molteplicità degli aspetti analizzati, sia nazionali che internazionali, hanno permesso di realizzare una Relazione che rappresenta la reale situazione generale del Paese nell’ambito delle dipendenze". Per dimostrare quanto sia irrealistica, è sufficiente considerare due questioni molto importanti: la diffusione di sostanze fra i minori e la poli-assunzione. I dati che riguardano i consumatori segnalati alle Prefetture-Utg per possesso personale di sostanze (art. 75 D. P. R. 309/ 90) sono presentati nel contributo del ministero dell’Interno (solo 2 pagine di spiegazione e 21 pagine di tabelle, con editing mol- sciatto, incongruo e quindi di lettura faticosa). Basti dire che: per i numeri con parte decimale, in quasi tutte le tabelle si utilizza la notazione anglosassone (il punto separa le cifre decimali, la virgola le migliaia), mentre in altre, si utilizza la notazione classica italiana: quella usata in tutte le tabelle della relazione fornite da altri enti; le tabelle non di rado risultano spezzate tra le diverse pagine, e non sono numerate. L’errore concettuale più grande è che ogni fenomeno quantitativamente rilevato (per esempio, il numero di segnalazioni alle Prefetture- Utg) è presentato, in genere, in una prima tavola globale (dove tutti i dati annuali dal 1990 al 2015 sono "totalizzati"); poi una seconda tabella contiene i soli dati 2015; in questo modo, gli andamenti temporali sono totalmente occultati. Le tabelle così abbinate sono inconfrontabili. Chi vuole analizzare il problema dei minori separatamente, maschi e femmine, trova più di un ostacolo: non sono forniti i dati annuali, ma solo una tabella globale, equivalente alla media (1990- 2015); e la tabella dell’ultimo anno (2015). Naturalmente non è possibile alcuna valutazione di merito, con dati così disomogenei. Comunque, è possibile scorgere la variazione più importante, attraverso il ricalcolo delle età medie (1990- 2015), e il confronto con le età per il 2015. Grazie a questo approccio, metodologicamente più debole, emerge un aumento notevole di consumatori minorenni, in particolare tra le femmine. La Relazione è priva di commenti per quel che riguarda l’andamento temporale delle segnalazioni relative alle singole sostanze: anche in questo caso le due tabelle fornite pubblicano dati disomogenei, che non consentono alcuna seria analisi. Nel commento sui dati delle segnalazioni dei consumatori per possesso personale di sostanze si parla anche del grave problema della poli-assunzione; si incorre, tuttavia, in una grave imprecisione, là dove si sostiene: "anche tra le persone segnalate si registra, negli ultimi anni, un maggior numero di "poli-assuntori", soggetti, cioè, che assumono stupefacenti in associazione con alcolici". Per intenderci: in ambito internazionale per "poli-assunzione" si intende il consumo congiunto di più sostanze psicoattive, non solo l’aggiunta dell’alcol a un’altra sostanza, come sembrerebbe dal commento "scheletrico" contenuto nella Relazione. Non è inesattezza di poco conto, poiché la "poli-assunzione" è problema particolarmente preoccupante per l’Italia, a causa della legge Fini- Giovanardi che colpendo in modo identico tutte le sostanze proibite, è la causa del "poli-spaccio" che induce il poli-uso. Significativo tuttavia il fatto che, sulla base degli stessi dati forniti dal ministero della Salute, la cannabis è la sostanza meno coinvolta nella "poli-assunzione". Una prima conclusione, dunque: nella Relazione 2016 non viene posto alcun collegamento tra i dati amministrativi riportati, né si sono evidenziati gli aspetti salienti dell’andamento dell’uso di sostanze; anche visivamente, dall’esame delle rappresentazioni grafiche e delle tabelle che accompagnano la Relazione, non si può non osservare una grave trascuratezza dell’editing e nell’organizzazione del contenuto. Ultima notazione: il gruppo redazionale della Relazione non ha assolutamente tentato di seguire le indicazioni dell’Osservatorio europeo (Emcdda), che suggerisce, per comprendere meglio il fenomeno droga nel suo insieme, di utilizzare i dati relativi agli interventi di riduzione della domanda in modo coordinato con quelli di riduzione dell’offerta. Molte altre presentazioni e interpretazioni di dati risultano inadeguate per il modo caotico e ascientifico di procedere da parte del gruppo editoriale del Dpa. Nell’attesa che venga costituito un "minimo" di Osservatorio statistico italiano sulle droghe, come già accade negli altri paesi europei, abbiamo l’intenzione di pubblicare a breve un libro con analisi appropriate dei dati, già oggi disponibili, e con proposte costruttive per superarne le attuali carenze, e fornire suggerimenti di interpretazione e presentazione dei dati. * Rappresentante del Partito Radicale all’Onu Droghe. "I nostri figli e l’uso di cannabis. Troviamo il coraggio di parlarne" di Elena Tebano Corriere della Sera, 17 febbraio 2017 Gli esperti: i divieti servono, ma bisogna distinguere uso ricreativo e palude quotidiana. "La trasgressione è un tiro alla fune, un figlio si aspetta che il genitore regga". Del suicidio del ragazzo di Lavagna Alberto Pellai, milanese, medico e psicoterapeuta dell’età evolutiva, ha parlato con le figlie adolescenti: "Cosa avreste fatto voi, se vi foste trovate nella sua situazione?" ha chiesto. Una domanda dolorosa anche solo a pensarla e parallela a quella che chiunque si è posto al cospetto di questa vicenda: come reagire di fronte a un figlio che fuma hashish o marijuana? Esiste un’alternativa tra l’impotenza della semplice repressione (chiamare le forze dell’ordine) e quella speculare del lasciar correre perché "tanto-ormai-lo-fanno-tutti"? "Il ruolo dei genitori è problematizzare il consumo di sostanze nell’adolescenza, che comunque è sempre a rischio e lo è tanto più quanto è precoce l’età in cui si inizia - spiega Pellai -. Domandare ai ragazzi e alle ragazze cosa avrebbero provato al suo posto significa dire: ne possiamo parlare. E quindi che a tutto c’è una soluzione. La scelta di saltare nel vuoto, un gesto violentissimo e irreversibile spesso deciso dai ragazzi in 15 secondi, viene invece anche dall’incapacità di dare parole a un groviglio di emozioni negative, che magari si presentano tutte insieme: paura per le forze dell’ordine in casa, rabbia perché ti senti i genitori sul collo, tristezza perché stai deludendo te stesso e chi ti vuole bene". Il messaggio ai figli - Non ci possono però essere ambiguità: "Gli adulti devono far passare l’idea che in un percorso di crescita non c’è spazio per le sostanze psicotrope, che usarle come un tampone per gli sbalzi emotivi che gli adolescenti provano è una falsa soluzione: significa non voler sentire la fatica o il disagio interiori invece di costruire una risposta nelle relazioni e nelle realtà che risolva davvero il problema" chiarisce Pellai. È un compito difficile, ma imprescindibile: "La trasgressione è spesso un tiro alla fune, un figlio si aspetta che il genitore dall’altra parte lo regga, che ci metta la forza e non rinunci al suo ruolo". La paura dei genitori - A rendere tutto più complicato c’è spesso la paura degli adulti: che farsi le canne equivalga per i figli a una condanna, l’entrata in un tunnel da cui non c’è uscita. "Invece distinguere è fondamentale perché non sempre il consumo di cannabis è la spia di una grave situazione di disagio: le ricerche dicono che il 15% dei ragazzi tra i 15 e 19 anni lo fa una o due volte al mese a fini socio-ricreativi, per stare nel gruppo - dice Leopoldo Grosso, psicoterapeuta e presidente onorario del Gruppo Abele. Ai genitori preoccupati chiedo: vostro figlio cos’altro fa? Continua ad andar bene a scuola, a praticare sport e avere compagnie con cui non fuma, a coltivare i suoi interessi? Oppure fuma tutti i giorni, ha un profitto scolastico fallimentare, ha perso interesse nelle altre attività, si è chiuso nella cerchia delle persone con le quali fuma e ha abbandonato i vecchi amici?". Si tratta di capire insomma se gli adolescenti fumano per adeguarsi ai pari oppure se è una loro modalità per esprimersi. La giusta reazione - "Nel primo caso - afferma Grosso - è un comportamento a cui prestare attenzione, ma probabilmente solo una fase. È necessario comunque che i genitori pongano limiti, chiarendo che non lo condividono, vietando di farlo in casa o negando i soldi per comprare le sostanze, ma senza demonizzare. Nel secondo caso c’è invece una grave situazione di disagio, la palude di un fallimento evolutivo". Allora bisogna chiedere aiuto agli specialisti: dagli sportelli psicologici delle scuole ai consultori familiari ai servizi anti-dipendenze delle Asl. "Ma è fondamentale - avverte Grosso - che l’intervento sia incentrato sulle difficoltà irrisolte: i rapporti interpersonali, quelli familiari, la scarsa autostima". In generale, anche di fronte al consumo sporadico è bene cercare interlocutori per capire come stanno i ragazzi: "Rivolgersi a tutti gli adulti che hanno a che fare con loro, professori, allenatori, educatori - dice Paolo Rigliano, responsabile del servizio psichiatrico degli ospedali San Paolo e San Carlo di Milano -. Poi nel quotidiano ai genitori e a noi tutti spetta il compito più difficile: contrastare l’idea oggi diffusissima che l’alterazione degli stati mentali sia una cosa positiva. Vale anche per l’alcol: ormai non si riesce a stare bene senza stravolgersi". È la risorsa e la difesa più grande che possiamo dare agli adolescenti: insegnare loro a entrare (e restare) in contatto con se stessi. Droghe. Due figlie adolescenti, le canne, l’alcol. Ci hanno salvato le parole. E la fortuna di Rossella Boriosi Corriere della Sera, 17 febbraio 2017 Pietà e silenzio sono state le uniche risposte che sono stata in grado di trovare di fronte alla tragedia del sedicenne suicida. Ho dribblato le discussioni sui social ed evitato conversazioni in cui persone estranee ai fatti si arrogavano il diritto di assegnare torti e ragioni, sono persino riuscita a imporre la sospensione del giudizio a me stessa. "Se mai dovessi trovarmi a piangere sulla bara di mio figlio, ti prego di imputare tutto quello che potrei dire dopo alla follia, ché di quello si tratterebbe" ha detto un’amica permettendomi di evitare una dolorosa immedesimazione, ma poi mi ha rivolto una domanda diretta e ineludibile: ma tu, come te la cavi? Sono mamma di due ragazze adolescenti, non posso fingere che il tema non mi riguardi. E infatti, quando la vicenda è stata raccontata dai giornali, la mia prima reazione è stata leggere tutto in modo da trovare una via di fuga, qualcosa che mi facesse credere che una cosa del genere a me non sarebbe mai potuta accadere. Non l’ho trovata. La scienza ci ha spiegato che ci sono basi neurologiche che portano gli adolescenti a funzionare in un certo modo. Possiamo essere censori e autoritari, ma la loro corteccia prefrontale non è ancora completamente sviluppata e questo li porta a compiere azioni che nel migliore dei casi sono inadeguate, nel peggiore, pericolose. Io e mio marito abbiamo avuto adolescenze molto diverse che oggi influiscono sul nostro modo di educare le ragazze. Mentre io - tenuta a briglie strette - sono stata una ragazzina ubbidiente, defilata e terrorizzata dal mondo, lui ha commesso tutte le sconsideratezze dell’età. Le ribellioni che avevo tenuto sopite sono però esplose anni dopo e fuori tempo massimo, con ripercussioni ben più grandi di quanta ne avrebbero avuta nell’età deputata. Diversamente, quel delinquente di mio marito aveva imparato a suo tempo a essere consapevole dei propri limiti e delle conseguenze delle sue azioni. Questo ha portato entrambi a concedere alle nostre figlie una fiducia talvolta immeritata e una libertà di movimento che è stata spesso oggetto di critica da parte di amici e parenti; di contro abbiamo chiesto alle ragazze di assumersi delle responsabilità e una presenza a se stesse forse premature. Non siamo affatto sicuri che questa fosse la strada giusta da percorrere, ma è stata la nostra strada, quella che, comunque, non ci ha risparmiati da scontri feroci e momenti di totale incomunicabilità. Adesso che le nebbie dell’adolescenza iniziano a diradare, riusciamo finalmente a intravedere in loro le persone che diventeranno e questo ci conforta. Ogni giorno ci teniamo faticosamente in equilibrio tra concessioni e divieti, un compromesso costante ed estenuante che conoscono bene i genitori di adolescenti che tentano di spostare l’asticella delle richieste sempre un po’ più in là, ringraziando il cielo di non doverci confrontare con problemi più grandi. Sappiamo che la figlia più problematica, ormai maggiorenne, ha fumato qualche canna; sappiamo che ci sono state feste in cui ha bevuto troppo, sappiamo che la sera si fa riportare a casa da amici neopatentati e sappiamo che comunque non potremmo mai dirla in salvo, ché talvolta quello che tira fuori dal pericolo non è l’educazione impartita o la maturità del ragazzo, ma una banale botta di fortuna. Sappiamo che quello che viene proibito viene fatto di nascosto con più gusto e che l’unica strada percorribile per noi è quella di continuare a tenere aperti i canali di comunicazione. Perché, come scrive Lorenzo Gasparini su Facebook, "una cosa, da quando sono genitore, mi fa molta più paura di prima: le parole di alcuni genitori. Adesso quelle parole mi fanno sentire nel corpo, e non più con l’immaginazione, l’abisso che li separa dai loro figli e figlie, abisso nel quale purtroppo qualcuno finisce per cadere". Somalia. Il rapporto Onu: più di 6mila minori reclutati dal gruppo jihadista Al-Shabaab di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 17 febbraio 2017 Dal 1991, anno nel quale cadde il dittatore Siad Barre, la Somalia è sprofondata in una guerra civile violenta e difficile da decifrare, tanto che l’Onu tra il 1994 e il 1995 ha ritirato le sue truppe nell’evidente incapacità di garantire sicurezza alla popolazione e fermare le parti coinvolte nel conflitto. Successivamente intervenne sul campo anche l’esercito etiope e di nuovo la comunità internazionale ma nel caos generato divennero forti anche signori della guerra e milizie islamiche come quella di Al-Shabaab. Una situazione che, nonostante nel 2012 si sia formato un governo di tipo federale che avrebbe dovuto iniziare un processo di riconciliazione, continua a rimanere pericolosissima e caotica. A farne le spese in maniera rilevante, come in quasi tutti i conflitti, sono i civili e in particolar modo i bambini. Quest’ultimi infatti stanno diventando sempre di più dei docili e maneggevoli strumenti di morte. L’allarme è stato reso pubblico dall’Onu in occasione della giornata contro l’uso dei bambini soldati il 12 febbraio scorso. Sebbene il 6 marzo del 2014 le Nazioni Unite abbiano lanciato la campagna "Children, not soldiers" per porre fine a questa pratica entro il 2016, l’obiettivo non è stato di certo raggiunto, anzi con l’aumentare dei conflitti la situazione è peggiorata. Human Rights Watch e Unicef hanno documentato come in Sud Sudan, Congo, Repubblica Centroafricana o in Iraq le cifre riguardanti i bambini soldati sono allarmanti, stesso discorso vale per la Nigeria dove agisce Boko Haram. Il Direttore generale dell’Unicef Paolo Rozera e il rappresentante del Segretario Generale Onu hanno messo in evidenza come in Somalia "tutte le parti in conflitto sono coinvolte, e in alcuni casi vengono reclutati anche bambini di nove anni. Recenti rapporti indicano che le scuole sono utilizzate come centri di reclutamento e che i bambini soldati vengono spesso picchiati o giustiziati dopo la cattura. L’utilizzo di bambini da parte dei gruppi e delle forze armate è un crimine di guerra. Dobbiamo fermarlo immediatamente. Tutte le parti coinvolte devono rilasciare i bambini. L’impunità deve cessare e gli autori devono essere assicurati alla giustizia". La relazione dell’Onu individua le maggiori responsabilità nel gruppo islamico di Al-Shabaab che fa combattere anche bambini di nove anni, ai piccoli viene insegnato a sparare e maneggiare esplosivi, inoltre i minorenni possono con maggiore facilità trasportare materiali ed occuparsi dei servizi di pulizia. Non ultimo è il loro uso come spie. I dati raccolti sono impietosi: è accertato l’arruolamento forzato di 6.163 bambini (5.993 ragazzi e 230 ragazze) nel periodo che va dal 1 aprile 2010 al 31 luglio 2016, con oltre il 30% dei casi nel 2012. Se Al-Shabaab fa la parte del leone in questo macabro gioco con il 70% dei casi, è stato rilevato che anche l’esercito fedele al governo di Mogadiscio non è esente da questa pratica. Il rapporto Onu infatti ha raccolto le prove di 920 arruolamenti di bambini. Il meccanismo che fa cadere nella trappola fa leva sul bisogno, ai bambini infatti viene promesso che avranno un lavoro pagato e che potranno studiare. Una volta indossata un’uniforme però la strada in molti casi sembra essere segnata, il coinvolgimento in azioni di guerra determina drammi psicologici e fisici, gli stessi minori poi diventano, una volta adulti, reclutatori. Esistono poi anche responsabilità europee, in un focus dedicato alla Somalia l’Archivio Disarmo ha ricordato come nel novembre 2015 il Senato italiano ha approvato il Disegno di "Ratifica ed esecuzione dell’accordo tra il Governo della Repubblica italiana ed il Governo federale della Repubblica di Somalia in materia di cooperazione nel settore della difesa", praticamente con questo provvedimento si incentiva il commercio di armi con la Somalia, un accordo che si accompagna al ruolo di Mission Commander assegnato all’Italia nell’ambito della missione di addestramento delle forze di sicurezza somale Eutm Somalia. Tale cooperazione non contribuisce a spegnere il conflitto e si sostituisce a missioni umanitarie che potrebbero essere volte a limitare l’uso di bambini soldato. Stati Uniti. Detenuti imprenditori: una "start up" per recuperare vite perdute di Massimo Gaggi Sette del Corriere, 17 febbraio 2017 Chi sta per uscire dal carcere viene addestrato con corsi "online" e avviato verso carriere nel mondo delle tecnologie digitali. "I capi delle gang e gli spacciatori hanno molto in comune con gli amministratori delegati di imprese di successo: sono imprenditori nati". Affermazione scioccante, magari discutibile, ma è da qui che è partita Catherine Hoke per costruire una "start up" molto particolare e che sta dando risultati eccellenti: "Defy Ventures", una società che si occupa del recupero dei detenuti che escono dal carcere e lo fa in modo inedito. Li avvia verso carriere imprenditoriali nel mondo delle tecnologie digitali e lo fa iniziando l’addestramento già nei penitenziari con corsi "online" e in loco tenuti da manager della Silicon Valley di società come Google e Sap: volontari che vanno a fare lezione in queste prigioni. Un tentativo che Catherine aveva già fatto oltre dieci anni fa e che era finito in modo drammatico. Manager di una società di "private equity", nel 2004 la Hoke si appassionò alla causa del recupero dei detenuti visitando un penitenziario nel Texas. In America la popolazione carceraria è enorme (poco meno dell’1 per cento della popolazione, compresi i condannati in libertà vigilata) e il tasso di ricadute elevatissimo: un detenuto liberato su due torna dietro le sbarre entro un anno. Autorizzata all’esperimento, Catherine si licenziò e, usando i suoi soldi, mise in piedi, insieme a suo marito, corsi di recupero per detenuti del Texas. Buoni risultati: la Hoke fu elogiata e premiata dal governatore dello Stato, Rick Perry, e anche dal presidente di allora, George Bush. Poi lo scandalo: venne fuori che la manager aveva avuto rapporti sessuali con più di un detenuto. Nel 2009 Catherine fu costretta a chiudere la sua società. Abbandonata anche dal marito, tentò di suicidarsi. Ma l’America, terra per certi versi feroce, è anche il Paese che offre a chi fallisce una seconda chance. Anche in casi estremi come questo. La Hoke stavolta ha messo in piedi una "start up no profit" con un programma gestito da docenti volontari: 20 ore di formazione professionale ogni settimana - lezioni nelle quali si insegna di tutto: come costruire un’azienda, come mettere in piedi un sistema contabile e anche come fare il nodo della cravatta - offerte ai detenuti che non hanno commesso reati gravissimi (ad esempio i condannati per omicidio) di 11 penitenziari americani sparsi in vari Stati: California, New York, Nebraska e New Jersey. Sta funzionando: tra i detenuti che hanno seguito i corsi "Startup 101" il tasso di recidive (ritorno in carcere dopo un anno) è crollato al 3 per cento e 350 ex detenuti in libertà vigilata hanno trovato un lavoro. Alcuni, dopo gare come quelle che si fanno per selezionare le migliori idee per una "start up", ottengono un contributo per aprire una loro attività imprenditoriale. Come Coss Marte, uno spacciatore divenuto il "testimonial" di questa iniziativa: obeso, chiuso in una cella di tre metri per due, è riuscito a perdere 35 chili di peso. Scontata la pena, coi soldi di "Defy Ventures" ha aperto a Manhattan "ConBody", una palestra pubblicizzata come "prison style fitness center". Libia. Dialogo fallito, Tripoli chiama la Nato di Chiara Cruciati Il Manifesto, 17 febbraio 2017 Ennesima rottura tra il generale Haftar e il premier di unità al-Sarraj. Con la Russia che guarda a Bengasi, un intervento atlantico aprirebbe un altro fronte. Il tavolo è saltato di nuovo: in 4 giorni il premier di unità al-Sarraj e il generale ribelle Haftar si sono incontrati, hanno negato di aver raggiunto un accordo, si sono rivisti, lo hanno siglato e alla fine lo hanno stracciato. Tornato a Tripoli furioso, al-Sarraj ha chiamato il soggetto responsabile dell’attuale guerra civile, la Nato. Il dialogo intralibico è un fallimento totale. Le due parti (lasciando fuori la galassia di milizie, tribù e islamisti) non cedono a chi vuole pacificare la Libia a modo suo, una stabilizzazione a favore dei piani esterni, che sia un freno ai migranti per Roma o il petrolio della Cirenaica per Parigi, che sia la distruzione dei movimenti islamisti per Il Cairo o un piede nel Mediterraneo per Mosca. L’attività diplomatica del Cairo non ha sortito effetti su un Haftar convinto di godere di maggiore potere negoziale dell’avversario. I dubbi restano: secondo fonti egiziane Haftar pretende di modificare l’accordo Onu del dicembre 2015; fonti libiche parlano solo di un ritardo, che sarà colmato tra due settimane in Algeria con un nuovo vertice (a cui, scrive Agenzia Nova, dovrebbero partecipare anche tribù e milizie). In ogni caso è rottura, l’ennesima, seguita dall’appello del governo di unità (Gna) all’alleanza atlantica. Tornate e mettete in sicurezza il paese. L’ultima volta che la Nato si è palesata ha fatto cadere Gheddafi, armato milizie che non hanno più abbandonato le armi, scoperchiato il vaso di Pandora. La chiamata al segretario Stoltenberg è arrivata il giorno dopo l’annuncio dell’apertura di un "Hub per il sud" a Napoli, a due passi dalla costa libica (con la benedizione del nuovo Pentagono di Mattis). Al-Sarraj ha chiesto alla Nato di ricostruire le istituzioni preposte a difesa e sicurezza, ovviamente quelle tripoline. Forze che, con l’eventuale intervento atlantico, potrebbero definitivamente scontrarsi con quelle di Haftar basate in Cirenaica (e appoggiate dalla Russia, aprendo un nuovo fronte di confronto Mosca-Nato), estromettendo il già debole ruolo Onu. L’Italia, al contrario, potrebbe approfittarne: se la Nato interverrà lo farà con le forze di stanza nel nostro paese, già impegnato nella formazione della guardia costiera libica per respingere i migranti africani. La Nato ne aveva discusso a luglio: "Gli alleati avevano concordato di fornire supporto se richiesto dal Gna. La richiesta è stata ricevuta, il Consiglio Atlantico discuterà come portarla avanti il più presto possibile", commenta Stoltenberg. Russia. Ex governatore Kirov ricoverato in ospedale penitenziario Askanews, 17 febbraio 2017 Politico non distante dalle posizioni del blogger Navalny. L’ex governatore della regione di Kirov Nikita Belykh, accusato di aver preso tangenti, è stato trasferito dal centro di detenzione "Lefortovo" all’ospedale del penitenziario a Mosca "Matrosskaja Tishina" a causa di problemi di salute. Lo ha reso noto RIA Novosti citando il suo avvocato Andrei Grokhotov. Egli ha ricordato che la decisione sul trasferimento è stata presa alla fine di gennaio. "Oggi ho visitato il carcere e mi hanno confermato che è in ospedale", ha detto il difensore. "Nel mese di gennaio, la sua salute è peggiorata rapidamente" ha detto l’avvocato. Politico non distante dalle posizioni del blogger Aleksey Navalny, Belikh è stato perseguito per aver accettato tangenti per un importo di 400 mila euro. Secondo gli investigatori, è stato colto in flagrante il 24 giugno 2016 in un ristorante di Mosca.