La tragedia del proibizionismo di Luigi Manconi e Antonella Soldo L’Unità, 15 febbraio 2017 Sei milioni di consumatori di cannabis e oltre 13mila procedimenti penali aperti ogni anno. I dati del fallimento del proibizionismo sono molti e diversi: la loro evidenza non dovrebbe richiedere ulteriori approfondimenti e più serrate argomentazioni, tanto quei numeri risultano inequivocabili. Eppure la sensazione è che da soli non bastino a spiegare l’insensata tragedia del proibizionismo. C’è qualcosa che sfugge alla contabilità dei danni. Qualcosa che non si misura in risorse inutilmente investite, in tempo dissipato per il controllo e la repressione di stili di vita così diffusi, in apparati vanamente predisposti e vanamente applicati. Qualcosa che, invece, ha a che fare con la dimensione del dolore, della solitudine, dello spavento. Quanto pesa la vergogna degli sguardi dei compagni fuori dalla scuola mentre la Guardia di finanza trova dell’hashish nelle tue tasche? Quanto vale la paura del tragitto nella volante che ti porta a casa a cercare il resto? In quale casella collocare la preoccupazione e la delusione dei tuoi genitori che ti fanno entrare accompagnato dai militari? E cosa dire domani, a scuola, al preside e ai professori? È toccato al ragazzino di Lavagna e all’insicurezza dei suoi 16 anni rendere irreparabilmente visibile tutto questo. Al suo salto nel vuoto e al suo fragile corpo. Criminalizzare (è una parola che usiamo con riluttanza) vuol dire proprio questo: prendere la vita di un ragazzo qualunque e immetterla in un circuito obbligato di pratiche e procedure che la rende irriconoscibile. E che lascia per sempre sul suo corpo i segni delle angosce e degli incubi, delle minacce e delle interdizioni. Segni incisi in profondità da una normativa irrazionale e iniqua e non più sostenibile. Non rischiava il carcere, quel sedicenne, per 10 grammi di hashish. Per consumo personale il nostro ordinamento prevede solo una sanzione amministrativa: ritiro della patente, del porto d’armi, del passaporto. Se sei un minore e non hai precedenti te la puoi cavare con una segnalazione al prefetto e un ammonimento verbale. Resta, in ogni caso, la stigmatizzazione: sia come diaframma di incomprensione e sfiducia all’interno delle relazioni familiari; sia come marchio pubblico - quando c’è - di un comportamento illegale e di uno stile di vita sregolato. È capitato a lui, ma poteva capitare a quasi un terzo degli studenti italiani: sono il 27%, infatti, coloro che hanno sperimentato il consumo di almeno una sostanza illecita nel corso dell’ultimo anno. Tra tutte le sostanze consumate, la cannabis è quella maggiormente utilizzata, seguita da stimolanti, cocaina, allucinogeni ed eroina. Ma il segnale di maggiore allarme riguarda i giovani che hanno fatto ricorso a sostanze psicoattive "sconosciute", ignorandone la natura e gli effetti e, quindi, aumentando esponenzialmente i rischi derivanti dal loro consumo. Si stima, infatti, che circa il 2% degli studenti abbia assunto sostanze psicoattive senza sapere di cosa si trattasse. In questo quadro, sembra che la gran parte delle attività investigative e quelle destinate al controllo e alla repressione si concentra sul consumo giovanile dei derivati della cannabis. Eppure le retate nelle scuole, con tanto di sirene spiegate e cani antidroga tra i banchi, non paiono scalfire minimamente il fenomeno. E lasciano i ragazzi in balia dei pericoli delle piazze di spaccio. Piazze che lo Stato aiuta a ripulire dai cosiddetti "pesci piccoli", tossicodipendenti, spacciatori occasionali e semplici consumatori, senza minimamente intaccare il grande mercato illegale. Se non sono questi ragionevolissimi argomenti a indurre il Parlamento a superare una legislazione proibizionista che si è rivelata fallimentare, sarà forse quel corpo sedicenne lanciato nel vuoto per la vergogna di un crimine che non è un crimine e che mai è stato commesso, a far cambiare le cose? E la mentalità di una classe politica ormai desolatamente incapace di ascoltare "le voci di dentro"? Quelle di un ragazzino che mai diventerà uomo e dei suoi compagni di scuola e quelle dei loro genitori. I dieci grammi del ragazzo di Lavagna e i miliardi della mafia di Roberto Saviano La Repubblica, 15 febbraio 2017 Il suicidio è un gesto privato, ma le responsabilità sono pubbliche. Ha sedici anni e all’uscita da scuola viene perquisito dalla Guardia di Finanza. Ha addosso dieci grammi di hashish, i classici cinquanta euro di fumo che comprano i ragazzi. Avrebbe ammesso di averne ancora un po’ a casa. Quindi la Guardia di Finanza perquisisce la sua cameretta ed effettivamente trova, dove lui stesso aveva indicato, altro fumo. La cronaca ci dice che il ragazzo, durante la perquisizione o mentre uno dei finanzieri stava parlando con sua madre, si alza dal divano dove era seduto, apre la finestra e si butta giù, dal terzo piano. Viene trasportato in elicottero in ospedale, ma non ce la fa. Muore. I fatti sono questi. Forse è utile localizzare l’evento per un solo dato: Lavagna è un paese di poche migliaia di abitanti, in provincia di Genova. A Lavagna ci si conosce un po’ tutti e magari il peso di ciò che la comunità pensa di te ancora si sente forte, fortissimo. Posso ipotizzare che in una città più grande, dove basta cambiare quartiere per diventare perfetti sconosciuti, si cresca in fondo con la sensazione che non esistano marchi a fuoco che ti rovinano la vita per sempre e che la rovinano a chi ti sta vicino. Questi i fatti a cui non mi va di aggiungere dettagli emotivi. Inutile parlare di quelli che noi presumiamo essere i rapporti con la famiglia: questo non è un romanzo e quindi guardiamoci dall’interpretare i pensieri del ragazzo e dal riempire il vuoto di parole che crediamo siano state pronunciate ma che non hanno, ai fini della nostra valutazione, alcun peso. Concentriamoci, invece, sulle responsabilità politiche che si celano dietro un gesto privato. Concentriamoci sui motivi che portano i media a interessarsi di droga solo quando ci sono sequestri enormi, arresti eccellenti o morti tragiche come questa. Interroghiamoci su cosa uno Stato paternalista possa davvero fare per salvare vite. Concentriamoci sul fallimento della proibizione in materia di stupefacenti, in ogni luogo e in ogni tempo. E mentre scrivo ho davanti agli occhi il corpo martoriato di Stefano Cucchi e in mente i motivi che hanno condotto al suo arresto. Il 15 ottobre 2009, Cucchi viene fermato dai Carabinieri perché era stato visto cedere droga in cambio di soldi. Lo portano in caserma e addosso gli trovano 21 grammi di hashish, divisi in 12 confezioni, e tre dosi di cocaina. Durante la custodia cautelare accade quello su cui da anni si cerca di fare chiarezza. Perché ho citato Cucchi? Per un motivo preciso. Stefano muore dopo una settimana, mentre è affidato allo Stato Italiano. Stefano muore perché trattato da tossico, da spacciatore, non mancano al riguardo commenti agghiaccianti. Ricordo Giovanardi che disse che tra spacciatori e carabinieri sceglieva i carabinieri, di fatto fotografando un clima da guerra civile tanto assurdo quanto ingiustificato. E poi il "mi fai schifo" di Salvini rivolto a Ilaria Cucchi che aveva deciso, coraggiosamente, di mostrare le immagini terribili del corpo martoriato di suo fratello. Ma cosa ha raccontato, al nostro Paese, la morte di Stefano Cucchi? Che se sei uno spacciatore e un tossico meriti di morire. E che se ti trovano in possesso di droga, sei una merda e ti sei rovinato la vita. La tua e quella della tua famiglia. Non c’è appello. Non c’è possibilità di riscatto. È questo che hanno raccontato la morte di Federico Aldrovandi e poi quella di Stefano Cucchi. Ecco perché oggi, di nuovo e con urgenza, dobbiamo riflettere sulla necessità di avviare un dibattito parlamentare serio sulla legalizzazione della cannabis e lo facciamo ancora una volta sul corpo di un altro ragazzo la cui vicenda solo apparentemente non c’entra nulla con le altre che ho citato. In realtà con loro ha in comune il contesto, un contesto che condanna senza processo. Ma ci pensate mai? Solo alla presenza di un corpo morto, ci si distrae per un attimo dalla politica fatta di messaggi mandati via chat intercettati, interpretati, smentiti e per qualche ora si raccolgono idee e dichiarazioni per dirci quanto anche sulla legalizzazione delle droghe l’Italia sia in colpevole ritardo. Poi si seppellisce il corpo e tutto torna alla normalità. E intanto stupisce l’impiego di una tale solerzia militare su un sedicenne, è ovvio che si tratta di procedure, ma non ci si può esimere dal constatare la spropositata attenzione in questo caso su un dettaglio, rispetto al problema. E anche qui si tratta di valutazione politica e non militare. Di valutazioni generali che prescindono dalle responsabilità dei singoli. Che prescindono dal numero di finanzieri che hanno effettuato la perquisizione, ma hanno a che fare con una logica doppia che non può non saltare all’occhio. Da dove arriva il fumo che si spaccia a Lavagna? Da quelle piazze di spaccio a cielo aperto delle periferie romane o napoletane dove le forze dell’ordine hanno difficoltà a effettuare i seppur minimi controlli. E le scuole di mezza Italia, oggi come ieri, sono piazze di spaccio dove arriva qualunque tipo di droga. Allora mi domando: ha più senso tracciare il fumo prima che arrivi nelle mani dei sedicenni o ha più senso punire il sedicenne consumatore? E ancora: è più accettabile che un sedicenne possa acquistare fumo in un coffee shop o da spacciatori che hanno anche altro da vendere e soprattutto hanno a che fare con un sottobosco criminale dal quale sarebbe consigliabile tenersi alla larga? Il fumo che si spaccia davanti alle scuole, nelle discoteche, negli stadi e ovunque ci siano ragazzi è fornito dai cartelli criminali. Il problema sono loro o sono gli studenti che fumano? Si dirà: ma se non parti dal piccolo come arrivi al grande? Questo non è assolutamente vero, perché il rischio è che si parta dal piccolo per fare gran numero di fermi e di perquisizioni, perché arrivare alla gestione delle basi è molto complicato. Si parte dal piccolo spacciatore per rimanere al piccolo spacciatore o al consumatore. Per smantellare piazze di spaccio si rischia di lavorare a vuoto per mesi. E invece ci vogliono fatti concreti, bisogna fare numero, fermi, droga perquisita, grammi su grammi da comunicare nei dati che a fine anno verranno pubblicati affinché l’opinione pubblica si convinca che le forze dell’ordine fanno il loro lavoro. Quando Patrizia Moretti e Ilaria Cucchi hanno avuto il coraggio di mostrare le immagini dei volti tumefatti di Federico Aldrovandi e di Stefano Cucchi, io ho sentito verso di loro enorme gratitudine. Lo hanno fatto, certo, per un figlio, per un fratello, morti in circostanze odiose, ma lo hanno fatto anche perché sapevano che i diritti si ottengono utilizzando corpi, corpi che diventano campi di battaglia. Oggi però mi assale lo sconforto nel constatare che il corpo morto, quello senza vita (che sia il corpo del piccolo Aylan trovato esanime sulla costa turca, quello di Federico o quello di Stefano) ci indigna, ci fa incazzare, rabbrividire, commuovere, ma ci restituisce anche la tristissima consapevolezza che ormai più nulla è dato fare. Che oltre la morte non c’è più niente. Che ogni nostro gesto, ogni nostra azione è ormai vana. La nostra distrazione è quindi giustificata, naturale conseguenza, quasi ovvia, scontata, dovuta. Normale. Chi si occupa di mafie questo lo sa bene: non si spiegherebbe altrimenti l’indifferenza ai morti in terra di camorra, morti giovani, minorenni, morti innocenti, morti colpevoli. E penso a Marco Pannella e all’intuizione che ha avuto, intuizione geniale, da politico di razza, sulle battaglie politiche, che andavano necessariamente condotte utilizzando il corpo vivo, il suo corpo vivo. Gli scioperi della fame per i detenuti e la distribuzione di marijuana e cannabis. Oggi prendiamo la sua eredità perché è sui corpi dei vivi che vanno combattute e vinte le battaglie. Dei corpi morti ci dimentichiamo in poco tempo. È il suo metodo che dobbiamo utilizzare, un metodo analitico che dal particolare va subito all’universale e non indugia sui turbamenti intimi dell’animo umano, ma punta dritto alle responsabilità collettive e su quello che c’è da fare. Qui, dunque, non è minimamente in discussione l’incapacità che un sedicenne ha, per inesperienza, di relativizzare ciò che gli accade, ma la necessità di porre seriamente le basi perché gli innocenti, ma anche i colpevoli, non vengano condannati a morte dalla pubblica morale. E se il decesso di Stefano Cucchi è stato procurato, il ragazzo di Lavagna ha anticipato il giudizio sociale e, in una manciata di minuti, si è auto-processato, si è trovato colpevole, togliendo a chiunque altro la possibilità di giudicarlo. Non giriamoci troppo attorno, lui è l’ennesima vittima di un sistema criminogeno, di un sistema che non funziona per calcolo, inerzia, incompetenza, comodità. E rendiamoci conto che uno Stato paternalista, che pretende di preservare i suoi figli vietando, è uno Stato destinato a fare un numero incalcolabile di vittime e che regala alle organizzazioni criminali un mercato stimato tra 4 e 9 miliardi di euro all’anno. Questo è il valore della cannabis consumata. Smettiamo, quindi, di fare regali alle mafie e legalizziamo, ora. Legalizziamo. Anzi, in realtà bisognava averlo già fatto, ieri. Suicida per l’hashish, appello del papà "parlate con i genitori" di Alessandro Fulloni Corriere della Sera, 15 febbraio 2017 Giò, 16 anni, era una promessa del calcio. Il dolore dei compagni della squadra e del padre: "Forse non sono stato un buon genitore, non l’ho capito". Per tutti era Giò, sedici anni, leva calcistica del 2001. Difensore centrale dell’Entella calcio, campionato regionale della Liguria. "Era semplicemente il più forte della squadra, un trascinatore" lo ricorda, occhi arrossati per il pianto, il suo allenatore Fabio Muzio. Lunedì verso mezzogiorno Giò si è tolto la vita buttandosi, davanti alla madre, dal terzo piano del suo palazzo, dopo che a casa - a Lavagna, sulla Riviera di Levante - dove lo avevano accompagnato per una perquisizione, tre finanzieri avevano trovato dieci grammi di hashish segnalati dallo stesso ragazzino. Giò era stato fermato per un controllo un’ora prima, davanti a scuola. Aveva un piccolo quantitativo di "fumo" nella tasca dei pantaloni e lui, occhi bassi, agli uomini in divisa aveva raccontato di "averne un altro po’ in casa". Promessa del calcio - Ieri su Lavagna, dodicimila abitanti tra spiaggia e colline, batteva il sole. A inizio pomeriggio, un folto raggruppamento di ragazzi si è spostato dall’Aurelia per raggiungere la camera mortuaria dell’ospedale. Erano Samu, Isma, Eric e decine di altri. Tutti "calciatorini" della Virtus Entella, della Usd Lavagnese 1919, del Chiavari Calcio e del Rapallo Ruentes 1914. Tutti amici, brufoli sul volto, alti e bassi, muscolosi e mingherlini, arabi, indiani cingalesi e africani. Quando sono arrivati nell’obitorio tanti già piangevano. Sulla sinistra c’era una stanza con le salme di quattro anziani, Celestina, Diego, Cesare e Giancarlo. A destra il piccolo locale che ospitava Giò. Pareva dormisse. Lo avevano ricomposto facendogli indossare la maglia dell’Entella - la squadra maggiore fondata da emigranti di ritorno da Buenos Aires e ora in serie B, protagonista, in sette anni, di un balzo cominciato dall’Eccellenza - a strisce verticali azzurre e bianche tali e quali a quell’Argentina. Ad accogliere i ragazzetti c’era il papà di Giò, un omone grande e grosso sulla cinquantina che da queste parti è una leggenda. Giornalista, da trent’anni animatore per Entella tv di una trasmissione seguitissima sul calcio, e speaker ufficiale della squadra. Era seduto davanti al lettino dove era adagiato Giò, le mani strette sull’acciaio della ringhierina. Dopo un lungo silenzio si è girato, riuscendo a sorridere. Si è alzato, li ha raggiunti, abbracciandoli e chiamandoli ciascuno per nome. L’appello del padre - Che cosa rimanga nell’anima di un genitore che ha perso il figlio in quel modo - lui è accorso dal ristorante che dirige a Carasco, chiamato dalla mamma di Giò, da cui si è diviso - sta nella distanza siderale delle parole pronunciate ieri in tre momenti differenti. Alcune istintive, ieri sera poco prima del rosario in obitorio, indirizzate a un uomo che lo ha abbracciato dicendogli: "Sei stato un buon padre". Gli ha risposto così: "Non abbastanza, non so se sono riuscito a capire mio figlio". Poi stringendo Eric, il migliore amico di Giò che lunedì è arrivato trafelato in ospedale, di corsa: "Speriamo che questa tragedia serva", frase sussurrata più volte. Poi le altre, razionali e meditate, poco dopo, letteralmente scandite al suo amico trentennale Fabio, il mister di Giò che sostava fuori dalla camera mortuaria. "Ora voglio che tu dica ai ragazzi che ogni papà, ogni mamma, tu stesso, tutti gli allenatori e il nostro parroco, sono persone che non sono lontane da loro. Persone con cui possono, devono aprirsi e confidarsi in ogni momento". Poi si è fermato un istante, racconta ancora Fabio, e ha proseguito chiedendogli questo: "Digli che si accorgano di quanto amore c’è attorno a loro". Lo stesso che lui e la madre avevano dato a Giò, adottato all’età di un anno, in Colombia. Il procuratore - Qualche chilometro più in là il procuratore di Genova Francesco Cozzi, che conduce l’inchiesta, scuote la testa: "Fermo restando che in questo caso c’era la madre del giovane e tutto si è svolto in maniera regolare, mi chiedo se in certe situazioni la legge non debba prevedere, come sinora non è, che un ragazzo di sedici anni, che fa uso di stupefacenti in un’età fragile, non abbia diritto a un aiuto psicologico nel caso di una perquisizione". Sorvegliare e punire a 16 anni? di Domenico "Megu" Chionetti Il Manifesto, 15 febbraio 2017 "I controlli li facciamo in tutte le scuole e ora sarebbe sbagliato interromperli dopo questa tragedia. Ce l’ha chiesto anche la Mamma di andare avanti, perché dobbiamo salvarli questi ragazzi". Queste le parole di Emilio Fiora, Comandante del primo gruppo della Guardia di Finanza da cui dipende la compagnia di Chiavari che ha eseguito il blitz. In queste parole è racchiusa la situazione attuale in cui ci troviamo oggi, paradossale eppure viva nel ben pensare pubblico dominante. Varrebbe la pena, ancor prima di parlare di legalizzazione delle droghe leggere, di provare a mettersi nei panni degli adolescenti che provano a "salvare"! Il ragazzo di 16 anni muore suicida a Lavagna per una perquisizione fuori dalla scuola, che gli troverà addosso dieci grammi di cannabinoidi. La perquisizione ha poi un secondo atto in casa sua, ma risulterà negativa. A 16 anni è troppo: il ragazzo si sente perduto, corre vero la finestra e si butta giù. Queste modalità si ripetono quotidianamente in centinaia di istituti scolastici, con effetti più deflagranti nei piccoli centri urbani perché i media locali tendono a dare risalto anche a fatti di piccola entità. Non ci sono dunque logiche educative, nessuna mediazione: solo reprimere e colpire con la paura. Un ragazzo che a scuola viene beccato da un cane che gli annusa nello zaino e gli trova quattro grammi di hashish sarà condannato dalla scuola e isolato dai compagni di classe che avranno paura a relazionarsi con lui, messo alla gogna dalla perquisizione delle forze dell’ordine. Purtroppo il ragazzo di Lavagna non è il primo a rimanere schiacciato da logiche punitive e non sarà l’ultimo. La narrazione di quello che è successo termina con un paradosso che ci fa perdere completamente il senso di queste azioni. Lavagna da un punto di vista politico-istituzionale è stata ed è tuttora "una montagna di merda", per dirla con le parole di Peppino Impastato. Un Comune che si è "autosciolto" per mafia, dove il sindaco finì ai domiciliari e tutta l’amministrazione, con buona parte del consiglio comunale, si dimise, avviandosi al commissariamento; dove i fratelli ‘ndranghetisti Nucera governano ampiamente il mercato di droga e prostituzione (per approfondimenti, mafieinliguria.it). In una città così e in periodi di scarse risorse per le forze dell’ordine ci chiediamo se queste debbano ancora impiegare il loro tempo in questo modo. A sedici anni è l’età in cui inizi a scoprire cosa ti circonda, fai le prime esperienze, che ti permetteranno di vivere con consapevolezza le tue decisioni. Un mondo adulto accompagnerebbe questo periodo di vita cercando di dare informazioni, spiegando e facendo in modo che quelle esperienze abbiano il minor tasso di rischio possibile. Un mondo adulto non caricherebbe sulle spalle di ragazzi il peso, a volte insopportabile, del giudizio e della repressione. Siamo però ancora lontani da tutto questo, non siamo capaci di educare veramente e la scorciatoia del punire è quella che meglio si adatta ai nostri tempi. Solo pochi giorni fa le associazioni che si riconoscono nel cartello genovese "Sulle orme di Don Gallo" avevano fatto una conferenza stampa in parlamento chiedendo per l’ennesima volta una risposta da parte del governo su questi temi. La Conferenza nazionale sulle droghe, prevista per legge ogni tre anni, non viene convocata da nove anni. Una riforma della legge 309 del 1990, superata dalla realtà e dai tempi, nonostante le associazioni e gli operatori ne richiedano la revisione, giace in parlamento. "Educare e non punire" diceva Don Andrea Gallo. È lo sforzo che dobbiamo fare tutti, non sarà semplice in questi tempi ma ostinatamente ci proveremo. Ecco la guida per "uscire vivi" dal labirinto giustizia di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 15 febbraio 2017 Il vademecum ai cittadini del procuratore di Tivoli. Non tutti hanno un codice di procedura penale aggiornato in casa. E non tutti hanno conseguito una laurea magistrale in giurisprudenza. A tutti, però, può capitare di essere vittima di un reato e per questo motivo di doversi rivolgere all’Autorità giudiziaria per chiedere la punizione del colpevole. Per venire incontro alle persone che hanno subito un reato, soprattutto quando si tratta di soggetti vulnerabili come le vittime di violenza o di atti persecutori (stalking), il Procuratore di Tivoli (Rm) Francesco Menditto ha elaborato un utile "vademecum" di 10 pagine in cui sono indicate tutte le informazioni di base necessarie per chi varca per la prima volta il portone di un tribunale o di una caserma dei carabinieri. Il vademecum, elaborato con la collaborazione della professoressa Emanuela Piemontese, esperta di comunicazione pubblica e istituzionale, serve anche per rendere effettivo quanto previsto dall’art. 90 bis cpp, "Informazioni alle persona offesa". Cioè quelle informazione che, secondo il codice di rito, "sin dal primo contatto con l’autorità procedente, vengono fornite, in merito alle modalità di presentazione degli atti di denuncia o querela, al ruolo che assume nel corso delle indagini e del processo, al diritto ad avere conoscenza della data, del luogo del processo e della imputazione e, ove costituita parte civile, al diritto a ricevere notifica della sentenza, anche per estratto, alla facoltà di ricevere comunicazione dello stato del procedimento, alla facoltà di essere avvisata della richiesta di archiviazione, alla facoltà di avvalersi della consulenza legale e del patrocinio a spese dello Stato" e tanto altro ancora. Tanti diritti che la maggior parte delle persone che denuncia un reato, purtroppo, ignora. E che, invece, è necessario che siano conosciuti. Il "contatto" con il mondo della giustizia è di per se un fatto molto traumatico, soprattutto quando si è vittima di una reato. Spesso c’è una difficoltà iniziale nel rapportarsi con un sistema difficile che presenta ostacoli di vario genere. Primo fra tutti quello della lingua, tema molto sentito per gli stranieri che sono presenti nel nostro Paese. Con questo strumento, che il Procuratore Menditto chiama "avviso", in un linguaggio semplice e facilmente comprensibile anche da chi non ha, come detto, una solida preparazione giuridica si cerca di agevolare al massimo il percorso che dovrà affrontate chi denuncia un reato. Spiegando dapprima la differenza fra "denuncia" o "querela", per poi indicare quello che, normalmente, sarà l’iter processuale, anche con un accenno alle tempistiche. Nell’avviso sono indicati inoltre numeri telefonici e indirizzi mail degli Uffici giudiziari di Tivoli a cui rivolgersi quando si hanno dei dubbi o si renda necessario un chiarimento. Oltre a ciò, sono presenti i recapiti dei centri antiviolenza o di supporto psicologico in caso ci si trovi di fronte a vittime di reati sessuali o di stalking. Il vademecum verrà consegnato, a partire da questo mese, direttamente dall’ufficiale di polizia giudiziaria all’atto di presentazione della denuncia. Riforme a rilento per processo penale e civile Il Sole 24 Ore, 15 febbraio 2017 Processo penale e processo civile sono le due riforme all’esame del Senato "promesse" anche dal governo Gentiloni. La prima (con le norme anche su prescrizione, intercettazioni, carceri, indagine breve) dovrebbe tornare in Aula, dopo uno stop di cinque mesi, i primi di marzo; la seconda (con il contestato capitolo della soppressione del Tribunale dei minorenni) è in commissione Giustizia che ne sta esaminando gli emendamenti. Politicamente, la più delicata è la riforma del penale (41 articoli), che divide trasversalmente la maggioranza e che sarà sottoposta a quasi 200 voti segreti, pericolosi per la tenuta del governo, tant’è che Orlando spera ancora in un voto di fiducia. Gli avvocati: pronti a fare politica di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 15 febbraio 2017 "Dobbiamo metterci in gioco, non dobbiamo aver paura di dire "facciamo politica", non dobbiamo permettere a nessuno di giocare a dadi con il nostro Paese". Andrea Mascherin chiude così la sua lunga relazione "politica" per l’inaugurazione dell’anno giudiziario del Consiglio nazionale forense, di cui è il presidente. A questa sorta di chiamata alle armi, gli avvocati seduti nel "Salone dei 100 giorni" del cinquecentesco Palazzo della Cancelleria - sede dei Tribunali della Sacra Rota - rispondono con un applauso che sembra non voler finire mai, accompagnato da una standing ovation: rappresentazione plastica della totale adesione a quello che lo stesso Mascherin chiama "programma politico". Un programma che va ben oltre le questioni ancora in itinere da risolvere, come la garanzia di un "equo compenso" per gli avvocati, la tutela delle "avvocate in gravidanza", una "presenza più incisiva nei consigli giudiziari dei presidenti degli Ordini territoriali degli avvocati per valutare la professionalità dei magistrati". Mascherin vola alto e rivendica il ruolo, non solo sociale, ma anche politico dell’avvocato, "una sentinella dell’interesse pubblico, libera, autonoma, indipendente, chiamata a dire la verità". "Solo noi - scandisce - siamo autonomi e non dipendiamo da nessuno. Il nostro compito politico è chiarissimo: dire la verità". E allora: la prima "verità" è che in Italia "la povertà sta prevalendo in tutti i ceti sociali e metà dell’avvocatura è vicino alla soglia della povertà" perché non le viene riconosciuto il "diritto a un compenso dignitoso"; la verità è che i fallimenti aumentano, che non c’è alcuna ripresa economica, che il 40% dei giovani è disoccupato e che l’aspettativa di vita diminuisce. La verità è che il mercato è "il soggetto dominante dell’arte di governare lo Stato", ma il mercato di questi ultimi tempi si basa sulla "concorrenza al ribasso", crea una "guerra tra poveri" e "assenza di solidarietà", consegna "l’affamato all’affamatore" e "comprime la classe media" in ogni luogo. Fare politica, prosegue Mascherin, significa capire come si sta governando lo Stato. Il "rifiuto del dialogo è un modo di fare politica". Coltivare l’odio o lo scontro significa eliminare ogni forma di dialogo. I social sono un altro problema politico, aggiunge: "la protezione dei dati personali viene usata al contrario, cioè per condizionare economia e assetti politici". In questo campo "c’è un mercato molto più importante di quello del petrolio, una concentrazione di poteri in mano a pochissimi privati e noi dobbiamo batterci per avere più trasparenza". Pertanto, ai 250mila avvocati italiani Mascherin dice: "Dobbiamo essere il partito dell’altro sentire", perché solo così si può recuperare "fiducia". "Il nostro metodo deve essere il dialogo, "ma strutturato". Il confronto deve diventare "arte di governare lo Stato"; bisogna "contrastare il linguaggio d’odio, che consente di governare solo mediante slogan". Bisogna poi intervenire sulla tutela dei dati personali; il cittadino "è controllato in tutti i modi ma non è possibile che ogni suo atto sia sottoposto a un controllo formale. Il peso della burocrazia porta alla corruzione. Quindi, il rapporto con il cittadino va invertito, passando dal sospetto alla fiducia". "Nel nostro progetto politico - prosegue il presidente del Cnf - il mercato dovrà essere un metodo, non un fine, perché il fine è quello di una società solidale. La spesa non può sempre considerarsi uno spreco ma un investimento in democrazia". Quanto all’avvocatura e alla magistratura, la prima dev’essere autonoma "e la sua autonomia e indipendenza vanno rafforzate"; la seconda "deve capire che solo l’avvocatura è il suo vero contrappeso. L’alternativa è che lo diventi la politica e che la magistratura si consegni ad essa". Infine, bisogna evitare la spettacolarizzazione del processo ("Con il caso-Raggi siamo arrivati all’interrogatorio parallelo"), "dicendo ai colleghi di non andare in TV a elemosinare qualche spicciolo di notorietà". Insomma, conclude Mascherin: "Questa è politica pura". I braccialetti anti-stalker si pagano ma non si usano di Ilaria Bonuccelli Il Tirreno, 15 febbraio 2017 Si può mettere in questo modo: lo Stato ha 20 braccialetti elettronici contro gli stalker e gli uomini violenti e non li usa. Peggio: non spiega neppure perché non li usa. E gioca al rimpallo di responsabilità fra ministeri. La burocrazia del femminicidio. A nulla servono, interrogazioni parlamentari o commissioni di inchiesta, come quella sul femminicidio, istituita a gennaio al Senato. Il muro di gomma resiste. Non è servito neppure l’intervento della Corte dei Conti a garantire protezione alle donne. La magistratura contabile ha fatto le pulci al ministero dell’Interno sull’uso in passato inesistente dei braccialetti elettronici. Lo Stato paga quasi 10 milioni l’anno a Telecom per la gestione delle centrali di controllo di tutti i braccialetti, come ricordano in una relazione di qualche tempo fa Alessandra Bassi, gip aTorino e Christine von Borries per la Procura di Firenze. Questo intervento è riuscito a sbloccare l’uso dei braccialetti elettronici per chi è agli arresti domiciliari, ma non per gli stalker. A gennaio 2017 solo 1 dispositivo di controllo di un (ex) marito violento è stato richiesto da un magistrato del tribunale di Venezia a tutela della ex moglie, in vista della scarcerazione dell’uomo. E gli altri 19 braccialetti? Mistero. Il ministero dell’Interno non risponde. Assicura solo che "non sono spariti". Ma dal 19 gennaio - la prima volta che Il Tirreno ha chiesto spiegazione sul mancato utilizzo - non fornisce spiegazioni. "Il dipartimento non risponde", dicono all’ufficio stampa del Viminale. Il Dipartimento è quello della Polizia di Stato che sembra avere in carico i braccialetti. Anche se poi fanno intendere che il problema vero è che sono i magistrati che li bloccano. Perché sono i i magistrati che per legge (dal 2013) devono autorizzarne l’utilizzo. Il ministero della Giustizia, però, difende i giudici: non li utilizzerebbero per "problemi di tecnologia". Non sarebbero ancora perfezionati. È quanto riporta anche una relazione del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria a luglio 2015: "La maggior parte dei dispositivi di cui si dispone attualmente probabilmente non sono adeguati e non consentono di seguire gli spostamenti di chi li indossa". Per questo "non sono stati ancora concordati protocolli adeguati". A 10 milioni di euro l’anno, serve più di un probabilmente. Comunque, il produttore dei braccialetti elettronici smentisce, visto che lo stesso dispositivo è in uso in mezza Europa e America. Telecom - che vanta una convenzione in vigore fino al 2018 - si limita a ribadire che "tutte le richieste arrivate dall’autorità giudiziaria, su ordine della magistratura, sono state soddisfatte dalla nostra azienda". In parole povere, se un magistrato ordina di attivare un braccialetto elettronico anti-stalker è in grado di accontentarlo. Infatti, dal 25 gennaio è attivo il monitoraggio su un uomo soggetto a una misura restrittiva di questo tipo: deve rispettare il divieto di avvicinamento alla casa della ex moglie. E se non rispetta la distanza imposta dal magistrato, suona l’allarme della sua cavigliera: sia sul dispositivo della ex moglie, sia alle forze dell’ordine. Allora cosa impedisce l’utilizzo dei braccialetti anti-stalker? Non lo sa nessuno. Meglio: non lo dice nessuno. Eppure le cifre dicono che ce n’è bisogno. "Alle donne che hanno denunciato o querelato il proprio ex, o che hanno chiesto l’ammonimento - si legge in una relazione dell’Istat sulla violenza - è stato domandato quali siano stati esiti e conseguenze di queste azioni: per il 35,5% non è successo alcunché, mentre il 14,2% delle donne ha ritirato la denuncia". E così le donne continuano a essere aggredite. Uccise. Poi si commemorano con le scarpette rosse. Niente appello sui giudizi per i rifugiati di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 15 febbraio 2017 Sul decreto legge in materia di immigrazione è botta e risposta tra il presidente della Cassazione, Giovanni Canzio, e il ministro della Giustizia, Andrea Orlando. Ieri, intervenendo all’inaugurazione dell’anno giudiziario del Consiglio nazionale forense, Canzio, davanti al ministro Andrea Orlando, è stato lapidario: "Per chi ha una concezione moderna del processo la partita si gioca tutta intorno al tema del contraddittorio che significa riconoscimento della dignità dei partecipanti che deve essere leale aperto e rigoroso ma che pone su di un piano di parità tutte le parti. Se le cose stanno così, se queste sono le garanzie, chiedo a lei signor ministro della Giustizia una riflessione, probabilmente non va bene la bozza della procedura di riconoscimento di protezione civile dello status di rifugiato. Pretendere la semplificazione e razionalizzazione delle procedure non può significare soppressione delle garanzie. In alcuni casi non c’è neppure il contraddittorio come si può pensare allora al ruolo di terzietà del giudice, rispetto a chi?". Ad alimentare le perplessità di Canzio soprattutto la cancellazione di un grado di giudizio e, insieme, le modalità di partecipazione al procedimento. Perplessità cui, a stretto giro, ha replicato una nota dello stesso Orlando nella quale si sottolinea come "lo scopo del testo varato è proprio quello di rafforzare le garanzie nel giudizio di primo grado e assicurare l’effettività della tutela del migrante, ma nel contempo anche di apprestare gli strumenti necessari per evitare il rischio che la giurisdizione possa essere travolta dall’impatto di fenomeni sociali che hanno assunto dimensioni sconosciute nel passato". Un intervento in qualche modo obbligato, avverte il ministro, perché "la lunghezza delle procedure, ad oggi, crea un limbo che penalizza chi ha diritto all’asilo, costringendolo ad una estenuante situazione di incertezza, e favorisce, per altro verso, l’utilizzo improprio della procedura di richiesta d’asilo da parte di chi non ne ha diritto, nella speranza di allungare i tempi di permanenza nel Paese. Lo scopo del decreto è rispondere a queste criticità non mortificando in alcun modo il contraddittorio dinnanzi al giudice di primo grado, garantendo che si articoli per iscritto secondo cadenze temporali ben definite. Su questo terreno le preoccupazioni credo siano legittime e salutari, soprattutto se vengono da una voce autorevole come quella del Primo Presidente della Cassazione, pertanto credo che il confronto sia di grande utilità". Il testo, infatti, all’articolo 6, introduce un pacchetto di misure di modifica alle procedure di riconoscimento della protezione internazionale. Modifiche che il ministero della Giustizia ritiene allineate con le sollecitazioni arrivate dalla Corte europea dei diritti dell’uomo che, anche recentemente, ha condannato l’Italia, per la mancata possibilità dell’interessato di fare valere individualmente le proprie ragioni davanti all’autorità giudiziaria. Il testo prevede che l’impugnazione del provvedimento amministrativo che decide sullo status di rifugiato sarà possibile davanti al tribunale entro 30 giorni dalla notificazione; il procedimento è trattato in camera di consiglio e per la decisione il giudice utilizzerà anche informazioni sulla situazione socio-politico-economica del Paese di provenienza. Determinante l’utilizzo della videoregistrazione del procedimento amministrativo, tenendo così presente che l’udienza con comparizione dell’interessato è prevista solo quando il giudice: visionata la videoregistrazione, ritiene necessario disporre l’audizione dell’interessato; ritiene indispensabile richiedere chiarimenti alle parti; dispone consulenza tecnica oppure, anche d’ufficio, l’assunzione di mezzi di prova. Escluso in ogni caso l’appello, resta possibile il ricorso in Cassazione, nel limite di 30 giorni. Caso Cucchi. Chiesto il processo per 5 carabinieri Il Fatto Quotidiano, 15 febbraio 2017 A firmare la richiesta di giudizio il procuratore della Repubblica Giuseppe Pignatone e il pubblico ministero Giovanni Musarò. Pesanti le accuse per la maggior parte dei militari, mentre altri due devono rispondere di falso nella compilazione del verbale di arresto e calunnia. io preterintenzionale e abuso di autorità: sono queste le ipotesi di reato più gravi con cui la procura di Roma ha chiesto il rinvio a giudizio di cinque carabinieri coinvolti nel caso della morte di Stefano Cucchi. Si tratta di Alessio Di Bernardo, Raffaele D’Alessandro, Francesco Tedesco. Quest’ultimo risponde anche di falso nella compilazione del verbale di arresto e calunnia insieme al maresciallo Roberto Mandolini, all’epoca comandante della stazione Appia dei carabinieri, dove venne eseguito l’arresto del giovano geometra romano. Vincenzo Nicolardi, anche lui carabiniere, risponde di calunnia con gli altri due, nei confronti degli agenti di polizia penitenziaria che vennero accusati nel corso della prima inchiesta sul caso. L’inchiesta bis sulla morte di Cucchi è stata chiusa un mese fa. A firmare la richiesta di giudizio il procuratore della Repubblica Giuseppe Pignatone e il pubblico ministero Giovanni Musarò. Stefano Cucchi viene arrestato il 15 ottobre del 2009 in via Lemonia, a Roma, a ridosso del parco degli Acquedotti, perché sorpreso con 28 grammi di hashish e qualche grammo di cocaina. Quella notte, i carabinieri lo accompagnarono a casa per perquisire la sua stanza. Non trovando altra droga lo riportano in caserma con loro e lo rinchiudono in una cella di sicurezza della caserma Appio-Claudio. La mattina successiva, nell’udienza del processo per direttissima, Stefano ha difficoltà a camminare e parlare e mostra evidenti ematomi agli occhi e al volto che non erano presenti la sera prima. Il giudice, nonostante le condizioni di salute del giovane, convalida l’arresto e fissa una nuova udienza. Nell’attesa, Stefano Cucchi viene rinchiuso nel carcere di Regina Coeli. Le sue condizioni di salute peggiorano rapidamente e, il 17, viene trasportato all’ospedale Fatebenefratelli per essere visitato. Il referto è chiaro: lesioni ed ecchimosi alle gambe e al viso, frattura della mascella, emorragia alla vescica, lesioni al torace e due fratture alla colonna vertebrale. Viene chiesto il ricovero, ma Stefano rifiuta insistentemente e viene rimandato in carcere per poi essere ricoverato di nuovo, presso l’ospedale Sandro Pertini, dove muore il 22 ottobre. Solo a questo punto, dopo vani tentativi i suoi familiari riescono a ottenere l’autorizzazione per vederlo: il corpo pesa meno di 40 chili e presenta evidenti segni di percosse. Cominciano le indagini. Nel gennaio 2011 vengono rinviate a giudizio 12 persone: sei medici dell’ospedale Pertini, tre infermieri dello stesso ospedale, e tre guardie carcerarie. Nel giugno del 2013 la terza corte d’assise condanna cinque medici e assolve gli altri imputati. Nel 2014, nel processo d’appello, gli imputati vengono tutti assolti, e nel dicembre del 2015 la Cassazione decide per un nuovo processo d’appello ai cinque medici, che si conclude con una nuova assoluzione per il personale sanitario. Oggi la richiesta di rinvio a giudizio, nell’ambito dell’inchiesta bis, che apre la strada al quinto processo sulla morte del giovane. Caso Cucchi. "Picchiato a morte" di Angelo Mastrandrea Il Manifesto, 15 febbraio 2017 La Procura di Roma chiede il rinvio a giudizio di 5 carabinieri per il pestaggio. Tre militari accusati di omicidio preterintenzionale. Falsati gli atti. Era la notizia che la famiglia Cucchi attendeva da tempo, e per la quale si batteva: al termine dell’indagine bis sulla morte di Stefano, la Procura di Roma ha chiesto il rinvio a giudizio di cinque carabinieri. "Finalmente ci siamo". Ci sono voluti otto anni, ma "finalmente ci siamo", ha commentato la sorella Ilaria. Tre militari, Alessio Di Bernardo, Raffaele D’Alessandro e Francesco Tedesco, all’epoca in servizio al Comando Stazione di via Appia, sono accusati di omicidio preterintenzionale, aggravato dall’aver commesso il fatto con abuso dei poteri e con violazione dei doveri inerenti alle funzioni di ufficiali di polizia giudiziaria. In buona sostanza, i tre sono accusati di aver picchiato il geometra trentaduenne, la notte tra il 15 e il 16 ottobre del 2009 quando fu arrestato, "con schiaffi, calci e pugni", provocandogli una "rovinosa caduta con impatto al suolo della regione sacrale" e lesioni guaribili in almeno 180 giorni e in parte esiti permanenti, che, "unitamente alla condotta omissiva dei sanitari che avevano in cura Cucchi al Pertini", hanno portato alla sua morte. Era quello che denunciavano i familiari e che finora non si era riusciti ad accertare: Stefano sarebbe stato pestato nella caserma Casilina dai tre carabinieri che lo avevano arrestato, e questo avrebbe causato la sua morte, sei giorni dopo in un reparto di Medicina protetta dell’ospedale Sandro Pertini di Roma. Decisiva sarebbe stata l’ultima perizia d’ufficio, condotta dal direttore dell’Istituto di Medicina legale di Bari, Francesco Introna, depositata a inizio di ottobre dello scorso anno, che aveva dovuto riconoscere, per la prima volta in otto anni,che "le fratture traumatiche delle vertebre" di Stefano "ben possono aver determinato una condizione di vescica neurologica", al punto tale che "la stimolazione del nervo vagale ad esso connessa può aver accentuato la bradicardia di Cucchi fino all’esito finale". I carabinieri avrebbero pure tentato di falsare gli atti. Tedesco è accusato anche di falso e calunnia, insieme al maresciallo Roberto Mandolini, all’epoca comandante della stessa Stazione, mentre un altro carabiniere, Vincenzo Nicolardi, deve rispondere solo di calunnia. Il falso in atto pubblico è legato al verbale di arresto in cui si "attestava falsamente" che Cucchi era stato identificato attraverso le impronte digitali e il foto-segnalamento: circostanza che per gli inquirenti non corrisponde al vero ma ha rappresentato la ragione del pestaggio di Cucchi, ritenuto "non collaborativo all’operazione". Mandolini e Tedesco, inoltre, non avrebbero verbalizzato la resistenza opposta da Stefano Cucchi nella stazione dei carabinieri dove venne portato per il foto-segnalamento e avrebbero "attestato falsamente" che il giovane non aveva voluto nominare un difensore di fiducia. La calunnia, invece, si riferisce alla varie testimonianze rese al processo in Corte d’assise, dove erano imputati tre agenti della polizia penitenziaria poi assolti con sentenza definitiva: Tedesco, Mandolini e Nicolardi, "affermando il falso in merito a quanto accaduto nella notte tra il 15 e il 16 ottobre 2009" accusavano implicitamente i tre agenti, pur "sapendoli innocenti", delle botte inflitte al detenuto. Per questo motivo i tre poliziotti sono indicati come parti offese, insieme ai genitori di Stefano e la sorella Ilaria. Dopo un giudizio di primo grado, due di appello e uno di Cassazione, non è ancora arrivata una parola chiara sulla morte di Stefano Cucchi. Finora ci sono state solo assoluzioni: quelle definitive dei tre agenti della penitenziaria in servizio nelle celle di sicurezza del Tribunale di Roma, le due confermate in Appello per i sanitari del Pertini. L’inchiesta bis, condotta dal procuratore capo Giuseppe Pignatone e dal pm Giovanni Musarò, ha spostato l’attenzione sui carabinieri: i tre sono stati prima indagati per lesioni personali aggravate, poi è arrivato il cambio d’imputazione, che ha consentito anche di evitare la prescrizione. Ora manca l’ultimo passo prima di arrivare al processo: il rinvio a giudizio. Ilaria Cucchi è fiduciosa e, nel frattempo, si prepara a presentare, oggi a Roma, l’associazione intitolata a suo fratello. Ammissibilità del ricorso senza portata estensiva di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 15 febbraio 2017 In caso di ricorso contro una sentenza di condanna che riguarda più reati ascritti allo stesso imputato, l’autonomia dell’azione penale e dei rapporti processuali sui singoli capi di imputazione impedisce che l’ammissibilità dell’impugnazione per uno dei reati possa determinare l’instaurazione di un valido rapporto processuale anche per i reati per i quali l’impugnazione è inammissibile. A queste conclusioni approdano le Sezioni unite penali della Corte di cassazione con la sentenza n. 6903 depositata ieri. Per le Sezioni unite l’accento normativo, per dare sostanzia al principio di autonomia dei capi della sentenza impugnata, va individuato nell’articolo 581 comma 1, lettera a), del Codice di procedura penale. che prevede, a pena di inammissibilità, che nell’atto di impugnazione sono enunciati i punti della decisione oggetto di un nuovo giudizio. Autonomia dei rapporti processuali rispetto a singoli fatti-reato che, a dire il vero, prosegue la sentenza, è rintracciabile anche in altre disposizioni del Codice di procedura nel caso, per esempio, di indagini preliminari cumulative. Sin da questa prima fase, infatti, è prevista l’iscrizione da parte del Pm di ogni notizia di reato e, contestualmente oppure da quando possibile, il nome della persona stessa cui è attribuito il reato. Si fa inoltre riferimento a nuove iscrizioni che riguardano generalmente il caso in cui il pm acquisisce, nel corso delle indagini, elementi su specifici fatti che costituiscono reato nei confronti della stessa persona iscritta a registrato oppure nei confronti di altre, diversa da quella originariamente sottoposta a indagini. In questo caso, il termine per le indagini preliminari previsto dall’articolo 405 del Codice di procedura penale inizia a decorrere in modo autonomo per ogni successiva iscrizione nel registro. Inoltre, la disciplina della riunione o separazione di processi si estende al giudizio di Cassazione, mentre l’articolo 533 del Codice di procedura prevede che "se la condanna riguarda più reati, il giudice stabilisce la pena per ciascuno di essi e quindi determina la pena che deve essere applicata in osservanza delle norme sul concorso di reati e di pene o sulla continuazione". Infine, chiudono le Sezioni unite, il caso dell’annullamento parziale da parte della Cassazione della sentenza impugnata che viene ad assumere autorità di cosa giudicata nelle parti prive di un collegamento essenziale con la parte annullata e la prescrizione che la Corte, se necessario, dichiari nel dispositivo quali parti della sentenza restano irrevocabili. Il permesso di costruire non impedisce il sequestro dell’area riclassificata a rischio di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 15 febbraio 2017 È legittimo il sequestro preventivo per il reato di abusivismo edilizio di quattro fabbricati residenziali in costruzione in una zona riclassificata dal Piano di assetto idrogeologico a rischio R4 (molto elevato), anche se il comune ha rilasciato il permesso di costruire. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza 14 febbraio 2017 n. 6891. Il ricorrente, tra l’altro, aveva sostenuto che la consulenza di parte era stata erroneamente ritenuta inconferente "poiché basata su una cartografia risalente al 2010, antecedente alla riclassificazione dell’area dal livello di rischio R2 a R4", dal momento che "essa è l’unica tavola ufficiale emanata dall’Autorità di Bacino". La Suprema corte, però, ha dichiarato il ricorso inammissibile. Il tribunale di Catanzaro, infatti, ha correttamente ritenuto integrato il fumus del reato (articolo 44, lett. a), Dpr 380/2001), a seguito della riclassificazione del rischio, in R4, da parte dell’Autorità di Bacino, e, dunque, "dell’operatività delle misure di salvaguardia, vincolanti per il Comune e per i privati". In particolare, la Corte precisa che "a seguito della adozione dei piani urbanistici, ovvero dal momento in cui l’organo amministrativo competente delibera formalmente il piano e lo pubblicizza, onde consentire la presentazione delle osservazione da parte dei soggetti interessati, entrano in vigore le misure di salvaguardia, con lo scopo di impedire che antecedentemente alla approvazione del piano vengano eseguiti interventi che compromettano gli assetti territoriali previsti dal piano stesso". Per cui integrano la violazione del Testo unico dell’edilizia anche "gli interventi posti in essere dopo la adozione ed antecedentemente alla approvazione del piano ed eseguiti in contrasto con le misure di salvaguardia". Ma nel caso in esame la questione era ancora più piana. Infatti, sebbene la riclassificazione dell’area in R4 fosse stata notificata al Comune il 28 febbraio del 2011, il municipio aveva comunque "illegittimamente" emesso il permesso il 17 gennaio 2012, dunque "successivamente alla riclassificazione dell’area". Del resto, già con sentenza n. 36397/2011, la Cassazione aveva chiarito che "integra il reato, l’esecuzione di un intervento edilizio in mancanza del parere dell’Autorità di bacino sulla compatibilità idrogeologica dell’opera, pur nell’ipotesi di avvenuto rilascio del permesso di costruire". Né, prosegue la sentenza, si può obiettare che in tal modo si pregiudicano i terzi acquirenti in buona fede dal momento che "oggetto del sequestro preventivo può essere qualsiasi bene - a chiunque appartenente e, quindi, anche a persona estranea al reato - purché esso sia, anche indirettamente, collegato al reato e idoneo a costituire pericolo di aggravamento o di protrazione delle conseguenze del reato". Per cui, tornando al caso in esame, la Corte conclude che "l’ordinanza impugnata ha correttamente rilevato, in ordine al periculum in mora, che non assume rilievo la buona fede dei terzi acquirenti, non ricorrendo un’ipotesi di sequestro funzionale alla confisca, bensì di sequestro cd. impeditivo", finalizzato cioè ad evitare che la libera disponibilità del bene "possa aggravare o protrarre le conseguenze del reato". Dal momento che il pericolo "è insito nella stessa esistenza della struttura abusiva, realizzata in area soggetta a vincolo di inedificabilità assoluta". La patologia pericolosa del rapporto tra diritto e giustizia di Giuseppe Gargani Il Dubbio, 15 febbraio 2017 Una parte della magistratura è per un ruolo etico del giudice. Si tratta di un equivoco pericoloso che può essere superato soltanto da una riforma che individui il nuovo ruolo del pm e il nuovo ruolo del giudice in uno stato democratico moderno. Anche "Mani Pulite", che emblematicamente rappresenta l’iniziativa dei pubblici ministeri nel periodo di Tangentopoli ha una ricorrenza, una sua data da ricordare. Incredibile ma vero: se fosse stata una normale e doverosa iniziativa della magistratura chiamata ai suoi compiti dalla Costituzione non verrebbe celebrata come una data storica: come se prima di quella data non si perseguivano i ladri, i corrotti e si è dato vita ad una nuova procedura giudiziaria prima sconosciuta!? Si è dunque commemorato a Milano la settimana scorsa il ricordo del febbraio 1991, dal quale ha avuto inizio l’azione della magistratura non contro i corrotti ma contro il sistema politico ritenuto corrotto nel suo complesso. È antipatico citare se stessi ma si tratta di un giudizio dato in quegli anni che risulta non dico storico, ma obiettivo. "Alla fine del secolo scorso" scrivevo in un libro dal titolo provocatorio ‘ In nome dei pubblici ministeri’ "negli anni 90 la magistratura si era attribuita un ruolo di grande fustigatrice dei costumi, attribuendosi il compito di far giustizia più che di applicare la legge con la pretesa di garantire la legalità, un ruolo che non può non definirsi "etico". I magistrati hanno avuto una esposizioni oltre misura e sono stati condizionati inevitabilmente da una opinione pubblica che condannava in maniera sommaria e preconcetta ogni atteggiamento e ogni azioni comunque riferita alla politica e ai partiti". "Il biennio 1992- 1994 è stato cruciale per la storia italiana. Sono gli anni in cui il sistema dei partiti della cosiddetta prima Repubblica ha avuto il colpo di grazia dal movimento giustizialista, sollecitato ed istigato dagli esponenti dei partiti che per oltre quarant’anni erano stati esclusi da responsabilità di governo". Concludevo dicendo "gli effetti deleteri di mani pulite sui partiti furono agevolati dalla ignavia politica di dirigenti incapaci di opporsi alle anomali pressioni giudiziarie, contrapponendo la forza della politica ed il suo primato. I partiti avrebbero dovuto avere la forza di realizzare al loro interno un rinnovamento capace di far distinguere le responsabilità per evitare che il giudizio fosse negativo o sanzionatorio per tutti. La Dc, per fare un esempio concreto, così come gli altri partiti aveva una percentuale altissima di dirigenti, politici, amministratori onesti e protesi al bene comune, eppure la condanna risultava indiscriminata e generalizzata". "Con Tangentopoli si accredita la vastità di un fenomeno criminoso che derivava da un artifizio creato dalle procure: quello di porre sullo stesso piano il reato di finanziamento dei partiti (già depenalizzato) quello di corruzione e di concussione che hanno ben altre caratteristiche criminose. Il reato di finanziamento ai partiti, che il legislatore moralisticamente varò negli anni 80, consisteva nella omessa denunzia agli uffici del Parlamento di somme eventualmente ricevute come contributo elettorale". "Vi era la pretesa di far emergere un dilagante fenomeno di corruzione interpretando il "finanziamento" come reato sempre e comunque di corruzione, e di usare spregiudicatamente la carcerazione preventiva per ottenere confessioni che dovevano poi costituire mezzi di prova processuale". "La temerarietà del teorema dei Pm soprattutto milanesi è dimostrata dalle assoluzioni con cui si sono chiuse gran parte delle inchieste di Tangentopoli: il fenomeno della corruzione pur presente nel paese, non fu individuato per singoli casi e nella forma prescritta dal codice". "Tangentopoli, la stagione giudiziaria che ha cambiato volto al paese e tante ferite ha inferto alle istituzioni è stata dunque innescata dalla pretesa della magistratura di poter correggere la politica contestando il sistema!". Nel libro citato ho rilevato le degenerazioni di Tangentopoli dove i pubblici ministeri operavano "il nome del popolo italiano" e negli anni successivi ho avuto conferma delle mie analisi. Ribadisco tutto questo per mettere in luce il clima di quel periodo e per ricordare che chi criticava quelle anomalie veniva segnato da violente campagne di denigrazione, e dipinto come il persecutore della presunta opera di moralizzazione assunta da una magistratura militante. Io invece avevo a cuore soltanto l’esigenza di un’indagine trasparente che punisse i colpevoli, ma proteggesse i virtuosi, i politici onesti. Da tutto quanto sinteticamente esposto ne deriva che a distanza di vent’anni, non è possibile ripensare Tangentopoli come puro evento giudiziario separato dalla risonanza mediatica che l’ha accompagnata ed amplificata. Questa era l’analisi di molti anni fa che resta dunque confermata, ed è fuori luogo, quindi, e incomprensibile la dichiarazione di Piercamillo Davigo che qualcuno o qualcosa abbia fermato la magistratura in quel periodo perché come giustamente dice Francesco Damato "lungi dall’essere boicottati e fermati i magistrati furono aiutati dalla politica e dall’informazione". Nel 1992 proposi una iniziativa legislativa della riforma dell’istituto cautelare e del segreto istruttorio per limitare l’uso delle manette del corso delle indagini d’accordo con l’onorevole Giovanni Correnti che fu primo firmatario della proposta, ma sconfessato dal suo partito e costretto a lasciare l’incarico di relatore alla proposta di legge! Mi pare che sia tutto molto chiaro. L’onorevole Augusto Barbera rilevò che quelle norme da noi proposte erano sacrosante ma che quel Parlamento non poteva metterle in essere: infatti il presidente della Repubblica sciolse il Parlamento senza verificarne le condizioni e le maggioranze parlamentari cosi come prescritto dalla Costituzione e quindi operò contro la Costituzione, dopo che tutti i deputati, escluso pochissimi tra cui il sottoscritto e certamente l’onorevole Correnti, votarono per abrogare le guarentigie costituzionali dell’art. 68. Orbene se dopo tanti anni un magistrato scrupoloso e dotto come Davigo dice frasi come quelle ripetute alla televisione e in altre occasioni che ‘ l’errore giudiziario non esistè, che "il giudice non sbaglia", e altri similari vuol dire che siamo ancora sulla scia di Tangentopoli siamo al trionfo del giudice etico che non è protagonista e della verità processuale, ma della verità in assoluto perché egli è chiamato a far trionfare il bene sul male. Il giudice etico è pericoloso e fuori dalla impostazione laica e garantista (qui il termine è corretto) della Costituzione e ha ragione l’avvocato Michele Vaira quando dice che "siamo ad una deriva giustizialista che corrompe l’opinione pubblica e altera profondamente la funzione della magistratura in uno stato democratico". Per queste ragioni è d’obbligo una analisi approfondita per mettere in evidenza che una eccessiva autonomia della magistratura offusca l’indipendenza necessaria e fondamentale per l’equilibrio democratico. La crisi del processo e la crisi della società è la crisi dei rapporti istituzionali e sociali è la crisi della democrazia; e noi viviamo questa patologia. Il rapporto tra il giudice e la società nella quale esso opera è fondamentale per poter affrontare una riflessione sul complesso mondo della giustizia. La funzione del giudice diventa più complessa e delicata in questa società e in questo Stato, tanto più in un periodo di crisi come quello che il nostro paese sta attraversando. Sul piano del concreto esercizio delle funzioni di indagine il pubblico ministero è diventato "ricercatore" delle notizie di reato e, pertanto, titolare di un potere di inchiesta non sulla notizia criminis, ma svincolato da essa con una possibilità di indagare a tutto campo senza limiti di sorta: basterebbe questa costatazione per ritenere inevitabile la distinzione tra pubblico ministero e giudice. Il giudice infatti è andato acquisendo un potere che non appartiene alla tradizione dello Stato di diritto in Italia perché l’evoluzione del diritto e appunto il significato nuovo della giurisdizione, hanno di fatto superato il dettato costituzionale che classificava la magistratura come "ordine" neutro, "bocca della legge". Si è determinato un rapporto anomalo tra diritto e giustizia, due termini che realizzano lo Stato di diritto quando sono in armonia ma evidenziano una patologia pericolosa quando sono in disarmonia. La crisi della norma che deriva dalla complessità dei fenomeni sociali, ha affievolito la supremazia della legge a vantaggio di un ruolo più consistente del giudice, che dunque, si attribuisce una funzione pressoché illimitata di interprete della stessa norma, e quindi immagina di superare l’anacronismo o la limitatezza della legge per assumere un ruolo etico, quello di operare per una funzione catartica: far vincere il bene sul male! Davigo vorrebbe la magistratura ancorata a questa logica e si lamenta forse di non poterla esercitare fino in fondo. È un equivoco pericoloso che può essere superato soltanto da una riforma che individui il nuovo ruolo del Pm e il nuovo ruolo del giudice in uno Stato democratico moderno. Il legislatore per lunghi anni ha rinunciato a capire e a regolare questo nuovo potere (questo il torto storico di un partito democratico e garantista coma la Dc) che così come regolato porta ad un’anomalia della funzione giudiziaria e ad una inevitabile conflittualità con il potere politico e legislativo. Il tema è delicato e difficile, ma è il problema principale della democrazia moderna. Davigo e magistrati dovrebbero rendersene conto. Caro Zuckerberg, troppo odio sui social di Laura Boldrini* La Repubblica, 15 febbraio 2017 Caro direttore, chiedo ospitalità sul suo giornale per rivolgermi a Mark Zuckerberg, fondatore e amministratore delegato di Facebook. Signor Zuckerberg, come molti sono preoccupata per il dilagare dell’odio nel discorso pubblico. Fenomeno non generato certo dai social network, ma che in essi ha un veicolo di diffusione potenzialmente universale. Questo dev’essere quindi per tutti il tempo della responsabilità: tanto maggiore quanto più grande è il potere di cui si dispone. E il suo è notevole. Lei ha affermato che "su Facebook non c’è spazio per l’odio". Mi tocca dirle che, almeno in Italia, non è vero. Le faccio pochi esempi. Una ragazza, Arianna Drago, ha richiamato l’attenzione sull’inquietante fenomeno dei "gruppi chiusi". Ha avuto il coraggio di pubblicare alcuni commenti di utenti che avevano postato foto di donne ignare, facendone il bersaglio delle loro violente sconcezze. Facebook ha oscurato il profilo della ragazza, e soltanto dopo che io avevo deciso di condividerne la denuncia ha fatto sapere che era stato sospeso "per errore". C’è voluta invece qualche settimana perché i gruppi segnalati da Arianna fossero chiusi. E ancora ne esistono diversi di questo tipo che agiscono indisturbati, nonostante le numerose segnalazioni. Il problema è analogo per le pagine di gruppi politici estremisti e violenti. Una ricerca dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia ha catalogato 300 pagine che su Facebook esaltano il fascismo. L’apologia del fascismo da noi è un reato, ma i rappresentanti italiani della sua azienda rispondono che non è compreso nelle regole di Facebook e che "gli standard della comunità devono poter valere in ogni Paese". Del resto, parlano chiaro i dati di applicazione del codice di condotta contro "la diffusione dell’illecito incitamento all’odio in Europa", che anche la sua azienda ha sottoscritto a maggio 2016 con la commissione Ue. La prima verifica semestrale dice che risulta cancellato appena il 28% dei contenuti segnalati come discriminatori o razzisti. Una media che si ricava dal 50% di Germania e Francia e dal misero 4% italiano. Mi domando se questo dato allarmante lo dobbiamo anche all’assenza di un ufficio operativo di Facebook in Italia. Un’Italia che sconta scarsa collaborazione da parte della sua azienda anche sul fronte della disinformazione, al contrario di quanto avviene in Germania o in Francia. Su questo tema ho da poco lanciato una campagna di sensibilizzazione (www.bastabufale.it). Proprio perché sono convinta che le fake news - create ad arte per fini di lucro, delegittimare l’avversario o generare tensioni sociali - provochino danni alle persone e spesso rappresentino l’anticamera dell’odio. Prima di essere eletta Presidente della Camera dei deputati, ho lavorato per 25 anni nelle agenzie delle Nazioni Unite, occupandomi di crisi internazionali e di rifugiati. Ho visto quanto siano importanti la Rete e i social network anche nei luoghi più remoti del pianeta e nei campi profughi. E proprio perché ne conosco lo straordinario valore, ritengo si debba agire presto e su più livelli affinché i social non diventino ostaggio dei violenti. Ho avuto modo di parlarne di recente con Richard Allan, vicepresident public policy di Facebook per l’area Europa-Medio Oriente-Africa, che ho incontrato a Montecitorio su sua richiesta. Mi ha contattato dopo che, in occasione della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, avevo postato una selezione delle oscenità che costantemente arrivano a me, come a quasi tutte coloro che hanno una presenza nella sfera pubblica. Ho denunciato anche che Facebook non si cura a sufficienza di rimuoverle. E lei sa bene che la mancata rimozione di un contenuto umiliante può provocare tragedie come quella accaduta recentemente a Napoli, dove la trentunenne Tiziana Cantone si è tolta la vita per la vergogna di un video divenuto virale. Ad Allan ho avanzato tre proposte. Due di natura tecnica. La terza riguarda l’apertura in Italia di un ufficio operativo per i 28 milioni di utenti che Facebook ha nel Paese. Le risposte giunte dopo due mesi sono evasive e generiche. A questo punto chiedo a lei, signor Zuckerberg: da che parte sta Facebook, in questa battaglia di civiltà? *Presidente della Camera dei deputati Lombardia: 7.814 detenuti; metà sono stranieri, un terzo tossicodipendenti Ansa, 15 febbraio 2017 Il primo giro ha avuto 24 incontri ed è stato dedicato ai comuni capoluogo e nelle città più significative del territorio. A partire dal 17 febbraio riprenderanno le 100 tappe in Lombardia del consiglio regionale. Stavolta su base tematica. Primo appuntamento dedicato alle problematiche dei detenuti. Insieme alla Commissione speciale sulla situazione carceraria presieduta da Fabio Fanetti, la delegazione regionale si recherà al Beccaria e a san Vittore. Numero di detenuti - Il carcere di san Vittore è il terzo della Lombardia per capienza e numero di detenuti ospitati, dopo Bollate e Opera. Ha una capienza di 750 posti ma secondo gli ultimi dati forniti dal Dap, il Dipartimento amministrazione penitenziaria, ospita 932 persone, 87 donne; il 61% persone di nazionalità straniera, il 26% tossicodipendenti. Le strutture carcerarie della Lombardia hanno una capienza di 6.120, mentre ne ospitano 7.814. Il 46,2% sono stranieri, il 31,7% tossicodipendenti. Le donne sono il 4,6% del totale. Le sezioni femminili sono a Bergamo, Bollate, Verziano, Como, Mantova, san Vittore e Vigevano. Condanne e nazionalità - Se il 15,1% dei detenuti attende il primo giudizio, le condanne definitive sono del 66,7%. Su 5504 detenuti già condannati, 2292 devono scontare pene inferiori ai 3 anni, mentre 1.116 pene inferiori a un anno. Devono scontare l’ergastolo 258 persone, mentre sono 66 i detenuti che dovranno trascorrere oltre 20 anni di carcere prima di tornare in libertà. La Lombardia ha il maggior numero di detenuti, seguita da Campania (6.887), Lazio (6.108) e Sicilia (6.032). In Campania gli stranieri sono il 13,1%, mentre in Lombardia sono il 46,2%. Sovraffollamento - L’indice medio di sovraffollamento è del 108,8%, in Lombardia del 127,7%. In diminuzione rispetto al picco del 2010, col superamento del 168%. Il disequilibrio è molto elevato. A Sondrio il sovraffollamento è del 69%, a Bollate del 94,9%, a Verziano e a Como supera il 180%. Toscana: sì al Garante unico per difesa civica, difesa dei diritti dei minori e dei detenuti provincia.fi.it, 15 febbraio 2017 Sì a maggioranza alla proposta di risoluzione per l’istituzione del Garante unico regionale dei diritti della persona. Il nuovo organismo comprende difesa civica, difesa dei diritti dei minori e dei detenuti. L’aula ha votato a maggioranza la proposta di risoluzione presentata dal presidente della prima commissione Giacomo Bugliani (Pd). Con la risoluzione il Consiglio regionale si impegna ad elaborare una normativa, attraverso l’Ufficio di Presidenza, per una figura di garanzia unica dei diritti della persona. Il nuovo organismo comprende difesa civica, difesa dei diritti dei minori e dei detenuti. Voto contrario di Sì-Toscana a sinistra, astensione del M5S. "In merito alla composizione del Garante unico - ha spiegato Bugliani - sarà un organismo di coordinamento composto da un presidente con funzioni di raccordo e da due membri eletti dal Consiglio regionale". Bugliani ha precisato che i componenti saranno selezionati "tra persone di indiscussa moralità e comprovata formazione e competenza nelle materie oggetto di tutela". Nell’atto si prevede "un regime di incompatibilità in relazione ai suoi membri" e sarà l’Ufficio di Presidenza a "determinare l’indennità per i componenti". Tra le funzioni del Garante unico, si legge nella proposta di risoluzione, ci saranno "la promozione e la tutela dei diritti della persona mediante l’azione di conflitti tra soggetti e istituzioni"; "iniziative di studio e ricerca"; "la diffusione della cultura relativa ai diritti della persona"; "la formazione e l’aggiornamento degli operatori sociali, sanitari ed educativi"; la "sollecitazione di interventi normativi nelle materie di propria competenza". Nell’atto si chiede inoltre di predisporre una specifica proposta di legge statutaria per inserire questa figura all’interno dello Statuto regionale. "È una proposta di risoluzione di una vaghezza incredibile - ha detto Paolo Sarti, motivando il voto contrario del gruppo Sì -. Non se ne capisce l’obbiettivo". "I tre garanti - ha aggiunto - hanno funzioni talmente diverse che richiedono competenze specifiche". "Si punta a risparmiare sulle interferenze, meno contenziosi con i cittadini, meno pratiche, questo sarà il risparmio ma il cittadino così perde tutele". Marco Casucci (Lega nord) ha ribadito "un piccolo passo è stato fatto, si va verso una figura unitaria". "Non possiamo però essere soddisfatti - ha aggiunto il consigliere regionale - perché la soluzione auspicabile sarebbe quella della natura monocratica dell’organo con l’accorpamento delle figure e delle funzioni". Enrico Cantone ha espresso l’astensione del M5S "nonostante gli sforzi per dare autorevolezza alla figura del garante - ha detto Cantone - saremmo stati contenti se ci fossero stati istituti di garanzia specifica nel settore della difesa civica, di minori, detenuti e profughi". La consigliera Valentina Vadi (Pd) ha precisato che "non c’è nessun interesse di risparmio quando si tratta di tutela e difesa dei cittadini" che finora è stata "rappresentata dalle figure di garanzia" ma "una precisa volontà di razionalizzare". "Vogliamo - ha detto- costituire un organismo che riesca a coordinare le funzioni, finora svolte da tre autorità, in maniera più efficace e operativa". "I compensi dei tre garanti - - ha detto il capogruppo di Sì Tommaso Fattori - sono ragionevoli. Il punto chiave è che c’è un assoluto bisogno sia del Difensore civico, sia del Garante dei detenuti che del Garante dell’infanzia. È necessaria la specializzazione di queste figure che devono svolgere funzioni precise nella tutela di soggetti deboli". Di "integrazioni necessarie nella tutela dei diritti" ha parlato il capogruppo Pd Leonardo Marras per "sopperire alle carenze organizzative". Marras ha evidenziato la necessità di una "riorganizzazione del sistema per la tutela dei diritti dei cittadini in un’unica autorità di garanzia". A chiudere il dibattito è intervenuto il presidente del Consiglio regionale Eugenio Giani. "La questione delle garanzie e dei rapporti con il cittadino - ha detto il presidente - si sta trasformando. I cittadini adesso si rivolgono alla pubblica amministrazione in termini di ricerca di mediazione. Vogliono arrivare concretamente alla conciliazione, questo si sta attivando anche nelle questioni che riguardano i servizi alla persona, come l’acqua, il gas, la luce, certi servizi sanitari". Emilia Romagna: Bignami (Fi) "la Regione solleciti il rimpatrio dei detenuti stranieri" bolognatoday.it, 15 febbraio 2017 I forzisti: "I costi potrebbero essere evitati facendo scontare la pena nel Paese di origine del detenuto, ammesso che sia un Paese dove non vengano violati i diritti umani". Galeazzo Bignami ed Enrico Aimi di Forza Italia in premessa chiedono alla Regione Emilia Romagna di sollecitare il Governo nazionale affinché proceda a una verifica dell’applicazione degli accordi bilaterali sottoscritti dall’Italia con altri Paesi per il rimpatrio dei detenuti "ciò al fine di valutarne l’efficacia o evidenziarne le criticità", come spiegano. "Alla luce dei dati sulla composizione della popolazione carceraria in Italia, dove, su un numero complessivo di 55.381 detenuti, il 34% è di origine straniera, appare evidente la necessità di mettere in pratica politiche mirate ed efficaci per il rimpatrio, affinché i detenuti di altre nazionalità scontino la pena nel loro Paese di origine, a cominciare da quelli condannati in via definitiva che sono ben 10.916, piuttosto che varare leggi che depenalizzano i reati e, periodicamente, ricorrere a provvedimenti svuota carceri". Un miliardo di euro all’anno? I consiglieri riferiscono che "il costo stimato per lo Stato italiano per mantenere i detenuti nelle nostre carceri sarebbe di un miliardo di euro l’anno (dato 2013): costi che potrebbero essere evitati facendo, appunto, scontare la pena nel Paese di origine del detenuto, ammesso che sia un Paese dove non vengano violati i diritti umani. Questa possibilità- ribadiscono- è prevista infatti dalla Convenzione di Strasburgo del 1983, ratificata dall’Italia che ha via via sottoscritto una serie di accordi bilaterali con alcuni Paesi tra cui l’Albania e la Romania". A fronte degli accordi esistenti, ricordano Aimi e Bignami - "mancano all’appello quelli con il Marocco e la Tunisia, le cui nazionalità sono quelle maggiormente rappresentate nelle carceri italiane". Da qui la richiesta alla Giunta di agire nelle sedi opportune per sollecitare "il potenziamento delle politiche di rimpatrio degli stranieri detenuti, anche attraverso la stipula di accordi specifici, affinché gli stessi scontino la pena nel loro Paese di origine. Oltre a chiedere "misure efficaci di rimpatrio anche per gli stranieri ‘solò denunciati per reati reiterati". Da ultimo la risoluzione impegna l’esecutivo regionale ad aprire "un dibattito in tal senso nelle sedi deputate, anche attraverso l’azione del presidente della Conferenza Stato Regioni, al fine di sgravare il nostro Stato dai rilevanti costi che derivano dal mantenimento dei detenuti stranieri nelle nostre carceri". Pordenone: accusato di abusi sulle figlie, 41enne si impicca in carcere di Giorgio Barbieri La Tribuna di Treviso, 15 febbraio 2017 Era ancora in attesa di affrontare il processo immediato. Un operaio quarantenne, residente a Treviso, si è impiccato nella notte tra lunedì e martedì all’interno della sua cella a Pordenone, dove era detenuto nella sezione protetti in attesa di giudizio per violenza sessuale. Era stato arrestato nel dicembre scorso dopo che una delle figlie, quattordicenne, aveva confidato ad una compagna di classe, durante una gita scolastica, che da due anni aveva rapporti sessuali con il padre. Nel corso delle indagini sarebbero poi emerse le violenze anche sulla seconda figlia, dodicenne. L’uomo, difeso dall’avvocato Alessandra Nava, ha sempre respinto le accuse e a breve avrebbe dovuto affrontare il processo immediato. Processo che ora non sarà celebrato perché, nonostante il tempestivo intervento della Polizia Penitenziaria, l’uomo è morto per soffocamento. La drammatica vicenda che l’ha portato in carcere era emersa nel dicembre scorso quando le due sorelle erano state sentite in sede di incidente probatorio: le accuse, soprattutto da parte della maggiore delle due ragazzine, erano state ribadite e circostanziate. Il padre, professione operaio, secondo la denuncia avrebbe abusato sessualmente di entrambe. Rapporti sessuali completi, ripetuti in un arco di tempo di circa due anni. Lui è il padre biologico delle ragazze. La madre, in tutto ciò, sarebbe rimasta all’oscuro. A portare a galla la vicenda è stata la maggiore delle due, che si è confidata con uno degli accompagnatori durante un periodo di villeggiatura estiva per ragazzi. Da quella sofferta confidenza è partita la denuncia che infine ha messo in moto la Procura della Repubblica. La scorsa settimana il pm Gabriella Cama, titolare della delicatissima inchiesta, aveva firmato il decreto di giudizio immediato nei confronti dell’uomo e in questi giorni il suo legale stava preparando la richiesta di rito abbreviato di fronte al gup Angelo Mascolo. Un quadro invece non ancora chiaro secondo la difesa dell’uomo, rappresentata dall’avvocato Alessandra Nava che ieri ha appreso la drammatica notizia. Nulla poteva far presagire un gesto del genere: l’uomo infatti non aveva mai dato segni di squilibrio né durante l’incidente probatorio né durante l’interrogatorio dal pm che lui stesso aveva richiesto. In carcere era considerato un detenuto ordinario, e quindi non soggetto a particolari restrizioni. Non si trovava in un’area speciale, non era in isolamento e fino a ieri non aveva mai mostrato di aver bisogno di cure o assistenza. "È stato totalmente abbandonato dai suoi familiari senza avere neppure la possibilità di spiegare la sua verità che peraltro a mio avviso era più sensata delle accuse", ha commentato il legale, "le presunzioni di colpevolezza portano anche a queste drammatiche conseguenze, bisognerebbe ricordarselo sempre. Da parte mia tristezza per non aver potuto supplire alla mancanza di affetto familiare". La segreteria regionale del sindacato Uil-Pa della polizia penitenziaria, nel commentare la notizia della morte del detenuto, ha dichiarato: "Esprimiamo amarezza per le circostanze, ma come sempre dobbiamo complimentarci con il personale operante che ha messo in atto tutte le forze per salvare la vita umana. Questa volta, però non è stato possibile". Milano: viaggio con i detenuti nelle celle aperte di Bollate, da qui si deve ripartire di Viviana Daloiso Avvenire, 15 febbraio 2017 A Milano nella Casa di reclusione all’avanguardia. Sul corridoio, lungo quasi un chilometro, non c’è traccia di sbarre. Niente cancelli, da aprire con chiavi spesse di ottone a ogni passaggio. Niente presidi di agenti, fermi lì a girarle, le chiavi. Un ragazzo coi capelli lunghi e un lupo sulla maglietta rallenta per salutare: il tesserino al collo recita "Marco, quarta sezione, area trattamentale". Chi è, da dove viene, dove va: questo basta, nel carcere di Bollate. Per tenere le porte delle celle aperte, per permettere ai detenuti di uscire dalle sezioni e darsi da fare, per dare un senso alle loro giornate. Che sia una specie di miracolo nel panorama carcerario nazionale, questo angolo della periferia milanese affacciato su quel che resta di Expo, qui lo sanno tutti bene. Normale, che i dipendenti dell’amministrazione penitenziaria e pure quelli delle aziende vicine facciano la pausa pranzo nel ristorante gourmet gestito dei detenuti (la mattina ci si ferma prima di entrare per prenotare i posti, che altrimenti non si trovano). Normale, l’asilo nido frequentato dai figli degli agenti, da quelli delle detenute e da quelli delle famiglie di Bollate (la struttura, come il ristorante, è aperta anche a chi viene da fuori). Normale, che nei capannoni si aggiustino macchine da caffè, si gestisca il customer service di un colosso come Wind, o che si allevino cavalli, si coltivino piante, si studi la letteratura russa e si faccia teatro. Lavoro, stipendio, permessi, ferie. Quando l’hanno spiegato al presidente della Camera, Laura Boldrini, ieri mattina in visita alla struttura, lei ha sgranato gli occhi e ha cominciato a fare domande. Possibile? Sì. Allora "questo è un modello - dice lei - e questo modello va esteso. Qui si fa sicurezza in modo intelligente perché si dà la possibilità a chi entra di uscire migliore". La ricetta, per il direttore Massimo Parisi, è quasi un’ossessione. Non passa giorno che nell’ufficio al primo piano, sopra l’ingresso, non si svolgano briefing, riunioni, confronti: "E adesso? Adesso cosa possiamo fare?". Ammette di avere un sogno: "La piena occupazione. Che tutti i miei 1.180 detenuti lavorassero o fossero impegnati. Che il maggior numero di aziende entrassero qui dentro, per offrire formazione e lavoro". Oggi si accontenta del 50% della popolazione carceraria attiva (un record nazionale) e di almeno una decina di aziende che danno impiego a 200 detenuti in articolo 21: "Significa che al mattino si svegliano, si preparano, escono dal carcere per raggiungere un ufficio. E che la sera, finito di lavorare, ritornano". Ma non basta, perché ci sono anche quelli che fanno volontariato: sistemano i giardini pubblici, imbiancano le scuole di Bollate, prestano servizio nelle residenze per anziani. E poi i 35 studenti universitari, la prima classe di alberghiero che quest’anno arriverà al diploma, i tirocini, gli stage. Risultato: il numero fra i più bassi di agenti a presidio della struttura (350) e una recidiva del 20% (che scende all’8% per chi segue progetti di lavoro specifici) contro il 68% nazionale. La misura dell’abisso tra due culture diverse dell’esecuzione penale, "tra il vedere il reato come una risorsa - continua Parisi - o come un peso". L’area industriale di Bollate è un azienda in piena regola. I telefoni che squillano, le saldatrici, i capannelli di colleghi che si confrontano. "Questo è il nostro miracolo", spiega Teresa aprendo la porta dello stanzone dei call center. La cooperativa Bee4 Altre menti, che dal 2013 lavora in carcere e che da ex detenuti è stata fondata, gestisce 34 dipendenti carcerati e 6 esterni dedicati al servizio clienti WindTre, altri 17 e due esterni per il servizio clienti Eviva spa, 14 detenute per l’assemblaggio e il controllo qualità di guarnizioni di gomma. "I loro stipendi - spiega il direttore della attività produttive della cooperativa, Pino Cantatore - variano da mille a 1.400 euro. Per loro significa potersi mantenere, non pesare sulle famiglie anzi in parte poterle sostenere, e ancora poter pagare i risarcimenti delle vittime dei reati che hanno commesso". Regole, responsabilizzazione, dignità. Si scoprono così, in carcere. In altri casi si ritrovano. "Il lavoro cambia soprattutto i più giovani, quelli che in carcere arrivano a vent’anni magari, senza aver mai lavorato, senza saper fare niente", continua Cantatore. Uscirebbero per delinquere di nuovo. E invece quando viene il momento di uscire, da Bollate non vogliono andarsene. Per loro - per seguire il loro percorso fuori, per riempire il buco nero del post-pena - la Bee4 ha anche una sede distaccata, a Milano. Nella sezione femminile, che Boldrini ieri ha voluto visitare, vivono 106 detenute. "Sembra incredibile, ma qui è più difficile a volte realizzare progetti", spiega Cantatore. La maggioranza delle donne sono dell’Est Europa, moltissime rom e sinti: "La loro cultura rifiuta il lavoro, gli uomini le utilizzano per rubare". Anche qui però il lavoro finisce col fare la differenza: "Abbiamo 4 ex detenute che a fine pena ci hanno chiesto di restare. Sono libere, ma qui ogni mattina vengono a lavorare". Il fuori e il dentro che annullano le distanze, l’altro grande sogno del direttore Parisi: "La relazione è tutto, quella tra l’istituto e i detenuti, quella tra i detenuti e la società e quella tra i detenuti e la società. È nella relazione che la pena trova il suo senso sociale". Lui la chiama "contaminazione positiva". A Bollate è già realtà: per studiare e seguire corsi entrano studenti dei licei e delle università milanesi, manager e dipendenti delle aziende. "La pena fatta scontare senza prospettiva di futuro, la detenzione finalizzata a se stessa - ha ripetuto ieri Boldrini - non serve. Qui ho incontrato lo Stato nella sua forma migliore, qui ho visto l’espressione della nostra Costituzione". Milano: Laura Boldrini nel carcere di Bollate "un modello da estendere in tutta Italia" di Ilaria Liberatore La Stampa, 15 febbraio 2017 La Presidente della Camera in visita all’istituto penale milanese, "qui ho visto l’espressione della nostra Costituzione". Una visita di quasi due ore, tra la sezione maschile e quella femminile, visitando i laboratori didattici e professionali svolti dai detenuti, e concludendo in bellezza con un pranzo al ristorante "In Galera", il primo e unico in Italia nato all’interno di un carcere e aperto al pubblico, inaugurato un anno fa. Questo il programma della Presidente della Camera Laura Boldrini, che ha visitato questa mattina l’Istituto Penale di Bollate, accompagnata da Massimo Parisi, direttore del carcere, e Luigi Pagano, provveditore alle carceri per Piemonte, Liguria e Lombardia. "Bollate è un carcere esemplare, il modo più intelligente per fare sicurezza, perché dà la possibilità a chi entra qui di uscirne migliore e con una visione diversa. È un modello da estendere anche ad altre carceri - ha commentato Boldrini, al termine della sua visita. Qui ho incontrato lo Stato nella sua forma migliore, qui ho visto l’espressione della nostra Costituzione, e di questo sono grata al direttore Parisi, a tutti gli operatori e agli imprenditori che hanno deciso di investire qui". Il "modello Bollate", quindi, da estendere anche agli altri carceri italiani, e non solo perché "non costa di più alla collettività", ma anche perché "i detenuti di questo carcere hanno meno recidiva, una volta usciti", ha sottolineato la presidente della Camera. "Le persone che sono qui dentro credono ancora di potercela fare, e questo è nell’interesse di tutta la collettività. Questo, per noi dello Stato, è un investimento al cento per cento". La vita dei detenuti all’interno del carcere di Bollate (poco più di mille in tutto) è scandita dal lavoro e dall’istruzione (dalla licenza media a quella superiore, più vari corsi professionalizzanti e la possibilità di conseguire la laurea in Università esterne), dalle attività socialmente utili agli eventi culturali (laboratori teatrali, cinematografici, e anche il periodico "Carte Bollate", nato nel 2002 e sportivi (anche tornei di calcio e tennis). Dentro la cella si sta solo per dormire. Sono i detenuti, riuniti in commissione, a decidere autonomamente quali attività organizzare e molti di loro usufruiscono di permessi premio per lavorare all’esterno del carcere. Una situazione sicuramente "privilegiata", considerando che la difficile situazione delle carceri italiane, che in alcuni casi non riescono a garantire neanche lo spazio sufficiente per una vita dignitosa. Secondo il dodicesimo rapporto dell’Associazione Antigone, pubblicato ad aprile 2016, ad esempio, in Italia c’è un tasso di sovraffollamento (cioè del numero di detenuti rispetto a quello dei posti letto regolamentari) del 106 per cento, con quasi 4 mila persone prive di un posto letto regolamentare. "Perché non pensare a un modello come quello di Bollate per riscattare chi ha sbagliato? - ha concluso Boldrini. Non costa di più ed è garanzia di più sicurezza. L’idea di una pena senza prospettive di futuro, una detenzione finalizzata a se stessa, non serve a nessuno". Napoli: lo "Spazio giallo" per l’accoglienza dei figli dei detenuti in Commissione Cultura napolivillage.com, 15 febbraio 2017 Confronto oggi in commissione Cultura, presieduta da Elena Coccia, sul modello di accoglienza "spazio giallo" promosso dall’associazione Bambinisenzasbarre impegnata nella cura delle relazioni familiari durante la detenzione di uno dei genitori. Sono intervenuti Edoardo Fleischner dell’associazione, la direttrice del carcere di Pozzuoli Stella Scialpi, la vice direttrice della casa circondariale di Secondigliano Giulia Leone, Maria Giorgia Di Gennaro dell’associazione Giuristi democratici, Daniela Morante esperta di art-therapy e la psicoterapeuta Paola Miele Caccavale. Si svolgerà a Napoli dal 18 al 21 maggio al Maschio Angioino la conferenza internazionale di Cope - Children of Prisoners Europe - la rete che raccoglie ventuno organizzazioni non governative di altrettanti Paesi europei e di Stati Uniti e Turchia impegnate nella tutela dei diritti dei bambini separati dai genitori detenuti. L’associazione italiana Bambinisenzasbarre, che fa parte di Cope, ha annunciato oggi l’appuntamento in occasione di un confronto sulle iniziative promosse in Italia per la tutela del diritto del bambino alla continuità del legame affettivo, alla formazione degli operatori e alla sensibilizzazione della rete istituzionale e della società civile. Tra le iniziative promosse dall’associazione, ha spiegato Fleischner, quella dello "spazio giallo", il luogo negli istituti di pena dove i bambini sono accolti dagli operatori e preparati all’incontro col genitore e alla decantazione del disagio del distacco. Nata nel 2007 a San Vittore, oggi la Rete di accoglienza è attiva in Lombardia, Emilia Romagna, Piemonte e Campania, con l’inaugurazione nel giugno dell’anno scorso di un luogo dedicato nel carcere di Secondigliano. Una collaborazione, ha spiegato la vicedirettrice Leone, che segna l’arrivo di un percorso di apertura alle tematiche dei minori iniziato nel 2007 con iniziative di gioco insieme a Telefono Azzurro. Dopo i primi mesi di rodaggio, ha spiegato Daniela Morante, inizia il vero lavoro, che costituisce un percorso che deve necessariamente coinvolgere tutta la famiglia e gli operatori. Anche nel carcere femminile di Pozzuoli, ha raccontato la direttrice Scialpi, sono stati allestiti spazi esterni attrezzati per facilitare l’incontro madri-figli e molto forte è l’apporto dell’associazionismo per sostenere la continuità del rapporto genitoriale. Un rapporto che si interrompe nonostante diverse norme, che fanno dell’Italia un Paese all’avanguardia nella legislazione in materia, prevedano la possibilità per le madri di chiedere la detenzione domiciliare o la possibilità di uscire ogni giorno dal carcere per stare accanto ai figli minori. Strutture e spazi adeguati non sempre disponibili in strutture carcerarie anguste, come ha sottolineato il consigliere Vernetti, (Dema) e dove le madri con figli piccoli non dovrebbero neanche entrare (Menna, Movimento 5 Stelle). Scarsa conoscenza dei benefici o difficoltà ad ottenerne la concessione impediscono, di fatto, un’applicazione della legge, rendendo quindi prioritaria, ha osservato l’avvocata Di Gennaro, la formazione e l’informazione. Solo ridefinendo il ruolo del carcere, non più contenitore di illegalità ma base di partenza per un cambiamento, per la psicoterapeuta Caccavale, può attivarsi un’effettiva inversione di tendenza. Che parta, come chiede l’associazione Bambinisenzasbarre, dalla Carta dei figli dei detenuti, un documento firmato nel 2014 e che vede l’Italia prima nazione europea ad impegnare il sistema penitenziario a confrontarsi con la presenza quotidiana dei bambini in carcere. Dopo il riconoscimento del Parlamento Europeo, si attende ora quello delle Nazioni Unite. Parma: la Chiesa Avventista impegnata in incontri culturali con i detenuti avventisti.it, 15 febbraio 2017 Gli insegnanti e le educatrici della scuola nella Casa di reclusione di Parma hanno riunito un folto gruppo di studenti di varie classi, giovedì mattina, 9 febbraio, per dialogare con alcuni rappresentanti delle fedi abramitiche. Il vice presidente delle comunità ebraiche, Riccardo J. Moretti, il nuovo cappellano dell’ordine dei francescani e il pastore della chiesa cristiana avventista di Parma, Daniele La Mantia, sono stati invitati a dialogare sul tema dell’aldilà. "Potete immaginare le tante domande già in essere che sono aumentate notevolmente dopo gli interventi delle voci ebraica e avventista", ha dichiarato il past. La Mantia a Notizie Avventiste, "L’interesse è stato tale da richiedere altri incontri su temi attuali e complessi come l’aborto, il fine vita e il testamento biologico. Inoltre, uno degli insegnanti mi ha ringraziato perché pur definendosi agnostico, mi ha confessato di essere molto interessato. Ringrazio il Signore per la possibilità di operare anche nelle carceri". Due manifestazioni musicali hanno caratterizzato le attività di cura spirituale del carcere di Parma, in questi primi mesi dell’anno. Venerdì 10 febbraio, i detenuti hanno potuto assistere a un concerto veramente speciale", ha raccontato il past. La Mantia. Il maestro Claudio Ferrarini, conosciutissimo flautista di Parma, e Riccardo Joshua Moretti, compositore di colonne sonore, che ha collaborato anche con il maestro Ennio Morricone, si sono esibiti in un concerto in cui hanno riproposto molte musiche di film famosi, come Schindler list, Amarcord, Rocco e i suoi fratelli, C’era una volta in America, Il padrino, Giù la testa. Il pastore avventista ha fatto gli onori di casa. "La musica può rendere gli uomini liberi", ha ricordato La Mantia nel suo messaggio. A Notizie Avventiste ha poi riferito: "Posso solo dire che assistere a questo concerto è stato emozionante. E l’emozione diventa ancora più forte sapendo che ai residenti del carcere fa del bene, perché contribuisce a creare un’atmosfera positiva, importante per aiutare a diminuire il numero di suicidi che purtroppo è ancora troppo alto nei luoghi di reclusione". Il 20 gennaio è una giornata che la comunità avventista parmense ricorderà per molto tempo. "Ci siamo recati con la corale della chiesa", racconta Patrizia Evola, "per tenere un concerto per i detenuti della Casa circondariale della città. Un messaggio in musica dal titolo "Tempo di ricominciare", per dire che, come il figlio prodigo, c’è tempo per tornare sui propri passi, per correggere gli errori e che Dio ci aspetta con le braccia aperte, proprio come il padre della parabola. È stata un’esperienza emozionante anche per il carico di responsabilità che sentivamo nel dare questo messaggio, tra l’altro molto apprezzato dal pubblico". "Il nostro pastore Daniele La Mantia", ha continuato P. Evola, "che è oramai un habitué, come lo ha definito una delle educatrici del carcere, per le molteplici attività che svolge all’interno della struttura e la continua collaborazione, ha lasciato un messaggio biblico nel quale ha spiegato alcuni aspetti poco conosciuti della parabola". "È molto bello poter fare qualcosa per gli altri, in modo particolare per quelli che hanno bisogno di riscatto e di speranza", ha concluso. Quaderni Radicali. "Amnistia, atto riformista per una giustizia giusta" La Città di Salerno, 15 febbraio 2017 Giuseppe Rippa rilancia ¡l tema tanto caro a Pannella e ai Radicali. "Una questione di democrazia che tocca gli attuali equilibri di potere". "Quaderni Radicali" s’interroga sul tema "che dev’essere inteso - spiega Giuseppe Rippa, direttore del bimestrale politico - non come un mero atto di clemenza ma, al contrario, necessario per preparare le condizioni di un’azione riformatrice, cui far seguire interventi legislativi per una giustizia giusta e, quindi, efficiente. Solo il popolo - aggiunge Rippa - è depositario della sovranità: per questo Palmiro Togliatti avrebbe addirittura voluto che i magistrati fossero eletti dal popolo. Inoltre solo da noi i pubblici ministeri sono equiparati m tutto ai giudici". Proprio per questo motivo Rippa ritiene che "l’amnistia sia un passaggio tecnico necessario per disboscare la massa che blocca la giustizia, in quanto la vicenda giustizia è oramai una questione politica, poiché va a toccare equilibri di potere". "Se i partiti - aggiunge per motivi di responsabilità, sono stati spolpati dal loro ruolo storico, il punto che emerge è quello che con il loro tracollo abbiamo non solo una democrazia fittizia ma pure pochi a tori. E questo perché puntare su un leader diventa una semplificazione, dando alle corporazione un ruolo essenziale". L’amnistia non può prescindere dal condono. È questo il pensiero dell’ex avvocato generale della Cassazione, Antonio Siniscalchi. "Sento parlare di amnistia, di situazione gravissima nelle carceri - rimarca l’alto magistrato - ma non ho capito quali effetti potrebbe avere il provvedimento di clemenza sul sistema carcerario. In tanti anni di magistratura ho applicato diverse amnistie, tutte non superiori ai 4 anni di condanna. E non ricordo amnistie disgiunte dal condono. D’altronde quando si parla di amnistia il sistema è articolato, perché occorre che i 2/3 delle Camere siano d’accordo". È indispensabile, dunque, un’interlocuzione tra potere politico e giudiziario, ma l’impresa non è semplice. "Da Mani pulite - rimarca Siniscalchi - la magistratura ha assunto un ruolo preponderante. Perché nel 1992 tanti politici hanno intravisto l’opportunità di liberarsi dei loro avversari attraverso un’ operazione di polizia. Da qui l’esaltazione del pool dei pm della procura di Milano, con l’avallo e il sostegno delle forze politiche. Sono proprio i politici, dunque, che hanno generato questo strapotere che impedisce qualsiasi dialogo. L’unico e solo grimaldello per scardinarlo è la riforma per l’elezione del Consiglio superiore della magistratura". Donato Salzano, segretario dei Radicali, punta il dito contro la magistratura di sorveglianza. "Fortunatamente chiarisce - esiste una magistratura che difende ancora lo Stato di diritto, tant’è che Claudio Tringali, presidente vicario della Corte d’Appello di Salerno, ha ammesso che c’è un problema nel sistema. L’amnistia, in questo caso, oltre a rientrare nel campo dei diritti umani, assume pure una valenza economica, in quanto i costi della giustizia, che secondo uno studio di Confindustria rappresentano l’1% del Pil, si vanno ad aggiungere all’enorme debito pubblico. Non ci può essere, però, un’amnistia senza indulto, tenendo conto che il carcere è un’appendice illegale di un processo penale altrettanto illegale". Concedere l’amnistia, a detta di Emilio Fattorello, segretario nazionale del segretario nazionale del Sindacato autonomo polizia penitenziaria, è una resa. E fa l’esempio di quando, durante un incontro di box "si vede lanciare sul ring dall’angolo di uno dei pugili l’asciugamano per manifesta inferiorità. Mi auguro, al contrario, che si cominci finalmente a parlare di una riforma strutturale della giustizia e del sistema penitenziario italiano, in quanto oggigiorno in galera restano solo i derelitti e chi non può permettersi di pagare un avvocato di grido" "Il permesso. 48 ore fuori": la seconda prova da regista di Claudio Amendola di Ciro Brandi fanpage.it, 15 febbraio 2017 Claudio Amendola torna in cabina di regia per raccontare la storia di quattro detenuti durante le loro 48 ore di permesso, prima di tornare nel carcere di Civitavecchia. Amendola è uno di questi e, nei due giorni di libertà, ci farà conoscere il loro mondo, come impiegheranno quel tempo e ciò che li ha portati in prigione. Nel cast, Luca Argentero, Giacomo Ferrara e Valentina Bellè. Dopo l’esordio con "La mossa del pinguino"(2013), Claudio Amendola torna in cabina di regia con "Il permesso - 48 ore fuori", cambiando totalmente genere e virando dalla commedia al noir. La pellicola, scritta con Giancarlo De Cataldo, sceneggiatori del film "Suburra", diretto da Stefano Sollima, racconta la storia di quattro detenuti durante le loro 48 ore di permesso, prima di tornare nel carcere di Civitavecchia. Amendola, oltre ad essere il regista, è anche nei panno di uno di questi e, nei due giorni di libertà, ci farà conoscere il loro mondo, come impiegheranno quel tempo e ciò che li ha portati in prigione. Nel cast, il regista e attore romano ha voluto Luca Argentero, Giacomo Ferrara e Valentina Bellè. "Il permesso - 48 ore fuori" sarà nelle nostre sale a partire dal prossimo 6 aprile. Claudio Amendola racconta la storia di quattro detenuti durante un permesso di 48 ore, prima di tornare nel carcere di Civitavecchia. I protagonisti sono Rossana, 25 anni, arrestata in aeroporto per traffico di stupefacenti; il 50enne Luigi, condannato per duplice omicidio che ha già scontato 17 anni di pena; Angelo, 25enne in prigione per una rapina compiuta con complici che non ha mai denunciato; Donato, 35 anni, condannato pur essendo innocente. Nei due giorni di permesso, vedremo cosa faranno una volta riassaporata la libertà che avevano perso da molto tempo e come le storie s’intrecceranno tra loro. Il cast. Il cast completo è formato da: Luca Argentero (Donato), Claudio Amendola (Luigi), Giacomo Ferrara (Angelo), Valentina Bellè (Rossana), Andrea Carpenzano, Antonino Iuorio, Stefano Rabatti, Ivan Franek, Massimo De Santis e Simone Liberati. Le curiosità sul film che dovete sapere. 1. Il film è stato presentato in concorso alla 26esima edizione del Noir in Festival, vincendo il Premio del Pubblico Fight Cult - Iulm per il cinema italiano, assegnato dal pubblico giovane della Iulm - Libera Università di Lingue e Comunicazione. 2. Giancarlo De Cataldo è stato uno degli sceneggiatori di "Suburra"(2015), di Stefano Sollima, film in cui Claudio Amendola aveva il ruolo dell’ ultimo superstite della Banda della Magliana, chiamato "Samurai". 3. "Il permesso - 48 ore fuori", nasce grazie al fatto che Giancarlo De Cataldo, oltre ad essere uno scrittore, è anche stato un giudice di sorveglianza, proprio nel carcere di Civitavecchia. "Please Come Back". Il mondo della prigione al Maxxi di Roma di Tiziano De Angelis rivistasegno.eu, 15 febbraio 2017 Acquisire, condividere, conoscere, corrispondere, all’interno del mondo digitale, ogni sorta di informazione, pubblica o personale, è diventata un’attività semplice e quotidiana per gran parte della popolazione globale che ha semplificato il compito di chi adopera ed elabora liberamente dati in nome della "guerra al terrore". Parallelamente alla diffusa necessità di costituire una propria personale vetrina digitale, grazie a nuove forme di apparente auto affermazione attraverso la rete e tutti gli strumenti che questa mette a disposizione, la costituzione di gigantesche banche dati, accessibili a chi agisce in nome della protezione della nostra sicurezza, sembra poter effettivamente mettere in discussione la canonica definizione di prigione. Parte da queste riflessioni Please Come Back. Il mondo come prigione?, mostra inaugurata lo scorso 8 febbraio al Maxxi di Roma che ha spinto i curatori, Hou Hanru e Luigia Leonardelli, a coinvolgere 26 artisti che con le loro opere si sono confrontati con argomenti legati al tema della prigione, intesa non soltanto come spazio fisico ma anche come condizione mentale o come metafora della nostra contemporaneità. Anche quando l’analisi socio-politica inerente ai temi affrontati sembra essere l’affermazione di un punto di non ritorno, né gli artisti né i curatori offrono soluzioni definitive alla domanda posta nel titolo, potremmo considerare il mondo stesso una prigione? La prima parte del titolo, invece, è il riferimento al neon esposto in mostra dal duo Claire Fontaine, Please Come Back, che sollecita il sentimento di un’assenza, sia essa stimolata dalla condizione solitaria del detenuto quanto dalla necessità di guardarsi nuovamente indietro. Tuttavia, in questo contesto, tornare indietro e abbandonare la rete potrebbe essere equivalente all’ipotetico rifiuto del fuoco milioni di anni fa. Ciò che potrebbe essere considerato diversamente, invece, è il principio stesso di prigionia; se fin troppo spesso "imprigionare" appare come un tentativo di nascondere sotto il tappeto problematiche più profonde, legate indissolubilmente allo all’assetto delle nostre società, raramente si riesce a prendere in considerazione la disinvoltura con la quale si è inclini a rinchiudere se stessi all’interno di mura e recinti. Proprio dalla simbologia del muro sono stati stimolati i titoli delle tre sezioni che suddividono la mostra: Dietro le mura; Fuori dalle mura; Oltre i muri. Ognuna delle sezioni si è sviluppata nella Galleria 5 del Maxxi, ma fanno eccezione due lavori che accolgono i visitatori nell’atrio principale del museo. Elisabetta Benassi richiama direttamente la figura dell’attivista afroamericana Angela Davis, che ha portato avanti anche una battaglia sociale per l’abolizione delle galere, attraverso la barriera antiproiettile che veniva utilizzata per difendersi durante le uscite pubbliche e che ricorda stilisticamente le strutture di Dan Graham. H.H. Lim, invece, ha presentato una gabbia dalla quale fuoriesce una panchina. All’interno una valigia blindata crea un effetto estraniante che ridefinisce la cella attraverso le sue principali funzioni: per chi siede all’esterno la valigia esercita una forte tentazione, come il caveau di un tesoro, ma per chi è all’interno non esiste altro se non l’ossessione per la libertà. Salendo nella galleria 5, spicca il grande schermo curvo sul quale vengono proiettate le video-installazioni di diversi artisti, tra i quali Inverso Mundus del collettivo russo AES+F e le interviste ai detenuti di Rebibbia e Civitavecchia di Gianfranco Baruchello. La relazione tra la prigionia, la sorveglianza e gli sviluppi tecnologici ha trovato una soluzione formale nelle video-installazioni di Mikhael Subotzky, che ha raccolto alcune riprese a circuito chiuso utilizzate dalla polizia di Johannesburg per l’arresto di alcuni criminali nel centro della città, e di Harun Ferocki, che ha indagato l’articolata relazione che lega sguardo, potere e tecnologia attraverso le telecamere di sorveglianza della prigione di massima sicurezza a Corcoran. Jenanne Al-Ani, invece, ha sviluppato una prospettiva visiva a partire dall’occhio freddo del drone, simbolo delle nuove guerre particolarmente utilizzato in Medio Oriente. Nei lavori di altri artisti si può riscontrare il riferimento alla loro personale esperienza del carcere. È questo il caso di Gülsün Karamustafa, detenuta in Turchia negli anni Settanta, e di Zhang Yue che ha utilizzato il disegno su diversi tipi di supporti trovati sul luogo per realizzare immagini del carcere che gli è stato vietato fotografare. Il sistema di sorveglianza, che ha avuto una crescita enorme dopo l’11 settembre, ha stimolato la nascita di nuovi campi di indagine artistica che ha portato Jenny Holzer ad indagare su documenti desecretati, poi trasmessi attraverso una tele che riconsiderano la pittura di storia sotto una nuova luce; il caso delle rivelazioni di Edward Snowden ha invece spinto Simon Denny a pensare ad una nuova estetica tecnologica che si basa sull’invisibilità dei sistemi di controllo. La riflessione dalla quale sono partiti Hou Hanru e Luigia Leonardelli è stata sviluppata tramite un itinerario che aspira a riconsiderare il concetto stesso di prigionia mediante un’impostazione espositiva dal forte impianto socio-politico che ha tenuto in considerazione il complesso rapporto tra lo sviluppo tecnologico e una sempre più accentuata politica di controllo in grado di mettere in discussione il principio di libertà individuale attraverso l’eliminazione, spesso con il nostro consenso, dello spazio intimo e personale del singolo. Migranti. È scontro tra Canzio e il ministro Orlando di Carlo Lania Il Manifesto, 15 febbraio 2017 Il primo presidente della Cassazione critica il decreto del governo di cancellare l’appello per i richiedenti asilo: "Deficit di garanzie". Prima ancora che dal parlamento, il primo "no" al decreto sull’immigrazione varato venerdì scorso dal governo arriva dal primo presidente della Corte di Cassazione Giuseppe Canzio. Ed è no pesante perché riguarda una delle modifiche bandiera volute dal ministro degli Interni Marco Minniti e dal collega della Giustizia Andrea Orlando come la soppressione di un grado di giudizio nei ricorsi contro il diniego dello status di rifugiato. "La semplificazione delle procedure non può significare soppressione delle garanzie", avverte Canzio che chiede al Guardasigilli una ulteriore "riflessione" sul provvedimento. Parole fatte proprie anche dall’Anm. In un documento l’Associazione nazionale dei magistrati esprime un "fermo ed allarmato dissenso" per la decisione di cancellare la possibilità per un richiedente asilo di ricorrere in appello in caso di respingimento della domanda. Chiamato in causa in prima persona, Orlando risponde a Canzio definendo "legittime e salutari" le sue preoccupazioni, ma ribadendo in sostanza la giustezza delle decisioni assunte dall’esecutivo. L’occasione per parlare del decreto immigrazione è offerta a Canzio dall’intervento tenuto all’inaugurazione dell’anno giudiziario del Consiglio nazionale forense, cerimonia alla quale partecipa anche Orlando. Non è a prima volta che il primo presidente della Cassazione tocca temi riguardanti l’immigrazione. Parlando il 26 gennaio scorso all’apertura dell’anno giudiziario aveva ribadito ancora una volta l’inefficacia del reato di clandestinità e sollecitato lui stesso il governo a intervenire per sveltire l’iter delle richieste di asilo. "Si rileva l’esigenza di una urgente ridefinizione legislativa delle relative procedure in termini di semplificazione e accelerazione", aveva spiegato. Una sollecitazione che evidentemente non sottintendeva la soppressione di un grado di giudizio come invece deciso poi dal governo. Non va bene "immaginare che la partita si svolga tutta nel primo grado di giudizio, e senza che venga garantito un contraddittorio pieno, e poi improvvisamente sfoci tutto davanti alla Cassazione", ha avvertito ieri Canzio parlando alla platea dove siede anche il Guardasigilli. "Pretendere la semplificazione e razionalizzazione delle procedure non può significare soppressione delle garanzie. In alcuni casi non c’è neppure il contraddittorio come si può pensare allora al ruolo di terzietà del giudice, rispetto a chi?". Passano poche ore e alle preoccupazioni del primo presidente della Cassazione si aggiungono quelle espresse dai vertici della Giunta sezionale dell’Anm, che in documento chiedono al governo di correggere una riforma che, avvertono, non rischia solo di non essere in linea con i principi della Corte europea dei diritti dell’uomo, ma anche di ingolfare ulteriormente i lavori della Cassazione. "Non si capisce - scrivono il presidente Antonello Cosentino e il segretario Maria Giovanna Sambito - quale razionalità via sia nell’azione di un governo che nel mese di agosto emana un decreto legge imposto dalla straordinaria necessità ed urgenza di emanare disposizioni per la definizione del contenzioso presso la Corte di Cassazione e a febbraio emana un altro decreto legge con cui disinvoltamente si pongono le premesse per una inevitabile esplosione del contenzioso". Nel replicare al primo presidente della Cassazione, Orlando prova a dare rassicurazioni circa le intenzioni del governo. A partire dalla necessità di dare un taglio ai tempi lunghi (fino a due anni) con cui oggi si svolge l’esame delle richieste di asilo. "La lunghezza delle procedure crea un limbo che penalizza chi ha diritto all’asilo - spiega -, costringendolo ad una estenuante situazione di incertezza e favorisce, per latro verso, l’utilizzo improprio della procedura di richiesta di asilo da parte di chi non e ha diritto, nella speranza di allungare i tempi i tempi di permanenza nel Paese". Lo scopo del decreto, sottolinea dunque il Guardasigilli, "è rispondere a queste criticità non mortificando in alcun modo il contraddittorio dinanzi al giudice di primo grado". Droghe. Il naloxone salva la vita. Una ricerca di Susanna Ronconi Il Manifesto, 15 febbraio 2017 Per una volta l’Italia è leader a livello mondiale in una pratica di riduzione del danno: la distribuzione del farmaco ai consumatori e alle loro reti amicali e famigliari, essendo da noi un medicinale da banco, che chiunque può acquistare ed utilizzare in caso di pericolo di vita. È oggi una campagna globale, quella per il naloxone consegnato in mano a chi usa sostanze. Il naloxone è il farmaco salvavita in caso di overdose (Od) da oppiacei, e nella gran parte del mondo può essere utilizzato solo dai medici o acquistato solo con ricetta: per questo la sua libera accessibilità è diventata una battaglia mondiale per un diritto, quello alla vita, in un momento in cui in molti paesi le Od da oppiacei conoscono un nuovo incremento. Non così in Italia: per una volta ci ritroviamo leader a livello mondiale in una pratica di riduzione del danno (Rdd), la distribuzione del naloxone ai consumatori e alle loro reti amicali e famigliari, essendo da noi un farmaco da banco, che chiunque può acquistare ed utilizzare in caso di pericolo di vita. Così a decorrere dai primi anni 90 i servizi di Rdd hanno cominciato la distribuzione, accompagnata da informazione e formazione ai consumatori, per poi divenire pratica consolidata - almeno nelle regioni dove la Rdd interviene. Un storia ormai più che ventennale, con 57 servizi attivi, che ha molto da insegnare a livello mondiale, rispetto a cui giungono richieste di informazione da ogni angolo del mondo. Ma una storia sconosciuta: la letteratura sul modello italiano è assai scarna, tanto che le rassegne internazionali paradossalmente a mala pena la citano. A livello istituzionale, si sa, la Rdd sconta ancora oggi scarso o nullo sostegno politico e attenzione in termini di ricerca, non stupisce che non un euro sia stato investito per conoscere questa esperienza. Ancora una volta, società civile e operatori prendono l’iniziativa e suppliscono: esce oggi la ricerca "Prevenire le morti per overdose da oppiacei. Il modello italiano di distribuzione del naloxone", promossa da Forum Droghe con Eclectica e i Dipartimenti Dipendenze Asl Torino ex2 e 3 e Napoli 1 Centro. La ricerca ripercorre e valuta storia e modello operativo dell’intervento, centrato sui servizi a bassa soglia, secondo una doppia prospettiva, quella degli operatori e quella dei consumatori, raccolta con questionari e focus group, trovando tra i due gruppi un alto livello di convergenza (e anche questo è un risultato). La ricerca non ha lo scopo di dimostrare una correlazione diretta tra il naloxone distribuito e il drastico calo delle Od in Italia - in controtendenza con molti stati europei - proprio a decorrere dagli anni dello sviluppo della Rdd (dai 470 decessi del 1999, ai 280 del 2005, 154 del 2010 fino ai 101 del 2015); ma certo dimostra come investire sui consumatori e le loro competenze significhi avere una rete capillare di salvataggio - chi più di frequente assiste a una Od è un altro consumatore, accrescere il loro sapere in prospettiva di limitazione del rischio, e non solo delle Od, favorire il legame con i servizi di Rdd, incentivare le pratiche solidali. Senza contare che si tratta di un intervento sostenibile, a basso costo. Molte le "lezioni apprese" a cui la campagna internazionale potrà rifarsi; ma non meno quelle mirate al contesto italiano, dove la distribuzione del naloxone è una lotteria (e una lotteria cinica, dato che si parla di vita o morte): intere regioni, soprattutto al Sud, non ne dispongono, i Serd giocano un ruolo debole, e farmacie e medici di base non fanno rete. Quei 101 casi del 2015 potrebbero scendere ancora: anche una sola morte è troppo, se è evitabile. La campagna di advocacy per il naloxone, allora, sarà anche italiana. Guerra. L’inferno degli 87 mila rifugiati in trappola tra la Siria e la Giordania di Eugenio Dacrema e Marta Serafini Corriere della Sera, 15 febbraio 2017 La "no man’s land" tra Siria e Giordania è controllata dalle milizie che rendono difficile la distribuzione degli aiuti e il lavoro degli operatori umanitari ed è minacciata da Isis. Letteralmente significa "terrapieno". Ma Berm, per i profughi siriani che ci vivono ammassati, vuol dire altro. Confine tra la Siria e la Giordania, in una sottile no man’s land, lunga 80 chilometri e larga poco più di 5 di sabbia, tra il campo di Hadalat e quello di Rukban, secondo la stima delle Nazioni Unite da oltre un anno sopravvivono in 87 mila, il 66 per cento dei quali donne e bambini. Hadalat e Rukban non sono campi come gli altri. "La situazione sanitaria è davvero complessa. Epidemie di epatite, di malnutrizione e di malattie dovute al freddo e alla mancanza di rifugi adeguati come infezioni delle vie respiratorie", spiega un’operatrice umanitaria che chiede di rimanere anonima. E la ragione di tanta prudenza, oltre al fatto che lavorare in zone di confine come queste è pericoloso di per sé, è che questo ammasso di tende è nelle mani delle milizie ed è minacciato dai gruppi jihadisti. Fino all’anno scorso a controllare la zona erano milizie affiliate al Free Syrian Army. Negli ultimi mesi è avvenuto però un passaggio di potere a favore del Free Tribes Army, formazione recente che raccoglie le milizie legate alle tribù dell’area. L’ipotesi però è che gli uomini del Free Syrian Army messo in difficoltà dai raid di Assad sostenuto da Mosca siano passati direttamente alla nuova formazione. Una situazione fluida e totalmente fuori controllo che rende difficile il lavoro delle ong e delle organizzazioni governative. "Quotidianamente dalle nostre postazioni a chilometri dal campo sentiamo provenire rumori di esplosioni e di conflitti a fuoco provenienti dal campo e dalle zone limitrofe", continua l’operatrice. Il Free Tribes Army è una milizia nata negli anni passati per volere delle forze di sicurezza giordane che avevano bisogno di uomini per pattugliare il confine e dunque li hanno addestrati con questo obiettivo. Ma con il trascorrere del tempo e con l’acuirsi del conflitto, il gruppo è diventato sempre più indipendente. A complicare ulteriormente lo scenario, Isis che nel giugno 2016 ha piazzato un’autobomba a Rukban. "Nelle scorse settimane sono stati rinvenuti anche alcuni volantini firmati dallo Stato islamico che invitava i civili a evacuare il campo minacciando attacchi. Isis potrebbe voler impedire al gruppo rivale di fare profitti attraverso il campo. Ma se si vanno a guardare i volantini si scopre che sono privi delle caratteristiche e della retorica usuali della comunicazione dell’Isis. Ecco perché alcuni pensano che si tratti di fake prodotti da altre milizie rivali rispetto a quelle che attualmente controllano il campo che tentano così di debellare la concorrenza", sottolinea ancora l’operatrice. Per gli 87 mila che vivono lì la vita è durissima, come hanno anche sottolineato numerosi rapporti di organizzazioni per il rispetto dei diritti umani, da Amnesty fino a Human Rights Watch. Le immagini satellitari mostrano l’espansione dell’area occupata dalla tende e dalle tombe. Nessuno può fisicamente accedere ai campi. L’acqua va portata a mano. Le distribuzioni di cibo, coperte e altri generi di prima necessità avviene ai bordi del campo, sotto la supervisione del World Food Program e dell’Unicef. "Molte persone sono morte. Distribuiscono riso, lenticchie e un chilo di datteri secchi, ma è tutto per un mese", ha raccontato un profugo ad Amnesty International. Spesso le distribuzioni sono molto difficili a causa delle tensioni presenti nel campo che possono sfociare anche in violenze verso gli operatori umanitari (per le distribuzioni le Nazioni Unite si avvalgono di contractor). Tanto che in, alcuni casi, per distribuire gli aiuti è stato necessario usare una gru comandata esternamente per calare i carichi direttamente dentro al campo. Impossibile è poi controllare dove finiscono cibo e medicine. La clinica più vicina si trova a 6 km ed è in fase di completamento. Ma si tratta di un percorso di tre ore. Inoltre ad ogni distribuzione all’interno del campo il numero dei civili aumenta a vista d’occhio."L’ipotesi è che parte degli aiuti venga dirottato dalle milizie che controllano il campo verso acquirenti esterni che vengono a ritirare i beni quando c’è la distribuzione", conclude ancora l’operatrice. Ma dall’inferno di Berm per i rifugiati siriani non c’è via di scampo. Da giugno scorso le autorità giordane non li lasciano più passare perché considerano il campo un’enclave di Isis e "Temiamo infiltrazioni", ha dichiarato quest’estate un portavoce di Amman ad Al Jazeera. E anche tornare indietro per gli 85 mila della "banchina" non è un’opzione. La zona a nord del campo è controllata almeno in parte dall’Isis. E per andare verso Nord Est si deve per forza passare sotto di loro. Un’opzione che equivale alla morte o al reclutamento. Libia. L’avvocata che sfida l’Italia "Illegale l’accordo sui migranti" di Francesco Battistini Corriere della Sera, 15 febbraio 2017 Azza Maghur, figlia di un diplomatico Onu chiede l’annullamento dell’intesa al tribunale di Tripoli. Quella foto di Serraj a Roma, non le va giù. E meno ancora quel memorandum che ha firmato sui migranti, a inizio mese: "È squilibrato. L’Italia s’avvantaggia della fragile situazione libica e della pressione internazionale, trascura ogni obbligo morale stabilito dal diritto internazionale e dalle sue stesse leggi. Il problema delle migrazioni ora cade tutto sulle spalle d’una Libia lacerata dalla guerra, costretta a fronteggiare da sola questi sconvolgimenti". Ieri è saltato l’incontro tra il premier Serraj e l’uomo forte della Cirenaica, Khalifa Haftar, che dovevano incontrarsi al Cairo. Oggi, se c’è un giudice a Tripoli, l’avvocatessa Azza Maghur - assieme a un gruppo d’ex ministri e intellettuali moderati - chiederà con un ricorso urgente al tribunale amministrativo (ebbene sì, esiste ancora...) di sospendere l’accordo e "tutti i disastri che Serraj ci porterà in casa". Figlia d’un diplomatico che nell’era Gheddafi s’occupo’ del caso Lockerbie, Azza è un’attivista per i diritti umani che ha difeso i detenuti di Guantánamo e intanto partecipato alla cacciata del Colonnello, collaborato con la Croce Rossa e l’Onu, sostenuto le donne e i profughi, scritto libri sulla Rivoluzione e articoli per il New York Times. "Con questo documento - accusa l’avvocatessa, Serraj fa della Libia una responsabile diretta delle migrazioni illegali. Ma noi siamo solo un Paese di transito, come l’Italia. E a differenza dell’Italia, da noi non c’è un profugo che voglia fermarsi". C’è da chiedersi perché il memorandum sia illegale, però: in fondo, l’ha voluto un governo legittimo... "Serraj non aveva i poteri costituzionali per firmarlo: serve un ok del Parlamento, che non c’è perché il Parlamento non è a Tripoli. Serve anche l’unanimità dei ministri, che non c’è stata. E poi vengono violate le direttive Ue: l’Europa infatti non ha voluto entrarci". In una Libia allo sfascio, sembrano cavilli... "La questione centrale è che i migranti, che già subiscono violenze, continueranno a patirne una volta rispediti in Libia. C’è il rischio altissimo di creare un clima di razzismo, con migliaia di detenuti in uno Stato che non ha polizia né esercito. Serraj non controlla nulla". L’accordo prevede soldi e aiuti: "Non è specificato alcun tipo di contributo finanziario. Non s’indica nemmeno il numero dei centri di detenzione o quanti migranti possano contenere. La Libia non ha mai firmato la Convenzione del 1951 sui rifugiati, non ha sistemi di controllo, non applica le regole d’asilo. I migranti verranno reclusi per periodi infiniti, rispedirli qui significa condannarli ad abusi. Le autorità non riescono a bloccare le gang che violentano i libici: come possono proteggere i migranti?". Molti si domandano: ma se questo ricorso è accolto, che succede? "L’accordo è nullo. Il memorandum promette che non ci saranno variazioni demografiche e minacce alla sicurezza e alla stabilità economica della Libia. Ma non viene data alcuna soluzione alle enormi sfide che si prospettano. Si parla per esempio di malattie pericolose e contagiose, ma il sistema sanitario libico è al collasso! Quasi due milioni di libici non hanno nemmeno l’assistenza medica di base...". Perché dite che è lesa anche la sovranità libica? "Il memorandum si rifà all’accordo Berlusconi-Gheddafi del 2008, che peraltro l’Italia aveva già sospeso unilateralmente: le guerre passano e gli Stati restano, anche se qui ci sono nuovi soggetti che firmano, e in quel documento comunque s’accennava a confini territoriali, non marini". Il memorandum dovrebbe garantire i flussi migratori per tre anni... "Il governo guidato da Serraj fra un anno esaurirà il mandato: a che titolo ha preso un impegno così lungo?". Mauritania. Consiglio regionale lombardo chiede azione governo a tutela detenuto italiano omnimilano.it, 15 febbraio 2017 Il Consiglio regionale della Lombardia si mobilita nuovamente per Cristian Provvisionato, un giovane di Cornaredo (Mi), malato di diabete, detenuto dal 1 settembre 2015 in Mauritania perché considerato responsabile di una presunta truffa informatica ai danni del Paese africano. L’Aula ha infatti approvato una mozione del consigliere di Forza Italia Mario Mantovani, e sottoscritta anche dal Vice Presidente del Consiglio regionale Fabrizio Cecchetti (Lega Nord) e dal Consigliere Carolina Toia (Lista Maroni), con la quale si chiede l’intervento e il supporto della Regione per tutelare i diritti del cittadino lombardo che ha perso 30 kg, ha bisogno di cure e non può contare su assistenza legale e sanitaria. Il documento chiede di verificare la possibilità che la Lombardia possa supportare i familiari nel rapporto con il Ministero degli Affari Esteri e che si sensibilizzino i si coinvolgano i parlamenti italiani eletti nel collegio Nord-Ovest del parlamento europeo presenti anche nell’Assemblea parlamentare Africa- Cairaibi, Pacifico- Unione Europea. A favore del documento e a un intervento che sblocchi la situazione in Aula sono intervenuti anche i consiglieri Fabio Pizzul (PD) e Paola Macchi (M5S). L’Assessore alla Cultura Cristina Capellini ha informato l’Aula che sulla questione nel novembre scorso il presidente Roberto Maroni aveva inviato una lettera all’allora Ministro degli affari esteri Paolo Gentiloni in cui si chiedeva di prendere provvedimenti per garantire a Provvisionato adeguate cure e ottenerne la liberazione. Non avendo ricevuto alcuna risposta da parte delle istituzioni centrali, Palazzo Lombardia invierà una nuova nota all’attuale Ministro degli affari esteri Angelino Alfano e avvierà immediatamente contatti con il Segretariato Generale della Farnesina e i Parlamentari europei. Australia. Trovata con 5 chili di cocaina, donna italiana rischia l’ergastolo Corriere della Sera, 15 febbraio 2017 La 39enne è stata fermata all’aeroporto in arrivo da Roma. La droga, per un valore di 770mila euro, era nascosta in un doppio fondo della valigia. Rischia l’ergastolo in Australia una donna italiana 39 anni, Elisa Salatino, fermata domenica scorsa all’aeroporto internazionale di Melbourne dalla Forza di frontiera australiana (Abf). La donna era in arrivo da Roma ed era stata presa da parte per controlli al suo bagaglio. Durante il passaggio di una sua borsa ai raggi X, era stato scoperto un doppio fondo assemblato con un pannello di legno compensato. All’interno del compartimento i doganieri hanno rinvenuto diversi pacchetti, che in base alle analisi risultano contenere cocaina per 5 chilogrammi, per un valore di circa 770mila euro. La donna è stata arrestata dalla polizia federale ed è comparsa davanti a un tribunale di primo grado, la Magistrates Court di Melbourne, e imputata di importazione e possesso "di una quantità commerciale di droga soggetta a controllo di confine", reato passibile di una pena massima dell’ergastolo. È stata quindi rinviata a giudizio il prossimo 22 maggio.