Risarcimenti e indennizzi: non sempre lo Stato paga di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 14 febbraio 2017 Per l’ingiusta detenzione, secondo il ministero dell’economia, la disponibilità finanziaria è inadeguata. Dal 1992 sono stati versati 630 milioni a quasi 25mila vittime di ingiusta detenzione, 36 milioni nel 2015 e altri 11 nei primi tre mesi del 2016. Raffaele Sollecito si è vista negare la sua richiesta. Il rigetto della Corte d’Appello di Firenze alla richiesta di risarcimento per ingiusta detenzione avanzata da Raffaele Sollecito, mette nuovamente in luce un’emergenza latente, silenziosa, che colpisce ogni anno migliaia di cittadini innocenti. Si tratta di un fenomeno che riguarda troppi cittadini italiani arrestati e successivamente rilasciati (dopo tempi più o meno lunghi) perché risultati innocenti. E non sempre vengono risarciti. Ogni anno settemila italiani vengono incarcerati o costretti ai domiciliari e poi assolti. Una parte di questi si rivale contro lo Stato, che mediamente riconosce l’indennizzo a una vittima su quattro. Dal 1992 il ministero dell’Economia e Finanze - dato aggiornato al 31 marzo dell’anno scorso - ha pagato 630 milioni di euro per indennizzare quasi 25 mila vittime di ingiusta detenzione, 36 milioni li ha versati nel 2015 e altri 11 nei primi tre mesi del 2016. Nella sola Sardegna sono settanta le vittime di ingiusta detenzione dal 2012 a oggi e quasi 2 milioni di euro in risarcimenti versati dallo Stato nello stesso periodo. I dati sono stati presentati durante il convegno organizzato lo scorso 10 febbraio dall’Ordine degli Avvocati di Cagliari sul tema degli errori giudiziari: spunto iniziale di discussione, la proiezione del docu-film "Non voltarti indietro" (prodotto da errorigiudiziari.com per la regia di Francesco Del Grosso), la prima opera di questo tipo dedicata al grande tema degli innocenti in manette nel nostro Paese. All’evento hanno partecipato il presidente dell’Ordine degli Avvocati di Cagliari, Rita Dedòla, il presidente del Tribunale di Cagliari, Mauro Grandesso, il presidente della Camera Penale cittadina, Rodolfo Meloni, il Procuratore aggiunto presso il Tribunale di Cagliari, Gilberto Ganassi e il giornalista Ottavio Olita. Ma ritorniamo agli elementi più significativi dell’analisi che errorigiudiziari.com ha condotto sulle statistiche relativi alla Sardegna, partendo dai dati d’insieme. Tra il 2012 e il 2016, secondo l’analisi di errorigiudiziari.com sui dati in Sardegna, Cagliari ha fatto registrare 36 casi riconosciuti di ingiusta detenzione; a Sassari lo stesso dato si è fermato a 34. Molto simili tra loro anche le somme riconosciute a titolo di indennizzo: 982.224,42 euro totali per i casi cagliaritani, 927.099,80 euro per quelli relativi al distretto di appello di Sassari. Un elemento che balza agli occhi l’anno appena concluso. Il 2016, infatti, ha fatto registrare un brusco calo di casi di ingiusta detenzione che sono stati indennizzati: ciascuno dei due distretti di appello della regione ha fatto registrare lo stesso numero di ordinanze (3), per un importo da liquidare sostanzialmente identico (circa 35 mila euro). Ma si tratta di numeri decisamente inferiori a quelli degli anni precedenti: dal 2012 al 2015, infatti, si era sempre superata la soglia dei 400 mila euro di risarcimenti totali. Nei cinque anni considerati da errorigiudiziari.com, lo Stato ha versato in tutto poco meno di due milioni di euro (1 milione e 909 mila euro) alle 70 vittime di ingiusta detenzione riconosciute tali nei due distretti di appello dell’Isola. In particolare, le 36 ordinanze di Cagliari hanno portato a indennizzi per 982.224,42 euro, mentre le 34 di Sassari hanno liquidato una somma pari a 927.099,80 euro. Gli anni con il maggior numero di casi di ingiusta detenzione (11) nel capoluogo sono stati a pari merito il 2012 e il 2013: 11 ordinanze. L’anno record per Sassari è stato invece il 2014, con 15 indennizzi autorizzati. Nel 2015 il boom di spesa per Cagliari: 323.193 euro versati a fronte di 7 casi di ingiusta detenzione; il 2014 è stato per Sassari un anno record anche dal punto di vista delle somme riconosciute (oltre 608mila euro). Il motivo del brusco calo di indennizzi nel 2016 non va attribuito allo Stato più virtuoso o a meno innocenti in carcere. Il motivo è spiegato dagli stessi esperti del ministero dell’Economia e delle Finanze: le diminuzioni degli importi riguarda porti corrisposti a titolo di Rid (Riparazione per Ingiusta Detenzione) soprattutto negli ultimi anni non sono conseguenza di una riduzione delle ordinanze, bensì della disponibilità finanziaria sui capitoli di bilancio non adeguata. Bisogna distinguere i casi di riparazione per ingiusta detenzione dagli errori giudiziari. Nel primo caso si fa riferimento alla detenzione subita in via preventiva prima dello svolgimento del processo e quindi prima della condanna eventuale, mentre nel secondo si presuppone invece una condanna a cui sia stata data esecuzione e un successivo giudizio di revisione del processo in base a nuove prove o alla dimostrazione che la condanna è stata pronunciata in conseguenza della falsità in atti. Nel caso di ingiusta detenzione, l’indennizzo consiste nel pagamento di una somma di denaro che non può eccedere l’importo di 516.456 euro. La riparazione non ha carattere risarcitorio ma di indennizzo. Nel caso dell’errore giudiziario, invece, c’è un vero e proprio risarcimento. Il caso più eclatante di risarcimento è avvenuto un mese fa. Si tratta del più alto risarcimento per un errore giudiziario riconosciuto in Italia. Sei milioni e mezzo per ripagare 22 anni di carcere da innocente e circa 40 anni vissuti con una spada di Damocle sulla propria esistenza, tra galera e attesa delle decisioni dei giudici. Parliamo di Giuseppe Gulotta che era stato accusato, quando aveva 18 anni, dell’omicidio di due carabinieri, Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta, trucidati il 26 gennaio 1976 ad Alcamo Marina, in provincia di Trapani. Arrestato, è stato costretto sotto tortura a confessare un reato mai commesso. Al processo di primo grado è stato assolto per insufficienza di prove, ma dopo vari gradi di giudizio è stato definitivamente condannato all’ergastolo nel 1990. Con lui furono accusati degli omicidi altri quattro ragazzi. Due fuggirono in Brasile per scampare al verdetto, uno venne ritrovato impiccato in cella, un altro ancora morì di tumore in carcere, privato delle cure in ospedale perché ritenuto un pericoloso ergastolano. Dopo 36 anni, di cui 25 trascorsi dietro le sbarre, Gulotta ha ottenuto la revisione del processo grazie alla confessione di un carabiniere. È stato assolto - come gli altri dei quali due sono morti e altri due fuggiti definitivamente nel 2012. Dopo il riconoscimento della sua innocenza e del diritto al risarcimento nel 2016, un mese fa è arrivato il momento del pagamento da parte dello Stato. La battaglia di Giulio Petrilli. La sua richiesta di risarcimento è stata rigettata Raffaele Sollecito assolto, dopo quattro anni di carcere, dall’accusa di aver ucciso Meredith Kercher, dopo l’assoluzione ha fatto richiesta di risarcimento per ingiusta detenzione. Ma la Corte d’appello di Firenze ha negato il risarcimento per "dolo e colpa grave", la motivazione del diniego è che sarebbe stato poco chiaro nel primo interrogatorio e avrebbe tratto in inganno gli inquirenti. Quella di Sollecito ricorda molto da vicino la storia di Giulio Petrilli, arrestato il 23 dicembre del 1980 con l’accusa di partecipazione a banda armata per un presunto coinvolgimento nell’organizzazione terroristica Prima Linea. Petrilli aveva all’epoca 21 anni. L’allora pm Armando Spataro, che emise il mandato di cattura, sosteneva che Petrilli fosse coinvolto nell’organizzazione terroristica Prima Linea e chiese una condanna a undici anni. Scontò cinque anni e otto mesi di carcere duro, che prevedeva anche la detenzione in strutture speciali e sotto il regime dell’articolo 90, più duro del 41 bis. Fu rilasciato nel 1986, dopo l’assoluzione in appello presso il Tribunale di Milano. La sentenza definitiva di assoluzione arrivò dalla Cassazione nel luglio 1989. Dopo quegli anni di duro isolamento, la salute di Giulio Petrilli e le sue condizioni psico-fisiche, acclarate da numerosi certificati medici, ne hanno risentito. Da anni Petrilli si sta battendo per ottenere un risarcimento danni a causa dell’errore giudiziario che lo ha portato all’ingiusta detenzione. L’istanza di risarcimento è stata rigettata, tuttavia, sia dalla Corte d’Appello di Milano sia dalla Cassazione, in virtù dell’art. 314 del codice di procedura penale, primo comma, dove si afferma che la riparazione per ingiusta detenzione non viene concessa nel caso di dolo o colpa grave. Nel caso di Petrilli, la Corte ha ritenuto che le sue frequentazioni avrebbero tratto in inganno gli inquirenti. Chiusura definitiva degli Opg a un passo: "ora garantire il diritto alla salute mentale" di Giovanni Augello superabile.it, 14 febbraio 2017 Il Comitato nazionale che si batte per la chiusura definitiva degli ospedali psichiatrici giudiziario è stato in Sicilia per un tour tra le Rems e l’ultimo Opg ancora aperto, quello di Barcellona Pozzo di Gotto. Cecconi: "Siamo vicini al traguardo finale ma la chiusura degli Opg non esaurisce il lavoro del comitato nazionale, né le preoccupazioni per il futuro". Ospedali psichiatrici giudiziari ad "un passo dalla chiusura", ma la sfida ora è lavorare per "garantire il diritto alla salute mentale dei detenuti". A parlare è Stefano Cecconi, portavoce del comitato nazionale StopOpg, subito dopo la visita che venerdì scorso, 10 febbraio, ha realizzato all’ultimo Opg presente sul territorio nazionale, quello di Barcellona Pozzo di Gotto, in Sicilia. Una visita che ha dato il via ad una due giorni di incontri da parte delle organizzazioni aderenti al comitato con le istituzioni locali e tutti gli attori coinvolti in questo processo di superamento, e conclusa con un incontro con il sottosegretario al ministero della Salute, Davide Faraone, a Caltagirone. "Siamo stati nell’Opg di Barcellona Pozzo di Gotto - racconta Stefano Cecconi a Redattore sociale - che in questi giorni è stato trasformato in casa circondariale. All’interno, però, sono internati in misura di sicurezza ancora 14 persone. Nove con una misura di sicurezza detentiva definitiva, e per queste il direttore del carcere ci ha annunciato che entro la settimana prossima dovrebbero essere organizzate le dimissioni verso comunità terapeutiche assistenziali, quindi non Rems. Le restanti 5 persone sono internate con misura provvisoria e per queste la magistratura di cognizione non ha ancora deciso se è possibile una scarcerazione, una dimissione o una misura di sicurezza alternativa nonostante il parere positivo della direzione dell’Opg sulla loro dimissione". L’ultimo capitolo della storia degli ospedali psichiatrici giudiziari in Italia, quindi, sta per concludersi. Dopo la chiusura dell’Opg di Montelupo Fiorentino, è la volta della Sicilia, regione tra l’altro non commissariata dal governo per i ritardi, come avvenuto per altre regioni, affidate al Commissario unico per la chiusura degli Opg, Franco Corleone, che il prossimo 19 febbraio vedrà scadere il suo secondo mandato. "Siamo ad un passo dalla chiusura del manicomio giudiziario di Barcellona - aggiunge Cecconi. Certamente la nostra visita ha accelerato gli adempimenti da parte delle aziende sanitarie, ma insisteremo fino a quando non vedremo con i nostri occhi la vicenda chiusa". La chiusura degli Opg, però, non esaurisce il lavoro del comitato nazionale, né le preoccupazioni per il futuro. "C’è una coda importante in questa vicenda - spiega Cecconi - e riguarda le tante persone con problemi di salute mentale che sono nelle carceri per le quali vanno previste misure alternative alla detenzione, perché cura e custodia non si conciliano. Nel caso in cui debbano rimanere in carcere, si deve far in modo che possano avere cure adeguate in apposite sezioni. A Barcellona si sta cercando di organizzare questa risposta, vedremo nelle prossime settimane se davvero succederà qualcosa di positivo per il diritto alla salute delle persone". A mantenere alta l’attenzione sul tema, però, devono essere anche le istituzioni, continua Cecconi. "Il lavoro positivo che il commissario ha fatto deve trasformarsi in un organismo stabile, tra governo, regioni e società civile - spiega Cecconi. Ci candidiamo a collaborare a questo processo perché non può essere che la chiusura dei manicomi giudiziari si trasformi soltanto nell’apertura di queste Rems che rischiano di essere nuovi contenitori". Un timore alimentato dalle visite alle Rems fatte dal comitato in giro per l’Italia in questi mesi. "Abbiamo trovato Rems come nel Lazio o come a Castiglione delle Stiviere che sono dei mini Opg - aggiunge il portavoce di StopOpg, altre Rems che invece stanno facendo uno sforzo per rappresentare un’alternativa al vecchio manicomio. Ma non è solo la Rems la soluzione prospettata, c’è la cura in comunità e questo apre un capitolo enorme sul diritto alla salute mentale per tutti i cittadini. Ci aspetta ancora un lavoro enorme: dentro le carceri, per garantire il diritto alla salute dei detenuti, e fuori per garantire che i servizi di salute mentale funzionino per tutti i cittadini". L’arte libera tutti, detenuti e uomini liberi di Giancarlo Capozzoli (regista teatrale e scrittore) huffingtonpost.it, 14 febbraio 2017 Arancione come le divise degli uomini ritratti. Arancione come le sedie e i pochi oggetti. Arancione. Come le divise dei prigionieri-detenuti nella celle-vergogna di Guantánamo? Arancione è il colore del catalogo e della performance ideata e progettata da Giorgio De Finis, Mezza Galera appunto, edito da Bordeaux edizioni. Giorgio De Finis è un antropologo e un artista che ha trovato la sua dimensione concreta nella realizzazione del Maam, a Roma, museo dell’altro e dell’altrove-Metropoliz, dove assieme a un bel numero di occupanti, molti, tanti artisti espongono gratuitamente le loro opere, e i loro progetti, le loro creazioni. La barricata dell’arte, come il titolo di un altro volume sempre curato dal De Finis. L’arte, le opere, un museo aperto e gratuito come barricata contro il pericolo sempre presente dello sgombero da parte delle autorità di questa ex fabbrica, diventata abitazione per molti e museo per i cittadini. Un altro luogo della città abbandonato e riportato alla vita. Il primo museo libero. Bambini rom, africani, italiani si rincorrono tra le opere del cortile e degli spazi fatiscenti dell’interno di questa ex fabbrica. Mezza Galera è un progetto ideato e progettato la scorsa estate dallo stesso De Finis. Mezza Galera come quella che volontariamente e solo per un periodo di tempo limitato, un gruppo di uomini e donne, artisti, ha realizzato e sperimentato nel carcere abbandonato di Montefiascone. Performance che ha sollevato anche qualche polemica fondata sulla presunta leggerezza con cui si è affrontato il tema della detenzione e della privazione della libertà personale. Polemiche che sono andate ben oltre le intenzioni degli artisti coinvolti e dello stesso curatore. È tremendamente difficile affrontare con leggerezza la questione della privazione della libertà della persona, di muoversi, parlare, agire, evadere. Eppure anche questa leggerezza può essere utile al fine di sollevare ulteriori riflessioni sull’altro da sè, sulla prigione vera, sulla detenzione reale di uomini veri, in un tempo concreto, in un carcere reale. In questi ultimi tempi, l’attenzione per questo mondo dimenticato, per i reclusi stessi, per i diritti dei detenuti, si è ridestata grazie a un rinnovato spirito civile, laico e religioso, anche. Il papa ha dedicato e dedica molte delle sue preghiere a questo dramma rimosso dai più. Dalla politica, e dai cittadini. Inoltre il populismo penale, il giustizialismo, il diritto penale del nemico, lo spirito di vendetta sono oggetto di studio da parte di chi si occupa di questi temi da un punto di vista istituzionale e politico, ma restano comunque questioni difficili da rimuovere all’interno della società. Parlarne scriverne raccontarne serve, potrebbe servire a squarciare questo velo che nasconde, copre, dimentica. Pertanto se si riflette seriamente su cosa sia il carcere in sè (sulla utilità/inutilità del carcere molto si è detto e molto ci sarebbe ancora da dire), in breve si potrebbe affermare che è il luogo in cui una persona condannata (il dramma è anche quello di chi in attesa di giudizio è provato della libertà personale) è costretta a trascorrere una parte della sua vita, in regime di libertà vigilata. Spazio e tempo. Il fattore tempo è determinante, naturalmente. Giorni mesi settimane anni, spesso trascorsi senza aver nulla da fare, in attesa che il tempo (della condanna) scorra. Tempo di attese: risposte, incontri, colloqui, esami. Il tempo non dedicato ai figli. Alla famiglia, agli affetti, alla sessualità. Ma anche tempo non-destinato a quelle attività socialmente utili che potrebbero permettere di riallacciare quel rapporto lacerato con la società che la realizzazione del reato ha comportato. Il tempo è anche il tempo della rieducazione e anche il tempo paradossale del fine pena mai. Mai. Nessuna rieducazione possibile. Nessun tempo a disposizione. Una pena di morte viva nel paese che ha abolito la condanna a morte. Dunque questo fattore tempo (non-tempo) assieme allo spazio è il carcere. E lo spazio? Corridoi lunghi, muri spessi, sbarre, cancelli chiusi/aperti, rettangoli di cielo che si intravvedono, scale strette, rotonde, inferriate, sono lo spazio accessibile a chi svolge una qualche attività dentro la prigione. Le celle sono lo spazio non-visibile. Eppure sono lo spazio entro il quale i detenuti trascorrono gran parte delle giornate, e quindi della propria vita. Delle celle, si sa tramite il problema mai risolto davvero del sovraffollamento e delle questioni legate a questo: tante persone (adulte) rinchiuse in uno spazio minimo. Poco più che essenziale. Delle celle si sa delle brande affianco alla latrina. Degli sgabelli. E dei tanti piccoli divieti che dentro si possono trattenere. Uno una volta mi ha raccontato di come aveva tentato di colorare la sua cella, per sentirla meno squallida e meno triste. Mezza Galera, la performance raccontata in questo volume, ha il merito di svelarci come è una cella. Da dentro. Non solo e non soltanto materialmente. Ha il merito voglio dire di mostrarci come potrebbe essere. Come ciascuno potrebbe rendere questo posto più personale, intimo, più umano, più accogliente. La trasformazione, la colorazione o le altre performance realizzate da questo gruppo di artisti sono anche lo spunto per una riflessione ulteriore su questo spazio, e sullo spazio in generale. Naturalmente i presupposti di partenza sono diversi. Chi ha preso parte a questa performance lo ha scelto liberamente, consapevole che la reclusione sarebbe durata comunque per un tempo limitato e prestabilito. Sette giorni. La riflessione che sorge è determinante. Dunque presupposti diversi, certamente. Inoltre, gli artisti-liberi-detenuti hanno potuto introdurre all’interno qualche oggetto, che li/qui nella realtà detentiva non sarebbe possibile avere. In ogni caso un certo isolamento dal mondo esterno è stato comunque ottenuto. Il curatore-artista ha imposto di lasciar fuori tutti questi oggetti che servono a far interagire con il fuori. Un libero-isolamento-forzato che è lo specchio riflesso dell’ isolamento reale della detenzione. Mezza galera è allora il racconto visivo e raccontato dell’isolamento di questi uomini-liberi-detenuti, ed è il resoconto di questa esperienza raccontata anche tramite un questionario che il curatore ha sottoposto loro durante il breve soggiorno della carcerazione. Le celle qui raccontate sono tutte celle singole. Il problema del sovraffollamento è così eluso. Sempre troppo poco spesso si dice di questa questione. Che riguarda la dignità e il trattamento non degradante che la Costituzione Italiana prevede e sancisce. Celle singole ma pur sempre celle, dunque. Celle in cui il tempo si è dilatato, così come accade ai detenuti veri che in assenza di stimoli esterni e di ritmi, lentamente si assopiscono. Letteralmente. Celle che sono state testimoni dell’assenza di quella affettività e di quell’abbandonarsi allo scorrere di questo (non-) tempo-sempre-uguale. Parole che diventano carne e ossa e ricordi e silenzi interminabili per chi è costretto a viverle. Anche se per gioco e solo per qualche giorno. Celle che sono state anche il luogo dove ritrovare se stessi e la propria creatività. Come è accaduto a questi artisti appunto. L’arte è, può essere, isolamento, anche. Ma questo isolamento è una scelta, e in questa scelta c’è la differenza. Si decide di isolarsi per qualche tempo, per comporre la propria musica, per ritrovare la propria armonia interiore, per dipingere, per scrivere la propria opera, per suonare. Si sceglie, e si sceglie di restare in questa scelta oppure no. Si cambia strada, si cambia idea. Si esce per passeggiare in attesa di ispirazione, si prende un giorno di pausa dalla propria produzione e attività. Si interrompe, si stacca al fine di distrarsi, di incontrarsi, ritrovarsi. Si passeggia. Si evade. Evadere. L’arte libera tutti, uomini liberi e uomini detenuti. Arte e prigione, uomini detenuti e artisti. Questa performance favorisce un accostamento di questi due concetti e queste realtà così distanti. Un detenuto e un artista di questa performance sono entrambi isolati. Uno per scelta, l’altro per obbligo di legge, per aver violato la legge nel commettere un reato. È la scelta la inevitabile distinzione e separazione tra questi mondi. Scelta, decisione, comprensione, carattere, comparazione, possibilità sono concetti che riguardano tutti gli uomini, l’uomo in generale. Anche gli uomini detenuti, prima del loro essere-detenuti. Uomini e basta senza ulteriori declinazioni. Una scelta cela già un pensiero, un pensare. Una pre-comprensione che ci rende, ci fa capaci di intendere e di volere. Se non si è in grado di operare una scelta, in assenza di un pensare effettivo, se non si sceglie, si è davvero in grado di intendere e di volere? E in che modo? Questa questione che qui è soltanto posta, resta dal mio punto di vista una questione fondamentale. Anche al momento del giudizio. È su questa quasi totale assenza di scelta, di pensiero, di riflessione e di conseguenza assenza reale di un agire e e di azioni anche, che in una collettività, si deve agire e agire politicamente. Prima. Dopo non serve. Anzi dopo non si agisce più, oramai. Prima, voglio dire, vuol dire prima che un uomo-senza-scelta, quasi pre-destinato alla reclusione, finisca per diventare ciò a cui qualcuno lo ha destinato, un uomo privato, anche della sua libertà personale. Mezza galera allora è un ulteriore strumento funzionale a una necessaria riflessione sullo spazio/tempo del carcere. È necessaria per ripensare alla struttura della reclusione stessa. Ma necessaria anche riguardo a un ripensamento sul concetto di arte. E sul concetto di libertà. Lite sull’emendamento che accoglie le richieste delle toghe per le pensioni di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 14 febbraio 2017 Pd diviso: rimossi due senatori a favore delle modifiche. Il caso del procuratore antimafia. Un emendamento al decreto Milleproroghe, che va incontro alle richieste dei magistrati sull’età pensionabile, provoca una rottura nel Partito democratico e la sostituzione di due componenti della commissione Affari costituzionali del Senato. Accadrà oggi, prima della votazione. I due parlamentari Maurizio Migliavacca e Miguel Gotor, che hanno fatto propria la richiesta di modifica e l’avrebbero appoggiata con buone probabilità di farla passare, non si presenteranno e al loro posto andranno altri due, che voteranno contro. In esecuzione della volontà del partito e, soprattutto, del governo. La posta in gioco è quella che ha provocato la protesta dell’Associazione nazionale magistrati, sfociata nella diserzione della cerimonia d’inaugurazione dell’anno giudiziario in Cassazione. Contestano il decreto legge con il quale, alla fine dell’estate scorsa, sono stati lasciati al loro posto - oltre i settant’anni di età - una dozzina di giudici e procuratori in servizio alla Corte suprema. A cominciare dal primo presidente Giovanni Canzio e dal procuratore generale Pasquale Ciccolo. Norma incostituzionale, ha tuonato subito l’Anm, perché discriminatoria tra toghe di serie A e serie B; con il governo che si sceglie i magistrati e decide chi lasciare in servizio e chi mettere a riposo. Promesse tradite - Tra quelli mandati a riposo c’è anche chi ricopre incarichi importanti, come il procuratore di Napoli Giovanni Colangelo (lascerà fra tre giorni) o il superprocuratore nazionale antimafia Franco Roberti (a novembre). L’esecutivo aveva promesso di intervenire, ma non ha fatto niente. Così, per cercare una soluzione, il senatore del Pd Vincenzo Cuomo ha presentato due emendamenti, che lasciano in servizio le toghe (con il limite di 72 anni) fino alla copertura degli organici lasciati vuoti anche da chi va in pensione. Più o meno quello che suggeriva l’Anm per sanare il vulnus costituzionale denunciato. "Ma io non sono andato dietro alle richieste dei magistrati - spiega Cuomo. La mia proposta serve a garantire l’efficienza della giustizia, e a far capire che la necessaria proroga concessa ai vertici della Cassazione non era ad personam. Se però non interveniamo con una correzione, sembrerà una decisione contra personas". Cioè contro chi potrebbe rimanere in servizio come gli altri, ma non gli verrà concesso. In commissione Affari costituzionali l’emendamento Cuomo è stato sottoscritto dai senatori Migliavacca e Gotor, e sarebbe probabilmente passato con il sostegno di 5 Stelle e Forza Italia, che hanno presentato modifiche analoghe. Ma il Pd e gli altri alleati della maggioranza di governo restano contrari. Come il governo. È cominciata allora una trattativa per convincere i due componenti dissidenti a non insistere sulla loro posizione. Accontentandosi, magari, di un ordine del giorno che impegnava governo a maggioranza ad affrontare la questione in altra sede e con altre soluzioni. Ma non c’è stato niente da fare. I due senatori, spalleggiati da altri che poi hanno ceduto, non si sono accontentati. Decisione inedita - Nell’ultima seduta della commissione l’emendamento è stato accantonato, e ora s’è arrivati alla decisione più drastica: senza precedenti, se si esclude la sostituzione di Vannino Chiti e Corradino Mineo, nel 2014, alle prime discussioni sulla riforma costituzionale voluta dal governo Renzi e poi bocciata dal referendum del 4 dicembre. Il capogruppo Luigi Zanda ha comunicato a Migliavacca e Gotor che, restando la posizione del gruppo parlamentare diversa dalla loro e vigendo in commissione (a differenza che in Aula) un principio di lealtà rispetto alla linea ufficiale, è opportuno procedere a rimpiazzarli per la votazione su quell’emendamento. Una decisione inedita, che dimostra una volta di più come la giustizia e il rapporto con i magistrati restino una materia complessa e foriera di contrasti anche in casa Pd. Ambrogio Crespi: "io regista antimafia e la condanna beffa. Schiaffo contro la mia vita" di Dimitri Buffa Il Tempo, 14 febbraio 2017 Parla l’autore del documentario sugli ergastolani. I giudici lo hanno punito con 12 anni per "concorso esterno". "La fiducia nella giustizia non è venuta meno resta, forte è radicata dentro me. La sentenza è un’offesa alla mia vita, uno schiaffo a quello che sono e che rappresento per molti. Io, sono sempre stato contro le mafie e la criminalità come scelta di vita tutte le mie opere vanno in quella direzione, "Malaterra", "Le ali del falco" e "Spes contra Spem". Quello che è successo a me può succedere a chiunque e la tragedia è che succede tutti i giorni, io ho dalla mia tanta gente che mi vuole bene perché mi conosce, il mio caso sarà al servizio di tutti loro". Ambrogio Crespi, il regista che ha portato al festival di Venezia la "Spes contra spem" degli ergastolani ostativi, è rimasto ferito da quella enorme condanna a 12 anni di reclusione inflittagli dalla ottava sezione del tribunale penale di Milano che ha addirittura raddoppiato le richieste del pm in aula per una vicenda di voto di scambio e concorso in associazione esterna con la ‘ndrangheta a Milano che era ormai stato dimenticato da tutti i media dopo i clamorosi Arresti dell’ottobre 2012. "Eravamo sicuri io coni miei avvocati Marcello Elia, Barbara Belloni e Giuseppe Rossodivita, di avere dimostrato in sede dibattimentale non solo la mia innocenza ma la mia estraneità ai fatti. Lo stesso Pm aveva modificato i capi di imputazione durante il processo perché risulta incredibile essere associato con chi non conosci e portate voti che non ho a chi non hai mai visto. Accuse, lunari estranee alla mia stessa vita. Ecco, perché la mazzata di questa condanna è arrivata come un "fulmine a ciel sereno" e fa male tanto male. Crespi lei ritiene di essere vittima di chi le abbia voluto fare pagare la sua veemente battaglia contro la malagiustizia in Italia? "Io non ho mai fatto battaglie contro nessuno. Ho raccontato storie con l’obbiettivo di mobilitare coscienze, creare l’attenzione sollecitare un diverso punto di vista, contrastare i luoghi comuni e le banalizzazioni". Forse anche quel documentario "Spes contra spem - Liberi dentro", fatto con Sergio D’Elia di "Nessuno tocchi Caino" e portato al Festival di Venezia per fare vedere la vita degli ergastolani ostativi e di quelli del 41 bis può avere irritato qualcuno del partito del giustizialismo. "Sarebbe, una cosa terribile a cui non voglio pensare, "Spes contra Spem" è un manifesto contro l’omertà è un racconto profondo di redenzione è limitativo parlare di 41bis. I protagonisti di quel film indicano con coraggio che la via della criminalità è una via tragica e senza sbocchi, parlano di un pentimento dell’anima e riconoscono addirittura al carcere una capacità salvifica. La polizia giudiziaria si presenta come testimone di questo possibile cambiamento leva della speranza. Insomma, nessuna indulgenza nessun buonismo da accatto. Se tutto questo ha dato fastidio, bene lo rifarei e continuerò a farlo". Anche molti magistrati le sono stati a fianco? "Non confondiamo i piani. Il mio impegno civile espresso con i miei film e la mia attività di militante radicale non nascono dai 200 giorni di carcere preventivo o da una condanna ingiusta vengono da molto lontano ispirati da un uomo come Marco Pannella. Ora, dopo una condanna così pesante è assurda è un dovere per me continuare questa battaglia che ormai testimonio con tutto me stesse e non certo per mia scelta personale. Il processo però resta il processo io continuerò a difendermi con le unghie e con i denti dentro il processo non certo da esso. Lo farò pubblicando tutti gli atti: le accuse, le testimonianze perché chi vorrà esprimere un giudizio lo possa fare rendendosi conto personalmente dei fatti e dei "non-fatti" poi aspetterò la pubblicazione delle motivazioni e prepareremo l’appello. Io sono e resto innocente e lo sono anche per la legge fino alla sentenza definitiva". Omicidio stradale, assoluzione anche se c’è eccesso di velocità di Maurizio Caprino Il Sole 24 Ore, 14 febbraio 2017 Corte di cassazione, sentenza 10 febbraio 2017, n. 6366. Uccidere un motociclista investendolo a velocità oltre il limite può non bastare a essere condannati per omicidio colposo aggravato da violazione di norme stradali (omicidio stradale, se il fatto avvenisse oggi). Specie se la vittima stava compiendo una manovra imprevedibile e pericolosa, come un’improvvisa inversione a U. E se l’automobilista era già stato assolto in primo grado: i giudici d’appello dovrebbero sostanzialmente ricominciare il processo da zero per poter sovvertire il primo verdetto, specie quando è assolutorio. Lo dice la Corte di cassazione, nella sentenza 6366/2017, depositata ieri. La sentenza ha annullato con rinvio la condanna subita in appello da un automobilista cui era stato riconosciuto il 35% di colpa in un incidente costato a vita al guidatore senza casco di uno scooter senza targa né specchietto retrovisore. La vittima si era spostata verso sinistra repentinamente e senza segnalare la manovra. La sua intenzione accertata nel processo era invertire il senso di marcia, cosa vietata in quel punto. Insomma, il motociclista non aveva seguito nemmeno le più basilari regole di prudenza e sostanzialmente per questo l’automobilista era stato assolto in primo grado, pur essendo stato accertato che egli stesse superando il limite di 70 km/h imposto in quel tratto (una perizia parla di velocità non inferiore a 77 km/h, un’altra parla di 94): secondo il Tribunale, siamo in una di quelle situazioni di assoluta imprevedibilità del comportamento altrui in cui un guidatore non potrebbe evitare un incidente nemmeno prestando la massima cautela. La Corte d’appello, invece, ha ridato valore all’eccesso di velocità. Aggiungendo che dai danni visibili sui veicoli si vedeva che l’auto aveva colpito lo scooter non col frontale ma con la parte anteriore destra della fiancata. Dunque, c’era motivo di credere che l’auto fosse in fase di sorpasso, come pareva avvalorare anche un testimone che riferiva di uno spostamento della vettura verso sinistra. E il sorpasso è una manovra che va avviata solo dopo essersi accertati che ci siano tutte le condizioni di sicurezza, cosa che secondo i giudici di secondo grado non era: in senso contrario (ma a distanza imprecisata) stava sopraggiungendo un altro mezzo e la vittima procedeva senza casco non poteva nemmeno contare sul restovisore. Tutte cose che erano visibili all’automobilista e per questo avrebbero dovuto indurlo a usare maggior prudenza. Senza contare che, per sua natura, un motociclo a due ruote si muove in equilibrio instabile e quindi può improvvisamente spostarsi di lato. La Cassazione smonta questa tesi partendo da un dato procedurale dalle Sezioni unite della Corte stessa (sentenza 6682/1992): una sentenza d’appello che ribalti quella di primo grado deve avere una "motivazione rafforzata". Il che significa che vanno riesaminate tutte le prove a disposizione e, quando si tratta di trasformare un’assoluzione in condanna, occorre che l’argomentazione della sentenza abbia ancora maggior forza persuasiva. Cioè vada aldilà di ogni ragionevole dubbio (sentenza 26720/2016, sempre Sezioni unite). E per farlo bisogna tener conto anche di quanto stabilì la Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza del 5 luglio 2011 sul caso Dan/Moldavia: quando si ribalta un verdetto di assoluzione, occorre "rinnovare l’istruttoria ed escutere nuovamente i dichiaranti" per essere legittimati a valutare diversamente la loro attendibilità. Tutte cose che la Corte d’appello non ha fatto, decidendo semplicemente sulla base degli atti del primo grado, valutati in modo differente rispetto a quanto fatto dal Tribunale. Secondo la Cassazione, sarebbe stato necessario soprattutto riascoltare i periti. Per appianare alcune apparenti contraddizioni e, soprattutto, capire se un guidatore di medie capacità avrebbe effettivamente potuto evitare la collisione usando maggior prudenza o se, invece, l’imprevedibilità della manovra del motociclista abbia reso l’impatto in ogni caso inevitabile. La Cassazione giustifica ciò affermando che nemmeno in materia stradale le regole di prudenza assoluta previste per legge (come fa il Codice della strada agli articoli 141 per la velocità e 145 per la precedenza) si possono interpretare in maniera stretta: in certe situazioni, occorre quella stessa elasticità che va usata per valutare la responsabilità di professionisti che lavorano in equipe. La restrittività d’interpretazione, normalmente, è giustificata dal fatto che gli utenti della strada non sono qualificati e affiatati come i professionisti in equipe e tra loro c’è anche una diffusa tendenza ad essere imprudenti. Ma ci sono situazioni in cui "razionalmente" non si può pretendere un rispetto pedissequo delle regole. O, quantomeno, non si può presumere in assoluto che il loro rispetto avrebbe evitato l’incidente. Una conclusione che appare ragionevole e condivisibile. Sia per la gravità delle infrazioni commesse dalla vittima. Sia per un fatto tecnico che pare non essere stato citato nel processo: in fase di sorpasso, aumentare la velocità non è necessariamente un fattore di rischio. Anzi, se può aumentare la sicurezza, perché riduce la fase più pericolosa, cioè quella in cui i due veicoli sono affiancati. È un principio largamente accettato anche dalle forze di polizia che vigilano su strada. Poca aria nell’etilometro, ma l’esame è valido di Maurizio Caprino Il Sole 24 Ore, 14 febbraio 2017 Corte di cassazione - Sezione IV - Sentenza 13 febbraio 2017 n. 6636. La rilevazione del tasso alcolemico con etilometro è valida anche quando l’apparecchio segnala "volume insufficiente", ossia che il guidatore non ha soffiato nel boccaglio abbastanza aria per consentire una misurazione ottimale. Con questo principio di diritto, contenuto nella sentenza 6636/2017 depositata ieri, la Quarta sezione penale della Corte di cassazione aggiunge un tassello nel variegato mosaico di pronunce su questo particolare tema. Già l’anno scorso la Quarta sezione (sentenza 19161/2016, si veda Il Sole 24 Ore del 10 maggio 2016) aveva riconosciuto valore probatorio alla misurazione con volume insufficiente. A distanza di alcune settimane, invece, la sentenza 23520/2016 aveva affermato che in questi casi l’organo di polizia deve provare l’efficienza dell’apparecchio (si veda Il Sole 24 Ore del 5 luglio 2016); dunque sarebbe ribaltato il principio-cardine della giurisprudenza sulla misura del tasso alcolemico, secondo cui l’onere della prova di un eventuale malfunzionamento dell’etilometro è del conducente. Ora la Quarta sezione parte col prendere atto che la Cassazione ha via via seguito tre indirizzi: il primo ritiene ci sia un’insanabile contraddizione fra la dicitura "volume insufficiente" e l’attendibilità della misurazione; il secondo presume che, se il guidatore non dimostra che ha un problema di salute tale da impedirgli di soffiare correttamente, il volume insufficiente indica la volontà di rendere impossibile la misurazione e dunque si ricadrebbe nel reato di rifiuto di sottoporsi ad alcoltest; il terzo considera possibile che il risultato sia valido anche con volume insufficiente e quindi sta al giudice motivare la sua decisione di riconoscere pieno valore al risultato del test. La conclusione cui arriva nella sentenza depositata ieri la Quarta sezione è più vicina a quest’ultimo orientamento e lo dettaglia riprendendo una delle pronunce più recenti (la 40709/2016): in sostanza, occorre rifarsi al Dm 196/1990, che detta i requisiti di omologazione degli etilometri. L’allegato al Dm, per il combinato disposto dei punti 2.5 e 3.5.1, secondo la Corte afferma che la misurazione è corretta ogniqualvolta il display dell’apparecchio indica il valore rilevato. Dunque, il fatto che sullo schermo appaia anche la scritta "misurazione insufficiente" "prova solo il fatto che la quantità d’aria" soffiata è stata "minore di quella occorrente per una misurazione ottimale". La scritta va interpretata solo come un "messaggio di servizio" (previsto anch’esso dal Dm) e non come un "inequivocabile messaggio di errore". Se ne deduce che per difendersi resta solo la via più difficile: una perizia che, a prescindere dal volume insufficiente, mostri i limiti del principio di funzionamento dell’etilometro, che presume la quantità di alcol nel sangue (l’unica rilevante ai fini del Codice della strada) in base a quella nell’aria che esce dai polmoni. Un principio confutato da molti. Infine, la Corte ribadisce che, se si ritenesse non utilizzabile il valore misurato, si dovrebbe configurare il reato di rifiuto del test: "in assenza di patologie che abbiano impedito di effettuare al meglio il test...è evidente che ci troviamo di fronte a un comportamento volontario". L’evasione fiscale non basta per la confisca di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 14 febbraio 2017 Corte di cassazione - Sezione V - sentenza 9 febbraio 2017 n. 6067. Il solo status di evasore fiscale del soggetto vicino alla ‘ndrangheta non basta per affermare la pericolosità generica che giustifica la misura di prevenzione patrimoniale. La Cassazione con la sentenza 6067, accoglie in parte il ricorso contro il decreto con il quale la Corte d’Appello aveva disposto nei confronti dell’imputato sia la misura di prevenzione personale della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno, sia la misura di prevenzione patrimoniale della cauzione e della confisca dei beni mobili e immobili. La Corte di cassazione "salva" solo la misura di prevenzione personale e annulla la patrimoniale. La prima era stata, infatti, adottata sulla scorta della pericolosità qualificata del ricorrente, come soggetto prossimo a una cosca, mentre la seconda era motivata da una pericolosità generica in quanto evasore fiscale. La Corte di merito aveva con precisione indicato gli elementi di continuità al clan. Per la pericolosità generica i giudici di seconda istanza si erano, invece, limitati a precisare che dai molti indizi acquisiti si doveva concludere che il ricorrente, fin dall’inizio della sua attività imprenditoriale (1978) aveva sempre "frodato" il fisco, con rilevanti profitti da reato. Per la Cassazione é una motivazione solo apparente rispetto ai requisiti fissati dall’attuale codice antimafia e dalle misure di prevenzione (articoli 1 e 4 del Dlgs 159/2011). L’evasore fiscale non può essere automaticamente ritenuto "abitualmente dedito ai traffici delittuosi" come previsto dalla norma. Per arrivare alla confisca, come avvenuto nel caso specifico, era necessario individuare le fattispecie delittuose a cui collegare i traffici del ricorrente. La sola condizione di evasore, infatti, non basta, visto che alla sottrazione degli obblighi tributari l’ordinamento dà diverse risposte, amministrative e penali, distinguendo tra ipotesi contravvenzionali e delittuose. E solo queste ultime soddisfano i requisiti fissati dal codice delle misure di prevenzione. L’appello irritualmente notificato al difensore di fiducia. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 14 febbraio 2017 Appello - Decreto di citazione in giudizio - Notificazione presso lo studio del difensore dell’imputato - Nullità a regime intermedio - Deducibilità tempestiva prima della sentenza di appello. La nullità conseguente alla notifica all’imputato del decreto di citazione per l’appello rientra nella categoria delle nullità a regime intermedio, dunque va dedotta prima della deliberazione della sentenza conclusiva dello stesso giudizio. Tale nullità, conseguente alla notifica all’imputato del decreto di citazione a giudizio presso lo studio del suo difensore di fiducia anziché presso il domicilio dichiarato, è di ordine generale a regime intermedio in quanto la predetta notifica, seppure irritualmente eseguita, è comunque idonea a determinare la conoscenza dell’atto da parte dell’imputato destinatario, in considerazione del suo rapporto di fiducia con il suo difensore. • Corte di Cassazione, sezione III, sentenza 9 febbraio 2017 n. 6025. Notificazione - Penale - Al difensore - Difensore di fiducia - Articolo 157 c.p.p. comma 8 bis- Imputato - Dichiarazione di domicilio - Nullità della notificazione - Esistenza dell’atto - Esercizio del diritto di difesa. È nulla la notificazione eseguita a norma dell’articolo 157 c.p.p., comma 8-bis, presso il difensore di fiducia, qualora l’imputato abbia dichiarato o eletto domicilio per le notificazioni, né vi è prova che quest’ultimo abbia effettivamente avuto conoscenza dell’esistenza dell’atto, con la conseguente possibilità di esercitare il suo diritto di difesa. • Corte di Cassazione, sezione VI, sentenza 16 luglio 2015 n. 30898. Notificazioni penali - Difensore di fiducia - Vincolo fiduciario con l’imputato. In materia di notifiche, una volta intervenuta la nomina di un legale di fiducia, la notifica dei successivi atti potrà essere eseguita mediante diretta consegna al difensore, facendo affidamento sul vincolo che oramai lo lega al proprio assistito. In tal caso, dunque, l’imputato non può invocare la nullità della notifica se l’atto non gli è stato consegnato personalmente. Per la Corte, infatti, la nomina crea un affidamento, cui seguono obblighi professionali in capo all’avvocato, tale da garantire un’adeguata rappresentanza a processo. • Corte di Cassazione, sezione III, sentenza 10 maggio 2016 n. 19366. Notificazioni - All’imputato - Domicilio dichiarato o eletto - Notifica del decreto di citazione per l’appello presso il difensore di fiducia - Mancanza di una precedente elezione di domicilio - Nullità - Sussistenza. Integra una nullità assoluta ai sensi dell’articolo 179 c.p.p. la notificazione del decreto di citazione per il giudizio di appello presso lo studio del difensore di fiducia ex articolo 161, comma 4, c.p.p., qualora l’imputato non ha compiuto alcuna precedente elezione o dichiarazione di domicilio. • Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 20 febbraio 2015 n. 7747. Notificazioni - All’imputato - Elezione di domicilio - Notificazione del decreto di citazione per il giudizio di appello al difensore di fiducia - Nullità intermedia - Sanatoria - Condizioni - Fattispecie. La nullità derivante dalla avvenuta notificazione del decreto di citazione per il giudizio di appello, a norma dell’articolo 157, comma 8-bis, c.p.p., presso il difensore di fiducia anziché presso il domicilio dichiarato o eletto dall’imputato, deve ritenersi sanata in tutti i casi in cui risulti provato che la notificazione non ha impedito all’imputato di conoscere l’esistenza dell’atto e di esercitare il diritto di difesa. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto ritualmente effettuata la notifica presso il difensore di fiducia anche in considerazione della accertata inesistenza del domicilio dichiarato dall’imputato). • Corte di Cassazione, sezione IV, sentenza 26 febbraio 2016 n. 7917. L’udienza si è tenuta domani di Mattia Feltri La Stampa, 14 febbraio 2017 Il 28 novembre del 2016 un avvocato di Bologna sta cercando il modo di evitare la galera a un cliente. Il caso si discute l’indomani (29 novembre). L’uomo, un africano, secondo il pm deve andare in carcerazione preventiva, e il tribunale del riesame deve stabilire se ci andrà o no. In quel momento all’avvocato arriva una mail proprio dal tribunale. Avranno rinviato l’udienza, pensa. Apre il documento e macché, scopre che la decisione è presa: il cliente finirà in cella. L’avvocato si maledice, si dà dell’asino, della bestia: mi sarò appuntato male la data, ho saltato l’udienza, che disastro! Poi si accorge che la data della sentenza (in termine tecnico, dell’ordinanza) è quella giusta: 29 novembre. Cioè, è il 28 novembre, l’udienza è il 29, ma la sentenza c’è già. E piena di dettagli, di scienza, nove pagine in punta di diritto. Il giorno dopo l’avvocato va in udienza: "Che stiamo qua a fare? Avete deciso, e senza sentire le ragioni della difesa...". C’è un po’ di imbarazzo. I giudici decidono di astenersi perché, vedi mai, "si può ingenerare l’apparenza che si sia già assunta la decisione prima del contraddittorio". Eh, accidenti, magari sì, si è ingenerata, e però i giudici spiegano che è stato un errore materiale, non era una vera ordinanza, era una traccia, una bozza di lavoro, un bignamino per facilitare il lavoro. Si fa sempre. E cioè, signori miei: è la prassi. E se è la prassi, forse questa storia non è un’eccezione, è la regola. In prigione per la sentenza che è stata emessa domani. Tangentopoli, la memoria corta di Davigo di Francesco Damato Il Dubbio, 14 febbraio 2017 A ridosso e durante le inchieste giudiziarie del pool di "Mani pulite" furono tanti gli aiuti che arrivarono dai legislatori, sotto la spinta dei giornali e del popolo sognante. Per fortuna l’Associazione nazionale dei magistrati si è data, o ridata, la regola della rotazione, per cui Piercamillo Davigo sta concludendo il suo primo e unico anno di presidenza. Per fortuna, perché a leggerne l’intervista appena rilasciata al Corriere della Sera "a 25 anni da Mani pulite", a titolo quasi celebrativo delle indagini condotte anche da lui a Milano su quella che fu chiamata Tangentopoli, non si sa se avvertire più paura delle sue idee sulla giustizia, visto che rappresenta ancora la categoria togata, o più costernazione per la spavalda sicurezza con la quale le esprime pubblicamente. Sentir dire per esempio, da un magistrato che il processo serve, praticamente, a far "cambiare la decisione" al giudice, che pertanto può ben arrivare al dibattimento con una convinzione già formata, e persino stendere "appunti" per la sentenza, avendo solo l’accortezza di non firmarli se li mette nel fascicolo, come invece è accaduto di recente, è un po’ da trauma. E per fortuna il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha disposto su quel caso un’indagine, o ispezione, o come altro si chiama lo strumento a sua disposizione, fino a quando non glielo toglieranno. Vale altrettanto, come effetto traumatico, sentir dire da Davigo che, vista la frequenza con la quale vengono riformati i verdetti di primo grado, i giudici d’appello possono essere considerati dei "nonni" troppo accondiscendenti con i nipoti, trattati invece con la giusta severità dai "padri". I nipoti sarebbero naturalmente gli imputati. A proposito dell’aspetto formativo o educativo dell’azione giudiziaria, recentemente definita dallo stesso Davigo terapeutica lamentando che la cura fosse stata interrotta "a metà" negli anni epici di Mani pulite, è scioccante sentir dire da un magistrato che "il codice penale è uno spaventapasseri: da lontano fa paura, quando ci si avvicina appare innocuo". Per cui "in galera ci vanno chi è così sciocco da farsi arrestare in flagranza e gli appartenenti alla criminalità organizzata". E "il giudice è messo nella condizione di dover scegliere fra rispettare la legge, rinunciando a fare giustizia, o tentare di fare giustizia forzando la legge". Poiché l’appetito, come si dice, viene mangiando, la certezza che in galera vanno solo gli sprovveduti o gli appartenenti alla criminalità organizzata ha evidentemente indotto Davigo a riproporre l’applicazione o estensione alla lotta alla corruzione degli strumenti "premiali" o infiltrativi della lotta alla mafia. Ma a questi, come si sa, si arrivò copiandoli dalla lotta al terrorismo. Lo propose per primo nel 1983 il generale Carlo Alberto Della Chiesa in una intervista televisiva alla Rai che andai a raccogliere a Palermo in estate, poche settimane prima che la mafia lo ammazzasse. Dal terrorismo, quindi, si passò alla mafia, come dalla mafia si dovrebbe o potrebbe passare adesso alla corruzione. Mancherebbe solo un altro passo in questa scalata all’eccezionalità: il ricorso al Tribunale Speciale, con le maiuscole volute dalla buonanima di Benito Mussolini. E la cosiddetta legge Severino, fatta dal governo tecnico di Mario Monti e firmata dall’allora ministra della Giustizia, servita peraltro a far decadere da senatore Silvio Berlusconi nel 2013 e a precludergli la candidabilità per sei anni? "È stata gabellata per una legge che contrasta la corruzione" ma non lo è, perché - ha detto Davigo citando la stessa Paola Severino - "era il massimo che si potesse fare in quel momento con quelle Camere". Volete mettere la differenza se alla formazione delle Camere o alla formulazione delle leggi potessero provvedere direttamente i magistrati, naturalmente alla Davigo? Il presidente uscente del sindacato delle toghe resta quindi convinto che quel grande tentativo di ripulire il Paese cominciato 25 anni fa con le indagini del pool milanese di cui lui faceva parte con Antonio Di Pietro ed altri, fu bloccato dal "cambiamento di leggi a partita in corso", "molte delle quali - ha precisato - possono avere su il nome dell’imputato" di turno. E noi, poveri sprovveduti, c’eravamo illusi di avere rinfrescato sul Dubbio di qualche giorno fa la memoria proprio a Davigo elencando tutti gli aiuti forniti dai legislatori, oltre che dai giornali e dal popolo sognante delle magliette per strada, a lui e ai suoi colleghi di Mani pulite. Nella nostra incorreggibile ingenuità proviamo a fare una sintesi di quegli aiuti per titoli, diciamo così, a ridosso e durante le inchieste giudiziarie, provando anche a numerarli: 1) la doppia mandata alle serrature delle celle con la riforma dell’amnistia, impossibile ora senza una legge approvata articolo per articolo, oltre che nel suo complesso, dalla maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera; 2) l’estensione del rito delle consultazioni presidenziali per la formazione del governo, nel 1992, all’allora capo della Procura di Milano, Francesco Saverio Borrelli; 3) la riforma a tamburo battente dell’immunità parlamentare per consentire ai magistrati di indagare sui parlamentari senza la vecchia autorizzazione a procedere; 4) il rifiuto del capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro di firmare un decreto legge del primo governo di Giuliano Amato per la cosiddetta uscita politica da Tangentopoli, qualche ora dopo l’altolà pronunciato alla televisione da Borrelli; 5) la rinuncia del primo governo Berlusconi - si, proprio lui, Berlusconi - all’approvazione di un decreto legge, quella volta regolarmente e tempestivamente firmato dal presidente della Repubblica, perché contestato, sempre davanti alle telecamere, dai magistrati di Milano, fra i quali lo stesso Davigo. L’inconveniente di quel decreto legge era di limitare il ricorso alle manette durante le indagini preliminari: un ricorso di cui si era fatto un uso larghissimo, essendo stato utilizzato l’arresto per far parlare il malcapitato, e scarcerarlo solo dopo che avesse parlato abbastanza, a giudizio naturalmente dei magistrati. Vi fu anche qualche spiacevole incidente, diciamo così, come quello del suicidio in carcere dell’ormai ex presidente dell’Eni Gabriele Cagliari. Per non parlare dei suicidi, eccellenti e non, fuori dal carcere, per paura di finirvi dentro. O, come disse qualche magistrato, per la vergogna, intesa come ammissione di colpa. Sardegna: Caligaris (Sdr); sistema penitenziario a rischio implosione per carenza direttori Ristretti Orizzonti, 14 febbraio 2017 Conclusa missione direttrice Tempio-Nuchis. Assenti per malattia direttori Cagliari-Uta e Oristano-Massama restano in servizio tre titolari e una direttrice in missione per 10 istituti penitenziari. Non si può andare avanti in questo modo. appello a consiglieri regionali e parlamentari sardi. "Le carenze ormai croniche dei Direttori rischiano di far implodere il sistema detentivo isolano. Attualmente sono in servizio tre titolari (Patrizia Incollu, Elisa Milanesi e Marco Porcu), e uno in missione (Silvia Pesante che ha confermato la sua presenza nel Penitenziario di Badu ‘e Carros, protraendo l’incarico). Ciò significa che ciascuno di loro ha la responsabilità su due o tre Istituti. La situazione è resa ancora più difficile dall’assenza di Vice Direttori, dal deficit di Agenti Penitenziari, amministrativi e funzionari pedagogici nonché da una eccessiva burocratizzazione che condiziona l’efficienza dell’organigramma rispetto alla finalità riabilitativa della pena. Non si può andare avanti in questo modo". Lo afferma in una nota Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione Socialismo Diritti Riforme, ricordando che "la speranza di una positiva soluzione del problema della attribuzione stabile della gestione delle carceri di Tempio-Nuchis, Badu e Carros, Mamone, Is Arenas, Lanusei e Isili non ha avuto seguito, nonostante l’impegno assunto in più occasioni dal Ministro Andrea Orlando". "Nei primi mesi del 2017 la situazione è addirittura peggiorata - sottolinea - in seguito alle assenze per malattia dei Direttori di Cagliari-Uta Gianfranco Pala e Oristano-Massama Pierluigi Farci, quest’ultimo anche con l’incarico di Vice Provveditore, che hanno reso ancora più imprescindibile la necessità di Vice Direttori stabili. Si tratta infatti di due Istituti Penitenziari particolarmente impegnativi il primo perché é una Casa Circondariale con una sezione di Alta Sicurezza con quasi 600 reclusi complessivamente; il secondo perché è una Casa di Reclusione destinata esclusivamente a ristretti in AS con 266 presenze. Analoga la realtà di Sassari-Bancali dove è stata attivata la sezione della massima sicurezza (41bis) con un totale di 430 ristretti e dove è indispensabile una direzione supportata adeguatamente e Tempio-Nuchis (180 AS)". "Il Ministero della Giustizia sembra ignorare che la Sardegna - rileva ancora la presidente di SDR - vive con sofferenza il crescente carico di detenuti senza poter disporre di un adeguato numero di personale per offrire garanzie ai lavoratori, ai detenuti e ai familiari. C’è da considerare infatti che l’insufficiente numero di Dirigenti può comportare una limitazione della possibilità di fruire di un permesso o di qualche giorno di ferie a quelli in servizio. La necessità di spostarsi da un Istituto all’altro determina l’impossibilità di conoscere a fondo le problematiche delle singole realtà, senza considerare che si moltiplica il carico di lavoro della sicurezza". "È diventata improcrastinabile una presa di posizione dei Consiglieri regionali e dei Parlamentari sardi - conclude Caligaris - a cui rivolgiamo un appello affinché si facciano interpreti di un generale malessere che non può essere curato con interventi episodici ma ha necessità di una terapia in grado di garantire i diritti a tutti". Alessandria: dal sopralluogo nelle carceri alla mobilitazione per i diritti di tutti di Andrea Maestri possibile.com, 14 febbraio 2017 Da settimane abbiamo programmato una visita all’interno delle due carceri cittadine, la Casa di reclusione San Michele e la Casa circondariale Cantiello Gaeta. Sabato 4 febbraio è gelido e grigio, arrivo al casello di Alessandria ovest e trovo ad accogliermi i compagni del Comitato "Macchiarossa" di Possibile: Daniele Iglina, Arianna Di Saverio, Alessandro Rota, Davide Serafin e insieme a loro il segretario regionale della UIL Polizia Penitenziaria, Salvatore Carbone, col quale abbiamo organizzato le due visite del mattino e l’incontro pubblico del pomeriggio. Il primo istituto, a pochissimi chilometri dall’autostrada, fuori città, è una scatola incolore di cemento armato: il freddo che si percepisce da fuori è lo stesso che si incontra dentro, nei pavimenti grigi, nei muri di un bianco malato aggredito dall’umidità, nel metallo delle grate, delle sbarre, dei serramenti, dei chiavistelli. Ci eravamo preparati a queste visite con meticolosità: l’art. 67 dell’ordinamento penitenziario (Legge 26 luglio 1975 n. 354) consente ai parlamentari (e ad altri soggetti istituzionali tassativamente indicati) di visitare senza autorizzazione i luoghi di detenzione, anche accompagnati da persone che coadiuvano il deputato in ragione del proprio ruolo. La norma è chiara (o, almeno, chiara e inequivocabile sembrerebbe): "L’autorizzazione non occorre nemmeno per coloro che accompagnano le persone di cui al comma precedente (parlamentari, n.d.r.) per ragioni del loro ufficio". Alla luce della norma e non senza chiedere precise indicazioni alla stessa direzione del carcere, noi avevamo graziosamente comunicato il giorno, l’ora e i dati identificativi di chi mi accompagnava e ci era stato detto che era tutto a posto. Giunti al San Michele, invece, abbiamo dovuto registrare l’assenza del direttore del carcere, che aveva delegato ad "accoglierci" un vicecomandante della polizia penitenziaria, coadiuvato dal responsabile degli educatori. Ci sono stati somministrati moduli in cui avremmo dovuto dichiarare che ognuno dei miei accompagnatori "presta nei miei confronti una collaborazione diretta, professionale, stabile e continuativa": tutti requisiti evidentemente restrittivi e impossibili da integrare (in pratica, secondo quel modulo, avrei potuto accedere al carcere solo accompagnato dalla mia assistente parlamentare), previsti da una circolare ministeriale che, pur avendo una funzione meramente interpretativa e ricognitiva delle norme di rango primario che discendono dalla legge e che sono improntate al principio dell’apertura all’esterno delle mura (fisiche, giuridiche e simboliche) del carcere, pretende di circoscrivere e limitare la portata e lo spirito della legge. Per massima trasparenza e correttezza, e per evitare di dichiarare (firmando un modulo prestampato) cose anche solo parzialmente non corrispondenti al vero, ho specificato per iscritto che "gli odierni accompagnatori collaborano col partito di mia appartenenza sul tema della giustizia o in quanto membri del locale comitato o in quanto relatori al convegno odierno". Dopo un estenuante braccio di ferro sul l’interpretazione delle norme sono potuto accedere al carcere accompagnato dal sindacalista, autorizzato verbalmente solo dopo l’intervento del provveditore regionale. Condotta antisindacale? Ostilità ad personam? Approfondiremo, intanto continuiamo il racconto. Al San Michele le celle sono piccole, c’è posto solo per due letti e una latrina. Per almeno otto ore al giorno le celle restano aperte e i detenuti possono percorrere in lungo e in largo il corridoio, "sorvegliati dinamicamente" da un solo agente disarmato. Effetti della sentenza Torreggiani, con cui la Corte di Strasburgo ha condannato l’Italia per violazione della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, per le condizioni delle carceri italiane che ledono la dignità degli esseri umani rinchiusi. Quindi celle aperte (perché di costruire carceri nuove con spazi adeguati non se ne parla), agenti (sempre drammaticamente sotto organico e male equipaggiati) lasciati soli con 50 detenuti ciascuno su cui vigilare, un altro agente che sorveglia due schermi con una quarantina di telecamere che riprendono altrettanti luoghi (ma non basterebbero venti occhi per visionare adeguatamente quelle immagini), accessi meccanizzati ma senza bracci elettrici funzionanti e quindi chiavi su chiavi su chiavi ad aprire e chiudere continuamente sbarre e serrature. Noi di Possibile, quando parliamo di esseri umani rinchiusi non ci riferiamo solo ai detenuti ma anche ai "diversamente detenuti" cioè a tutti coloro che trascorrono almeno otto ore consecutive là dentro per lavoro (agenti di polizia penitenziaria, educatori, personale sanitario…). Alla polizia penitenziaria l’Amministrazione non da divise nuove da sei anni: c’è chi si arrangia coi rammendi e chi non si può permettere di ingrassare sennò non ci entra più dentro. Dagli anni ‘90 non si indicono più concorsi per direttori dei penitenziari e c’è chi diventa direttore dopo avere impropriamente svolto mansioni superiori per anni. C’è una vera e propria emergenza per il rispetto del diritto alla salute dei detenuti: uno di loro, affetto da neoplasia polmonare, sta implorando da mesi di essere ricoverato e operato. Troppi detenuti sono tossicodipendenti o assumono psicofarmaci per sopravvivere. Dal San Michele ci trasferiamo poi nel carcere storico della città, ricavato da un ex convento, il Cantiello Gaeta, dal nome di due agenti rimasti uccisi durante la rivolta del 1974. La struttura è a raggiera, con un corpo centrale e bracci che su tre piani ospitano le diverse sezioni del carcere. Struttura vecchia ma con un’anima, celle molto più ampie e anche un teatro di rara bellezza sotto la cupola centrale. Qui, anche se la legge è la stessa e la maledetta circolare anche, veniamo accolti tutti, nessuno escluso e a braccia aperte. Arcani della burocrazia. Alle 16 ci trasferiamo in un bellissimo spazio della comunità di Don Gallo per l’incontro pubblico organizzato da Possibile. La sala è piena, ci sono rappresentanti di associazioni, agenti di polizia penitenziaria, cittadini: raccontiamo ciò che abbiamo visto, quello che non va, quello che c’è da fare. Domande, riflessioni, richieste di aiuto sembra che non finiscano mai: si ragiona sull’utopia abolizionista del sistema carcerario e sulle possibili alternative, sull’amnistia, su una visione laica e non paternalistica della pena, sui disastri del proibizionismo in materia di stupefacenti, sulla bellezza di Costituzione e legislazione penitenziaria italiana e sulla parallela inadeguatezza dell’organizzazione e dell’amministrazione in questo delicato e fondamentale segmento del pianeta giustizia. Ci prendiamo l’impegno di raccogliere dati e informazioni e di costruire, sinergicamente, almeno un paio di interrogazioni da rivolgere al Ministro. Migliorare la qualità del lavoro degli operatori per migliorare la qualità della vita delle persone private della libertà personale. Perché il carcere diventi occasione di vera e possibile risocializzazione, di recupero della dignità attraverso lo studio e il lavoro. Perché il carcere cessi di essere una discarica sociale per gli ultimi e i disgraziati, un incubatoio di nuova criminalità e di recidiva, un buco nero nella comunità dei cittadini e delle persone. Firenze: Saccardi (Regione) "la chiusura dell’Opg di Montelupo è un fatto epocale" Redattore Sociale, 14 febbraio 2017 L’ospedale psichiatrico giudiziario, rimasto senza internati da martedì scorso, è stato superato anche grazie a un investimento regionale di 7 milioni per dismettere molti pazienti. Sette milioni di euro per dismettere molti pazienti dall’Opg verso strutture alternative. È quanto investito dalla Regione Toscana per arrivare al superamento dell’Ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo, rimasto senza internati da martedì scorso. "La chiusura dell’Opg di Montelupo è un fatto epocale - ha detto l’assessore regionale al welfare Stefania Saccardi - Voglio prima di tutto ringraziare tutti coloro che in questi anni con il loro lavoro instancabile hanno contribuito in maniera determinante al raggiungimento di questo importante obiettivo, al quale siamo arrivati, voglio sottolinearlo, grazie alla professionalità e alla costante integrazione dell’opera di tutti coloro che sono presenti qui stamani. Si apre ora un’altra fase, che vede i pazienti che via via sono stati dimessi dall’Opg accolti nella Rems, in comunità, appartamenti, o con altre soluzioni terapeutiche individuali; e Villa Ambrogiana libera per destinazioni che possano valorizzarla al meglio". "La chiusura dell’Opg di Montelupo Fiorentino - ha detto Franco Corleone, commissario per la chiusura degli Opg - prefigura la conclusione della riforma che ha previsto la chiusura del manicomio criminale in Italia. Una storia lunga, che si chiude felicemente. Si tratta di un’autentica rivoluzione, che mette l’Italia all’avanguardia in Europa e nel mondo, e conclude il processo iniziato con la Legge Basaglia. In Toscana la riforma si concluderà con l’apertura nei prossimi mesi della Rems di Empoli, che si affiancherà a quella già aperta a Volterra. Le Rems presenti e le strutture intermedie consentiranno di rispondere adeguatamente alle richieste da parte della magistratura. È auspicabile - aggiunge Corleone - che la magistratura di cognizione applichi la legge 81/2014 utilizzando per le misure di sicurezza provvisorie le varie tipologie di strutture e non solo le Rems. Finalmente la Villa dell’Ambrogiana tornerà a un uso culturale pubblico e potrà essere annoverata nel patrimonio delle Ville Medicee tutelato dall’Unesco". Il programma di superamento dell’Opg, che era stato definito dalla Regione con una delibera del 25 maggio 2015 e approvato dal Ministero nel luglio 2015, ha previsto come intervento prioritario la presa in carico dei pazienti da parte dei servizi sanitari delle Asl competenti territorialmente. Le aziende hanno contribuito in maniera determinante alla chiusura dell’Opg con appositi progetti terapeutico riabilitativi individuali che hanno permesso di seguire percorsi alternativi all’Opg, dimettendo tutti coloro che potevano tornare sul territorio (in comunità terapeutica, in gruppi appartamento, alcuni al proprio domicilio). Il programma regionale di superamento prevede la realizzazione di una Rems (Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza) definitiva nell’area ospedaliera di Volterra, organizzata in moduli per intensità assistenziale. La scelta della Rems definitiva per due moduli da 20 posti per un totale di 40 posti prevista a Volterra sarà necessariamente valutata con l’apertura della Rems a Empoli. Attualmente è attiva una Rems provvisoria, sempre nell’area ospedaliera di Volterra, per complessivi 34 posti letto, organizzati in due moduli. La Rems è stata attivata in tempi stretti grazie all’azienda sanitaria Toscana nord ovest, che è stata capace di rispondere a un’esigenza regionale pressante. Su tutto il territorio regionale ci sono inoltre strutture terapeutiche riabilitative cosiddette intermedie (complessivamente 48 posti letto dislocati in sei strutture), nelle quali le caratteristiche assistenziali e di sicurezza sono rafforzate così da permettere l’accoglienza di pazienti che non hanno misure di sicurezza detentive ma che necessitano di attenzione particolare. Trattandosi di struttura penitenziaria, Montelupo potrà essere chiuso con procedimento del Ministero della giustizia solo dopo che anche l’amministrazione penitenziaria avrà provveduto a effettuare i trasferimenti delle persone di sua competenza: ad oggi c’è un detenuto che risiede a Montelupo, più altri che vanno a Montelupo da Sollicciano, come inserimento lavorativo, per lavorare a liberare l’edificio. Quanto alla destinazione futura di Villa Ambrogiana, nel giugno 2016 era stato approvato un protocollo di intesa tra Ministero della giustizia, Regione Toscana, Agenzia del demanio e Comune di Montelupo. Pochi giorni fa si è tenuto il primo incontro del gruppo di lavoro che dovrà definire il futuro, la destinazione e la valorizzazione della struttura. Un incontro preliminare, in cui ancora non si è parlato di destinazione. Il prossimo incontro è fissato per la fine di febbraio. Vercelli: i politici in visita al carcere "attività lavorative solo per 40 detenuti su 275" di Andrea Zanello La Stampa, 14 febbraio 2017 Infiltrazioni, problemi alle caldaie, poche attività per alleggerire le ore di giornate che dietro alle sbarre sembrano essere lunghe il doppio. Silvja Manzi e Igor Boni, della direzione nazionale di Radicali Italiani, e Marco Grimaldi, consigliere regionale di Sel-Sinistra Ecologia Libertà, raccontano la loro visita nella casa circondariale di Vercelli. Dopo essere stati anche in altre realtà piemontesi dicono di "non aver trovato una situazione allarmistica a Billiemme". La loro visita era stata programmata prima della rissa che mercoledì ha visto due detenuti dover ricorrere alle cure dell’ospedale Sant’Andrea, episodio su cui il segretario regionale del sindacato della Polizia penitenziaria Vicente Santilli ha puntato il dito per sottolineare l’organico ristretto in servizio nel carcere di Vercelli. "I recenti fatti non sembrano essere dipesi dal regime aperto, come alcune sigle sindacali hanno riportato, ma da ordinarie conflittualità tra detenuti", ha detto la delegazione. I tre esponenti politici hanno incontrato la garante dei diritti delle persone private della libertà personale del comune, Roswitha Flaibani e poi il direttore della Casa di reclusione di Saluzzo, Giorgio Leggieri, che sostituiva la direttrice Tullia Ardito, fuori sede. Ma anche parte dei 275 detenuti dell’istituto. Tra di loro 127 sono italiani. Della popolazione carceraria appena una quarantina è inserita in percorsi lavorativi: "Il resto ha poche alternative - raccontano i tre esponenti delle istituzioni - dalla maggior parte di loro abbiamo ricevuto lamentele per l’insufficienza di proposte legate ad attività interne. Mancano realtà pubbliche o private che offrano delle possibilità anche per un futuro inserimento". Altra criticità è legata all’assenza di specifiche cure odontoiatriche, mentre ci sono pecche secondo i tre esponenti politici per le strutture e gli impianti. "I detenuti si sono lamentati del freddo a causa di infiltrazioni e di guasti alle caldaie". Ma nonostante questo "la situazione non è peggiore di altre realtà detentive regionali se consideriamo i dati riguardanti i tentativi di suicidio, 5 nello scorso anno, e atti di autolesionismo, 85 sempre nel 2016". Sassari: detenuto strangolato in cella, il processo ricomincerà da zero La Nuova Sardegna, 14 febbraio 2017 La corte d’assise d’appello riapre il caso della morte di Marco Erittu. Il pg aveva chiesto tre ergastoli. Disposta una perizia. Clamorosa svolta nel processo in Corte d’assise d’appello a carico di Pino Vandi, Nicolino Pinna e Mario Sanna, accusati per la morte di Marco Erittu, il detenuto sassarese deceduto il 18 novembre del 2007 nella sua cella all’interno del carcere di San Sebastiano, a Sassari. Dopo alcune ore di camera di consiglio, la Corte ha disposto una nuova perizia per accertare le cause esatte della morte: un provvedimento che riapre l’intero processo, che a questo punto dovrà ripartire da zero. All’epoca dei fatti Pino Vandi (presunto mandante) e Nicolino Pinna (avrebbe aiutato a simulare il suicidio) erano detenuti a San Sebastiano, mentre l’agente di polizia penitenziaria Mario Sanna avrebbe consentito al presunto omicida di entrare nella cella di isolamento dove Erittu era stato rinchiuso dopo un episodio di autolesionismo. Archiviato inizialmente come suicidio, il caso era stato riaperto in seguito alle dichiarazioni del pentito Giuseppe Bigella, che si era autoaccusato del delitto chiamando in correità gli altri imputati. La Corte d’assise aveva assolto tutti spiegando che l’istruttoria dibattimentale non aveva consentito "di acquisire, oltre alle dichiarazioni accusatorie di Bigella, elementi idonei dotati di un minimo di certezza tali da far ragionevolmente ritenere che la morte di Erittu sia da ricondurre a un omicidio piuttosto che a un suicidio". Nel processo di appello in corso a Sassari il procuratore generale ha cercato di ribaltare la sentenza di primo grado sollecitando per i 3 imputati la condanna all’ergastolo. Oggi era atteso il verdetto, ma la Corte ha deciso per la nuova perizia riaprendo di fatto il processo. Pordenone: nuovo carcere a San Vito, la Corte dei conti approva l’appalto di Andrea Sartori Messaggero Veneto, 14 febbraio 2017 È l’ultimo via libera, iniziato il disegno esecutivo. Il cantiere dall’estate, anche se pende ancora un ricorso. Ancora pochi passi verso la consegna dei lavori per la costruzione del nuovo penitenziario "modello" di San Vito: è iniziata la redazione del progetto esecutivo, dopo il vaglio positivo della Corte dei conti. Confermata la tempistica: lavori dall’estate per un anno e mezzo, salvo incognite quali la sentenza, ancora sospesa, del Consiglio di Stato sull’appello presentato dalla ditta arrivata seconda nella gara d’appalto. La Corte dei conti, nei giorni scorsi, ha approvato il contratto d’appalto stipulato a settembre. "L’iter procedurale volto all’avvio dei lavori - annuncia il sindaco Antonio Di Bisceglie - in questo momento vede le imprese aggiudicatarie impegnate nella realizzazione del progetto esecutivo, sulla base del quale i lavori poi prenderanno il via". È l’ultimo passaggio prima della consegna dei lavori. Una volta redatto, il progetto sarà approvato dal provveditorato interregionale alle Opere pubbliche di Fvg, Veneto e Trentino Alto Adige: tutto ciò dovrebbe richiedere tempi brevi. La consegna dei lavori, infatti, resta prevista per la primavera, al massimo a inizio estate, com’era stato annunciato a dicembre dal responsabile del procedimento, Giorgio Lillini (sede di Trieste del provveditorato interregionale). Quindi il cantiere, che resterà aperto un anno e mezzo: se ne occuperà l’associazione temporanea di imprese Kostruttiva (Marghera)-Riccesi (Trieste), aggiudicataria dell’appalto per 18,4 milioni di euro (l’importo complessivo è di 25,5 milioni). Tutti gli aspetti del cantiere saranno monitorati come da protocollo di legalità sottoscritto a dicembre da prefettura, provveditorato interregionale alle Opere pubbliche del Triveneto e imprese appaltatrici: è uno strumento che ha l’obiettivo di offrire ai cittadini garanzie di trasparenza, controllo e applicazione delle normative. L’iter per la costruzione del nuovo penitenziario di San Vito dunque va avanti, ma restano in sospeso, per un tempo indefinito, le decisioni del Consiglio di Stato circa la controversia tra la ditta arrivata seconda alla gara d’appalto, Impresa Pizzarotti di Parma, contro ministero delle infrastrutture e dei trasporti e nei confronti di Kostruttiva e Riccesi. È l’ultima incognita, della quale aveva dato notizia il Messaggero Veneto una ventina di giorni fa. Pizzarotti aveva impugnato e chiedeva l’annullamento del provvedimento di aggiudicazione definitiva dell’appalto (datato 15 novembre 2015), nonché di due note e dei verbali di gara. Chiedeva pure la dichiarazione di inefficacia dell’aggiudicazione e del contratto di appalto, con subentro di Pizzarotti, e la condanna della stazione appaltante al risarcimento del danno. Il Tar aveva respinto il ricorso, ma Impresa Pizzarotti ha impugnato la sentenza, ricorrendo in appello. Il Consiglio di Stato, a luglio, ha respinto la richiesta di sospensione cautelare e ciò ha permesso all’iter di proseguire. Si attendeva la sentenza di merito, invece il Consiglio di Stato ha deciso di sospendere il giudizio. Risulta "di centrale importanza" l’interpretazione di alcune norme del Codice dei contratti pubblici del 2006: è attesa una pronuncia interpretativa della Corte di giustizia dell’Unione europea. Una volta pubblicata quest’ultima, sarà onere delle parti riattivare o meno, entro 45 giorni, la procedura al Consiglio di Stato. Trieste: slitta l’intitolazione del Coroneo a Mari, Sbriglia "chiama" il ministro Orlando Il Piccolo, 14 febbraio 2017 Rinviata la cerimonia in ricordo del maresciallo infoibato. Sbriglia "chiama" il ministro Orlando. "Vorremmo che il ministro Andrea Orlando presenziasse alla cerimonia". Enrico Sbriglia, già direttore del Coroneo e oggi provveditore dell’Amministrazione penitenziaria nel Triveneto, in passato assessore nelle giunte di centrodestra comunale e provinciale a Trieste, conferma la volontà di dedicare il carcere del capoluogo alla memoria del maresciallo Mario Mari. Il capo degli agenti di custodia nel penitenziario triestino venne arrestato, torturato poi infoibato nell’abisso Plutone nella notte tra il 23 e 24 maggio 1945, durante i 40 giorni di occupazione titina. Con lui i colleghi Angiolo Bigazzi e Filippo Del Papa. I loro corpi vennero riesumati due anni più tardi, nel maggio 1947. Durante la scorsa estate, la cerimonia di intitolazione sembrava imminente, tanto che si parlava di settembre come probabile scenario dell’evento. Poi il calendario politico-istituzionale ha avuto il sopravvento e l’intitolazione è slittata. Si pensava che all’approssimarsi della "Giornata del ricordo" le autorità competenti trasmettessero un segnale sul tema, ma l’appuntamento, pur restando in agenda, si sposterà più avanti. Perché - come sottolinea Sbriglia, al quale si deve la regìa dell’operazione - si vuole che a Trieste venga il guardasigilli Orlando, come già è accaduto per analoga iniziativa a Vicenza. L’intitolazione a Mari, infatti, rientra in un programma coordinato che riguarda tre carceri del Nordest: Vicenza, Gorizia, Trieste. Questi tre luoghi di pena recheranno ognuno il nome degli agenti di custodia accomunati dal tragico destino della foiba: il carcere vicentino è già stata intitolato a Del Papa, a quello goriziano spetterà il nome di Bigazzi, il Coroneo ricorderà il sacrificio di Mari. "Trieste chiuderà questo ciclo di intitolazioni - riprende Sbriglia - perché adesso ci concentriamo su Gorizia, che aveva bisogno di un restyling del perimetro esterno, per il quale abbiamo finalmente reperito le necessarie risorse". In conclusione, Sbriglia sgombra il campo da qualche dietrologia che circolava sulle ragioni della rallentata intitolazione e sul silenzio che era calato sulla vicenda. L’edificio, che in via del Coroneo ospita il carcere, venne realizzato nel 1911 e i primi detenuti vi fecero ingresso l’anno successivo. Velletri (Rm): l’Ugl denuncia "medico del Pronto soccorso rifiuta di visitare un detenuto" ilcaffe.tv, 14 febbraio 2017 Un medico avrebbe rifiutato la visita ad un detenuto presso il Pronto Soccorso dell’Ospedale di Velletri. A denunciare l’episodio sono i sindacalisti dell’Ugl Polizia Penitenziaria Ciro Borrelli e Carmine Olanda. "Nel pomeriggio del 13 febbraio un giovane detenuto di origine straniera è stato portato dalla Polizia Penitenziaria al Pronto Soccorso dell’Ospedale di Velletri per forti dolori all’addome - spiegano i due esponenti Ugl. Giunti al Pronto Soccorso, verso le ore 16:30 veniva preso in carico dal medico di turno, dopo una attesa di circa 3 ore senza alcuna visita effettuata al paziente; il caposcorta della Polizia Penitenziaria chiedeva novità sulla visita, ma la stessa gli rispondeva gridando davanti al detenuto e in presenza di altri pazienti e del personale sanitario che non avrebbe visitato il detenuto perché uomo e detenuto pericoloso". "Un caso unico - commenta Borrelli - non riusciamo a capire le ragioni del comportamento anomalo della Dottoressa nei confronti dell’Agente e del detenuto paziente, anche perché non è la prima volta che la Polizia Penitenziaria di Velletri porta i detenuti al Pronto Soccorso ricevendo sempre massimo rispetto e servizio sanitario ai detenuti senza mai avere problemi. La Polizia Penitenziaria di Velletri - conclude Borrelli - adotterà tutte le procedure necessarie nei confronti della Dottoressa con l’aggravante che la stessa si è pure rifiutata ad esibire i documenti agli Agenti Penitenziari". Il detenuto è stato poi prontamente visitato e curato dai medici del turno successivo dopo la mezzanotte. Livorno: la volontaria Rita Vaccai "perdonare, ascoltare, amare… questo è il carcere" di Martina Bongini lasettimanalivorno.it, 14 febbraio 2017 Una missione che è ormai divenuta una "vocazione" quella di Rita Vaccai per il carcere e i detenuti; in quel "mondo" dove il tempo si ferma, lo spazio è sempre lo stesso e dove troppo spesso la vita è dimenticata. Un’esperienza di ben 14 anni, nata dopo il servizio di volontariato al Sert, don Roberto Corretti la spronò ad andare oltre: "perché non vai al carcere, racconta Rita, e così mi misi in contatto con Wally Sgherri, allora responsabile del settore carcere della Caritas, ed iniziai con un progetto nella biblioteca per poi passare a fare corsi di formazione all’Uepe (Ufficio Esecuzioni Pene Esterne) e diventare una figura stabile all’interno delle mura detentive". I detenuti che Rita visita insieme agli altri 6 volontari dal lunedì al venerdì, si aggirano intorno al 40% tra la Media ed Alta Sicurezza; dei volontari il carcere non può più farne a meno, loro si occupano di tutto, dai documenti alle visite mediche specialistiche, dal vestiario all’ascolto. "Quello di cui maggiormente hanno bisogno, ci spiega, oltre che alle cose di prima necessità come il gli abiti oppure del materiale igienico sanitario, è quella di essere ascoltati: c’è un estremo bisogno di parlare, sfogarsi in particolar modo nell’Alta Sicurezza dove il detenuto è perfettamente cosciente che dentro quella struttura lui passerà il resto dei suoi giorni. Noi siamo lì per questo, per ascoltare senza dare giudizi e soprattutto senza mai avere la presunzione e il desiderio di sapere quale sia il reato commesso. In un giorno, continua a spiegarci Rita, nella Media Sicurezza facciamo circa 14-15 colloqui mentre in Alta Sicurezza 4; questa differenza stridente sottolinea anche quanto siano diverse le esigenze, nel primo caso sono più legate ai bisogni materiali mentre nel secondo più alla sfera emotiva". Attualmente il carcere delle Sughere di Livorno ospita circa 120 detenuti; "diverse sono le attività che vengono loro proposte, dalla pet therapy alla palestra, alla scuola. Diverso è l’aspetto del lavoro e del reinserimento, se prima infatti c’erano diversi canali aperti grazie all’Uepe, adesso sono molti meno. Purtroppo, continua ancora a raccontare Rita, riuscire a trovare loro un lavoro per il reinserimento nella società è molto difficile. Il lavoro non c’è per chi non è detenuto, figuriamoci per chi lo è o lo è stato!". "Molti usciti dal carcere riprendono la propria vita e spesso tornano a delinquere e li ritroviamo dentro dopo qualche mese tanto che c’è da chiedersi quanto la pena detentiva riesca a riabilitare in questi casi". Purtroppo della realtà carcere, la cittadinanza sembra non accorgersene, rimane indifferente, come se volesse dimenticare che cosa sia quella struttura rosa che si scorge percorrendo la superstrada: "purtroppo siamo di fronte ad una carenza di empatia e di perdono molto forte nei confronti dei detenuti. Io stessa trovandomi a fare dei corsi con dei giovani ho riscontrato la loro difficoltà al perdono, non riescono a capacitarsi del perché del mio servizio. Non riescono a capire che dietro al reato spesso ci sono storie di abusi, violenze, di esperienze che hanno leso la dignità umana portandola alla delinquenza e questo non nego sia un po’ sconcertante e disarmante. Si rimane in superficie senza capire ma anzi volendo solo giudicare". Un altro grande problema è poi rappresentato dalla mancanza totale di strutture mirate all’accoglienza di quelle persone che hanno problemi psichiatrici e simili disagi che hanno commesso reati ma per cui il carcere non può essere adatto bensì deleterio e ulteriormente aggravante. È necessario dunque fare di più e per farlo non serve molto, basta un po’ di tempo da mettere a disposizione ma soprattutto ciò che è più è necessario è imparare ad aprire il cuore, amare e perdonare, altrimenti tutto è inutile. Massa: le giovani detenute del carcere di Pontremoli aiutano la Caritas di Monica Leoncini La Nazione, 14 febbraio 2017 Hanno voglia di aiutare gli altri. Così hanno promosso una raccolta destinata alla Caritas di Aulla. Sono le ragazze dell’Istituto penale per minorenni di Pontremoli, che alcuni giorni fa hanno donato vari beni ai volontari della Caritas, che ora le ringraziano. Le ragazze sono giovani e si sono entusiasmate: hanno raccolto e catalogato del materiale e si sono impegnate nell’aiutare qualcuno che ne ha bisogno. Sono state raccolte coperte, capi di abbigliamento, fax, un televisore e altri oggetti che serviranno a fare felici le persone che non hanno quasi nulla. "Alcuni volontari - spiega il responsabile Caritas di Aulla, Enrico Donnini - sono andati a Pontremoli con la Pubblica assistenza Croce bianca di Aulla, per caricare quello che ci hanno donato. Don Giovanni Perini, a nome di tutti noi volontari, ringrazia la Pubblica per la disponibilità, le ragazze e il direttore dell’istituto Mario Abrate, per la bontà del loro gesto". Un gesto che collega strettamente persone in difficoltà, tramite la solidarietà. "Le ragazze - spiegano dall’istituto - volevano fare qualcosa per chi ha bisogno, così abbiamo pensato alla Caritas. Si sono impegnate molto a preparare gli scatoloni, sono state aiutate dal personale della polizia penitenziaria e da tutto l’istituto. Sono sensibili alle tematiche della solidarietà". Intanto le attività della Caritas di Aulla procedono. Nella sede all’ex stazione di Aulla, aperta lunedì, mercoledì e venerdì dalle 15 alle 17 si possono ritirare i vestiti, mentre in centro, il sabato mattina, c’è la distribuzione degli alimenti. Esistono poi la scuola di italiano per stranieri e un centro di ascolto, per chi ha difficoltà a pagare le bollette e il prestito sociale. I problemi sono tanti. "A novembre il magazzino era vuoto - aggiunge Donnini - ora per fortuna abbiamo ricevuto numerosi aiuti, col banco alimentare e la Gea. Un supermercato aullese e altre persone ci aiutano periodicamente. Da noi vengono diverse persone che hanno perso il lavoro, anche per malattia e si trovano senza niente. Ogni storia è diversa. Sabato ci sarà il banco farmaceutico, alla farmacia Giannotti del Masero di Terrarossa, per raccogliere farmaci da banco, molto utili per chi non può comprarli. Ci sono poi residenti che si trovano da un giorno all’altro senza un tetto sulla testa". Per loro è in cantiere un nuovo progetto. Quando l’asilo vicino alle suore si sposterà nella nuova sede, sarà realizzato un piccolo dormitorio, che servirà in caso di emergenza abitativa. Siracusa: il Rotaract dona libri alle carceri di Cavadonna e di Brucoli siracusanews.it, 14 febbraio 2017 Nelle giornate del 30 gennaio e del 11 febbraio 2017 si sono svolte le attività dei club service Rotaract Siracusa Monti Climiti, Rotaract Augusta e Rotaract Lentini in merito al progetto nazionale "Sulla scia delle ali della libertà": oggetto degli eventi è stato la donazione di numerosi libri rispettivamente alla Casa circondariale Cavadonna di Siracusa ed all’istituto penitenziario di Brucoli. Un esperienza intensa per i giovani rotaractiani che hanno avuto occasione di visitare parte delle strutture carcerarie e soprattutto di incontrare i detenuti. Il direttore dell’istituto penitenziario di Brucoli Antonio Gelardi ha detto come per la direzione della casa di reclusione il rapporto con i club service rappresenti "un importante tassello nei contatti con il territorio, fondamentali per l’attuazione dei principi costituzionali che regolano la pena detentiva". Durante la cerimonia di consegna dei libri, il presidente del Rotaract Augusta Lavinia Pitari ha evidenziato come "attraverso l’istruzione nascano maggiori opportunità, più opportunità significa meno bisogno, meno bisogno significa più legalità." Il presidente del Rotaract Siracusa Monti Climiti Gabriele Massimiliano Ragusa in concerto col presidente del Rotaract Lentini Alfio Brunno hanno aggiunto quanto possa essere importante la lettura, "attraverso cui è possibile raggiungere ogni luogo, paese e nazione superando le barriere fisiche". Ivrea (To): "Parole dal carcere", cd nato dalla collaborazione tra detenuti e liceo musicale La Sentinella del Canavese, 14 febbraio 2017 Quando musica e poesia diventano occasione di riscatto sociale. Con un duplice spettacolo al di qua ed al di là del muro di un carcere, ma suscitando un’unica grande emozione in pubblico ed artisti, sul palco del teatro del carcere milanese di Opera e nel salone della Cultura del capoluogo lombardo è stato portato in scena "Parole che suonano", primo atto di un progetto di musica e poesia avviato un anno fa tra Piemonte e Lombardia. Nello specifico, la lodevole iniziativa è stata resa possibile dall’associazione Cisproject- Leggere libera - mente che cura i laboratori di scrittura creativa e autobiografica all’intero della casa di reclusione di Opera, dall’associazione Liceo musicale di Rivarolo e dall’associazione Assistenti volontari penitenziari di Ivrea Tino Beiletti onlus. Obiettivo comune è quello di favorire nuove forme di dialogo tra il mondo della scuola e della detenzione. Fil rouge del doppio incontro, "Ricomincio da me… e da voi", rappresentazione musico-teatrale ispirata dai versi di Giuseppe Catalano, uno dei corsisti del laboratorio, ora in libertà. Lo spettacolo ha visto per la prima volta l’esecuzione in pubblico delle sue liriche arrangiate, cantate e danzate da oltre 50 giovani artisti del sodalizio alto canavesano. Ospite d’onore, è stato Virginio, il cantautore ha accolto l’invito lanciato da Carlo Conti in occasione della serata finale del Festival di Sanremo 2016 a musicare P.S. Post scriptum, poesia di Catalano vincitrice della 2ª edizione del concorso letterario indetto dall’associazione di promozione sociale "Parole Liberate: oltre il muro del carcere". Paolo Romagnoli, esperto di comunicazione e collaboratore di Leggere libera - mente, ha, quindi, presentato il libro "Le nostre parole per voi", scritto dai corsisti dello stesso laboratorio che ripercorre i loro momenti d’incontro e confronto con le scolaresche allo scopo di affrontare insieme temi delicati quali giustizia e ingiustizia, carcere e pena e, soprattutto, le circostanze che possono portare a commettere un reato. Sonia Magliano, direttrice del Liceo musicale rivarolese, sottolinea come si sia trattato di "una esperienza didattica unica nel suo genere: fare cultura con esperienze forti di vita" ed assicura che si lavorerà "ancora più a stretto contatto con il laboratorio di scrittura del carcere di Opera per coinvolgere direttamente i detenuti sul palco insieme con noi ragazzi dai 9 anni in su". Trento: "Storie dal carcere fra scuola e teatro", giovedì l’incontro con Amedeo Savoia di Gabriella Brugnara Corriere Alto Adige, 14 febbraio 2017 Di carcere si parla poco e, quando lo si fa, gli aspetti che conquistano l’attenzione dell’opinione pubblica sono spesso quelli che fanno notizia, come il sovraffollamento, i suicidi o le fughe. Pone invece l’attenzione su "Storie dal carcere fra scuola e teatro", l’incontro con Amedeo Savoia che si svolgerà giovedì alle 17.30 presso il Museo diocesano tridentino. Il relatore affronterà temi quali l’istruzione in carcere, che è un diritto previsto dalla normativa penitenziaria e al contempo un elemento fondamentale del percorso rieducativo del condannato. Savoia, docente di lettere al liceo Leonardo da Vinci di Trento, insegna da anni nella casa circondariale del capoluogo e con altri insegnanti - coordinati dal liceo Rosmini - segue i percorsi formativi dei detenuti. La conferenza si colloca nell’ambito della mostra "Fratelli e sorelle. Racconti dal carcere" (aperta fino al 27 marzo). Catanzaro: presentazione del libro "Pentiti. Storie e tormenti di vite confiscate alle mafie" weboggi.it, 14 febbraio 2017 Il prossimo giovedì 16 febbraio ore 18 presso la Libreria Ubik di Catanzaro Lido e venerdì 17 febbraio ore 11 presso la sala video-conferenze dell’IIS Petrucci-Ferraris-Maresca - sede di Catanzaro Lido sarà presentato l’ultimo libro di don Marcello Cozzi, responsabile del servizio nazionale antiracket e antiusura e di accompagnamento ai testimoni di giustizia di Libera Il libro "Ho incontrato Caino. Pentiti. Storie e tormenti di vite confiscate alle mafie" nasce da una serie di incontri con pentiti e collaboratori di giustizia, uomini e donne che vivono in carceri di massima sicurezza o in località segrete, nascosti da nuove identità. Persone che un tempo sono state protagoniste di omicidi efferati ma che oggi vivono nel tormento di un passato che, anche se rinnegato, comunque li incatena. In queste pagine parlano pentiti eccellenti di mafia, un tempo protagonisti di stragi efferate, estorsioni, traffico di armi, droga e rifiuti tossici. Sei collaboratori di giustizia - uno fra tutti Gaspare Spatuzza, l’uomo d’onore che ha dato il massimo impulso alle indagini sulla trattativa Stato-mafia - che restituiscono squarci di grande storia italiana criminale, insieme alla testimonianza personale. L’iniziativa, organizzata dal coordinamento di Libera Catanzaro, Ubik Libreria e l’Istituto scolastico Petrucci-Ferraris-Maresca rientra tra gli eventi previsti per i "Cento passi verso la XXII Giornata della Memoria", che si terrà a Locri il 21 marzo. "The Trial", atto d’accusa nei confronti della Russia di Ilaria Ravarino Leggo, 14 febbraio 2017 Secondo Variety, la Bibbia del cinema americano, è "il film che Donald Trump dovrebbe assolutamente guardare". Perché il documentario "The Trial: The State of Russia vs Oleg Sentsov", presentato in questi giorni alla Berlinale, è un duro atto d’accusa nei confronti del più discusso alleato del presidente americano: il presidente russo Vladimir Putin. "La storia raccontata nel film, girato - per aiutare i russi - ha detto il regista, Askold Kurov - a liberarsi dalla dittatura della propaganda", racconta la storia vera del regista ucraino Oleg Sentsov, condannato a vent’anni di prigione in un carcere di massima sicurezza in Siberia. Accusato di essere l’ispiratore occulto di un gruppo di terroristi avversi Oleg Sentsov condannato a 23 anni di carcere all’occupazione della Crimea, il regista sarebbe stato ‘incastrato’ dai servizi segreti russi sulla base di prove quantomeno discutibili. "Quando ho cominciato il film ero aperto alla possibilità che Oleg fosse davvero un terrorista - ha spiegato a Leggo il regista anche perché io stesso non so come mi comporterei se il mio paese venisse occupato militarmente. Ma seguendo il processo mi sono reso conto immediatamente di come l’accusa sia basata sul falso, e precisamente sull’estorsione di testimonianze per mezzo di tortura". Per la liberazione di Sentsov si sono spesi registi come Ken Loach, Wim Wenders e Aleksandr Sokurov, arrivato a confrontarsi direttamente con Putin. Ma il niet del presidente russo è incontrovertibile. "Io non credo che Oleg rimarrà in prigione fino al 2034. Probabilmente verrà usato come moneta di scambio per agevolare la liberazione di qualche militare russo finito nelle prigioni ucraine". Il documentario, per adesso, non ha distribuzione: "In Russia - è la conclusione amara di Kurov - non lo vuole trasmettere nessuno". Droghe. Ha in casa 10 grammi di hashish, sedicenne si uccide durante la perquisizione di Alessandro Fulloni Corriere della Sera, 14 febbraio 2017 Tragedia nel Genovese durante una perquisizione. Il giovane si getta nel vuoto davanti ai genitori 10 grammi Durante un controllo trovato con 10 grammi di hashish subito consegnati agli agenti. Una scena terribile dentro una stanza, davanti al papà, alla mamma e a un finanziere. A un tratto - erano circa le 13 - uno studente di 16 anni, fermato dopo essere stato trovato in mattinata con un piccolo quantitativo di hashish, 10 grammi, si alza dal divano. Nessuno può immaginare cosa stia per fare in quei pochi secondi che seguono. Raggiunta un’altra stanza, si avvicina alla portafinestra che la divide dal balcone, la apre. Esce e si getta di sotto con un balzo. Un volo dal terzo piano. Impossibile salvarlo. Quando l’ambulanza arriva in ospedale, è già morto. È successo a Lavagna, sulla Riviera di Levante, 12 mila abitanti in provincia di Genova. Sconvolti i genitori, sconvolto il finanziere accanto a loro, sconvolti i suoi due colleghi della compagnia di Chiavari che nella cameretta dell’adolescente - incensurato e descritto dai vicini di casa come "un bravissimo ragazzo" - avevano recuperato un altro piccolo quantitativo di hashish. Il nascondiglio era già stato indicato dallo stesso sedicenne quando, un’ora prima, era stato fermato dalla pattuglia delle Fiamme Gialle durante un controllo di routine davanti a una scuola, il liceo scientifico sportivo Giannelli di Chiavari. Nella tasca dei pantaloni lo studente aveva i 10 grammi. Li ha consegnati ai finanzieri. Ai quali aveva confessato, con gli occhi bassi e timorosi: "Ne ho un altro po’ a casa". Poi è seguito quello che avviene sempre in questi casi. Ovvero "un accertamento di routine", come lo definisce il generale Renzo Nisi, il comandante del gruppo provinciale di Genova della Guardia di Finanza. Anche lui papà - 50 anni, un "figlio che deve entrare nell’età dell’adolescenza e uno che ne è appena uscito" - e anche lui sbigottito, tanto da parlare della "distanza enorme tra il controllo iniziale, il fatto contestato, la possibile conseguenza che non avrebbe avuto alcun rilievo penale e quel dramma che è successo poi". È passato da poco mezzogiorno quando i tre agenti bussano a casa del ragazzino trovando il padre, dirigente sportivo di una squadra di calcio, e la madre. Li informano di quel che è successo, i due genitori non sapevano che il figlio consumasse hashish. Parte l’inevitabile ramanzina mentre due finanzieri controllano la cameretta trovando gli altri 10 grammi indicati dal ragazzo. A questo punto lo scatto che ha "sorpreso tutti - prosegue Nisi -, i due genitori e il terzo agente rimasto nel salotto". Lo studente si è alzato dal divano, raggiungendo l’altra stanza come per prendere una boccata d’aria. Invece si è buttato di sotto. Dopo quel "controllo si è visto crollare il mondo addosso" ragiona ad alta voce il generale delle Fiamme Gialle. "Probabilmente la perquisizione davanti ai genitori lo ha destabilizzato. Si è sentito sotto tiro - è l’analisi di Maria Rita Parsi, psicoterapeuta dell’adolescenza - e quindi ha compiuto un’azione di "autoeliminazione". Come se l’evento fosse stato più grande della capacita di contenerlo". Quando è arrivato il 118 lo studente era in condizioni disperate, i medici hanno provato a rianimarlo sul marciapiede in piazza Torino, dietro la via Aurelia, a una manciata di metri dalla spiaggia e dal lungomare. Lo hanno caricato in ambulanza per portarlo a Cogorno dove l’eliambulanza dei Vigili del fuoco avrebbe dovuto trasferirlo alla Rianimazione del San Martino di Genova. Ma l’elicottero non si è mai alzato in volo. Il cuore del sedicenne aveva già cessato di battere. La Procura genovese ha aperto un’inchiesta per accertare eventuali responsabilità. Dopo la tragedia non sono mancati i commenti dei politici. Occorre "legalizzare i derivati della cannabis", ha detto il senatore Pd Luigi Manconi. Sicurezza urbana. I decreti-fotocopia contro i poveri di Maroni e Minniti di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 14 febbraio 2017 Anni fa l’attuale Ministro dell’Interno stroncò il Ddl. Un decreto "sicurezza" déjà-vu, a forte rischio incostituzionalità. È questo il rischio che corre il nuovo decreto sicurezza firmato la scorsa settimana dal ministro dell’Interno Marco Minniti, in molte parti sovrapponibile anche nelle virgole, a parte i commenti a margine, con l’analogo provvedimento targato Roberto Maroni. Era, infatti, la primavera del 2008 e Silvio Berlusconi, vinte le elezioni, aveva dato il via al suo IV Governo. Il 21 maggio si tenne a Napoli il primo Consiglio dei Ministri. Al termine, il ministro dell’Interno Maroni annunciò che il Governo aveva approvato un "Pacchetto Sicurezza": un decreto legge, due disegni di legge, tre decreti legislativi. In particolare, il decreto legge 23 maggio 2008, n. 92, convertito poi con legge 24 luglio 2008, n. 125, contenete "misure urgenti in materia di sicurezza pubblica". Secondo Maroni, queste norme avrebbero consentito "un contrasto più efficace dell’immigrazione clandestina e una maggiore prevenzione della microcriminalità diffusa, attraverso il coinvolgimento dei sindaci nel controllo del territorio". Per Maroni "la sicurezza urbana è un bene pubblico: ecco la grande rivoluzione introdotta dal decreto che concede più poteri ai sindaci". Nelle intenzioni dell’allora titolare del Viminale, le competenze dei sindaci sarebbero aumentate con possibilità di intervento, mediante ordinanze, per contrastare il fenomeno dalla prostituzione, dell’occupazione abusiva, dello spaccio, del danneggiamento. Oltre al tema della sicurezza urbana, il Pacchetto Sicurezza prevedeva norme per il riconoscimento dello status di rifugiato, con misure per perseguire chi avesse approfittato delle protezioni, pur non avendone i requisiti, prevedendo un’accelerazione delle procedure per le espulsioni. Marco Minniti, in quei giorni ministro "ombra" dell’Interno, commentando a caldo il provvedimento di Maroni disse che "sull’immigrazione il governo continua a percorrere una strada confusa, contraddittoria, di cui davvero non si riesce a comprendere l’obiettivo. Il Partito democratico si riserva di valutare nel merito le singole proposte, ma di certo la cosa che più sconcerta è che mentre si discute in maniera confusa di provvedimenti inefficaci e controproducenti, nel Sud del nostro Paese c’è un attacco aperto alla sovranità dello Stato e si continua a sparare e morire. Sarebbe utile che la si smettesse con proclami ed annunci e ci si occupasse - concluse - della sicurezza degli italiani qui ed ora". 9 anni più tardi, il presidente del Consiglio è Paolo Gentiloni e il ministro dell’Interno, vero e non più ombra, Marco Minniti. Il 10 febbraio scorso, questa volta a Palazzo Chigi e non a Napoli, il Governo decide di approvare un decreto legge in "materia d’immigrazione e sicurezza urbana" dove si valorizza e rafforza il ruolo dei sindaci, rafforzandone il potere d’ordinanza, "con nuove modalità di prevenzione e di contrasto all’insorgere di fenomeni di illegalità quali, ad esempio, lo spaccio di stupefacenti, lo sfruttamento della prostituzione, il commercio abusivo e l’illecita occupazione di aree pubbliche che possono influenzare negativamente la sicurezza urbana". Inoltre, si introducono misure volte "ad accelerare le operazioni di identificazione dei cittadini di Paesi non appartenenti all’Unione europea e per il contrasto dell’immigrazione illegale, finalizzate a garantire l’effettività dei provvedimenti di espulsione e il potenziamento della rete dei centri di identificazione ed espulsione". Per Minniti "in Italia abbiamo un modello di sicurezza che funziona e non c’è alcuna emergenza sicurezza, ma era importante stabilire che in un modello di sicurezza nazionale occorre guardare meglio anche alla sicurezza del territorio con politiche più attente di sicurezza da Bolzano ad Agrigento. Per fare questo occorrono più contatti e più coinvolgimento da parte dei sindaci". E, riguardo ai rimpatri, "non c’è politica di accoglienza vera se non c’è una politica di rimpatri perché chi non ha avuto risposta positiva alla propria domanda deve essere rimpatriato nel paese di provenienza". Tornando al Pacchetto Sicurezza Maroni, con sentenza n. 115/ 2011, la Corte costituzionale dichiarò la sua incostituzionalità, in quanto violava gli articoli 3, 23 e 97 della Carta riguardanti il principio di eguaglianza dei cittadini, la riserva di legge, il principio di legalità. In particolar modo le ordinanze dei sindaci, che incidono "sulla sfera generale di libertà dei singoli e delle comunità amministrate" ponevano prescrizioni di comportamento e divieti in assenza di una valida base legislativa, andando oltre la normale discrezionalità amministrativa. Farà la stessa fine il Pacchetto Sicurezza Minniti? Migranti. Più 50% di sbarchi sul 2016. Il Viminale ai Comuni: il piano c’è, serve pazienza di Francesco Grignetti La Stampa, 14 febbraio 2017 Il governo: ma se il trend non cambia, è un problema. I freddi numeri non sono certo incoraggianti: nel periodo che va dal 1 gennaio al 13 febbraio, sono sbarcati 9447 migranti sulle nostre coste. Erano 6123 nello stesso periodo del 2016, e "soltanto" 3851 nel medesimo tempo del 2015. L’incremento è clamoroso. Quasi un 50% in più nonostante il mare sia inclemente. Ragiona quindi il sottosegretario all’Interno, Domenico Manzione, che segue i problemi dell’immigrazione: "Il piano di accoglienza è tarato sui numeri del 2016 (che rappresenta già un record con 181mila sbarcati, ndr), ma se il trend continua a crescere con questo ritmo, beh, è evidente che c’è un problema". Già, il problema. Da ogni parte, dai sindaci come dai prefetti, si alza un grido di aiuto. Ogni tanto ci scappa qualche protesta clamorosa come a Vitulano. Se però si arriva al muro contro muro, è una catastrofe per tutti. "Il mio obiettivo - spiega ad esempio il nuovo prefetto di Napoli, Carmela Pagano - è di andare su modelli di accoglienza diffusa, senza coercizione, sulla base della adesione libera dei sindaci. L’ideale è una piccola struttura, contenendo la permanenza e favorendo una accoglienza più diffusa che è meno impattante e provoca meno effetti negativi". È questa, in effetti, la direttiva che arriva dal ministro Marco Minniti: con i sindaci e le comunità occorre tantissimo dialogo per arrivare a una accoglienza diffusa, in piena condivisione con i sindaci, e con la giusta flessibilità. Il nuovo Piano per l’accoglienza - quello che prevede la distribuzione di 2,5 migranti ogni mille residenti, un po’ meno per le grandi città in modo da evitare numeri eccessivi - a questo punto c’è. Ai Comuni si chiede un atto di generosità; in cambio lo Stato garantisce aiuti a chi aderisce ai progetti Sprar (Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati) e parallelamente promette che quest’accoglienza non sarà più infinita. Ma ora si tratta di passare ai fatti. "Dev’essere chiaro a tutti - spiega intanto Manzione - che nessuno ha la bacchetta magica. Ci sono stati dei passi importanti, con la Libia, con l’Europa, con i Comuni, con il nuovo decreto che cambia le regole sulle domande di asilo. Ora siamo in mezzo al guado e ai sindaci chiediamo pazienza". Questo è quanto i prefetti stanno spiegando anche nei loro incontri con i sindaci in questi giorni: il nuovo Piano ha un obiettivo tendenziale. Se andrà a regime, alla fine l’accoglienza per i richiedenti asilo sarà spalmata tra tutti gli 8000 Comuni italiani. Ma siccome c’è tempo ancora fino a marzo per aderire allo Sprar, tra qualche settimana si saprà se "la campagna di sensibilizzazione", per stare alle parole di Manzione, ha funzionato. Hit Show. A Vicenza la Fiera delle armi aperta ai minori: "operazione politica" di Chiara Cruciati Il Manifesto, 14 febbraio 2017 Campagna della società civile locale e nazionale verso Hit Show: gli stand di armamenti e munizioni, rivolti a civili, sono visitabili anche dai bambini. Si è chiusa ieri la terza edizione della fiera delle armi Hit Show a Vicenza: oltre 400 espositori, "l’eccellenza della produzione Made in Italy accanto ai più famosi marchi internazionali, in particolare dell’area Usa". Con queste parole la fiera si presenta al pubblico. Armi, munizioni, attrezzature ottiche e molto altro è quanto Hit Show propone. Ma c’è chi negli ultimi tre anni, la società civile locale e nazionale, non ha cessato di portare avanti una campagna di contro-narrazione, verso quella che definiscono "un’operazione ideologico-culturale e persino politica che è in atto nel nostro paese per incentivare la diffusione delle armi". Dietro la fiera (dedicata al B2B, al Business to Business, dunque al commercio tra aziende private) c’è Italian Exhibition Group (Ieg), società per azioni che ha tra i suoi azionisti anche enti pubblici, come il Comune e la Provincia di Vicenza e la Regione Emilia-Romagna. È a loro che la campagna si rivolge, una campagna di base formata - tra gli altri - da Rete Italiana per il Disarmo, Opal, Acli, Arci, le associazioni vicentine di Cgil, Cisl, Azione Cattolica, Commissione diocesana della pastorale sociale. Nel mirino (è il caso di dirlo) ci sono i bambini: nelle due precedenti edizioni della fiera, minori si aggiravano tranquilli per gli stand con alcuni dei venditori che gli mettevano in mano pistole e fucili semiautomatici. Immagini catturate da fotografie scattate sul posto e che hanno sollevato le proteste della società civile: Hit Show è l’unica fiera nell’Unione Europea in cui i minori possono entrare, muoversi liberamente tra banchi pieni di armi e munizioni e prendervi dimestichezza. Per questo, per l’edizione 2017, la fiera si era impegnata con il Comune di Vicenza - azionista di Ieg, appunto - a vietare l’ingresso ai minori di 14 anni, dandone conto nel regolamento fieristico e suscitando così o le proteste di visitatori e associazioni venatorie. Tutto cancellato: in successivi comunicati, Hit Show (parlando di "equivoco dovuto ad uno spiacevole refuso") specifica che i minori di 14 anni possono entrare "se accompagnati da adulti" e non possono comunque "maneggiare le armi esposte". Poco cambia: in passato è accaduto di frequente. A preoccupare è l’atmosfera in cui i bambini si ritrovano immersi. Armi di ogni tipo, eccezion fatta per quelle specificatamente da guerra, dalla difesa personale al tiro sportivo, ma anche per la caccia e il collezionismo; porte aperte a esperti del settore ma anche a semplici visitatori; e convegni in cui l’utilizzo di armi viene raccontato, spiegato e giustificato: "A Hit Show si tengono convegni di associazione che chiedono minori restrizioni sulle armi - ci spiega Giorgio Beretta, dell’Osservatorio permanente sulle armi leggere - e anche le direttive che si stanno discutendo a livello europeo. Cose che non hanno niente a che fare con una fiera merceologica-commerciale. Si sta sempre di più profilando come un’operazione ideologico-culturale e politica per incentivare la diffusione di armi". Armi comuni di cui si promuove l’utilizzo, ispirandosi alla cosiddetta "area Usa" citata dalla fiera, un paese dove la diffusione capillare tra i civili è da decenni ragione di stragi e massacri. A Vicenza si rischia di farla penetrare nelle menti dei più piccoli, mettendogli in mano delle armi e facendogli pensare che sia del tutto normale. Tunisia. Quando la sicurezza è a scapito dei diritti umani di Riccardo Noury Corriere della Sera, 14 febbraio 2017 In un rapporto pubblicato 24 ore fa, Amnesty International ha fatto il punto su due anni di applicazione delle misure di sicurezza adottate dal governo tunisino a partire dalla strage del marzo 2015 al museo del Bardo di Tunisi. Le autorità tunisine, sottolinea sin da subito il rapporto, hanno il dovere di proteggere la popolazione dalle minacce del terrorismo e di contrastare i gruppi armati, ma nel farlo hanno anche l’obbligo di rispettare la Costituzione e le norme del diritto internazionale dei diritti umani. Invece il ricorso ai metodi brutali del passato, alla tortura e agli arresti arbitrari così come le perquisizioni senza mandato e l’accanimento nei confronti delle famiglie di chi è sospettato di terrorismo rischiano di compromettere il successo delle riforme e di quel percorso che ha fatto della Tunisia l’unica "storia di successo" delle cosiddette primavere arabe del 2011. Nel suo rapporto, Amnesty International esamina 23 casi di tortura e due episodi di violenza sessuale ai danni di detenuti, che chiamano in causa la polizia e le brigate anti-terrorismo. Dalla reintroduzione dello stato d’emergenza, dopo l’attentato contro la Guardia presidenziale del novembre 2015, migliaia di persone sono state arrestate, spesso durante raid notturni che hanno terrorizzato interi nuclei familiari. Queste irruzioni armi in pugno, in alcuni casi ripetute più volte, hanno causato aborti, stati d’ansia e ricoveri. Nei confronti di almeno 5000 persone è stato imposto il divieto di viaggiare all’estero. La ragione è comprensibile e apprezzabile, ossia impedire di aggregarsi ai gruppi armati che operano altrove in Medio Oriente e in Africa del Nord, ma secondo Amnesty International si è trattato di provvedimenti sproporzionati e arbitrari, così come quelli che hanno colpito 138 persone sottoposte ad arresti domiciliari o al divieto di frequentare determinate zone, con ripercussioni sulla frequenza universitaria o sul lavoro. La nuova legge anti-terrorismo del 2015, che descrive il terrorismo in modo vago e generico, aumenta i poteri di sorveglianza e prevede la pena di morte. Un mese fa, il ministero della Giustizia ha comunicato che 1647 persone erano in attesa del processo per terrorismo e riciclaggio di denaro. Nei loro confronti non valgono le garanzie contro la tortura previste da una legge entrata in vigore nel 2016. Sullo sfondo resta, scarsamente contrastata, l’impunità per le violazioni dei diritti umani: a fronte dei casi ben documentati da Amnesty International, il ministero dell’Interno ha fatto sapere che l’Ispettorato generale per la sicurezza nazionale ha ricevuto tra il 2015 e il 2016 una sola denuncia di tortura che sarebbe risultata falsa. Afghanistan. 600mila profughi cacciati sotto le bombe Nato di Emanuele Giordana Il Manifesto, 14 febbraio 2017 Il Pakistan espelle i profughi in un paese dove raddoppiano i morti nei raid internazionali. L’accusa di Human Rights Watch: "L’Onu è complice nell’esodo". Espulsi dal Pakistan in 6oomila in un paese - il loro, che in molti non vedono da quarant’anni o non hanno mai visto - dove l’ennesimo raid aereo della coalizione alleata al governo di Kabul ha ucciso almeno 18 persone. Civili. In maggioranza donne e bambini. Tra le due notizie, che hanno un tragico nesso, è difficile stabilire qual è la più grave: da una parte il Pakistan continua il suo programma di rimpatrio forzato di un milione di afghani, dall’altro, in Afghanistan, si continua a morire mentre il comandante della Nato e delle truppe Usa nel Paese, il generale statunitense John Nicholson, invoca più truppe - Nato e americane - e accusa Russia e Iran di appoggiare i talebani. Il risultato è quello di un innalzamento dei toni in questa guerra silente che nel 2016 ha mietuto più vittime da quando la missione Onu a Kabul (Unama) ha iniziato nel 2009 a tenere il bilancio. Ed è proprio un rapporto preliminare di Unama ad esprimere "grave preoccupazione" per i raid aerei che, tra il 9 e il 10 febbraio, avrebbero ucciso almeno 18 persone nel distretto di Sangin (Helmand); Resolute Support, la missione Nato in Afghanistan, avrebbe aperto un’inchiesta. Altre sette civili sarebbero invece stati uccisi dai talebani l’11 febbraio durante un attacco a militari afgani a Lashkargah, capitale della provincia. Sangin è una delle aree più guerreggiate e nel solo 2016 l’Helmand ha visto morire 891 civili, una delle percentuali più elevate della guerra. In un paese dove l’anno scorso le vittime civili sono state oltre 11mila: 3.512 morti (tra cui 923 bambini) e 7.920 feriti (di cui 2.589 bambini), con un aumento del 24% rispetto al periodo precedente. Secondo Unama il raid è stato condotto da forze internazionali ma un ufficiale Usa confida ad Al Jazeera che i raid aerei sono peculiarità americana. Un altro funzionario afgano dice invece che i morti sarebbero molto più di 18, dopo un attacco iniziato alle tre del mattino (la stessa ora del raid di Kunduz sull’ospedale Msf) con un bombardamento "indiscriminato" in un’area densamente abitata. I raid della scorsa settimana in Helmand sarebbero stati una trentina. Nel suo ultimo rapporto sulle vittime civili, Unama indicava che i bombardamenti aerei - afghani e internazionali - sono responsabili del 5% delle vittime nel 2016 ma, rispetto al 2015, la cifra è raddoppiata: 250 morti e 340 feriti, il bilancio più alto dal 2009. Forse per difetto. È questo dunque il paese della guerra infinita dove stanno tornando i rifugiati afghani che, dalla guerra contro l’Urss negli anni Ottanta, avevano cercato asilo nel paese vicino. Ieri Human Rights Watch ha denunciato che la campagna di espulsioni, iniziata nel luglio scorso, è già arrivata a quota 600mila e ha diffuso un video - con testimonianze agghiaccianti - di questo esodo di massa che Islamabad vorrebbe completato in pochi mesi sino a raggiungere un milione di espulsi. Ma il fatto già grave di per sé, lo è ancora di più dal momento che tra questi 600mila - in teoria afgani senza documenti quindi "illegali" - ci sarebbero 365mila profughi con lo status di rifugiati: "La più ampia campagna di espulsione di rifugiati - dice Hrw - degli ultimi anni". In un rapporto di 76 pagine si documentano gli abusi di Islamabad ma anche "il ruolo dell’Unhcr nel promuovere l’esodo … che ne fa un complice degli abusi pachistani". L’Unhcr avrebbe pattuito 400 dollari a testa per "ritorni volontari" ma, dice Hrw, in una situazione di completa insicurezza. La stessa che si trovano ad affrontare gli afghani espulsi dall’Europa. Intanto è stata resa nota la seconda iniziativa russa sull’Afghanistan, che si tiene a Mosca il 15 febbraio: è un incontro tra India, Russia, Iran, Pakistan, Cina e Afghanistan. È il secondo incontro ma al primo Kabul non era stata invitata. Sebbene i rapporti tra Trump e Putin sembrino ottimi, la notizia ha sollevato le ire americane, in particolare del generale Nicholson che qualche giorno fa ha detto al Congresso che Iran e Russia sostengono i talebani e che Mosca sta lavorando a "legittimarli". Il generale ha anche detto, riporta la stampa afghana, che occorrono più truppe perché la guerra in Afghanistan è a un punto morto e, per rompere il cerchio, dovrebbero essere dispiegati in Afghanistan migliaia di nuovi soldati americani e della Nato. Trump, che in campagna elettorale era per il ritiro, potrebbe ascoltarlo. Brasile. La pastorale nazionale promuove alternative alla detenzione L’Osservatore Romano, 14 febbraio 2017 Salvare la dignità dei detenuti, lottare per la loro emancipazione e il rispetto dei loro diritti, ma anche trovare nuove vie che prevedano alternative alla reclusione sistematica e l’ipotesi di depenalizzare l’uso di alcune droghe: mentre la situazione nelle carceri brasiliane resta esplosiva, la Chiesa cattolica, attraverso gli organismi del settore, continua a offrire il suo supporto sotto forma non solo di conforto morale e spirituale. Per tentare di cambiare le cose, padre Valdir João Silveira, coordinatore nazionale della pastorale carceraria (organismo in seno alla Conferenza episcopale), promuove da tempo una vasta riforma del sistema penitenziario e giudiziario. Nel 2013 l’istituzione ha firmato, con una decina di organizzazioni non governative, un’agenda contenente una serie di misure per la "disincarcerazione", compresa anche la depenalizzazione dell’uso di sostanze stupefacenti. "Non siamo favorevoli alle droghe ma la soluzione non è la punizione", spiega padre Silveira al quotidiano francese "La Croix", sottolineando che è urgente "rivedere il modo in cui si tratta e giudica la delinquenza in Brasile". In un paese dove la guerra alla droga fa decine di migliaia di morti ogni anno, senza considerevoli risultati, le alternative al carcere trovano sempre più ampi consensi: "Non è una posizione ufficiale della Chiesa - precisa il coordinatore nazionale della pastorale - ma la discussione è aperta, anche in seno al Consiglio episcopale brasiliano. Recentemente un vescovo ci ha suggerito di organizzare un dibattito sulla questione". Il 19 gennaio, in una nota intitolata Não é crise, é projeto, la pastorale carceraria, di fronte ai massacri (a causa di scontri fra gang) avvenuti a Manaus, Roraima e Rio Grande do Norte, ha ribadito la propria posizione proponendo di approfondire il lavoro attorno alla citata Agenda nacional pelo desencarceramento. Filippine. La proposta di Duterte: "carcere a partire dai nove anni" Corriere della Sera, 14 febbraio 2017 Il presidente filippino vuole abbassare l’età della responsabilità penale "per impedire ai narcotrafficanti di arruolare i bambini". La protesta delle Nazioni Unite. "Una proposta sbagliata da ogni punto di vista". Così le Nazioni Unite hanno definito la proposta del presidente filippino Rodrigo Duterte che vuole abbassare a nove anni il limite di età della responsabilità penale e dell’ingresso in carcere minorile. L’idea del presidente del presidente Duterte, eletto in maggio e indicato da Forbes tra i più potenti al mondo, rientra nella sua "guerra al narcotraffico" che come spiegato qui ha portato alla morte di tremila persone e fa parte di una partita ben più ampia. Così dopo aver istituto gli squadroni della morte, aver reintrodotto la pena di morte, aver insultato Obama e aver minacciato di uscire dalle Nazioni Unite, il Chavez asiatico - come è stato definito da alcuni - ha lanciato una nuova proposta. Bambini, anche piccolissimi in carcere, per ripulire le strade e per impedire ai narcotrafficanti di usarli per i loro traffici. Al momento il limite di età per la responsabilità penale nelle Filippine è 15 anni e nelle carceri sono detenuti oltre 52 mila bambini. Questo provvedimento, secondo gli osservatori e gli operatori umanitari, avrebbe delle conseguenze disastrose sui minori. "Se dovessero finire in carcere, ci sarebbero conseguenze disastrose per la loro vita", ha spiegato Lotta Sylwander dell’Unicef al Guardian. Un bambino di nove anni infatti non è in grado di comprendere le conseguenze di un crimine, soprattutto se è stato costretto a commetterlo da un adulto. "Il provvedimento è contrario a ogni diritto umano, inoltre mette a contatto i minori in carcere con i criminali". Se si vanno a guardare i dati si scopre poi come il provvedimento non risolverebbe in alcun modo il problema della criminalità minorile. L’età media di chi commette un reato tra i giovani è di 15 anni. Inoltre più che il carcere, come sottolineano ancora le Nazioni Unite, sono utili i programmi di recupero, efficaci nel 70 per cento dei casi.