La "carcerazione" dei famigliari Il Mattino di Padova, 13 febbraio 2017 La prigione è quella dove scontano la pena le persone che hanno commesso reati, ma la prigione è anche quella che una legge poco attenta e delle Istituzioni carcerarie non sempre sensibili hanno costruito intorno alle famiglie dei detenuti. Quando i detenuti con le loro testimonianze raccontano la frustrazione dei loro cari, il disprezzo sociale che subiscono, c’è sempre chi ricorda che la responsabilità è prima di tutto di chi i reati li ha commessi, ed è vero, ma lo Stato non può e non deve trattare come colpevoli delle persone, la cui condizione è davvero terribilmente vicina a quella delle vittime. La condanna sociale a cui sono continuamente sottoposti i nostri famigliari Esiste un aspetto di tutte le vicende originate dalla carcerazione di una persona che è pressoché sconosciuto all’opinione pubblica, generalmente poco interessata a racconti di carcere e detenuti: sono le sofferenze vissute dai famigliari di chi sta in carcere. Che vivono anch’essi l’esperienza del carcere, e lo fanno in modo silenzioso, fornendo un sostegno morale ed economico al proprio caro. Anche loro subiscono l’impatto con le regole dell’istituzione penitenziaria, che spesso non tengono in giusta considerazione l’importanza dei sentimenti, che sono invece il collante fondamentale per il mantenimento dei rapporti familiari e delle relazioni affettive. Solo il buon senso della maggior parte degli agenti rende meno traumatica l’esperienza dei colloqui, un’esperienza che può durare tanti, a volte troppi anni. È vero che ci si abitua a tutto, ma a questa nuova fase della vita così dolorosa ci vuole più tempo per adattarsi. Penso sia il momento più difficile per i famigliari, che una normativa particolarmente rigida costringe a contatti centellinati, sei ore al mese di colloquio per un totale di 72 ore all’anno, l’equivalente di tre giorni. Gli altri 362 devi viverli lontano dai tuoi cari. La possibilità poi di contattarli telefonicamente è di una telefonata di 10 minuti a settimana (solo a Padova sono state autorizzate quattro telefonate in più al mese). Il pensare un famigliare custodito in un luogo, ritenuto il più negativo nell’immaginario collettivo, rende gravosa l’attesa per il prossimo incontro, la prossima telefonata o la prossima lettera. La funzione della famiglia è fondamentale non solo durante la detenzione, ma anche dopo, la famiglia rappresenta il luogo di accoglienza a cui fanno spontaneamente riferimento le persone uscite dal carcere. Fare in modo che il legame tra loro permanga durante la carcerazione ha quindi un importantissimo valore sociale. Senza quest’azione di supporto molti ex detenuti sarebbero destinati ad un futuro decisamente a rischio. Il sottoporsi a perquisizioni corporali, in diversi casi considerate umilianti, prima di poter incontrare il proprio caro sotto gli sguardi degli agenti per tutta la durata dell’incontro è una condizione indubbiamente pesante, se si pensa che sto parlando di persone che non hanno nessun debito con la giustizia da saldare. A ciò si aggiunge un aspetto che non va mai dimenticato: la condanna sociale a cui, fuori del carcere, sono continuamente sottoposti questi familiari, dannati per il resto dei propri giorni. Anche questa è una condanna, non meno pesante di quella inflitta dal tribunale al proprio caro, perché ad essa ci si abitua molto più difficilmente rispetto a quella scontata dietro alle sbarre. Fuori i parenti dei detenuti convivono con chi questa situazione esistenziale fa fatica a concepirla, ma si sente in diritto di giudicarla, a volte anche pesantemente. È una condizione non facile da sostenere, se poi dura una vita come per i famigliari degli ergastolani è richiesta una forza interiore non comune per dare un senso alla propria esistenza. È proprio grazie alle loro preziose testimonianze che si può meglio comprendere cosa sia una pena disumana come l’ergastolo. Con loro vorremmo dar vita a un’associazione in cui possano tradurre la loro esperienza in iniziative concrete di supporto a quei famigliari, appena entrati nel "tunnel" della carcerazione per l’arresto di un loro caro. C’è un ultimo aspetto su cui soffermarsi. Parto da un evento tragico della cronaca di questo inizio anno, l’uccisione di due coniugi da parte di un amico del figlio minore, che gli ha "commissionato" questo terribile delitto. Provo a pensare al fratello maggiore, che si è trovato nel ruolo di famigliare e vittima nello stesso tempo, come lo sono i famigliari dell’altro giovane autore di questo orribile delitto. Svegliarsi al mattino e trovarsi famigliare dell’autore di un gesto atroce dev’essere un colpo terribile. Nel momento in cui provo ad immedesimarmi in loro, soprattutto nei genitori di questo 17enne, mi viene da pensare allo strazio in grado di dilaniare anche gli animi più forti, alle domande sul loro operato di genitori: in cosa ho mancato nella sua educazione perché possa essere diventato autore di un gesto così efferato? Ho voluto citare questo aspetto di quanto possono vivere i genitori/famigliari di una persona che si macchia di un reato di sangue, perché essendo anch’io autore di un reato simile ho compreso, senza chiederlo, che questo pensiero è stato spontaneo anche nella mente dei miei famigliari. L’inimmaginabile si è concretizzato, indietro non si può tornare. Dopo aver accettato la difficile realtà resta solo da fare affidamento sulle proprie risorse interiori e prepararsi ad un percorso lungo e irto di ostacoli. Andrea D. Una pena così lunga ha messo un lucchetto anche alla mia anima Quando chiediamo un fine pena più umano, già la parola fine pena fa capire che chi avrà una condanna ovviamente dovrà penare all’interno del carcere, qualcuno addirittura per il resto della vita. Parlare del proprio fine pena non è mai una cosa semplice, si cerca di sdrammatizzare e ci si aggrappa sempre a qualche speranza, per non cadere in un vortice di depressione. Oggi sono un detenuto con un fine pena lontanissimo ma raggiungibile, e soprattutto che per lo meno non si prende gioco di me con un 9999 finale, come succede a chi ha l’ergastolo. Fortunatamente non sono più un ergastolano, dopo una serie di annullamenti dalla Cassazione che indicava, a chi mi voleva condannare praticamente a morte, che forse ero troppo giovane per i reati che mi venivano contestati. Una pena così lunga ha messo un lucchetto anche alla mia anima, ha sbarrato gli affetti che sono ciò che una persona possiede di positivo, quelle emozioni di cui una persona ha bisogno per ricominciare, e oggi sono consapevole che la mia gioventù non potrò più viverla, e sarò privato per sempre di una vita intera e di una famiglia normale. 30 anni di carcere non mi fanno neanche più sognare qualcosa di bello, tanto che senso ha sognare, se poi il sogno sarà inesaudibile. Il dramma vero è che non siamo gli unici a penare, una vita intera di carcere fa morire ogni giorno anche i nostri cari che hanno solo la colpa di amarci. Personalmente non riesco più ad immaginare la vita lì fuori, anche se la desidero, sembra strano ma mi sono abituato a sopportare il peso di queste mura, l’odore di queste sbarre. Il carcere in qualsiasi modo ti segna profondamente, per non parlare del marchio che ognuno di noi porterà per tutta la vita una volta uscito di qui. Spero almeno che il carcere mi faccia in futuro vivere delle emozioni positive e non sopravvivere ad un calvario, che in passato mi ha dato modo di far vedere solo il peggio di me. Questa è la realtà del carcere oggi, queste mura trasformano qualsiasi persona ci abiti, quello che è sicuro è che non dà il risultato sperato a chi parla di reinserimento. Scusate ma non sono d’accordo sul significato di questa parola e a chi pensa che una lunga carcerazione sia essenziale per essere poi reinseriti nella società, rispondo che questo luogo crea sofferenza, insicurezza, rabbia e tanta altra delinquenza. In questi anni avrò conosciuto un migliaio di persone, con tante storie diverse, tra questi, ricordo in particolare quelli che si sono fatti una vita di carcere, persone piegate che non sapevano neanche più dialogare, tesi come una corda, pieni di paranoie, fisse patologiche, manie di persecuzione, asociali a tutti gli effetti, in poche parole gente da buttare. Io ho paura di diventare così. Raffaele Delle Chiaie Davigo e l’Italia: "troppi corrotti 25 anni dopo Mani Pulite" di Giuseppe Guastella Corriere della Sera, 13 febbraio 2017 "A 25 anni da Mani Pulite è drammatico quanto poco sia cambiata la situazione e quanto sulla corruzione peggiori la deriva dell’Italia nel panorama internazionale". Sono le parole amare dette durante un incontro al Corriere della Sera da Piercamillo Davigo, presidente dell’Associazione nazionale magistrati e uno dei giudici di punta del pool Mani Pulite con Antonio Di Pietro, Gerardo D’Ambrosio e Gherardo Colombo nei primi anni 90. "L’Italia è un Paese corrotto a livelli diversi, finalità e modalità diverse. È un Paese che sta morendo. C’è sfiducia, la gente non va più a votare, espatria". Esistono soluzioni possibili di fronte a questo panorama desolante? "Bisogna cominciare dalla scuola, educare i ragazzi. E introdurre per la corruzione alcune norme che valgono per i mafiosi". A 25 anni da Mani pulite, in Italia è cambiato poco o nulla? "È drammatico quanto poco sia cambiata la situazione e quanto sulla corruzione peggiori la deriva dell’Italia nel panorama internazionale". Un Paese corrotto? "A livelli diversi, finalità e modalità diverse. È un Paese che sta morendo. C’è sfiducia, la gente non va più a votare, espatria". Ci vuole una rivoluzione culturale? "Bisogna cominciare dalla scuola". Migliore l’Italia degli anni di Mani pulite? "L’effetto domino non fu innescato da un sussulto di coscienza civile, ma dal fatto che erano finiti i soldi". Lei sostiene che per la corruzione ci vorrebbe un doppio binario, come per la mafia. "Bisognerebbe introdurre alcune delle norme che valgono per i mafiosi". Ad esempio? "Un sistema premiale forte e serio e le operazioni sotto copertura". La corruzione spesso è alimentata da fondi neri esteri, sempre più difficili da aggredire. "È un problema internazionale. L’assistenza giudiziaria internazionale è un relitto ottocentesco che richiede tempi talmente lunghi, incompatibili con la durata di un processo". Corruzione "Simonia secolarizzata". Cioè? "Nella Chiesa c’è il sacerdote che vende cose sacre, nello stato c’è il funzionario pubblico che vende le cose che per lui dovrebbero essere sacre, perché ha giurato fedeltà alla Repubblica". Il pool Mani pulite ha fatto errori? "Secondo me, no. Ha fatto quello che poteva. Se non ci avessero cambiato le leggi a partita in corso, saremmo andati avanti. Molte leggi possono avere su il nome dell’imputato". Forse fino a un’epoca determinata. "Sì, poi è cambiata la maggioranza e da allora le fanno più sofisticate. Ad esempio, la legge Severino non contrasta la corruzione ma è stata gabellata per una legge che la contrasta". Monti, il premier di allora, non era sospettabile di essere vicino ai corrotti. "Quella legge l’ha fatta il Parlamento. Ricordo che il ministro della Giustizia rispose alle obiezioni: "Era il massimo che si potesse fare in quel momento con quelle Camere". I vostri rappresentanti dissero che era una buona legge, come nel caso di quella sull’auto-riciclaggio. C’è anche un problema vostro? "Certo che c’è anche un problema della magistratura, ma cerchiamo di capirci, gioca anche molto il modo di fare leggi dovuto all’incompetenza della pubblica amministrazione che, purtroppo, non è più quella di cento fa, fatta di funzionari competenti e con il senso dello Stato. Quando ho incontrato la prima volta il ministro Orlando, gli ho fatto presente che la depenalizzazione che avevano fatto non serviva a niente perché toglieva solo le briciole ma alcuni reati depenalizzati avevano l’effetto non di ridurre il carico di lavoro, ma di aumentarlo. Mi rispose che l’Anm aveva dato parere favorevole, io gli dissi che non sarebbe accaduto più perché avevamo costituito delle commissioni interne". Ha un giudizio molto negativo sui politici. "Ce ne sono anche perbene, ma i meccanismi talvolta favoriscono il malaffare". Cosa ne pensa di chi, come i 5 Stelle, ha introdotto codici interni legati alle inchieste? "La politica non deve agganciarsi ad atti formali nel giudizio, ma a una valutazione autonoma dei fatti. Si può cacciare uno che è innocente o tenerlo se è colpevole. Sono due valutazioni diverse, una è politica, l’altra di giustizia". Non si introduce così un’inversione del principio di non colpevolezza? "Non è così. Molte volte non c’è bisogno di aspettare la sentenza per far scattare la responsabilità politica, ma in questo Paese non avviene mai, neanche di fronte ai casi evidenti". Prendiamo il caso di Roma e della sindaca Raggi, è un caso controverso. "Premesso che non parlo dei procedimenti in corso, in qualche caso la politica può dire "aspetto di vedere come va finire" o "mi sono fatto un’idea", ma non può dire sempre "aspettiamo le sentenze". Significa caricare sulla decisione del giudice la selezione della classe politica". I politici dovrebbero darsi codici di comportamento? "Secondo me sì. Basta anche il buonsenso". Non c’è il rischio di finire nel moralismo? "Se mi mandano in udienza con un collega che si è saputo che ruba, io non vado perché chi ci vede pensa che siamo uguali. Io non rubo". L’Anm accoglie pm e giudici. Non le sembra forte dire che il codice di procedura penale è fatto per farla fare franca ai farabutti? "Il nostro giudice è vincolato da un sistema di inutilizzabilità sconfortante perché una prova acquisita, valida nei confronti di un imputato, diventa inutilizzabile per un altro se è stata acquisita a termini delle indagini preliminari scaduti. Il giudice è messo nella condizione di dover scegliere tra rispettare la legge rinunciando a fare giustizia o tentare di fare giustizia forzando la legge. È inaccettabile. E allora è normale che uno venga arrestato e poi assolto. Se non volevano questo non dovevano scrive il codice così, oppure dovevano dirci di non arrestare più". Riporta una frase del generale Dalla Chiesa che diceva: che c’è chi parla di manette facili e chi di ingiustizia che assolve. Ingiustizia? "L’ingiustizia può essere nella legge oltre che negli uomini, se la legge è contraria al senso comune di giustizia, e molte delle norme che applichiamo lo sono. Ora la minaccia del carcere non è credibile perché il codice penale è uno spaventapasseri, da lontano fa paura, quando ci si avvicina appare innocuo. In galera ci va chi è così sciocco da farsi arrestare in flagranza e gli appartenenti alla criminalità organizzata. Gli altri in media ci vanno di meno". Lei è un giudice, un suo imputato potrebbe avere difficoltà leggendo: "Ne prendiamo pochi e quando li prendiamo vengono condannati a pene esigue che non vengono fatte scontare"? "Nel nostro sistema il rispetto delle regole formali, che il più delle volte non hanno nessuna utilità, vanifica la ricostruzione storica dei fatti. A un certo punto ho lasciato la Procura per fare il giudice in appello, volevo capire come mai le sentenze venissero quasi sempre riformate. Ho visto che era vero quello che mi aveva insegnato un anziano magistrato che diceva che i giudici del tribunale sono come i padri, severi quando è necessario, quelli della Corte d’appello come i nonni, di regola rovinano i nipoti. Dato che su cento ricorsi in appello, 98 sono degli imputati condannati, si cominciano a vedere i problemi solo con una certa ottica e spesso è impossibile resistere alla tentazione di ridurre le pene. Bisognerebbe cambiare anche l’appello". Solo carcere? E l’esecuzione esterna? "Dipende dai reati e dal tipo degli imputati". È stato mai tentato di forzare le regole? "No. Le ho sempre rispettate, e anche quando ero convinto che l’imputato fosse colpevole l’ho assolto se la prova era inutilizzabile, pensando che era un mascalzone che l’aveva fatta franca". Un sistema che protegge l’impunità? "In un sistema ben ordinato, un innocente non deve essere assolto, non deve neppure andare a giudizio perché per lui il processo è una tragedia. I filtri dovrebbero essere all’inizio". Qual è la priorità? "La depenalizzazione. Il problema della giustizia è il numero dei processi. O abbiamo il coraggio di dire che va drasticamente ridotto o non se ne uscirà mai. Nel penale basta intervenire con una massiccia depenalizzazione e introdurre meccanismi di deterrenza delle impugnazioni, quelli che ci sono, sono risibili". La politica invece va su una strada diversa e introduce nuovi reati come l’omicidio stradale. "Cose prive di senso. Per l’omicidio stradale la pena è talmente alta che tra un po’ a qualcuno converrà dire che voleva ammazzare per rispondere di omicidio volontario". Che ne dice dei suoi colleghi dell’Anm dell’Emilia Romagna dopo il comunicato sulla decisione del Tribunale del riesame? "Non lo conosco, non posso sapere tutto". È stata trovata la decisione di un collegio prima dell’udienza. L’Anm locale ha detto che poi altri giudici hanno confermato la decisione dei primi che si erano astenuti... "Bisogna distinguere l’ipocrisia dal malcostume. Un giudice diligente non potendo ricordare a memoria decine di processi al giorno, si appunta lo studio che fa. L’ho sempre fatto, ma non firmo gli appunti e non li metto nel fascicolo". E allora, a cosa serve la discussione? "Si può cambiare la decisione". Lei lo fa? "Quando un avvocato dice cose che non avevo notato, raro, o che mi convincono, cambio opinione perché solo gli imbecilli non lo fanno". I dannati della gogna di Ermes Antonucci Il Foglio, 13 febbraio 2017 Vite distrutte da accuse infondate, alimentate da giornali forcaioli che trasformano in prove i sospetti. Come cambia l’esistenza quando entri nel vortice della giustizia ingiusta? Venticinque anni dopo, la vera eredità di Tangentopoli è la gogna. Storie per non dimenticare. Storie di gogna mediatico-giudiziaria. Storie di vite concrete, reali, distrutte da accuse rivelatesi infondate, ma nel frattempo alimentate per anni da un sistema dell’informazione forcaiolo, abile a trasformare sospetti in certezze, imputazioni in elementi di prova, assoluzioni in condanne. Ne emerge una verità mediatica parallela e spesso contrapposta a quella giudiziaria. Una "verità" che spazza via nel suo cammino intere carriere professionali, stabilità economiche, rapporti familiari, sociali, affettivi, insomma vite, appunto. Le storie raccolte in questa inchiesta coinvolgono imprenditori, funzionari pubblici, persone comuni. Ad alcuni suonerà retorico dire che i calvari raccontati potrebbero coinvolgere chiunque, ma questa è la realtà. Non occorre scomodare Enzo Tortora. Accade ancora, accade oggi: a 25 anni da Tangentopoli. "Non ce l’ho tanto con i magistrati, ma con la stampa, che mi ha massacrato. Non ho ricevuto neanche un avviso di garanzia e i giornali mi hanno descritto e mi descrivono ancora oggi come "l’uomo di Matteo Messina Denaro". È una gogna mediatica". Andrea Bulgarella, imprenditore trapanese a capo di uno dei più importanti gruppi alberghieri italiani, parla al Foglio dell’accusa infamante che da oltre un anno tormenta la sua vita. È stato lui, dopo essere passato per un duro scontro con il padre, a trasformare l’impresa familiare di costruzione di strade - fondata nel 1902 dal nonno - in un gruppo da 1.700 dipendenti specializzato in alberghi, resort e recupero di edifici storici, presente in tutta la Penisola, da nord a sud. Dall’hotel Misurina, vicino a Cortina, alla Tonnara di Bonagia Valderice, vicino a Trapani, con una forte concentrazione in Toscana. Centoquattordici anni di storia che ora rischiano di essere spazzati via da un’accusa di mafia che, dopo essere stata avanzata e bocciata dalla magistratura, continua a essere alimentata con furore dalla stampa. L’8 ottobre 2015, Bulgarella subisce perquisizioni di massa in tutti i suoi uffici e il sequestro dei documenti legati all’attività del suo gruppo. Scopre, così, di essere indagato dalla procura di Firenze per riciclaggio e truffa, con l’aggravante del favoreggiamento a Cosa nostra, in un’inchiesta che travolge altre dieci persone, tra cui il vicepresidente di Unicredit, Fabrizio Palenzona. L’accusa rivoltagli dalla direzione distrettuale antimafia fiorentina appare fin da subito tanto grave quanto contraddittoria: gli inquirenti accusano Bulgarella, da un lato, di aver impiegato nelle sue attività, fin dagli anni 90, "ingenti capitali" accumulati con il favore della mafia trapanese facente capo al super latitante Messina Denaro e, dall’altro, di aver stretto con numerosi dirigenti di banca "rapporti privilegiati" per ottenere il credito e risolvere presunti guai finanziari. Ma perché un imprenditore accusato di essere legato alla mafia dovrebbe, allo stesso tempo, investire ingenti capitali mafiosi e mettere in atto reati finanziari per rimediare alle difficoltà economiche? Questo i magistrati non lo spiegano, convinti di essere riusciti a individuare, dai loro uffici che si affacciano sull’Arno, il caso di mafia del decennio che sarebbe sfuggito persino alle toghe siciliane da sempre impegnate contro Cosa nostra. "Io mafioso? - commenta furente Bulgarella al Foglio - Io negli anni 80-90, quando c’era la mafia vera, combattevo, denunciavo e assumevo solo figli di carabinieri, mentre tutti tacevano come conigli. Io nel 1996 sono dovuto fuggire dalla Sicilia perché mi bruciavano i cantieri". Negli atti d’indagine, i pm fanno discendere un supposto collegamento tra Bulgarella e Messina Denaro dal fatto che tra le ditte fornitrici del gruppo alberghiero ci fosse quella di Luca Bellomo, imprenditore sposato con la nipote del boss latitante. "Non ho mai avuto contatti diretti con Bellomo - spiega l’imprenditore trapanese - ma solo rapporti commerciali con la Schonuber Franchi, azienda di cui Bellomo aveva la rappresentanza. E infatti le fatture venivano rilasciate dal legale rappresentante della Schonuber, non da Bellomo. Negli atti d’indagine, invece, si lascia intendere che i circa 500 mila euro di forniture commissionate all’azienda, siano soldi andati a Bellomo. Secondo la logica degli investigatori, tutti quelli che hanno comprato prodotti Schonuber attraverso la mediazione del loro rappresentante Bellomo sarebbero quindi in collegamento indiretto con Matteo Messina Denaro?". Il riferimento, però, al boss latitante e il coinvolgimento di Unicredit fanno balzare la vicenda alle cronache nazionali. Basta questo per fornire solennità e certezza a un’inchiesta ai tempi dell’antimafia fatta di allusioni e prime pagine. Nonostante tre anni di intercettazioni, l’unico provvedimento cautelare che la procura di Firenze - con il consenso del giudice delle indagini preliminari - riesce ad adottare nei confronti di Bulgarella è il sequestro dei documenti. E ventuno giorni dopo il castello accusatorio crolla clamorosamente di fronte al Tribunale. Per i giudici non sussiste neanche il fumus dei reati per cui la procura stava indagando: quelli che per il gip erano "gravissimi indizi del reato di reimpiego di capitali illeciti", per il Riesame non hanno neppure la consistenza di sospetti. Secondo i giudici, inoltre, il vasto materiale raccolto dai carabinieri del Ros non dimostra la vicinanza di Bulgarella a Cosa nostra, bensì il suo rifiuto a piegarsi alle richieste della cosca. "Nelle conversazioni intercettate, i mafiosi mi definivano "lo sbirro" - racconta Bulgarella - perché nella mia vita non mi sono mai piegato ai loro ricatti e, anzi, li ho denunciati. Dai loro dialoghi è anche emersa più volte l’ipotesi di uccidermi. Non l’hanno fatto, forse perché sono stato sempre troppo visibile e amato nella mia città". Il flop dei procuratori antimafia fiorentini trova conferma anche in Corte di Cassazione, dove è persino il procuratore generale, cioè il rappresentante dell’accusa, a chiedere - lo scorso marzo - il rigetto del ricorso dei magistrati contro la bocciatura del Riesame, affermando che "l’ipotesi accusatoria appare talmente in contrasto con le emergenze procedimentali da non potere essere neanche ipotizzata in astratto". La Cassazione decide comunque di riammettere il sequestro, ma solo perché il Riesame, a suo dire, nel rigettare il provvedimento della procura sarebbe andato oltre le proprie competenze. Più vizi di forma, dunque, che di contenuto. Bulgarella chiaramente presenta ricorso e ora il caso, a distanza di un anno dal suo avvio, attende di nuovo di essere esaminato dalla Suprema Corte. Durante questo limbo giudiziario, Bulgarella ha vissuto l’inferno sui giornali. Il Fatto Quotidiano, ad esempio, lo ha definito prima "il costruttore che aiuta Messina Denaro" e poi "il fiancheggiatore" del capo mafioso. Repubblica ha parlato di "relazioni pericolose del re degli alberghi siciliani". Chi deciderebbe di fare affari con un uomo dipinto come l’intermediario della mafia? Nessuno. E infatti i danni economici della vicenda sull’attività imprenditoriale di Bulgarella sono stati enormi: "Le banche mi hanno allontanato e hanno tagliato il credito. I cantieri hanno rischiato di chiudere. Ho dovuto svendere i miei beni pur di recuperare le risorse e pagare lo stipendio ai miei operai. Lavoro per difendere i miei uomini. I media mi hanno massacrato, pensi che a dicembre il consulente di un gruppo finanziario di Londra che stava valutando l’ipotesi di coinvolgermi in un’operazione immobiliare mi ha detto: "Bulgarella, purtroppo hanno visto su Internet la sua storia e non se la sentono". Questa è l’Italia. Noi siciliani che lavoriamo siamo carne da macello e se c’è chi, come me, ha il coraggio di parlare viene distrutto". Bulgarella annuncia che passerà presto al contrattacco ("Chiederò agli esponenti delle istituzioni che hanno operato nel territorio dove io ho lavorato e che quindi mi hanno conosciuto - come i carabinieri, i comandanti, i questori - di testimoniare sulla limpidezza della mia storia personale e imprenditoriale"), ma nelle sue parole non c’è più lo spirito combattivo di quarant’anni fa: "Appena avrò concluso la vicenda giudiziaria regalerò l’azienda ai miei dipendenti. In passato ho dovuto lottare con la mafia, ma non mi sono mai sottomesso. Ora invece non ce la faccio più, perché quando hai una procura contro, hai tutti contro". Quegli arresti a beneficio dei fotografi ***** La pesca a strascico è un metodo che consiste nel trainare attivamente una rete da pesca sul fondo del mare per catturare ogni pesce, mollusco e crostaceo che si trova durante il percorso. Anche la giustizia italiana, a volte, sembra usare questo metodo. Andrea Torino, giovane brindisino di 28 anni, è uno dei pesci finiti involontariamente nella rete della malagiustizia, per poi essere rigettato in mare con la vita stravolta. Fare la guardia giurata è sempre stata la passione di Andrea, fin da ragazzino, e infatti a 18 anni aveva già cominciato a lavorare nel settore. Dopo quattro anni di sacrifici ottiene un posto di lavoro e la prospettiva di una stabilizzazione in uno dei più importanti istituti di vigilanza in Italia, l’Ivri, con un incarico presso l’aeroporto di Brindisi. Una conquista ancor più importante se si considera che la Puglia è tra le dieci regioni europee con la più alta disoccupazione giovanile (58 per cento). Quando, però, il 17 aprile 2012 i carabinieri fanno irruzione in casa sua con in mano un’ordinanza di arresti domiciliari, Andrea vede cominciare a crollare tutto il sogno per il quale aveva faticato. L’accusa è di essere tra i responsabili, assieme ad altre otto guardie giurate e un operatore aeroportuale, di numerosi furti compiuti nei bagagli dei passeggeri dello scalo salentino. Ad accusarli ci sono anche le registrazioni delle microtelecamere installate dalla polizia nell’aeroporto in seguito alle denunce ricevute dai passeggeri, che mostrano alcune guardie mentre frugano nelle valigie e si impadroniscono di denaro, gioielli e attrezzature elettroniche. Il quadro indiziario, insomma, sembra non lasciare spazio a dubbi. Il patteggiamento ottenuto da tre guardie in fase di indagine e la condanna per altre due al termine di un giudizio abbreviato sembrano far presagire l’inevitabile condanna anche per Andrea Torino. E invece, dopo tre lunghi anni di processo, il 25 marzo 2015 il tribunale di Brindisi dispone, sì, due condanne, ma anche l’assoluzione piena "per non aver commesso il fatto" nei confronti di due persone. Una di queste è Andrea. Il pesce finito nella rete, che ora viene rilasciato dopo aver perso tutto. "Sono stato agli arresti domiciliari una settimana - racconta al Foglio Andrea Torino. Facendo seguito alle accuse infanganti e infamanti ho subito prima la sospensione e poi la revoca del porto d’armi e della nomina a guardia giurata. L’Ivri, a quel punto, mi ha prima sospeso per sei mesi senza retribuzione, e poi mi ha licenziato per giustificato motivo". In sei mesi, insomma, il lavoro per il quale Andrea aveva combattuto per anni è svanito, senza possibilità di riconquista in assenza dell’autorizzazione a ricoprire il ruolo di guardia giurata. Tre anni dopo, l’assoluzione gli ha restituito la possibilità di svolgere questo lavoro, ma l’Ivri non vuole sentir parlare di riassunzione: "Subito dopo l’assoluzione ho scritto con il mio avvocato una lettera all’azienda, ma non abbiamo mai ricevuto risposta", spiega Andrea. "Oggi faccio l’operaio metalmeccanico, ma con contratti a tempo. Una volta lavoro trenta giorni, un’altra volta venti giorni, la volta dopo magari non me lo rinnovano...". All’indomani dell’esito del processo, con una lettera pubblica (inviata anche al ministero della Giustizia) Andrea aveva voluto sollevare l’attenzione di tutti - magistrati in primis - sulla delicata posta in gioco che ogni azione giudiziaria comporta: "Accuse infondate e inesistenti come queste possono minare definitivamente la credibilità delle persone che lavorano con serietà e impegno, e dovrebbero essere vagliate con più scrupolo prima di dare vita a dannosi procedimenti penali. Per non parlare poi del notevole danno economico che si subisce e non di meno la perdita del posto di lavoro. Ora i mesi in cui io sono stato sospeso chi me li risarcisce? Chi si farà carico della perdita ingiusta del mio posto di lavoro?". E se è difficile trovare lavoro in Puglia, lo è ancor di più per chi, nonostante sia stato scagionato da ogni accusa, ha visto il suo nome rimbalzare per anni su giornali e televisioni come fosse un delinquente accertato. "Questa storia mi ha stravolto la vita, anche a livello mediatico - dice Andrea. Ancora oggi, quando vado nelle aziende a fare i colloqui chiunque, anche se non mi conosce personalmente, è al corrente della vicenda. Purtroppo non vanno mai a guardare l’ultimo atto della mia storia, quello dell’assoluzione, ma vanno a guardare solo l’origine. Poi Brindisi non è un grande paese: il mio caso è circolato tanto e ancora oggi ne raccolgo i frutti". Ma il più grande rammarico di Andrea Torino è che suo padre è morto senza essere riuscito a vedere cancellata l’onta di quell’accusa che per quasi tre anni è stato costretto a portarsi sulle spalle. E la gogna mediatico-giudiziaria ha fatto sentire il suo peso anche in quest’altra parte della storia: "Mio padre era un ex maresciallo della polizia locale. La vicenda l’ha toccato molto anche perché era una persona piuttosto conosciuta. Subito dopo lo scoppio dell’inchiesta si è ammalato di cancro al cervello e dopo un anno è venuto a mancare. Non posso dimostrarlo con i documenti ma anche i medici hanno detto che è piuttosto strano che una persona come lui, che in tutti quegli anni non aveva mai avuto problemi, arrivato a 65 anni accusi improvvisamente un male del genere così rapido. Quello che è successo a me, e a mio padre, potrebbe succedere a milioni di persone". ***** Silvio Scaglia ha calcolato in due-tre milioni di euro i costi sostenuti per i suoi legali. La storia di Silvio ci dice che dobbiamo fare la riforma della giustizia". Non si riferiva a Silvio Berlusconi, Matteo Renzi, quando alla Leopolda del 2013 pronunciava queste parole, ma al fondatore e amministratore di Fastweb Silvio Scaglia, vittima del più noto caso di ingiustizia della recente storia italiana. Arrestato nel febbraio 2010 per associazione a delinquere finalizzata all’evasione fiscale, nell’ambito dell’inchiesta che ha visti coinvolti Fastweb e Telecom Italia Sparkle, Scaglia ha trascorso tre mesi nel carcere di Rebibbia e nove mesi ai domiciliaci prima di veder riconosciuta, nell’ottobre del 2013, la propria innocenza dal tribunale di Roma. Assolte, con lui, altre sette persone, tra cui l’ex amministratore delegato di Telecom Italia Sparkle, Stefano Mazzitelli, e l’ex direttore finanziario di Fastweb, Mario Rossetti, finite con Scaglia nel girone infernale del processo mediatico-giudiziario. Per tre anni, mentre sui giornali italiani (e di rimbalzo anche internazionali) venivano descritti come dei delinquenti accertati, avevano tutti provato - invano - a spiegare alla procura romana che le operazioni di riciclaggio internazionale e di evasione fiscale per le quali erano accusati non li vedevano coinvolti nel ruolo di artefici, bensì di vittime. E questo, infatti, è ciò che hanno stabilito i giudici romani nella sentenza del 2013, condannando anche diciotto persone, tra cui l’imprenditore vicino agli ambienti dell’estrema destra, Gennaro Mokbel. Cinquantadue ordinanze di custodia cautelare in carcere e quattro arresti domiciliari: furono questi i numeri della maxi-inchiesta condotta dai pm (Giancarlo Capaldo, Giovanni Bombardieri e Francesca Passaniti) e che furono annunciati in pompa magna agli organi di informazione in una conferenza stampa. Tutti vollero partecipare alla celebrazione mediatici dell’inchiesta, ancora tutta da dimostrare in sede processuale. Dai procuratori romani che avevano condotto l’attività inquirente al giudice delle indagini preliminari Aldo Morgigni (che poi, nei mesi successivi negò ostinatamente la revoca degli arresti nei confronti di Scaglia, Rossetti e gli altri indagati), fino ad arrivare a Piero Grasso, allora procuratore nazionale antimafia, convinto che si era di fronte a "una strage di legalità". Morgigni nel 2014 è stato eletto componente del Consiglio superiore della magistratura, Grasso è oggi presidente del Senato. Ma se di strage di legalità si è trattata, questa, come hanno dimostrato gli sviluppi successivi della vicenda, è stata perpetrata ai danni delle sette persone che per tre anni sono state accusate ingiustamente, si sono viste negare l’esercizio dei più basilari diritti di difesa e hanno assistito alla distruzione delle proprie carriere professionali, delle proprie famiglie, della reputazione e della dignità personale, sotto i colpi dell’abuso della carcerazione preventiva. Scaglia, che prima di essere arrestato aveva deciso - forse ingenuamente - di dare fiducia alla giustizia italiana, tornando nel nostro Paese dall’estero con un jet privato (a sue spese) per chiarire la propria posizione, ha raccontato la sua esperienza in carcere e di come era finito, nel giro di due giorni, dal godersi una vacanza ai Caraibi a cucinarsi il cibo nel bagno della sua cella, tra il lavandino e il cesso alla turca. Mario Rossetti, che ha trascorso tre mesi e mezzo in carcere (tra San Vittore e Rebibbia) e altri otto mesi agli arresti domiciliari prima di essere assolto, l’anno scorso ha deciso di pubblicare un libro per raccontare la sua storia. Il titolo, "Io non avevo l’avvocato", serve a ricordare che il rischio di finire schiacciati dalla malagiustizia non è lontano come si potrebbe immaginare, ma riguarda tutti, soprattutto le persone che non hanno "la più pallida idea di cosa significhi avere a che fare con la giustizia", e che subendo un arresto alle cinque del mattino, come Rosetti, non saprebbero neanche quale avvocato chiamare. L’ex direttore finanziario di Fastweb, incarcerato quando già da tre anni aveva lasciato Fastweb e dunque difficilmente avrebbe potuto reiterare il reato o inquinare le prove, racconta con parole sincere il disonore di essere arrestato davanti alla sua famiglia, la vergogna (sua) di subire il sequestro di tutti i beni - conti correnti, carte di credito, persino i braccialetti del battesimo dei figli - e la vergogna di uno Stato che lascia una madre con tre figli piccoli senza neanche un euro per poter vivere. Descrive lo schifo delle condizioni carcerarie, l’uso da parte dei magistrati della carcerazione preventiva come strumento di pressione sull’indagato, la loro adesione a un principio di "presunzione di colpevolezza" ben lontano dall’articolo 27 della nostra Costituzione. Rossetti racconta, poi, il dolore lancinante provocato dalla morte del figlio più piccolo, ammalatosi di cancro, e infine la beffa messa in scena dalla procura di Roma, che non paga delle sofferenze causate a lui, Scaglia e a tutti gli altri, due anni fa ha deciso di fare ricorso in appello contro la sentenza del tribunale, rinnovando questa lenta tortura giudiziaria. Restano, sullo sfondo dei drammi umani, gli ingenti danni economici provocati dall’inchiesta non solo sulle persone (Scaglia ha calcolato in due-tre milioni di euro i costi sostenuti per i suoi legali, il blog aperto per informare i cittadini e i viaggi), ma anche sull’intera economia del nostro Paese, che allora vedeva in Fastweb una delle aziende più all’avanguardia nel settore delle telecomunicazioni a livello internazionale: "L’inchiesta a momenti provocava la chiusura dell’azienda", ha dichiarato Scaglia in un’intervista a Libero all’indomani dell’assoluzione: "Inchieste come questa generano dentro le aziende shock fortissimi, traumatici. Sono quasi mortali soprattutto in chi opera nel settore delle tecnologie più avanzate dove i tempi di progettazione sono lunghi, ma quelli di realizzazione devono essere rapidissimi e fluidi. Fastweb era in quel momento una delle realtà più avanzate dal punto di vista tecnologico e il progetto che stavamo dispiegando e cioè l’operare su fibra ottica per le interconnessioni, per la trasmissione dati e la telefonia richiedeva che il lavoro procedesse spedito. Quell’inchiesta ha provocato un contraccolpo fortissimo. Ricordo che il socio svizzero, importantissimo, rimase scoccato, non capiva, era impaurito. Questo avrebbe potuto determinare la fine dell’azienda". E il calvario, visto l’indomito appello della procura, non è ancora finito. ***** La mattina del 4 febbraio 2008, Giovanni Novi sta trascorrendo il suo penultimo giorno da presidente dell’Autorità portuale di Genova, carica che ricopre da quattro anni con piena soddisfazione del ministro dei Trasporti Alessandro Bianchi per le iniziative portate a termine. Mentre è a casa a fare colazione con sua moglie e con una coppia di amici milanesi, improvvisamente squilla il telefono. "È il luogotenente della Guardia di finanza. Mi dice che deve notificarmi un documento. Gli do appuntamento in ufficio, ma mi risponde che sarebbe stato dalle mie parti e avrebbe portato lui il documento. Passa un’ora, però, e lui non arriva. Lo chiamo anche al telefono tre volte. Ho saputo solo dopo cosa stava succedendo: hanno aspetto un’ora davanti a casa mia perché arrivassero i giornalisti e i fotografi a riprendermi mentre le fiamme gialle mi notificavano gli arresti domiciliari". Con queste parole, Giovanni Novi racconta al Foglio il cortocircuito mediatico-giudiziario con cui è iniziato l’incubo che gli ha stravolto la vita. In quell’occasione, Novi scopre di essere indagato assieme ad altre otto persone in una maxi-inchiesta che cambierà per sempre la storia del porto di Genova. La procura del capoluogo ligure avanza contro di lui una serie infinita di accuse (alla fine saranno tredici i capi di imputazione), che vanno dalla concussione alla turbativa d’asta, dalla truffa all’abuso d’ufficio, per presunte irregolarità nella concessione dei moli del porto ai terminalisti. In particolare, Novi viene accusato di essere il garante di un patto stipulato da un gruppo di terminalisti, camalli, famiglie di armatori e la stessa Autorità portuale per la spartizione del terminal "Multiporpose", uno dei pezzi più pregiati dello scalo genovese. "In realtà il Multiporpose è stata solo una delle questioni, insieme a tante altre, di cui mi sono occupato da presidente - spiega Novi. Il terminal, inoltre, è stato assegnato attraverso l’asta che era stata indetta dal mio predecessore, con l’accordo di tutti quanti (anche se qualcuno non era proprio contento). Poi è successo che ho scoperto delle cose che non andavano nella gestione del porto. Ho fatto quindi pagare alcune concessioni che non venivano pagate regolarmente, ho bloccato dei pagamenti che venivano fatti ai concessionari per realizzare dei lavori che avrebbero dovuto essere a carico loro, e ho anche rivisto l’organigramma interno. Da quel momento in poi, i concessionari si sono scatenati e mi hanno attaccato violentemente sui giornali senza motivo. Quelli che mi hanno attaccato più di tutti sono stati gli armatori Messina". Sono proprio le denunce avanzate dagli armatori Ignazio e Gianfranco Messina sulle presunte pressioni subite da Novi affinché ridimensionassero le pretese sull’ambitissimo terminal a innescare l’inchiesta della magistratura. La vicenda durerà oltre sei anni e si concluderà in una bolla di sapone. In primo grado la montagna di accuse partorisce un topolino: nel settembre 2010, Novi viene infatti assolto per 12 imputazioni su 13, e condannato solo per turbativa d’asta a due mesi di carcere (i pm avevano chiesto la condanna a sei anni). Due anni dopo, in appello, il reato viene prescritto, ma Novi viene condannato al risarcimento dei danni (anche se non si sa bene quali) a favore dell’Autorità portuale. Nonostante la prescrizione, l’ex presidente e gli altri imputati decidono di fare ricorso in Cassazione. L’epilogo giunge il 13 marzo 2014, quando la Suprema corte conferma l’assoluzione per Novi, per tutti i 13 capi di imputazione, e per gli altri imputati. Nella sentenza i giudici sottolineano che Novi non solo non commise alcun reato, ma agì per il bene del porto. Fu assolto perché "il fatto non sussiste". Nel frattempo, però, le accuse hanno macchiato per anni la figura di Novi, cofondatore nel lontano 1961 della Burke e Novi, storica broker house e agenzia marittima genovese, e cavaliere del lavoro dal 1995. E a pagare, in termini economici, di reputazione e di salute, non è stato solo lui. La prima a pagare le conseguenze del blitz dell’arresto mediatico è stata sua moglie, Nucci Ceppellini, ex assessore al Turismo della regione e vicepresidente in carica dell’Associazione internazionale della vela, da tempo malata di cancro ma fino a quel momento in buone condizioni. Dopo la visita dei finanzieri e dei cronisti, in serata Nucci crolla. Viene ricoverata in ospedale, dove il marito non può andare in quanto posto agli arresti domiciliari. In seguito all’azione dei legali, Cesare Manzitti e Cesare Corti Galeazzi, Novi riesce a ottenere il permesso di visitarla in ospedale. Poi Nucci entra in coma e, in seguito a una lettera pubblica scritta dai figli per appellarsi alla comprensione dei giudici, gli arresti nei confronti del marito vengono revocati. I114 febbraio Giovanni raggiunge la moglie in ospedale, ma ha solo il tempo di salutarla. Il giorno successivo Nucci muore, a undici giorni di distanza dall’arresto sotto i riflettori. "Ad ammazzare mia moglie è stato il tumore certo, ma, come mi hanno spiegato i medici, in casi di forte choc vengono a mancare le difese immunitarie", spiega Novi. Segue la denigrazione sui giornali, attraverso la pubblicazione di stralci di conversazioni telefoniche private, anche per responsabilità dei magistrati: "Nei verbali i magistrati hanno inserito conversazioni slegate dal contesto - racconta Novi. Le faccio un esempio. Una volta al telefono ho chiesto a Claudio Burlando, mio amico e allora presidente della regione, informazioni circa lo spostamento di un medico che era presidente dell’Ist, un istituto oncologico molto importante. Io ero interessato affinché questo medico rimanesse ancora per qualche tempo perché stava curando benissimo mia moglie. Questa conversazione è stata presa come se io abusassi della mia posizione e insistessi col governatore per far rimanere il medico al suo posto. Questo è avvenuto pochi giorni prima del mio arresto. Lo sanno tutti che a dare questi materiali ai giornalisti sono i pm". E per Novi si è di fronte a un’anomalia tutta italiana: "Ho vissuto molto a Londra e le dico come funziona: se qualcuno pubblica delle notizie sulle indagini in corso viene messo in galera. Nessun giornalista oserebbe mai riportare sul giornale una conversazione telefonica di una persona indagata, mai. È un reato penale". Per la cronaca, i pubblici ministeri autori dell’inchiesta erano Walter Cotugno, Enrico Zucca e Mario Morisani, con il primo piuttosto noto nel mondo togato per la facilità con cui negli anni precedenti, in qualità di sostituto procuratore a Voghera, aveva adottato provvedimenti cautelari. "Abbiamo avuto la sensazione che i pm, anziché ricercare sia le prove a favore dell’indagato che quelle contrarie, come richiede la legge, abbiano cercato sempre quelle contrarie. Nei nostri confronti sono state commesse delle scorrettezze immani, perché i pm nascondevano i documenti a favore e tiravano fuori solo quelli che ritenevano fossero a nostro sfavore, tant’è che il collegio degli avvocati degli imputati decise di presentare denuncia alla procura generale della Repubblica". Ma anche una volta assolto, le sofferenze per Novi sembrano non essere finite. Lo scorso maggio, infatti, l’Autorità portuale ha respinto la richiesta avanzata dall’ex presidente per il risarcimento delle spese legali sostenute in questi anni per difendersi dalle accuse (circa un milione di euro). L’authority ha investito l’avvocatura dello Stato della causa e questa ha interpretato la posizione del presidente dell’autorità portuale come una carica onoraria, che dunque non avrebbe diritto al risarcimento. Insomma, finché bisognava distruggerlo, Novi era un presidente responsabile degli atti adottati dall’Autorità, ma una volta che le accuse si sono rivelate infondate e occorreva risarcire l’ex presidente per gli errori commessi dai magistrati, la carica per la quale era stato chiamato a rispondere è diventata solo "onoraria". Intanto, c’è chi ha calcolato in sette milioni di euro il danno provocato allo scalo genovese dall’inchiesta che lo ha bloccato per sei anni, solo per le minori concessioni versate dai terminalisti. ***** Il processo penale in questo paese è come un cancro: ti si attacca addosso e non ti si stacca più, anche quando vieni assolto. Proprio come un cancro tenta anche di ucciderti". Ludovico Gay pronuncia queste parole di fronte agli occhi azzurri, grandi e attenti di sua figlia, 10 anni. "Tanto lei sa già tutto", spiega. Anche lei è stata costretta a fare i conti con l’assurda storia giudiziaria che ha travolto suo padre. Gay, infatti, è uno degli undici funzionari pubblici del ministero dell’Agricoltura finiti agli arresti 1’11 dicembre del 2012 con l’accusa di aver costituito una "cricca" per la spartizione delle risorse pubbliche destinate a finanziare iniziative di formazione e comunicazione dell’agroalimentare. Secondo la ricostruzione dei magistrati, i soldi destinati a mobilitare le energie imprenditoriali - 32 milioni di euro di contributi statali tra il 2007 e il 2011 - erano veicolati dai funzionari alle aziende "amiche" in cambio di favori che, di volta in volta, potevano essere il soggiorno in un hotel di lusso, la concessione edilizia, il viaggio a Miami, l’assunzione dell’amante. Per annunciare i numeri del terremoto giudiziario (37 persone indagate, 11 in arresto, 22 milioni di euro di beni sequestrati), i procuratori romani Nello Rossi e Rocco Fava organizzarono, come spesso accade, nientedimeno che una conferenza stampa, rafforzando la portata cinematografica della loro azione denominando l’indagine "Operazione Centurione", dal soprannome che secondo loro apparteneva a colui che veniva ritenuto il "dominus" della rete corruttiva, cioè Giuseppe Ambrosio, allora direttore generale del Consiglio per la ricerca in agricoltura. Non pago, il procuratore aggiunto Rossi si spinse a definire il sistema di tangenti messo in piedi dai funzionari ministeriali, ancora tutto da dimostrare in sede processuale, "un piccolo trattato di sociologia della corruzione". Dopo tre anni e mezzo di processo e mesi di custodie cautelari per gli imputati, il 14 aprile 2016 gli ex funzionari del ministero sono stati tutti assolti perché "il fatto non sussiste" (i pm avevano chiesto condanne da 3 a 9 anni). Eppure di inchiostro, e di fango, sulla vicenda e sui poveri malcapitati ne è stato versato a litri. Marco Lillo sul Fatto Quotidiano titolava "Ecco il ministero della corruzione", Grazia Longo sulla Stampa parlava di "banda di corruttori" che "trucca gare d’appalto in cambio di soldi, regali (compreso una vagonata di mozzarelle), viaggi e posti di lavoro per i figli", per il Sole 24 Ore non c’erano "dubbi" sull’esistenza della rete corruttiva, e intanto il gruppo di funzionari passava per sempre alla storia come "la cricca al ministero dell’Agricoltura". Ludovico Gay, a quel tempo direttore generale di Buonitalia, una partecipata del ministero, è stato tra i "delinquenti" sbattuti in prima pagina (e in galera). "Sono venuti a prendermi a casa il mattino presto - racconta al Foglio - sono venuti in massa, con le pistole bene in vista, perché anche questo fa parte della liturgia giudiziaria, che ti cattura come fossi una bestia, e mi hanno portato nel carcere di Regina Coeli, forse uno dei peggiori carceri d’Europa". Lì Gay ha trascorso 120 giorni in semi-isolamento, chiuso in una cella di pochi metri quadrati, con meno di un’ora d’aria al giorno. Un girone d’inferno, del tutto sproporzionato rispetto alle accuse che gli venivano mosse, cioè di aver contribuito alla spartizione dei fondi pubblici ricevendo in cambio tre pernottamenti in hotel di lusso e la "promessa" di una cucina. E infatti il fragile impianto accusatorio ha cominciato ben presto a crollare. "I pernottamenti in hotel facevano parte di missioni istituzionali. E poi veramente avrei dovuto assegnare contributi per milioni di euro per ricevere in cambio qualche notte in hotel?", si chiede Gay. "Per la cucina, invece, non c’era alcuna promessa: era già stata acquistata, di tasca mia e a rate per giunta. I miei avvocati, quando ci fu l’interrogatorio di garanzia, portarono i bonifici ai pm, che a quel punto avrebbero dovuto chiedere scusa e liberarmi immediatamente, e invece sono andati avanti con le loro tesi fino alla requisitoria finale, chiedendo sei anni di carcere. L’unica cosa che hanno saputo dire è stata: Vabbè, la cucina l’avrai pagata di meno grazie all’intervento di qualcuno". Che le accuse dei magistrati, a dispetto della spavalderia iniziale, fossero fondate più su congetture che su fatti divenne ancor più chiaro quando la Corte di Cassazione, dopo quattro mesi, annullò senza rinvio l’ordinanza di custodia in carcere per il direttore di Buonitalia, facendo fatica persino a rintracciare una notizia di reato. Seguì il dibattimento, con l’ulteriore paradosso che nel frattempo la posizione dei presunti corruttori di Gay era stata archiviata dal giudice dell’udienza preliminare in un procedimento parallelo. Poi l’assoluzione per Gay e tutti gli altri imputati, seppur nel silenzio generale, in primis della magistratura: "Ma è possibile che non ci sia un protocollo che preveda l’obbligo per i magistrati di convocare una conferenza stampa anche in caso di assoluzione? Possibile che i magistrati non siano tenuti a richiamare tutti i giornalisti e dire loro: "Scusate, ci siamo sbagliati", si interroga Gay. E infatti gli operatori dell’informazione, vuoi per la mancata conoscenza dell’epilogo della vicenda, vuoi per l’imbarazzo di dover rinnegare la linea inquisitoria adottata in principio, hanno completamente trascurato la notizia dell’assoluzione. Repubblica è stata l’unico giornale a riportarla, con trafiletto di dieci righe celato a pagina 22. "Sono stato io a dover sollecitare la pubblicazione della notizia - ci rivela Gay, che nella sua carriera ha anche avuto una parentesi lavorativa all’Espresso in qualità di esperto in relazioni istituzionali". "Ho chiamato la redazione di Repubblica e ho detto: "Dopo avermi sbattuto in prima pagina, ora non dovreste dare la notizia con la stessa evidenza?". Ma sappiamo come è andata. "Avevo anche denunciato per diffamazione Maurizio Crozza, che in un pezzo satirico ci aveva definito "letame", scherzando sul legame tra l’inchiesta e il ministero dell’Agricoltura, ma la richiesta danni è stata archiviata e se ora cerchi su internet trovi ancora il video". È questo il meccanismo tipico della gogna, che ti agguanta, ti distrugge e ti lascia esanime in un angolo, macchiandoti a vita. "Mi hanno devastato - prosegue Gay. Per mesi non sono stato in grado di uscire di casa per la vergogna e per quattro anni non sono riuscito a trovare lavoro. Vai ai colloqui, ti dicono "ah, ma non si preoccupi della vicenda giudiziaria, si figuri", ma poi non ti richiamano. Ora mi arrabatto con dei lavoretti nel campo della comunicazione". E in questo fallimento della civiltà, lo stato assume il ruolo di spettatore passivo: "È allucinante che le spese legali sostenute per gli avvocati non siano risarcite immediatamente con l’assoluzione di primo grado. Forse un giorno riceverò un’indennità per ingiusta carcerazione e una per il danno provocato, peccato che non so dire se quel giorno sarò ancora vivo. Il ministero si è costituito parte civile e poi è sparito: cioè quando c’è da crearmi ulteriore danno ti costituisci e poi quando vengo assolto non ti fai più sentire, né ti preoccupi di restituirmi una dignità che passa attraverso un lavoro?". La morale paradossale della vicenda la recita proprio Gay "Se essere innocente o colpevole è la stessa cosa, e si viene stritolati comunque, allora tanto vale rubare". Ma è l’ultimo insegnamento tratto da Gay da questa assurda storia giudiziaria a essere il più triste: "Prima di questa vicenda pensavo che le persone facessero del male inconsapevolmente, per distrazione, per errore o forse per egoismo, oggi sono convinto che il male esiste e che viene perseguito con consapevolezza e ostinazione". ***** Il 20 febbraio 2008 un gruppo di "operai" simili a tecnici Enel irrompe all’ospedale San Carlo di Potenza e comincia a lavorare sulle centraline elettriche sparse per il nosocomio. I macchinari ospedalieri cominciano a subire dei malfunzionamenti e così i responsabili dell’ufficio tecnico del San Carlo, insospettiti, chiamano il 113. La polizia arriva e scopre che i falsi operai stavano installando antenne e centraline per radiotrasmittenti per conto della Procura: in altre parole, stavano tappezzando l’ospedale di cimici per effettuare future attività di intercettazione. La scoperta crea una sorta di crisi istituzionale, con il direttore generale dell’azienda ospedaliera che sottolinea come "l’aver creato campi magnetici e installato trasmettitori di onde in vicinanza delle sale operatorie avrebbe potuto interferire con le delicatissime apparecchiature di monitoraggio, salvavita e terapeutiche utilizzate sui pazienti durante gli interventi", mettendo dunque "a repentaglio la sicurezza di persone e cose". È con questo episodio tragicomico che si apre la vicenda giudiziaria che per oltre cinque anni coinvolgerà Vincenzo Basentini, allora titolare della Tecnomedical, impresa specializzata in forniture mediche. Qualche giorno dopo la figuraccia dell’ospedale, Basentini finisce nel calderone della "maxi-inchiesta" sulla sanità lucana aperta dall’allora procuratore di Potenza, Henry John Woodcock Il magistrato anglo-napoletano è noto, oltre che per la sua abitudine di recarsi in ufficio a bordo di una Harley Davidson, per aver catapultato la piccola procura potentina sulle cronache nazionali attraverso inchieste eclatanti, spesso finite nel nulla: prima l’inchiesta "vip-gate" nel 2003 (settantotto persone indagate, tra cui numerosi personaggi dello spettacolo, del giornalismo, politici e funzionari ministeriali - da Maurizio Gasparri ad Anna La Rosa - tutte archiviate con annessa dichiarazione di incompetenza territoriale da parte del gip), poi l’inchiesta "Iene 2" (cinquantuno persone arrestate, tutti scarcerate dal tribunale del Riesame), il "Savoia Gate" nel 2006 (ventiquattro persone indagate, tredici arrestate, tra cui Vittorio Emanuele di Savoia, poi tutte archiviate o assolte), e molto altro. Quando nel febbraio del 2008 la procura dichiara di aver scoperto l’esistenza di una grande lobby - formata da 50 persone tra politici, imprenditori, infermieri e medici - in grado di pilotare tutti i grandi appalti nel settore della sanità locale, qualche perplessità emerge. Dubbi confermati dagli sviluppi della vicenda: tre anni dopo (mentre Woodcock si è già trasferito alla procura di Napoli abbandonando l’indagine) i pm chiedono il processo solo per 22 inquisiti su 50, ma il vero colpo all’inchiesta giunge il 17 giugno 2013, quando il gup del tribunale di Potenza dispone una serie di assoluzioni e non luogo a procedere, mandando a processo, per reati minori, solo dieci imputati. Delle cinquantuno contestazioni iniziali ne restano solo quindici. Per Basentini cadono tutte le accuse più gravi (peculato, concussione, corruzione, turbativa d’asta), mentre resta in piedi un episodio minore per il quale va a giudizio: il presunto regalo di un pc a un medico (che però lui nega). Dopo cinque anni la vita può riprendere, ma come? "Una vicenda del genere stravolge fatti aziendali, familiari, personali", racconta Basentini al Foglio. "Avevo un’azienda che fatturava 8 milioni di euro all’anno, con 50 dipendenti. Fornivo grandi impianti in tutti gli ospedali dell’Italia meridionale. Ora non c’è più. Sono stato inondato di debiti. I pm si sono recati a fare interviste alle aziende che avevo rappresentato per 30 anni. Le multinazionali pensano ai propri interessi, ovviamente, e appena hanno saputo che avevo indagini ci hanno impiegato due secondi a togliermi i mandati". A peggiorare le cose ci ha pensato il rilancio delle accuse da parte degli organi di informazione: "Ero sui giornali tutti i giorni, così mi hanno demolito. Bastava che Woodcock parlasse di un personaggio noto e i giornali vendevano più copie. Alla notizia del proscioglimento hanno dedicato cinque righe. Inoltre nessuno ha voluto pubblicare la notizia che il giornalista e il direttore della testata che mi aveva preso di mira (La Gazzetta del Mezzogiorno, ndr) sono stati condannati a due anni per diffamazione, perché durante la fase delle indagini mi avevano messo in croce". "I magistrati mi hanno riempito l’ufficio di cimici - aggiunge l’imprenditore lucano - e le intercettazioni, anche di fatti privati, sono state pubblicate sui giornali. Mi sono separato da mia moglie perché bastava che uno avesse una conversazione con qualcuna e veniva sputtanato". Il paradosso è che durante questi cinque anni di calvario, Basentini non è stato mai interrogato neanche una volta dai magistrati: "Non mi ha mai voluto sentire nessuno. Sono andato dal pm, ma sono stato cacciato. Mi ha detto ‘vai dai carabinieri a fare dichiarazioni spontanee". Oggi Basentini è riuscito a riavviare un’attività imprenditoriale, ma i successi appartengono al passato: "Gestisco un centro privato di dialisi, ho 6-7 dipendenti, ma lavoro per pagare i debiti. La notte non riesco ancora a dormire certe cose non si dimenticano". ***** Dai corridoi delle aule parlamentari alle campagne di un agriturismo alle Cinque Terre. La nuova vita di Luigi Grillo, ex senatore di 73 anni della Spezia, non ha niente a che vedere con quella che per quattro decenni lo ha visto protagonista della scena politica italiana: i primi passi da consigliere comunale alla Spezia, l’elezione al consiglio regionale ligure, lo sbarco alla Camera dei deputati nel 1987, la nomina a sottosegretario al Bilancio nei governi Amato e Ciampi, infine il passaggio al Senato, dove trascorrerà ben cinque legislature (fino al 2013) rivestendo per tredici anni la carica di presidente della commissione Lavori pubblici. Uomo chiave della legislazione sul sistema bancario e amico di lunga data dell’ex governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio e del presidente dell’Associazione di fondazioni e casse di risparmio (Acri) Giuseppe Guzzetti, nella sua lunga carriera politica (prima nelle file della De e poi di Forza Italia) Grillo ha posto la firma a provvedimenti importanti. Da parlamentare è stato responsabile della stesura della cosiddetta "legge Obiettivo", con cui si è ottenuto il rilancio delle opere pubbliche in Italia, e della legge di riforma del Project Financing, che permette di costruire opere pubbliche con il contributo dei privati qualora lo stato o gli enti locali non siano in grado di far fronte alle spese. Ma dove ci sono assunzioni di responsabilità, in questo paese spesso ci sono anche inchieste della magistratura. E la carriera politica di Grillo è stata segnata da un trattamento giudiziario tutto particolare che, con la sua carica di sofferenze economiche, familiari e personali (in ultimo il carcere), lo ha spinto a scegliere definitivamente di iniziare una nuova vita. La prima a muoversi è stata la procura di Genova agli inizi degli anni 90, con un’accusa prima di finanziamento illecito e poi di abuso d’ufficio, in entrambi i casi Grillo venne assolto in primo grado e i procuratori decisero di non presentare neanche appello. Poi è toccato alla procura di Milano. Nel 1995 i magistrati indagano il senatore per truffa aggravata ai danni dello stato per aver proposto e inserito nella Finanziaria di due anni prima un emendamento che stanziava 120 miliardi di lire a favore delle Ferrovie dello stato per l’esecuzione dei fori piloti propedeutici alla realizzazione della galleria di valico per la linea ferroviaria veloce Genova-Milano. Un emendamento che non riportava la firma di Grillo, bensì dell’allora ministro del Bilancio, Luigi Spaventa, e che peraltro era stato approvato dall’intero Parlamento. Dopo gli iniziali squilli di tromba di inquirenti e stampa, l’indagine si sgonfia: in sette anni i magistrati non riescono neanche a istruire il processo di primo grado, e così nel 2002 interviene la prescrizione che manda assolte tutte le 35 persone indagate. Non paga, tre anni dopo la procura di Milano coinvolge Grillo nell’inchiesta per la scalata della Banca Antonveneta. Il senatore viene accusato di concorso morale in aggiotaggio, ma anche stavolta tutto finisce nel nulla: condannato in primo grado, nel 2011 Grillo viene assolto con formula piena "perché il fatto non sussiste" dalla Corte d’appello di Milano. Ma se fino a quel momento l’ex sottosegretario al Bilancio era riuscito a fronteggiare le accuse da uomo libero, nel 2014 le cose cambiano. I procuratori milanesi lo accusano di nuovo, stavolta di associazione delinquere, corruzione e turbativa d’asta in relazione a vari appalti pubblici, tra cui alcuni legati all’Expo, con altre sei persone. Secondo gli inquirenti, Grillo avrebbe svolto un ruolo di "raccordo" tra il mondo imprenditoriale e quello politico, assicurando ai pubblici ufficiali coinvolti nelle procedure di appalto avanzamenti di carriera. Ruolo smentito dai diretti interessati, che in carcere negano qualsiasi protezione da parte del senatore. I giornali, però, parlano di "cupola degli appalti" e di "nuova Tangentopoli". Così, nonostante i suoi 72 anni, Grillo finisce nel carcere di Opera, dove rimarrà per quasi tre mesi in stato di isolamento. Seguiranno altri quattro mesi di arresti domiciliari. Dopo questo calvario e dopo aver denunciato le forzature attuate dai magistrati, su suggerimento dei suoi avvocati Grillo decide di patteggiare, solo "come scelta processuale per chiudere la vicenda" e non per ammettere una responsabilità penale. I fatti gli daranno in parte ragione, visto che uno dei funzionari pubblici accusati di far parte della "cricca" e di essere stato favorito da Grillo per gli sviluppi di carriera, Giuseppe Nucci (ex ad di Sogin), che a differenza degli altri imputati aveva deciso di non patteggiare ma di andare a processo, verrà assolto nel marzo 2016 dal giudice per l’udienza preliminare di Roma - dove era stata trasferita parte dell’inchiesta - "perché il fatto non sussiste". Nel frattempo la vita di Grillo è cambiata. Abbandonata la politica, oggi l’ex senatore è proprietario e animatore dell’azienda agricola e agrituristica "Buranco" a Monterosso al Mare, in cui produce vino bianco delle Cinque Terre, vino rosso (Sirah) e il rarissimo vino passito Sciacchetrà, per la cui salvaguardia e promozione ha deciso di fondare un consorzio di produttori. Contattato al telefono per commentare la sua storia, Grillo risponde dopo numerosi squilli e col fiatone: "Mi scusi, preferirei non parlare delle mie vicende giudiziarie. Torno a zappare. Sa, è periodo di semina delle fave". ***** Fino al 2010 Paolo Cocchi ha fatto il politico. Oggi fa il pasticciere. In mezzo un calvario giudiziario durato sei anni, caratterizzato da accuse infondate, testardaggine dei magistrati e crocifissioni mediati-che. Tutto inizia nel febbraio del 2010, quando Cocchi, allora assessore regionale alla Cultura della Toscana, finisce coinvolto in un’inchiesta portata avanti dalla procura di Firenze per presunte irregolarità urbanistiche nella zona di Barberino del Mugello, dove lui era stato sindaco dal 1990 al 1999. In particolare l’accusa rivolta - inizialmente configurata come abuso d’ufficio ma in seguito trasformata dai pm in corruzione - è quella di aver messo a disposizione il proprio ruolo istituzionale a favore di un imprenditore, titolare di un’azienda di costruzioni, per agevolarlo nella sua attività, ottenendo in cambio l’ampliamento della propria casa. Il caso finisce su tutti i giornali, e sotto il peso delle accuse Cocchi rassegna le dimissioni. Quando tre anni dopo, il 21 gennaio 2013, Cocchi viene prosciolto da ogni accusa dal Giudice dell’udienza preliminare di Firenze, la vicenda sembra volgere alla conclusione con tutto il suo carico di sofferenze professionali, familiari e personali, pronte a essere derubricate - come spesso accade - a meri effetti collaterali del normale accertamento della verità giudiziaria. Ma i pm decidono che Cocchi non ha ancora patito a sufficienza e così, pur di non veder smentita la propria tesi accusatoria, oppongono ricorso in Cassazione, che annulla il proscioglimento e rinvia Cocchi a un nuovo giudizio. Passeranno altri tre anni prima che Cocchi e sua moglie, anche lei imputata per lo stesso episodio, possano vedere riconosciuta definitivamente la propria innocenza con una sentenza di assoluzione del tribunale del capoluogo toscano. Sei anni, in tutto, passato nel tritacarne mediatico-giudiziario. "Non voglio generalizzare - racconta Cocchi al Foglio - però posso dire che ciò che mi ha colpito della mia vicenda è la difficoltà enorme che ha avuto la giustizia a emendare evidenti errori di valutazione. Il primo giudice che ha visto le carte che mi riguardavano le ha considerate del tutto insufficienti per costruire un’ipotesi accusatoria tale da giustificare l’arresto. Poi c’è stato il giudice che si è espresso al termine dell’udienza preliminare, che con le stesse argomentazioni ha deciso di non rinviarmi a giudizio. Questa decisione è stata poi annullata dalla Cassazione e infine un giudice di primo grado, con sentenza che non è stata appellata dalla procura, ha di nuovo detto le stesse cose che aveva detto il primissimo giudice. Perché il meccanismo non si è fermato prima?". "Insomma - aggiunge l’ex assessore regionale - non c’è stato un giudizio di colpevolezza poi ribaltato in giudizio di innocenza. Non è stata una vicenda complessa e oscura nei suoi svolgimenti processuali. Nel mio caso qualunque giudice che ha visto le carte ha immediatamente detto: "Ma cosa cavolo state facendo?". Questo mi fa pensare che la parte giudicante sia oggi più debole dal punto di vista dell’impatto mediatico. L’impatto mediatico è per il pubblico ministero, per l’impianto accusatorio". Ecco, i media, appunto. Anche sulla vicenda Cocchi gli organi di informazione hanno come di consueto dato spazio quasi esclusivamente alle accuse dei pm: "La stampa - spiega Cocchi - ha amplificato ogni ipotesi accusatoria, con una connivenza evidentissima al livello di divulgazione di notizie riservate. Un’altra parte di stampa, meno forcaiola, è stata più blanda, ma nessuno si è preoccupato di verificare il fondamento delle accuse. Questa è una considerazione che voi giornalisti dovete fare. È incredibile come non esista il beneficio del dubbio quando si parla di politici. È come parlare al vento, le argomentazioni non esistono. Esiste solo l’ipotesi accusatoria, su cui i giornali ricamano più o meno disonestamente e, anche quando non lo fanno, suscitano nel lettore l’impressione che ‘l’imputato avrà fatto sicuramente qualcosà. Non c’è una voce che dica che le accuse forse sono inconsistenti". I giornali, ad esempio, piuttosto che assumere acriticamente le vesti di megafono delle tesi dei pubblici ministeri, avrebbero potuto notare la particolare tempistica con cui era stata aperta l’indagine nei confronti dell’ex sindaco di Barberino: "Sono stato trascinato in quell’inchiesta dopo che avevo difeso pubblicamente gli amministratori locali che erano stati indagati prima di me. Il dubbio è che la procura si sia mossa dopo che io ho affermato che l’indagine che stava nascendo era priva di fondamento. Ho avuto l’impressione di essere stato perseguitato per le mie opinioni politiche. La cosa più buffa, è che io non posso neppure dichiararmi vittima della giustizia italiana, perché alla fine la giustizia è arrivata. Però ci ha impiegato sei anni, che sono un periodo scandalosamente lungo". Passato questo incubo e abbandonata per sempre la carriera politica, Cocchi, come dicevamo, ha deciso di buttarsi in un’avventura enogastronomica, passando dalle "pericolose" pratiche di lottizzazione dei terreni alla preparazione di torte. L’ex assessore, infatti, oggi lavora come pasticciere in un laboratorio-ristorante aperto con un suo amico imprenditore sulle rive del lago di Bilancino. Cucina torte della nonna, crostate, crostate di ricotta e tiramisù. Un modo ironico e sognante per lasciarsi una storia amara alle spalle. Ritocchi in materia penale per coordinare i reati familiari all’istituto delle unioni civili di Selene Pascasi Il Sole 24 Ore, 13 febbraio 2017 Con il via libera giunto dal Consiglio dei ministri, entra in "Gazzetta" il decreto legislativo n. 6 del 19 gennaio 2017, recante "Modificazioni ed integrazioni normative in materia penale per il necessario coordinamento con la disciplina delle unioni civili, ai sensi dell’articolo 1, comma 28, lettera c), della legge 20 maggio 2016, n. 76". Il fine? Quello di armonizzare codice penale e codice di procedura penale alla nuova disciplina introdotta dalla Legge "Cirinnà". E con il neo introdotto articolo 574-ter del Cp viene sancito che "agli effetti della legge penale" - ma si spiegherà in che termini - le parole "matrimonio" e "coniuge" si intendono riferite anche "alla costituzione di un’unione civile tra persone dello stesso sesso" e alla "parte di un’unione civile tra persone dello stesso sesso". Qualifica che peserà, allora, anche quale elemento costitutivo o circostanza aggravante di un reato qualora il configurarsi o l’aggravarsi di un delitto sia legato (come nei crimini contro l’assistenza familiare) al fatto di vestire la qualità di coniuge, oggi equiparata alla posizione del componente dell’unione civile. Parimenti, a ciascuna parte della coppia omosex viene espressamente riconosciuta, così come al soggetto coniugato, la facoltà di astenersi dal testimoniare nel processo aperto a carico del partner. Questi, gli adeguamenti più evidenti che il decreto - nel confermare, recepiti i suggerimenti delle Commissioni, l’impianto delineato in prima battuta dallo schema sottoposto al vaglio del Consiglio - apporta, con i suoi quattro articoli, al sistema normativo vigente. Ma vediamo, nel dettaglio, di quali interventi si tratta. Il reato di assistenza ai partecipi di cospirazione o banda armata - L’articolo 1, lettera a) del comma 1, del Dlgs n. 6 del 2017 modificando il quarto comma dell’articolo 307 del Cp,norma incriminatrice del reato di "assistenza ai partecipi di cospirazione o di banda armata", estende la causa di non punibilità ivi prevista per chi commetta il fatto in favore di un prossimo congiunto, anche alla "parte di un’unione civile tra persone dello stesso sesso". Nell’attuale formulazione del testo, infatti, si legge, senza altra specifica, che "agli effetti della legge penale, si intendono per i "prossimi congiunti" gli ascendenti, i discendenti, il coniuge (ora anche la parte di un’unione civile tra persone dello stesso sesso), i fratelli, le sorelle, gli affini nello stesso grado, gli zii e i nipoti: nondimeno, nella denominazione di prossimi congiunti, non si comprendono gli affini, allorché sia morto il coniuge e non vi sia prole". L’innesto, nel codice penale, dell’articolo 574-ter - Ancora l’articolo 1 del decreto, questa volta alla lettera b), introduce nel corpo del codice penale, più precisamente nel libro II ("Dei delitti in particolare"), titolo XI ("Dei delitti contro la famiglia"), capo IV ("Dei delitti contro l’assistenza familiare") l’articolo 574-ter, rubricato "Costituzione di un’unione civile agli effetti della legge penale". La norma così recita: "Agli effetti della legge penale il termine matrimonio si intende riferito anche alla costituzione di un’unione civile tra persone dello stesso sesso. Quando la legge penale considera la qualità di coniuge come elemento costitutivo o come circostanza aggravante di un reato essa si intende riferita anche alla parte di un’unione civile tra persone dello stesso sesso". Ebbene, se il nuovo disposto equipara, "ai fini della legge penale", il matrimonio alla costituzione di un’unione civile, parrebbe palese l’intento e l’effetto di riprodurre, nel settore penalistico, quella generale clausola di equivalenza tra coniugio e unione civile, sulla quale si impronta il comma 20 dell’articolo 1 della legge 76/2016. Tuttavia, proprio in considerazione del fatto che il testo in analisi è decreto attuativo della nominata legge delega - dunque contenuto che "riempie" il quadro delineato da una cornice disegnata a monte, al fine di individuare sia l’oggetto della delega, che i principi e i criteri direttivi che regolano la materia - quanto in esso sancito, non appare estendibile, sic et simpliciter, a tutto il corpo del codice penale. Almeno, non previo ragionamento logico deduttivo da operarsi su ciascun precetto in cui figuri il termine "coniuge" come elemento costitutivo o come circostanza aggravante di un reato. A suffragare tale pensiero, possono addursi diversi rilievi. In primo luogo, è noto come la materia penale sia sorretta da un principio basilare (corollario di quello di legalità di cui all’articolo 25, comma 2, della Costituzione), alla luce del quale le disposizioni devono soddisfare il canone della tassatività. Canone il cui rispetto, lo si annoti, non è solo caldamente suggerito, ma imposto da un dettato di rango costituzionale. Di conseguenza - se l’intento fosse stato quello di estendere alla parte dell’unione civile, anche norme penali diverse da quelle puntualmente indicate nel decreto - allora, in sede attuativa della delega, il decreto sarebbe dovuto intervenire, analiticamente, su ciascuno degli articoli oggetto di modifica, così come ha fatto per le norme appena indicate. Ma di ciò non v’è traccia. Ancora, non appare un mero caso che le sopra citate disposizioni, quelle sì espressamente richiamate nel decreto attuativo, si colleghino, in tutta evidenza, a quella finalità tanto chiaramente individuata nella legge 76/2016, laddove il comma 20 dell’articolo 1 - nel vincolare le modalità concrete di attuazione del testo - recita che "al solo fine di assicurare l’effettività della tutela dei diritti e il pieno adempimento degli obblighi derivanti dall’unione civile tra persone dello stesso sesso, le disposizioni che si riferiscono al matrimonio e le disposizioni contenenti le parole "coniuge", "coniugi" o termini equivalenti, ovunque ricorrono nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti nonché negli atti amministrativi e nei contratti collettivi, si applicano anche a ognuna delle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso. La disposizione di cui al periodo precedente non si applica alle norme del codice civile non richiamate espressamente nella presente legge, nonché alle disposizioni di cui alla legge 4 maggio 1983 n. 184. Resta fermo quanto previsto e consentito in materia di adozione dalle norme vigenti". Dettato che, quindi, avvalora la tesi per la quale il decreto attuativo, più che declamare una norma generale di estensione alle parti dell’unione civile di ogni disposizione penale che contenga un riferimento al coniuge, l’abbia, invece, consentita solo in relazione a norme in qualche modo "funzionali" al soddisfacimento di quella effettività della tutela dei diritti e dell’adempimento degli obblighi (assistenza morale e materiale, coabitazione e pari contribuzione a bisogni familiari) che la legge 76/2016 ha espressamente previsto anche per i componenti dell’unione civile. Appare ragionevole, allora, dedurre che il decreto produrrà riflessi sulla materia penale, andando a incidere sui singoli precetti, solo ove l’estensione della loro applicazione ai partner dell’unione si muova sui binari dell’ottica voluta e indicata dal delegante. Sul punto, peraltro, lo si ricordi, già il Comitato per la legislazione, presidente Gianluca Pini, nel parere reso il 12 aprile 2016, si esprimeva così: "al comma 20, che, con norma che sembrerebbe avere carattere generale, estende alle parti delle unioni civili i diritti e i doveri derivanti dal rapporto di coniugio ad eccezione di quelli disciplinati nel codice civile e non espressamente richiamati nella legge n. 184 del 1983 in materia di adozioni, parrebbe opportuno precisare se con il suddetto rinvio si intendano richiamare anche le norme in malam partem derivanti dalla qualità di coniuge (a mero titolo esemplificativo, si consideri l’articolo 577 del codice penale, che, nel caso di omicidio, prevede un aumento di pena se il reato è stato commesso contro il coniuge, ovvero le diverse normative che pongono quale causa di incompatibilità nell’esercizio di una professione o della funzione assegnata il rapporto di coniugio con un’altra parte) e, in caso affermativo, individuare le suddette norme in maniera puntuale". Precisazione che, però, non si ravvisa nel testo definitivamente approvato, facendo propendere gli interpreti per un’estensione - seppur non espressamente preclusa dalla relazione illustrativa - operata, tuttavia, solo in via funzionale al soddisfacimento della delega ricevuta. Si spiegherebbe, così, anche la ragione per cui il decreto attuativo abbia individuato - nell’articolo 1 - le singole norme che fanno discendere la non punibilità, l’integrarsi o l’aggravarsi di un reato proprio dall’aver agito nella qualità di soggetto (coniuge e ora anche parte dell’unione civile) obbligato a specifici doveri assistenziali. A pesare sulla tesi formulata, è altresì la sistemazione codicistica dell’unica norma del decreto suscettibile di essere intesa, prima facie, come regola di carattere generale: l’articolo 574-ter del codice penale. Ebbene, non può essere frutto di una svista, la scelta di collocare tale disposto in seno ai delitti "contro l’assistenza familiare", tanto da far intendere, che ogni norma penale - verosimilmente contenuta nel predetto libro II ("Dei delitti in particolare"), titolo XI ("Dei delitti contro la famiglia"), capo IV ("Dei delitti contro l’assistenza familiare") - debba ritenersi estesa, ove richiami i termini "matrimonio" o "coniuge", anche all’unione civile o al suo componente. Contesto peculiare, in cui si inseriscono, d’altronde, gli articoli 570 ("Violazione dell’obbligo di assistenza familiare") e 572 ("Maltrattamenti contro familiari e conviventi"). Quanto all’articolo 570 del Cp - ove si sanziona "chiunque, abbandonando il domicilio domestico, o comunque serbando una condotta contraria all’ordine o alla morale delle famiglie, si sottrae agli obblighi di assistenza inerenti alla potestà dei genitori, alla tutela legale o alla qualità di coniuge" - è indubbio che essa debba intendersi riferita anche ai componenti dell’unione civile. Ciò, non solo per via della richiamata collocazione dell’articolo 574-ter del Cp, ma altresì per aderenza alle finalità descritte dalla legge delega che pone anche carico dei partner dell’unione gli obblighi di cui al precetto penale. Stessa soluzione, per quanto concerne l’articolo 572 del Cp, norma - per la quale risponde del reato chiunque maltratti "una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte" - la cui applicazione, però, era stata già prevista, con novella 172/2012, anche per le persone "comunque conviventi". Allo stesso modo, dovrà concludersi, per il delitto di violenza sessuale, aggravato laddove commesso (ex articolo 609-ter 5-quater del codice penale) nei confronti di persona "della quale il colpevole sia il coniuge, anche separato o divorziato, ovvero colui che alla stessa persona è o è stato legato da relazione affettiva, anche senza convivenza" e per quello di atti persecutori, posto che lo stalking (articolo 612-bis del Cp) è soggetto ad aumento di pena se perpetrato "dal coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa". Estensione probabile alle parti dell’unione, non per individuazione da parte del decreto attuativo, ma per funzionalità con i criteri sanciti dalla delega, potrebbe rinvenirsi, invece, per il reato di induzione, favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione, sanzionato con maggiore asprezza se commesso dal coniuge, trattandosi di individuo tenuto, proprio per la sua veste, ad assistere il partner. Medesima logica, potrebbe seguirsi per l’ipotesi di abbandono di minori o incapaci laddove l’articolo 591 del Cp- nel punire chi abbandoni "una persona minore degli anni quattordici, ovvero una persona incapace, per malattia di mente o di corpo, per vecchiaia, o per altra causa, di provvedere a se stessa, e della quale abbia la custodia o debba avere cura", prevede un aumento di pena per il fatto commesso dal coniuge. Logica che supporta, a ben vedere, anche l’aggravarsi della condanna in caso di omicidio posto in essere dal consorte della vittima. Profilo, quello del delitto omicidiario, che impone, allora, di riflettere sull’eventuale connessione tra tale crimine estremo e la violazione (ad esempio, per mancata prestazione al partner di cure vitali, laddove detta omissione ne abbia causato il decesso) dell’obbligo di assistenza morale e materiale oggi imposto, reciprocamente, anche ai componenti dell’unione civile. Ma la carrellata dei reati in cui figura il termine "coniuge", e non indicati dal decreto, è corposa. Si pensi ai delitti di abuso d’ufficio, procurata evasione, procurata inosservanza di pena, procurata inosservanza di misure di sicurezza detentive o assistenza agli associati, in ordine ai quali un’estensione di disciplina ai membri dell’unione allineerebbe l’apparato ai canoni del diritto penale europeo. D’altronde, anche la direttiva 2015/849/Ue (IV Direttiva europea antiriciclaggio e contro il finanziamento del terrorismo) all’articolo 3, n. 10, recepisce una definizione di "familiari", rilevante ai fini penali, che abbraccia: a) il coniuge, o una persona equiparata al coniuge, di una persona politicamente esposta; b) i figli e i loro coniugi, o le persone equiparate ai coniugi, di una persona politicamente esposta; c) i genitori di una persona politicamente esposta. L’estensione della causa di non punibilità - L’articolo 1 del decreto, infine, interviene, alla lettera c), sui primi due commi dell’articolo 649 del Cp. Con modifica del comma primo, si estende anche alla parte dell’unione civile l’applicazione della causa di non punibilità ivi contemplata con riguardo ai delitti non violenti contro il patrimonio commessi nell’ambito dei rapporti familiari. Nello specifico, è inserito il numero 1-bis dedicato alla "parte dell’unione civile tra persone dello stesso sesso", che potrà godere, di tal guisa, di una causa di non punibilità, prevista, ante riforma, solo a favore del coniuge non legalmente separato, degli ascendenti o discendenti e affini in linea retta, dell’adottante o dell’adottato, o dei fratelli conviventi. Si elimina, dunque, quella circoscrizione della norma riservata, prima della riforma, ai soli nuclei fondati sul matrimonio (oltre che ai soggetti legati da vincoli di sangue) che accese aspri dibattiti, motivando persino l’avvio di diverse questioni di legittimità costituzionale, sollevate per violazione degli articoli 3, commi 1 e 2, e 24, comma 1, della Costituzione. Occasioni in cui la Corte costituzionale, pur dichiarando l’infondatezza delle questioni, tenne a marcare - si legga, a titolo esemplificativo, la pronuncia n. 223 del 5 novembre 2015 - come l’aggiornamento della disciplina dei reati contro il patrimonio commessi in ambito familiare, da ricondursi nell’alveo di scelte di politica criminale, spettasse, invero, al "ponderato intervento del legislatore", così sollecitandolo a un aggiornamento di disciplina. Sul punto, occorre ricordare come in sede di prima stesura della norma novellata, lo schema di decreto avesse subordinato l’applicazione della causa di non punibilità - solo per le parti dell’unione civile - al requisito della coabitazione tra le parti, non richiesto, invece, per i coniugi non legalmente separati. Di qui, il rilievo della Commissione che, chiamata a rendere il proprio parere, osservava come tale disparità di trattamento non fosse giustificata. Ciò, sosteneva, posto che la costanza di coabitazione, prevista per le parti dell’unione ai fini dell’applicazione della causa di non punibilità, non poteva in alcun modo assimilarsi all’assenza di separazione legale, quale condizione perché fosse applicata ai coniugi. D’altronde, proseguiva, la separazione consegue a un provvedimento e, dunque, è assistita da condizioni di rigorosa certezza. La costanza di coabitazione, invece, rinvia a una semplice e non riscontrabile, situazione di fatto. Non solo, l’assenza di coabitazione potrebbe anche conseguire da una libera scelta delle parti e non necessariamente da una situazione conflittuale. Si suggeriva, perciò, di elidere - come è avvenuto in sede di approvazione definitiva - la frase "in costanza di coabitazione". Ancora, l’articolo 1 del decreto inserisce - all’articolo 649, secondo comma, del Cp, dopo le parole "del coniuge legalmente separato" - le parole "o della parte dell’unione civile tra persone dello stesso sesso, nel caso in cui sia stata manifestata la volontà di scioglimento dinanzi all’ufficiale dello stato civile e non sia intervenuto lo scioglimento della stessa". Così facendo, si dispone che i fatti previsti dal titolo di reato siano punibili a querela della persona offesa, non solo se commessi - come disposto dalla vecchia stesura della norma - a danno del coniuge legalmente separato, del fratello o sorella che non convivano con l’autore del fatto, dello zio o del nipote o dell’affine in secondo grado con lui conviventi, ma anche ove perpetrati nei confronti del partner dell’unione, nei casi indicati dalla norma come novellata. Le modifiche al codice di procedura penale - L’articolo 2 del decreto, invece, modifica l’articolo 199, comma 3, del Cpp, in materia di testimonianza, estendendo anche alla parte dell’unione civile la facoltà di astenersi dal deporre nel processo penale mosso a carico del partner, così come è consentito al coniuge (anche legalmente separato) dell’imputato. L’articolo, infatti, dispone che i prossimi congiunti dell’imputato, salvo che non abbiano presentato denuncia, querela o istanza o essi o un loro prossimo congiunto siano offesi dal reato, non sono obbligati a deporre. Per l’effetto, oggi è previsto che tale disposizione - "limitatamente ai fatti verificatisi o appresi dall’imputato durante la convivenza coniugale" o (come riformato) "derivante da un’unione civile tra persone dello stesso sesso" - si applichi: a) a chi, pur non essendo coniuge dell’imputato, come tale conviva o abbia convissuto con esso; b) al coniuge separato dell’imputato; c) alla persona nei cui confronti sia intervenuta sentenza di annullamento, scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio o (come riformato) "dell’unione civile tra persone delle stesso sesso" contratti con l’imputato. Nella relazione illustrativa si precisa, poi, che - se il legislatore ha scelto di intervenire solo sull’articolo 199 del Cppe non anche sulla disciplina delle incompatibilità - è perché, non escludendo la materia processuale interpretazioni di natura estensiva, ha ritenuto che l’applicabilità delle disposizioni relative alle cause di incompatibilità per ragioni di parentela, affinità o coniugio astensione e di astensione anche al partner dell’unione civile omosessuale, potesse rientrare agilmente nella sfera di intervento della norma di coordinamento di cui al comma 20 dell’articolo 1 della legge 76/2016. Troppi in cella, ok al risarcimento di Clemy De Maio La Città di Salerno, 13 febbraio 2017 Il magistrato di sorveglianza di Salerno aveva chiuso la pratica dichiarandola inammissibile. Ma la Suprema Corte ha annullato gli atti, imponendo una nuova pronuncia. Il magistrato di sorveglianza di Salerno aveva chiuso la pratica con una pronuncia di inammissibilità, c’è voluto l’intervento della Cassazione perché al detenuto Antonio Buccieri fosse riconosciuto il diritto a chiedere un risarcimento per avere sofferto condizioni di detenzione contrarie alla dignità della persona. Dopo essere stato in altri istituti penitenziari, il trentenne era arrivato nel carcere di Fuorni e aveva rivolto qui la sua domanda alla magistratura di sorveglianza, chiedendo l’applicazione dell’articolo 35 dell’ordinamento penitenziario, che gli avrebbe consentito un giorno di sconto sulla pena per ogni dieci in cui il sovraffollamento delle strutture carcerarie aveva violato nei suoi confronti la convenzione europea per i diritti dell’uomo. Il magistrato di sorveglianza ha risposto con un diniego, ritenendo che il presupposto della domanda non fosse più attuale e che comunque l’interessato non avesse allegato tutti gli elementi necessari per desumere la violazione. Insomma, se violazione c’era stata il detenuto non poteva comunque ottenerne il risarcimento, né sotto forma di sconto di pena né con un equivalente economico. Un "no" che la Cassazione ha annullato, ritrasmettendo gli atti al magistrato salernitano e imponendo che si pronunci di nuovo, in modo rispettoso dei principi sanciti con l’atto di annullamento. Innanzitutto la Suprema Corte ha sottolineato che il ricorrente aveva indicato puntualmente i periodi e gli istituti in cui era stato ristretto, aveva precisato le situazioni ritenute in contrasto con la convenzione europea e aveva pure fatto riferimento alla cosiddetta sentenza Torreggiani della Corte per i diritti dell’uomo. Non solo. I giudici hanno censurato la scelta di rigettare la domanda senza nemmeno disporre il contraddittorio. "Il decreto di inammissibilità senza previo contraddittorio delle parti - si legge nella sentenza - è previsto nei soli casi di difetto delle condizioni di legge o di mera riproposizione di una richiesta già rigettata, basata su medesimi elementi". Sul requisito della permanenza della violazione al momento della domanda risarcitoria, si è invece articolato negli ultimi anni un dibattito sia in dottrina che in giurisprudenza. E da ultimo, con sentenze successive al decreto impugnato, la Cassazione ha affermato che l’attualità del pregiudizio "non è condizione di accoglibilità della domanda riparatoria". Sarà a questo principio che la magistratura di sorveglianza dovrà adesso attenersi. Intercettazioni autorizzate utilizzabili per reati dello stesso procedimento di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 13 febbraio 2017 Corte di cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 16 dicembre 2016 n. 53444. In tema di intercettazioni, qualora il mezzo di ricerca della prova sia legittimamente autorizzato all’interno di un determinato procedimento concernente uno dei reati di cui all’articolo 266 del Cpp, i suoi esiti sono utilizzabili anche per tutti gli altri reati relativi al medesimo procedimento, mentre nel caso in cui si tratti di reati oggetto di un procedimento diverso ab origine, l’utilizzazione è subordinata alla sussistenza dei parametri indicati espressamente dall’articolo 270 del Cpp, e, cioè, l’indispensabilità e l’obbligatorietà dell’arresto in flagranza. Lo ha stabilito la Cassazione con la sentenza n. 53444 del 16 dicembre 2016. Trattasi di affermazione ampiamente condivisibile giacché esula dall’ambito di applicabilità dell’articolo 270 del Cpp, come si evince dal suo tenore letterale, l’ipotesi in cui nell’ambito del medesimo procedimento vengano disposte intercettazioni per un reato e da esse emergano gli estremi di un altro reato. Infatti, in tale evenienza si tratta di utilizzare le intercettazioni agli effetti di prova di un reato diverso da quello per il quale la captazione è stata autorizzata e non di utilizzare i contenuti delle conversazioni intercettate in un procedimento diverso da quello nel quale l’intercettazione è stata disposta (di recente, sezione VI, 15 luglio 2015, Rosatelli e altro; nonché, sezione VI, 8 giugno 2016, Proc. Rep. Trib. Roma in proc. Proietti e altro). E ciò, del resto, tenuto conto anche dell’altro principio autorevolmente affermato in giurisprudenza in forza del quale, comunque, ai fini del divieto di utilizzazione previsto dall’articolo 270, comma 1, del Cpp, la nozione di "diverso procedimento" va ancorata a un criterio di valutazione sostanzialistico, che prescinde da elementi formali, quale il numero di iscrizione del procedimento nel registro delle notizie di reato, essendo invece decisiva, ai fini dell’individuazione dell’"identità" dei procedimenti, l’esistenza di una "connessione" sotto il profilo oggettivo, probatorio o finalistico tra il contenuto della originaria notizia di reato, per la quale sono state disposte le intercettazioni, e i reati per i quali si procede (Sezioni unite, 26 giugno 2014, Floris e altro). In altri termini, ai fini del divieto di utilizzazione occorre far riferimento a una nozione sostanziale di "diverso procedimento", secondo cui la "diversità" va collegata al dato dell’insussistenza, tra i due fatti-reato, storicamente differenti, di un nesso ai sensi dell’articolo 12 del Cpp, o di tipo investigativo, e, quindi, all’esistenza di un collegamento meramente fattuale e occasionale (Sezione III, 5 novembre 2015, Pulvirenti e altri). Insulti e confessioni online: il giudice decide con i social di Marisa Marraffino Il Sole 24 Ore, 13 febbraio 2017 I post "avventati" sui social network continuano ad animare i processi. Nonostante la giurisprudenza su molti aspetti sia ormai consolidata e ritenga Facebook, Twitter e simili "luoghi aperti al pubblico", sulle scrivanie dei giudici arrivano casi di lavoratori licenziati perché parlano male online del datore di lavoro o di coniugi in causa che confessano i redditi non dichiarati o le relazioni al di fuori del matrimonio. Offese al datore di lavoro - A volte l’imprudenza dei commenti degli utenti è controbilanciata da norme procedurali e sostanziali in grado di ribaltare l’esito di un processo. Così si è salvato un dipendente che aveva riempito di insulti su Facebook il datore di lavoro perché, convocato a difesa, aveva dichiarato di essere malato e non era stato chiamato una seconda volta per potersi difendersi dalle accuse. Per il Tribunale di Milano (ordinanza del 23 dicembre 2016, giudice Scarzella), "lo stato di malattia non autorizza il datore di lavoro a omettere l’audizione del dipendente che l’abbia espressamente richiesta". Pur riconoscendo che le frasi postate su Facebook sarebbero idonee a giustificare il licenziamento per giusta causa, per violazione del rapporto fiduciario in base all’articolo 2119 del Codice civile, l’omissione del datore di lavoro comporta l’illegittimità della sanzione e la condanna a versare al lavoratore un’indennità risarcitoria pari a nove mensilità. La pronuncia si segnala anche per il tentativo della difesa di dimostrare l’incapacità di intendere e di volere del lavoratore nel momento in cui aveva pubblicato le frasi offensive, motivata sulla base dell’assunzione di ansiolitici. Ma per il tribunale tali farmaci non inficiano la capacità di intendere e di volere da parte di chi li assume e pertanto il lavoratore era in grado di capire il contenuto e la rilevanza delle proprie dichiarazioni. Critiche del sindacalista - A venire in soccorso di un sindacalista che aveva definito il proprio ente un "ufficio complicazioni affari facili" è il diritto di critica riconosciuto al dipendente, anche in considerazione delle mansioni svolte. Per il Tribunale di Velletri (sentenza dell’8 novembre 2016, giudice Falcione), "la frase non esprime alcun giudizio atto a ledere l’immagine o l’onorabilità dei superiori gerarchici e dell’ente in generale, non essendoci alcun elemento diffamatorio". A favore del lavoratore ha giocato anche il ruolo di sindacalista ricoperto all’interno dell’amministrazione, che consente un margine più ampio di critica in riferimento alla propria attività. Redditi online - Il Tribunale di Pesaro (sentenza del 20 dicembre 2016, presidente Perfetti, relatore Pini) si è poi pronunciato sul caso di un coniuge che, mentre era in corso la causa di separazione con la richiesta dell’assegno di mantenimento, aveva scritto sulla bacheca Facebook di lavorare in un locale notturno e di percepire mille euro a serata. Per i giudici le dichiarazioni "posseggono una indubbia valenza confessoria ancorché liberamente valutabili perché non rese alla controparte". Di conseguenza, è stato negato il diritto al mantenimento. Rischio adulterio - Rischia l’addebito il coniuge che scrive dediche e frasi d’amore sul profilo social dell’amante. Ma a salvare l’adultero, nel caso deciso dal Tribunale di Ivrea con la sentenza del 18 gennaio 2017 (presidente Mazza Galanti, relatore Casella), è stata la dimostrazione di una crisi coniugale pregressa alla pubblicazione dei messaggi. Falsa testimonianza - I giudici si sono anche pronunciati sul caso di un testimone che aveva dichiarato di non essere rimasto in contatto con la ricorrente per poi venire smentito dal profilo Facebook di quest’ultima che aveva pubblicato sulla propria bacheca fotografie che li ritraevano insieme. Il Tribunale di Roma (sentenza del 27 dicembre 2016, giudice Pagliarini) ha punito la leggerezza e ha dichiarato il teste non attendibile. Tutti casi in cui gli utenti hanno usato i social con troppa disinvoltura. Eppure la Cassazione lo ha ribadito a più riprese: le pagine dei social sono "luoghi aperti al pubblico", i cui contenuti sono producibili in giudizio, anche se l’utente ha impostato filtri restrittivi, rendendole visibili soltanto a un numero limitato di contatti. A nulla serve cancellare le frasi offensive prima del giudizio, trattandosi di una condotta successiva al compimento del fatto e pertanto irrilevante. Non manca, infine, chi dal virtuale passa alle vie di fatto e, per questo, finisce davanti al giudice. È successo a una dipendente che, non soddisfatta da una fotografia pubblicata su Facebook da una collega, l’ha colpita più volte con un mestolo. In questo caso non ci sono esimenti: per il Tribunale di Milano (ordinanza del 1° dicembre 2016, giudice Scarzella), il fatto è talmente grave da legittimare il licenziamento per giusta causa. Vendita prima della confisca per l’auto in sequestro penale di Giovanbattista Tona Il Sole 24 Ore, 13 febbraio 2017 Un’autovettura in sequestro può essere venduta anche se il procedimento è ancora in corso e non ne è stata disposta in via definitiva la confisca. Lo afferma la Cassazione con la sentenza 1916 dello scorso 16 gennaio. La controversia - La vicenda riguarda un indagato, al quale erano stati sequestrati diversi beni in vista della confisca per equivalente prevista per i reati a lui contestati; tali beni costituivano il valore corrispondente al profitto illecito conseguito con la commissione dei delitti e per questo erano stati sottratti alla disponibilità dell’indagato. Il Gip aveva disposto la vendita di un’auto applicando l’articolo 260 del Codice di procedura penale che consente l’alienazione del bene sequestrato, suscettibile di alterazione. L’indagato si era opposto, lamentandosi del fatto che la norma autorizza la vendita solo di beni deteriorabili; e contro la decisione del Gip che aveva respinto la sua opposizione, aveva proposto ricorso per Cassazione sostenendo che il provvedimento era abnorme e che gli impediva irrimediabilmente di tornare in possesso del suo bene, nel caso in cui fosse stato assolto con conseguente revoca del sequestro. Il giudizio - La Cassazione ha evidenziato che la cosa sequestrata ai fini della confisca per equivalente non rileva in sé, ma in quanto espressiva di un valore prossimo a quello da tutelare. Ne consegue che in sede di amministrazione di tali beni è necessario preservarne il valore. Il deterioramento da evitare non è quindi quello della cosa ma quello del suo valore e, a questo fine, è operazione effettivamente conservativa non tanto la mera custodia, quanto piuttosto la vendita immediata con acquisizione del prezzo. La Cassazione ha quindi ritenuto corretto il provvedimento di vendita, che costituisce l’esito del legittimo esercizio delle prerogative funzionali del giudice della cautela reale. Ma occorre che il giudice dia puntualmente conto delle ragioni che rendono necessario e opportuno procedere all’alienazione, mediante un giudizio di fatto coerentemente argomentato; a questo obbligo di motivazione aveva assolto il provvedimento impugnato. Il concetto di deterioramento quindi non deve essere inteso in un’accezione prettamente fisica. In questa nozione rientra anche il deprezzamento, cioè la perdita di valore intrinseco, secondo la definizione elaborata dalla giurisprudenza in materia di danneggiamento: qualsiasi modifica della cosa che diminuisce in modo apprezzabile il valore o impedisce anche parzialmente l’uso. La Cassazione ricorda poi che al giudice è attribuito il potere di determinare una conseguenza che va ben oltre quella connessa naturalmente all’imposizione del vincolo coercitivo, perché si realizza il trasferimento, in capo al giudice, di uno dei contenuti del diritto di proprietà: la facoltà di disporre definitivamente di un bene. E ciò tanto più quando il vincolo reale è strumentale alla confisca. Del resto, l’articolo 260 del Codice di procedura civile pone un’alternativa tra alienazione e distruzione e così richiama un indispensabile vaglio in ordine alla circostanza se la cosa possa o meno avere un valore economico. Solo se la cosa è intrinsecamente criminosa o pericolosa, il giudice non può rimetterla in circolazione. Toscana: carceri, tra sovraffollamento e strutture sottoutilizzate di Nadia Frulli arezzonotizie.it, 13 febbraio 2017 Ad Arezzo ancora lavori, disponibili 26 posti su 101. Se in molte strutture i detenuti sono in sovrannumero, in altrettante i posti a disposizione sono ridotti per lavoro. A partire proprio da Arezzo, Pistoia, a Livorno, a Porto Azzurro, a Volterra. Sulla carta i posti a disposizione nelle case circondariali per i detenuti toscani ci sono: 3.334 per 3.287 detenuti. Ma a guardare oltre, a toccare con mano la realtà, si scopre che il conto non torna. Perché molte di queste strutture - compresa quella di Arezzo - da tempo hanno una disponibilità ridotta a causa di lavori di ristrutturazione che ne impediscono la completa fruibilità. Lo racconta in una lettera alle istituzioni la Federazione Nazionale Sicurezza Cisl. La missiva prende spunto dalle sorti della struttura di Montelupo Fiorentino per il quale la Fns chiede la riconversione a "Istituto Penitenziario, magari afferente ad un circuito di basso indice di pericolosità (detenuti con fine pena brevi, in semilibertà e con misure di custodia attenuata)". Ne deriva uno squilibro che balza agli occhi: con strutture come quella aretina che ospita 26 persone invece di 101 e e strutture come Prato o San Gimignano, Massa o Sollicciano, dove il sovrannumero è importante. "Bastano alcuni dato per far comprendere la situazione" scrive la Fsn: "a Sollicciano 257 detenuti in più dei posti disponibili, Pisa 58 detenuti in più, Prato 78 in più, San Gimignano 90 in più, Massa 26 in più. Certo se qualcuno fornisce il dato complessivo regionale parrebbe che in Toscana non c’è sovraffollamento ma invece così non è. La capienza regolamentare dei posti in regione 3334 (compresi i 175 di Montelupo - vuoto) a fronte di 3287 detenuti presenti. Ma nessuno spiega che il totale dei posti in regione è condizionato da una ridotta disponibilità in regione, per effetto di lavori di ristrutturazioni in corso d’opera e che per almeno un biennio condizioneranno ancora la situazione nei restanti carceri aperti al 100% ed oltre". Buona parte delle strutture carcerarie infatti vede ridotti i posti a disposizione, a partire proprio da Arezzo dove - sostiene la Fsn - si possono ospitare solo 26 detenuti a fronte di 101 posti. Situazioni simili si hanno a Pistoia (solo 19 a fronte di 59), a Livorno (211 a fronte di 385), a Porto Azzurro (259 a fronte di 363), a Volterra (150 a fronte di 187). E da qui prende le mosse la lettera che esprime la delusione della Fns: " è incomprensibile il silenzio del Ministro Orlando, del Capo del DAP e della Politica ed Istituzioni tutte. Un silenzio che oltretutto riguarda circa 100 appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria (il Personale dell’ex carcere di Empoli e quello di Montelupo) che non troveranno una possibile ricollocazione sul Territorio dove avevano ed hanno costruito la vita delle proprie Famiglie, trattati come se loro per primi non avessero diritto a chiarezza da parte dello Stato che ogni giorno servono al servizio del Paese". Ferrara: minorenni e crimine, evitare il carcere di Marcello Celeghini estense.com, 13 febbraio 2017 Il giudice Spadaro: "La detenzione rovinerebbe del tutto la vita. Meglio altre forme punitive". "Quando i ragazzi sbagliano. La giustizia minorile e il ruolo dei media". Era questo il titolo della giornata formativa per educatori, giornalisti e assistenti sociali tenutasi sabato mattina nella sala del consiglio comunale gremita per l’occasione. L’iniziativa è stata promossa dal Comune di Ferrara in collaborazione con il Tavolo Adolescenti (Ausl-Comune di Ferrara) e la camera minorile del Tribunale di Ferrara. A fare gli onori di casa era presente l’assessora Chiara Sapigni che nel suo saluto ha auspicato che "la giornata sia proficua e ricca di stimoli per gli educatori che ogni giorno si trovano a tu per tu con i ragazzi". Violenze sessuali e cyberbullismo sono solo alcuni dei reati che ogni giorno vediamo contestati a minorenni sulle prime pagine dei giornali. Ma come agire in sede di processo quando l’imputato è un minorenne? "Il processo a carico di un minore deve necessariamente differire da quello a carico di un maggiorenne poiché cambia il presupposto di partenza - spiega il presidente del tribunale minorile dell’Emilia Romagna, Giuseppe Spadaro. Si cerca di evitare il carcere perché il carcere rovina del tutto la vita ad un minorenne. Si punta sempre più su altre forme di ‘punizionè come, ad esempio, fare leva sull’emotività e il rimorso del colpevole favorendo magari l’incontro con la vittima o i parenti della stessa. Dopo questo step, il minorenne che mostra segni di pentimento viene inserito gradualmente in strutture di recupero dove, dopo un percorso che dura anni, riacquisterà gradualmente la propria autonomia che lo porterà a reinserirsi nella società". Durante la mattinata sono state mostrate anche due clip, una dal titolo "Come rinascere" con la testimonianza diretta di un ragazzo che ha seguito un percorso di recupero dentro ad una comunità che lo ha portato a reinserirsi nella società; l’altro video proiettato, dal titolo "Non era un gioco", ha rappresentato la simulazione di un processo minorile. Durante l’incontro non è stata tralasciata neppure la grande responsabilità dei media nella trattazione di procedimenti a carico di minori. "I media hanno un grossissimo impatto nella mente dei minori e nell’accettazione del reato commesso da parte dei minorenni imputati - sottolinea Elena Buccoliero, giudice onorario del tribunale dei minori. In particolare i titoli dei giornali hanno spesso il demerito di schiacciare letteralmente un minore indagato o i suoi familiari". Esiste una proposta di legge al vaglio del Senato che mira a realizzare l’accorpamento dei tribunali minorili con i tribunali ordinari. "La giustizia minorile italiana è uno dei migliori ordinamenti rintracciabili, vengono addirittura dall’estero a studiarlo. Anche in Italia ci siamo accorti del suo valore e, negli ultimi anni, stiamo scimmiottando per imitarlo nel processo penale ordinario - ricorda Spadaro. Ora però, l’unico processo che ci viene invidiato in tutto il mondo verrà probabilmente soppresso e questo perché non tira in ballo interessi economici ma ha solo la valenza educativa. Nel processo penale ordinario nessuno si cura della persona. Il diritto deve essere emozione e vita, non un tecnicismo. Ma ciò che più sorprende, è che questa riforma epocale passerà nel segno del silenzio degli organi di informazione". Milano: il reinserimento? Comincia in una corsia d’ospedale di Carlo Baroni Corriere della Sera, 13 febbraio 2017 Al San Paolo il progetto pilota con quattro detenuti: oggi tuttofare, domani infermieri. Alla sofferenza (la loro) ci sono abituati. Colpa di scelte che hanno portato nel posto sbagliato. Per questo capiscono meglio quella degli altri. Il carcere dovrebbe essere un luogo di ripensamento. E poi di reinserimento. Spesso è solo pena infinita. Ma invertire la tendenza si può. Magari non da soli. Va in questa direzione l’esperienza di quattro detenuti con l’ospedale San Paolo. "Il progetto è partito nel 2015 - racconta Cesare Lari, della direzione sanitaria dell’ospedale - insieme al ministero della Giustizia e al Comune. Poi si è concretizzato sei mesi". Il San Paolo lavorava già nelle carceri: anche per questo è stato scelto per il progetto pilota, primo in Italia. "I loro compiti? Soprattutto portano pratiche amministrative da un ufficio all’altro. Ma fanno anche altro: ad esempio, la preparazione dei ferri chirurgici prima che vengano sterilizzati". L’esperimento è andato benissimo. "Qui all’ospedale sono tutti soddisfatti. Non c’è caposala che non parli bene di loro". Già, ma dopo? "Non deve restare una parentesi. L’idea è di farli iscrivere al corso per operatori socio-sanitari. Una volta ottenuto il diploma potranno continuare a lavorare nelle strutture ospedaliere". E dietro di loro continuare il circolo virtuoso. Altri carcerati impegnati al San Paolo. Il reinserimento che diventa realtà. Il riscatto sociale che non rimane solo sulla carta. E proprio al San Paolo, il prossimo 6 marzo, si parlerà di questo in un convegno dal titolo: "Sentieri verso la città": la salute penitenziaria a Milano. E sopra quei sentieri ci sono le orme di tutti noi. Una strada che dobbiamo percorrere. Perché è l’unica che c’è. E nessuno può restare ai margini. Un progetto nato sull’esperimento riuscitissimo ad Expo. Quando sessanta detenuti furono impiegati per sei mesi nel grande spazio espositivo. E il successo della manifestazione porta anche la loro firma. Bari: tribunale per i minori a rischio cancellazione "i più deboli perderanno le tutele" di Mara Chiarelli La Repubblica, 13 febbraio 2017 Protesta del presidente del tribunale per i minorenni e del procuratore capo: la riforma del governo mira a trasferirne le funzioni nei tribunali ordinari. I rischi per una città ad alto tasso di baby criminali. Riparte da Bari (in parallelo ad altre città italiane) la crociata anti soppressione del tribunale per i minorenni. "Perché il Governo insiste su una riforma quando trova tutti contrari? Non riesco a spiegarmelo", scuote la testa il presidente Riccardo Greco. Nel salottino del procuratore capo Ferruccio De Salvatore, al terzo piano di un palazzo dove si gioca il futuro di bambini e adolescenti, si discute e si spera. Alla vigilia di un nuovo step nel percorso della riforma della giustizia minorile che trasforma i tribunali per i minorenni in sezioni specializzate per la famiglia presso i tribunali ordinari, è davvero difficile trovare una voce a favore, dai magistrati agli avvocati, passando per figure specializzate come psicologi e assistenti sociali. "È una riforma che mina un sistema giudiziario costruito giorno dopo giorno - spiega il procuratore De Salvatore - riconosciuto, preso ad esempio e invidiato a livello europeo". Nato nel 1934, fino al 1971 i magistrati si occupavano di adulti e minori, "praticamente quello che vogliono realizzare ora chiosa il procuratore. Un grosso salto indietro, che va anche contro le indicazioni dell’Unione europea: nel 2013 è stata emanata una direttiva su minori indagati e imputati nei processi penali che si ispira a valori e principi del nostro processo minorile. Con questa riforma sarà cancellata l’esclusività delle funzioni, i minori finiranno al margine". Si passano la parola, schierati sul fronte comune: a De Salvatore fa seguito Greco: "Gli stessi dirigenti - immagina - che saranno pressati dal precario, dalle urgenze, sceglieranno dove c’è maggiore bisogno. Voglio dire, ad esempio, che se ci saranno esigenze in altri settori, che so, l’evasione fiscale grave o l’aumento di rapine, si darà la precedenza a quelli, sarà una scelta differenziata sul territorio. oggi, invece, il tribunale per i minorenni farantisce una tutela omogenea". E se non bastassero le parole preoccupate dei vertici, arriva dai numeri la fotografia del grande lavoro, in termini quantitativi e qualitativi. Solo nel civile, nel 2016 la Procura ha presentato al tribunale 2.392 ricorsi per la tutela del minore, con un trend in aumento rispetto agli anni precedenti (1.489 nel 2014, 2.064 nel 2015). "Questo - commenta il procuratore - dimostra l’esistenza di grosse sacche di disagio su cui bisogna intervenire rapidamente, con un tipo di formazione che solo l’esclusività delle funzioni può dare". Sempre nella stessa ottica, diventa fondamentale la tempestività del tribunale, che può anche provvedere ad horas, in casi urgenti, perché c’è sempre personale amministrativo formato per questo. Nel 2015 sono stati 5.138 i provvedimenti depositati dal tribunale, 5.071 nel 2016, con una percentuale di impugnazione pari all’1 per cento in entrambi gli anni. La situazione non è molto diversa in ambito penale: "Nella trattazione dei fascicoli - ricorda Greco - c’è un criterio di priorità. Che priorità avremo in un tribunale dove si trattano anche vicende che riguardano adulti?". Non basta: "Penso a istituti come la messa alla prova - continua De Salvatore - fondamentali perché consentono di recuperare ove possibile. Sì, certo, resteranno, ma come potranno i giudici occuparsi anche di questo? I minori perderanno le loro tutele". Genova: detenuti psichiatrici nella Rems di Prà, la contrarietà del municipio VII ponente di Massimiliano Salvo La Repubblica, 13 febbraio 2017 Dal giorno dell’apertura della "Rems" provvisoria di Prà, ovvero una struttura che ospita pazienti psichiatrici autori di reati, nel quartiere del ponente genovese infuriano le polemiche. Nella valle del Branega è nata infatti una "Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza sanitarie", un tipo di struttura nata per sostituire gli ospedali psichiatrici giudiziari. Nonostante l’annuncio della Regione Liguria risalga all’autunno scorso - quando c’è stato un sopralluogo dell’assessora regionale alla sanità, Sonia Viale, insieme al commissario nazionale per il superamento degli Ospedali psichiatrici giudiziari, Franco Corleone - municipio e abitanti non si danno per vinti. "Siamo nettamente contrari a questa iniziativa", chiarisce il presidente del municipio VII ponente, Mauro Avvenente. "Non siamo sfavorevoli dal punto di vista ideologico, sia chiaro, ma non capisco il senso di mettere una struttura del genere in un luogo disagiato, su una collina franosa e difficilmente raggiungibile. Oltretutto in un territorio che sta ancora aspettando dalla Regione servizi altrettanto necessari e molto più richiesti dalla popolazione ponentina, come una struttura da dedicare ai malati terminali di tumore". La fondazione Primavera, editore della rivista praese Supratutto, segnala al municipio una valanga di telefonate di protesta e ricorda come "non accenni a diminuire l’abitudine di appioppare a Prà qualsiasi servitù sgradita nelle altre località". La Rems di Prà sarà in via Fedellini, all’interno di una struttura utilizzata sinora come luogo di cura per pazienti con gravi patologie psichiatriche, Villa Caterina; la gestione sarà affidata sempre alla cooperativa "Il Crogiuolo" del Gruppo la Redancia. Questo non basta per placare il malumore di municipio e abitanti. L’assessora regionale alla sanità Sonia Viale rigetta ogni critica, a partire dal non coinvolgimento del municipio nel processo decisionale. "Si tratta di un’iniziativa ministeriale e della Regione, su input del Governo", spiega l’assessora Sonia Viale. "Non c’è stato un tavolo di discussione con il territorio perché in questo caso non c’era la possibilità per Comune e municipio di intervenire". Sul timore diffuso che la misura sia definitiva, Sonia Viale ribadisce che "la Rems di Prà sarà provvisoria, come già detto lo scorso autunno". Proprio lunedì 6 febbraio a Calice al Cornoviglio, nello spezzino, è stato consegnato il cantiere al vincitore dell’appalto per la realizzazione della prima Rems ligure. "I lavori dureranno 370 giorni", spiega Viale. Per più di tredici mesi - se non ci saranno intoppi con i cantieri - la Rems di Prà sarà quindi operativa. Restano i timori dal punto di vista della sicurezza ad attanagliare gli abitanti di Prà, soprattutto sui social. Anche su questo punto vista Sonia Viale intende fare chiarezza. "Abbiamo fatto un accordo con la prefettura per rafforzare il sistema di vigilanza. Non ci sarà una presenza fissa delle forze dell’ordine ma un collegamento stretto con la centrale operativa: le volanti passeranno regolarmente a verificare la zona". Modena: quel pezzo di città chiamato carcere di Vittorio Reggiani notemodenesi.it, 13 febbraio 2017 Compie trent’anni l’associazione "Carcere-città". A distanza di tanto tempo (e tanto lavoro) gli obiettivi - ci spiega Paola Cigarini, referente dell’associazione - restano sempre gli stessi: fare del detenuto una persona responsabile; far recuperare questa dimensione come base delle azioni che si compiranno dentro e fuori dal carcere. Paola inizia a parlare come se stesse riprendendo un discorso interrotto, un argomento momentaneamente lasciato lì e che, ora, continua da dove aveva smesso. Il carcere non è una parte di qualcosa, è il qualcosa, cioè la preoccupazione principale di una giornata che sta già finendo, ma che ancora ha spazio per qualcosa. "Alle 8 stasera devo andare a un phone center e chiamare un parente di un detenuto, per una transazione di soldi, 40 euro e non più 45, perché nel conto ne ha soli 43. Chiamo e dico loro di aspettare quella cifra". Poi forse questa giornata finirà o forse avrà semplicemente una pausa sonno. La giornata, in effetti, è iniziata nel 1987. Paola Cigarini e un gruppo di altre persone erano cittadini senza problemi diretti con la tossicodipendenza, ma curiosi di capire le ragioni di un problema che stava devastando tante vite. Inoltre, proprio in quegli anni, dilagò l’AIDS e diventava ancor più pressante fare qualcosa. "Un giorno leggiamo sul giornale "morto per overdose in carcere" e siamo rimasti stupiti. Ma come fa uno a morire di droga in carcere? ci chiedevamo nella nostra più completa ingenuità. Il carcere è un luogo chiuso, impermeabile, quindi protetto. Decidiamo allora di entrare in carcere. E nasce Carcere-città" La parola è una sola e il trattino serve per sottolinearlo. Il carcere è l’altra faccia della mela che è la città. Non è un luogo a parte, isolato e che non c’entra niente con case, strade, parchi e coloro che li vivono. Il gruppo inizia un intenso lavoro di domande, alle quali cercano risposte. Raccolgono questa curiosità gli allora parlamentari Luciano Guerzoni e Maria Teresa Granati. Paola si fa passare come portaborse del primo e lo accompagna nel carcere; mentre insieme alla Granati c’era una giornalista dell’Unità. La prigione a Modena era ancora Sant’Eufemia, in pieno centro. Però restava un luogo impenetrabile. Si potevano vedere le guardie entrare ed uscire, oppure qualche parente che parlava con un detenuto urlando dalla strada alle finestre. Ma restava un fortino ben chiuso. E di ragioni ce n’erano. Poi il carcere è spostato a Sant’Anna e questo diventa un problema. Perché se gli edifici diventano migliori per le loro funzioni, la posizione è davvero infelice. I detenuti hanno parenti che spesso si spostano con i mezzi pubblici. Il capolinea dell’autobus è davvero lontano e i passaggi sono rari. Carcere-città cerca, allora, di mantenere un ponte tra le due realtà. "Il lavoro che facciamo - spiega Paola - è innanzitutto un’attività di ascolto. La relazione di aiuto è lo strumento per sostenere il detenuto e per aiutarlo a mantenere relazioni con le poche realtà che gli stanno intorno: i parenti, gli avvocati, gli educatori del carcere… Poi cerchiamo di organizzare delle attività che possano lasciare qualcosa. Facciamo attività culturali, curiamo con i detenuti il giornalino del carcere, abbiamo corsi di sostegno scolastico per la sezione dei "protetti", guidiamo gruppi al femminile, portiamo in carcere studenti o autori che aiutino i detenuti ad avere momenti costruttivi e interattivi". L’associazione Carcere-città ha allestito uno spazio che si chiama Ulisse, nel quale possono andare i detenuti e passare delle ore fuori dalla cella, non da soli né in ozio. Le attività, oltre quelle già dette, sono le più varie. Lo scopo è quello di intrecciare una relazione che poi possa affrontare i problemi della persona, del suo periodo in carcere e, soprattutto, dell’uscita. Paola continua il suo racconto, come un torrente in piena, che cerca di trasmetterti tutta la freschezza di cui è portatore. "Oggi è più difficile. Sono aumentati i tossicodipendenti, i clandestini e gli stranieri in genere. Questi ultimi sono il 60% a Sant’Anna. Cosa possiamo fare per loro che, quando escono, spesso non hanno dove andare? Come costruire qualcosa che resti nel tempo? Molte volte non restano neanche a Modena o sono costretti a spostarsi". Il lavoro di questi volontari diventa allora frustrante, perché privo di prospettive. Invece, trovano sempre qualcosa che abbia almeno la promessa di un risultato di lunga durata. Innanzitutto, il tema filo conduttore dell’approccio al carcere e ai detenuti fin dalla nascita dell’associazione: la responsabilità. "È il tema costante che noi proponiamo, attraverso qualsiasi forma. Basta piangerti addosso, basta lamentarti del destino! C’è una responsabilità nelle cose che hai fatto che va affrontata e imparata. Per viverla dopo. Una responsabilità verso le leggi, verso te stesso e la tua famiglia. Questa è una presa di coscienza necessaria, perché non può essere tutto frutto del caso. Ma c’è anche - continua Paola - una responsabilità della città, che ti deve riconoscere e accogliere di nuovo. Ci sono tanti modi per portare a questa consapevolezza. Tra poche settimane partirà un corso di scrittura creativa, tenuto da un professionista. Vi parteciperanno 7 detenuti e 7 persone da fuori. Sono tutti padri e saranno tutti studenti del corso. La paternità è il tema uguale per tutti e la loro creatività e il confronto di averla fatta emergere insieme porterà loro ad una riflessione comune sulla responsabilità di essere papà". Paola continua il racconto della attività dell’associazione, zigzagando apparentemente da un discorso all’altro, ma tornando poi sempre a questo grande pensiero che la sua associazione ha: fare del detenuto una persona responsabile; far recuperare questa dimensione come base delle azioni che si compiranno dentro e fuori dal carcere. Il tutto con questa azione costante di relazione, "segui queste persone e porti loro anche buone notizie. Questa è una piccola luce nel buio nero come la peste che è ancora il carcere". Ma allora, Paola, perché siete andati proprio in carcere? "Il carcere è un luogo ipnotico, ci ha conquistati, quando vi siamo entrati per sana curiosità. Oggi ci vogliamo portare dentro la città e vogliamo portare il carcere in città. Sai? Io penso che la pena dovrebbe essere scontata nel territorio, perché solo l’incontro con la vita reale apre una nuova strada. Come fa uno che non ha mai vissuto nella realtà, per droga o reati, ad entrare nella società e saltarci fuori? Almeno diamo loro il senso di responsabilità, È un obiettivo davvero importante per Carcere-città, che traccia ogni altra iniziativa." Il gruppo di carcere-città, che a Sant’Anna collabora anche con le altre due associazioni presenti Porta Aperta e Rinnovamento dello Spirito, è composto da una dozzina di persone. Le attività sono sostenute da € 4500 di finanziamento annuo del Comune, una cena di autofinanziamento e richieste a vari amici. Cercate volontari? "Noi cerchiamo persone che abbiano una dote che vogliano portare in carcere e metterla a disposizione; cerchiamo persone che ci aiutino nell’accoglienza e nei momenti dei colloqui tra il detenuto e la sua famiglia, perché ci sono spesso dei bimbi e questi un po’ partecipano al colloquio, un po’ vanno tenuti mentre continua la mamma a farlo. La relazione con i detenuti è, invece, più difficile, Occorrono persone mature e con molto tempo disponibile. Soprattutto persone curiose, con una sana curiosità". Paola Cigarini non mi congeda, ma si capisce bene che ci sono ancora alcune cose da fare prima di rientrare. Il carcere è davvero una parte importante di questa persona, che lavorava alla SIP, che oggi chiamiamo Telecom, che oggi è in pensione dall’azienda telefonica, ma è per molto tempo nel carcere di Sant’Anna. "Non ci sono solo io, scrivilo. Siamo 12 e tutti facciamo a proprio modo le cose che ti ho raccontato". Dodici persone che fanno da ponte tra due luoghi, entrambi chiusi, entrambi da aprire di più. Trapani: "La libertà è un libro" per i detenuti del carcere di San Giuliano di Audrey Vitale itacanotizie.it, 13 febbraio 2017 Seduti in cerchio a parlare di libertà, dolore, di speranze e affetti. Una ventina di persone ascoltano e commentano libri, articoli, poesie esprimendo il proprio pensiero e confrontandosi. No, non è un appuntamento del circolo di lettura locale, ma un laboratorio rivolto ai reclusi nel carcere trapanese di San Giuliano, reso possibile grazie all’attività di volontariato della giornalista Ornella Fulco e della psicologa Fabrizia Sala. Oltre i pregiudizi, oltre i reati commessi, qui si lavora sulle anime, sulle prospettive di una vita migliore, con il confronto ma anche il semplice intrattenimento attraverso la letteratura, la scrittura creativa e il dialogo. Si tratta di un percorso che ormai va avanti da quattro anni, svolto in maniera costante e "cocciuta" dalle due volontarie che, una volta a settimana, attraversano i numerosi cancelli e i lunghi corridoi per giungere nell’aula polifunzionale della struttura e parlare insieme ai detenuti di Neruda, Socrate, Foucault, Antoine de Saint-Exupéry o Buzzati. "Qui abbiamo poche regole - dice Fabrizia Sala ai nuovi arrivati nel gruppo - la riservatezza, la non aggressione e l’invito alla parola e all’ascolto". E la voglia di parlare ed esprimersi non manca affatto: c’è chi fa domande sugli autori, chi esterna le proprie considerazioni sui temi del giorno (la libertà, gli affetti, il tempo, l’isolamento, la paura, sono fra i più ricorrenti), chi racconta esperienze di vita. "La libertà è un libro" - questo il nome del laboratorio - è una finestra sul mondo per molti partecipanti, abituati a vivere l’esperienza totalizzante del carcere. Libri, poesie, musica e incontri con "esperti esterni" caratterizzano l’iniziativa, nata in silenzio e cresciuta negli anni per "portare la società dentro il carcere e portare il carcere fuori, nella società" come dicono le volontarie. Nessuno fa domande dirette sui reati commessi "non ci interessa sapere perché i detenuti si trovano qua - afferma Ornella Fulco - ci interessa l’essere umano e, in una realtà dove l’uomo rischia di appiattirsi nei suoi bisogni primari (mangiare, dormire e poco altro), tentiamo, con accortezza, di stimolare le persone a riacquistare fiducia nel prossimo, impegnarsi nelle attività culturali, ottenere un riscatto rimediando ai propri errori. Molte persone non vedono di buon occhio le attività di volontariato in carcere… io invece penso che l’insofferenza per chi ha commesso degli errori sia solo un alibi, un modo per girarsi dall’altra parte". Attualmente sono circa 515 i detenuti al "San Giuliano", fra questi 130 sono stranieri. Alcuni hanno un livello molto basso di alfabetizzazione e la comunicazione si limita ad esigenze di prima necessità. Qui non esiste il superfluo e chi non può permettersi nulla non ha nulla. Un’associazione di volontariato, legata alla Caritas locale, distribuisce abiti e beni primari a chi ne ha bisogno. Il carcere, aperto nel 1965, nel corso degli anni ha avuto non pochi problemi strutturali che hanno comportato la chiusura di alcune zone per inagibilità. Di recente alcuni detenuti sono stati trasferiti nel nuovo padiglione, inaugurato pochi mesi fa. Nell’Istituto di pena sono previste attività sportive, religiose, corsi di alfabetizzazione e ci sono anche le succursali di due istituti superiori, l’Alberghiero e l’Istituto Tecnico Commerciale. "È difficile misurare il livello di riabilitazione del condannato una volta reimmesso nella società - afferma il direttore della Casa circondariale Renato Persico che, insieme al comandante della Polizia Penitenziaria, Giuseppe Romano, ha sostenuto negli anni il laboratorio di lettura - è un processo lungo e difficile, che dipende da vari fattori. C’è chi continua a commettere reati e chi, invece, intraprende un percorso di legalità. Accogliamo con grande favore questo genere di iniziative, che rappresentano un forte elemento espressivo, utile alla riabilitazione". Gli scandali e i successivi provvedimenti regionali che hanno coinvolto il mondo della formazione in Sicilia hanno, di fatto, bloccato altre attività in carcere, volte a dare ai detenuti elementi base per l’inserimento lavorativo una volta fuori. "Fortunatamente - aggiunge Persico - il prossimo 20 febbraio ripartiremo con nuovi corsi di formazione che riguarderanno le attività di falegnameria e ceramica artistica, carpenteria, agricoltura e giardinaggio ma anche informatica e cucina. Cerchiamo di fornire strumenti espressivi e pratici - con tutti i limiti del caso - per dare nuove possibilità di vita a queste persone". Livorno: rugby, storia e cronaca della palla ovale al carcere di Porto Azzurro di Rita Caridi sportfair.it, 13 febbraio 2017 Casa di reclusione di Porto Azzurro, isola d’Elba. È un penitenziario storico, già forte spagnolo del 600. Ospita detenuti cosiddetti "comuni", non legati quindi a criminalità organizzata, ma con condanne medie e lunghe per reati seri, gravi e gravissimi. Struttura con tanti spazi e potenzialità, ha vissuto anni di sviluppo importanti mezzo secolo fa, per poi gradualmente decadere e degradarsi. Dei tempi fausti, quando c’erano lavorazioni artigianali e industriali, quando fu introdotto il liceo scientifico e il polo universitario con lezioni di pomeriggio perché tutti i detenuti il mattino erano impegnati in attività lavorative, rimane solo qualche traccia e la speranza che si possa riprendere a proporre a chi è recluso delle possibilità di messa alla prova per dimostrare a se stessi e alla società che cambiare, in meglio, è sempre possibile. Lavoro, istruzione, cultura, spiritualità, arte, sport: ecco gli strumenti (non sempre disponibili e non tutti adatti per tutti) che ogni persona detenuta può utilizzare per costruirsi u presente e un futuro. Il campo sportivo è piccolo e brutto, a calcio non ci si gioca che al massimo sette contro sette. Terra, polvere, buche e tanti sassi. I palloni da calcio hanno tutti il triste destino di finire trapassati dal filo spinato in cima al muro o dispersi tra campagna e scogli verso il mare. Nel 2010 altri sport non se ne fanno, solo calcio autogestito dai detenuti, sorvegliati dagli agenti dal muro di cinta. 2010-2011: per iniziativa di un funzionario educatore, Paolo Maddonni, introduzione dell’attività del rugby nella Casa di Reclusione, nonostante le perplessità di responsabili e di altri operatori. Si firma una convenzione con la società sportiva Elba Rugby che prevede un allenatore volontario per andare in carcere una volta la settimana, il giovedì dalle 13:00 alle 15:00. I partecipanti sono circa 20, originari di Italia, Albania, Romania, Marocco, Ucraina, Tunisia, Colombia, Uruguay. Occasionalmente si organizzano incontri tra i detenuti e selezioni di squadre esterne, Elba Rugby ed Etruria Rugby Piombino. Quattro detenuti, dopo qualche mese di attività, accettano di trasferirsi al carcere di Torino, selezionati per far parte della "Drola", squadra di detenuti che milita nel campionato di C2. 2012-2013: Il rugby è ormai un’attività stabile e accettata. Il numero dei partecipanti aumenta fino a 30-35, e si aggiungono nuove nazioni: Nigeria, Germania, Moldova, Egitto. La convenzione con l’Elba Rugby si amplia: c’è la possibilità per quei detenuti che seguono l’attività con buna predisposizione e con un percorso personale di detenzione positivo e con garanzie di recupero sociale di andare tre volte la settimana a Portoferraio al campo dell’Elba Rugby per allenarsi con la squadra esterna e per adoperarsi come volontari per pulire il campo e gli spogliatoi, sistemare il materiale per gli allenamenti dei più piccoli, aiutare al bar. Prima uno, poi due detenuti vengono ammessi, con ottimi risultati, a questa esperienza. Il 12/09/2013 Alessandro Troncon ex nazionale e icona del rugby italiano viene in visita al carcere, invitato dai referenti della Federazione e del Comitato Toscano e, oltre a incontrare detenuti e invitati, si presta ad arbitrare delle partite e anche a entrare in gioco. 2014-2015: Variano i partecipanti, in carcere si entra e si esce più spesso di quanto non si pensi. L’allenatore è sempre lo stesso, Marcello Serra, così come lo spirito ormai consolidato del progetto. Si fatica a trovare sbocchi in partite con squadre esterne, evento che sempre motiva di più i detenuti, pur sapendo che si tratta di partite "mozze": sette contro sette, campo corto e stretto, niente "H". Però quando ci si riesce, è una festa, con il "terzo tempo" preparato in cella e offerto dai detenuti stessi. Inizia la collaborazione con l’associazione benefica Amatori Rugby Toscana, che sostiene il progetto con materiale e risorse. I giocatori-volontari che vanno all’esterno sono ben tre: uno avrebbe la stoffa per entrare nell’agonistica, ma poi, per una sciocchezza, perde la strada. Un altro, giovane tedesco, chiede e ottiene di tornare a scontare la pena in Germania vicino alla famiglia. Un anno dopo, la Federazione tedesca del rugby chiederà di certificare questa sua esperienza per poterlo avviare alla pratica agonistica e a un corso per allenatore. Il terzo, un tempo acrobata in un circo ma ormai decisamente fuori forma, si dedica sempre di più al volontariato nel bar e per il terzo tempo la domenica: fa pratica per un mestiere che si troverà in un ristorante qualche mese dopo, scontata la pena. Esce il libro "Per la libertà. Il rugby oltre le sbarre", di Antonio Falda. L’autore è venuto a Porto Azzurro nei mesi precedenti per interviste e racconti, e anche questo progetto è tra quelli riportati nel libro. A giugno l’intera squadra Under 18 dell’Appia Rugby Roma viene all’Elba per incontrare in amichevole prima i coetanei dell’Elba Rugby a Portoferraio e poi i detenuti a Porto Azzurro, che hanno chiamato la propria squadra "Game over". 2016-2017: Nuovi arrivi e partenze. Il carcere è ora per fortuna meno affollato, anche i rugbisti diminuiscono. Amichevole a Porto Azzurro con una selezione degli Old di Pisa, i Rinocerotti. Viene organizzata l’uscita più consistente finora realizzata: sette detenuti sono autorizzati a recarsi al campo dell’Elba Rugby per un allenamento comune. Un albanese ormai senior è l’atleta-volontario detenuto in forza all’esterno per l’Elba Rugby. A settembre viene sostituito da un robusto giovane tunisino che ha scoperto il rugby in carcere e se n’è innamorato. Si fa la scelta di accelerare i suoi tempi di ammissione alla prova perché se ne intravedono le potenzialità sportive e umane. Viene tesserato dall’Elba Rugby e a novembre debutta nella gara interna contro il Cecina in C1: è il detenuto che gioca in Italia nella più alta categoria. Lui e altri tre detenuti sono autorizzati dal magistrato a recarsi in permesso premio, invitati dalla Federazione Italiana Rugby, a Roma per vedere la nazionale impegnata l’11 febbraio 2017 nel Torneo delle Sei nazioni contro l’Irlanda. Alberto Matano: "dagli innocenti finiti in cella ho capito il valore del dubbio" di Cristina Lodi Libero, 13 febbraio 2017 "Chiunque può ritrovarsi in carcere senza colpa: perdi lavoro, famiglia e amici. Ho imparato a essere molto più garantista". Storie di innocenti incarcerati. Gente senza colpa alla quale viene rubata la vita per mesi, anni, decenni o pochi giorni. E che sconta la detenzione in cella per un errore, una indagine male direzionata o per l’ostinazione cieca della Corte. Vittime riconosciute tali soltanto per caso. Oppure grazie alla loro caparbietà nell’affermare che lo sono. Vittime che decidono di raccontarsi, consegnando alla telecamera la loro storia inimmaginabile per quanto assurda. Possiamo ascoltarli e vederli, questi innocenti: in prima serata su Rai3 (21e10). Conduce (magistralmente) Alberto Matano. Con garbo e coraggio il giornalista del Tg1 sa calarsi nel girone infernale di ognuno. E dentro il quale chiunque potrebbe essere di colpo catapultato. Matano, è forse per questo che "Sono innocente" interessa? "Vanno in onda le storie di tante persone comuni, quasi tutte incensurate e che senza avere fatto nulla di male, una mattina vengono arrestate. Raccontano le paure vissute e descrivono il senso d’impotenza. Sono sensazioni intense, talvolta disarmanti. Ciascuna puntata dà spazio a due vicende scelte fra migliaia. L’impiegato, lo stilista, l’architetto, il benestante, il non abbiente o il più dimenticato. Facile immedesimarsi con loro, perché le loro esperienze drammatiche quanto imprevedibili potrebbero capitare a tutti senza distinzione. Noi compresi". Oltre a sentire i parenti delle vittime, i loro avvocati piuttosto che altri soggetti coinvolti, dedichi spazio alle ricostruzioni. Accurate e aderenti ai fatti accaduti. "Si tratta di vicende giudiziarie articolate e impetuose, che per essere meglio raccontate richiedono di essere ripercorse e ricostruite fedelmente. Molti dei casi affrontati hanno fatto rumore e catapultato le persone coinvolte dentro i telegiornali e nei titoli dei giornali. Ecco, allora, l’esistenza che viene improvvisamente stravolta, distrutta. Insieme con quella dei parenti delle vittime stesse. Ogni volta viene ricreato un contesto identico a quello in cui i fatti sono realmente accaduti. Gli attori arruolati sono bravissimi e vengono intervallati dalla voce, preziosa, dei reali protagonisti. I loro occhi, le loro emozioni e loro verità fanno il resto". Gli errori giudiziari mandati in onda, ma "Sono innocente" è anche una finestra spalancata sul carcere. "Gli innocenti ingiustamente reclusi, documentano quanto possa essere spaventosa la vita oltre le inferriate, cosa siano il 41 bis e la cruda realtà del carcere duro. Ne esce uno spaccato veritiero quanto dirompente sulla spietata legge della cella: le prevaricazioni, la violenza psicologica e qualche volta anche quella fisica. Al tempo stesso emerge anche l’altra faccia, inaspettata e straziante. È quella della solidarietà e delle relazioni umane fra detenuti che, pur non avendo niente, si aiutano. Incoraggiandosi a vicenda. Li scopri scambiarsi il cibo o magari a strappare dal suicidio il compagno che si sente perduto. E proprio là, dov’è rinchiusa l’umanità giudicata peggiore, salta invece fuori quella migliore. La maggioranza di questi innocenti, una volta scagionati e liberati, fuori dalla prigione non hanno più nulla. Chi ha perso il lavoro, chi la famiglia, gli amici, i figli. E chi a questi figli, nonostante tutto e con soli duecento euro al mese guadagnati con qualche lavoretto, continua a pagare l’affitto". Ti emozioni quando conduci? "Sì. Racconto la vita di queste persone, impossibile restare indifferenti. O non essere partecipi del loro dolore, di quel punto di non ritorno che viene toccato e della speranza che sembra perduta. Per questi soggetti c’è anche il dopo: cioè il riconoscimento dell’innocenza. Ché un’altra pagina molto difficile". Perché? "Molti aspettano anni prima che l’errore commesso nei loro confronti venga riconosciuto, che il processo per l’assoluzione sia celebrato e l’indennizzo riconosciuto. Una volta uscito, qualcuno, scopre di avere perso tutto: il lavoro, gli affetti e gli amici. Per non parlare del sospetto: uno spettro per tanti destinato a non andare più via. Impossibile non condividere. Forse a casa, il pubblico di "Sono innocente", scopre una parte di me fino a prima sconosciuta". Perfino per Alberto Matano stesso? "Anche per lui. Non c’è dubbio". Il tema del programma non è una novità ma un classico; però il linguaggio usato per raccontarlo è un esempio di televisione civile. Nessun sensazionalismo. Niente clamore. È il servizio pubblico propriamente inteso? "Quando Daria Bignardi mi ha chiamato pensando la sua Raitre, aveva già tutto chiaro in testa: raccontare la realtà con rispetto e senso di responsabilità. Questa la missione. La ringrazio per avermi dato l’opportunità di portare avanti questa grande sfida. Ci sono casi in cui la realtà è già di per sé talmente forte e penetrante da non richiedere di essere ulteriormente calcata. Basta raccontarla in modo autentico e veritiero. "Sono innocente", lontano dalla spettacolarizzazione è il racconto di esperienze di vita fatto in prima persona dai diretti protagonisti. Loro si descrivono, io qualche volta oltre ad ascoltarli (lo confesso) con loro interagisco". Un’esperienza viva?. "Non solo. Ammetto: le loro storie hanno in qualche modo cambiato il modo di vedere le cose". In che senso? "Mi hanno insegnato a considerare l’esistenza del dubbio. Presto più attenzione alla possibilità che ci sia un’alternativa. Ho imparato quanto sia importante ascoltare meglio tutte le voci, più volte. Sono diventato più scrupoloso. Due storie pazzesche. Isola d’Elba: Sandra Maltinti, 61 anni, architetto, viene portata in cella nel 2004 per tangenti, quando è a capo dell’ufficio tecnico di Portoferraio. In casa, al momento dell’arresto ci sono il marito e tre figli, tra cui Sofia che ha 12 anni. Viene assolta nel 2008. Colpisce la sua reazione, dopo: è incapace di riaffrontare il mondo esterno. Per quei 72 giorni passati ingiustamente in prigione e la vita distrutta, Sandra non ha ancora visto un centesimo. Giuseppe Giuliana, invece, è un bracciante agricolo di 50 anni. Viene accusato di omicidio nel 1994. Ha un alibi di ferro, ma questo non viene considerato. Sconta 5 anni e 29 giorni. Nel 2002 ottiene la revisione del processo. Il risarcimento arriva soltanto nel 2014. Quando esce di cella, la prima cosa che chiede è un Campari. "Può sembrare banale", racconta quest’uomo "ma quando esci di lì non sai più cosa sia la vita e da dove puoi ricominciare". Tu invece tornerai al Tg1? Alla conduzione delle 20 e degli Speciali sui grandi fatti in diretta? "Il Tg1 resta la mia casa. Tengo molto alle conduzioni del telegiornale e degli Speciali in diretta. Il nostro Tg vanta una squadra di giornalisti preparatissimi e pronti ogni minuto ad andare sui fatti, per raccontarli nel modo più esauriente e scrupoloso. Il pubblico a casa è molto esigente e apprezza. Mario Orfeo alla direzione ha segnato una svolta. L’impulso è stato recepito e il telegiornale ha recuperato la leadership". Migranti. Sindaco Pd chiude strada per impedire nuovi arrivi, poi l’accordo di Dario Del Porto La Repubblica, 13 febbraio 2017 A Vitulano un camion scarica terra sulla via di accesso ad un agriturismo. Il primo cittadino: "Nel Sannio: fieri di ospitarne già 30. Salvini vuol venire? Non c’è bisogno". Per impedire l’arrivo di nuovi immigrati nel suo paese, un sindaco ha chiuso la strada con un’ordinanza e ha fatto scaricare una massa di terra per bloccare l’unica via d’accesso alla struttura ricettiva. Ma dopo alcune di polemiche, arriva l’accordo: la prefettura chiude il centro, non arriveranno altri rifugiati, e, di fatto, l’ordinanza decade. È accaduto a Vitulano, in provincia di Benevento, dove il primo cittadino, Raffaele Scarinzi, afferma: "Con gli immigrati bisogna che lo Stato rispetti i patti e le regole con gli enti locali. I comuni che già ospitano uno Sprar non possono ospitare altre strutture per immigrati gestite da privati". Vitulano ha già un Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati ma nei giorni scorsi, dopo la chiusura di un altro centro in periferia di Benevento, era stato disposto dalla prefettura il trasferimento di altri 34 migranti. I rifugiati avevano protestato perché a loro avviso la sistemazione non era adeguata. Ma anche i cittadini di Vitulano avevano contestato la scelta di destinare altri migranti in paese. Così il comune è intervenuto con l’ordinanza sindacale che è stata eseguita scaricando una massa di terra sull’unica via di accesso - la strada comunale Castello /Arnara - alla struttura ricettiva. "Ma dopo un’ora l’abbiamo tolta - dice a Repubblica Scarinzi - saranno stati non più di 30 centimetri di terreno. Chi parla di muro commette un errore. Qui non si alzano muri, era solo un modo per far capire che c’era un’ordinanza da rispettare". La terra che impediva il passaggio per motivi di sicurezza - sia per i danni dell’alluvione del 2015 sia per l’andirivieni continuo di mezzi - è ora accumulata sul ciglio della strada e le transenne sono stata spostate. In serata la prefettura di Benevento ha comunicato che la struttura ricettiva è stata chiusa e che dunque a Vitulano non saranno alloggiati altri migranti. Questo significa, spiega il sindaco, che di fatto l’ordinanza, "che era stata adottata perché la strada non era idonea a reggere il traffico ulteriore determinato dalla presenza, oltre che dei migranti, anche di carabinieri, operatori, volontari", non ha più ragion d’essere ed è destinata ad essere ritirata. A settembre il sindaco di Vitulano aveva guidato la rivolta dei comuni virtuosi che aderiscono alla rete Sprar, facendo integrazione e accoglienza, ma poi senza essere interpellati si trovano sul proprio territorio altre decine di migranti in strutture temporanee prefettizie. "Siamo ormai degli incubatori di rifugiati", tuonava Raffaele Scarinzi. Oggi spiega: "Abbiamo la cultura dell’accoglienza, ma deve essere sostenibile. Qui da noi i migranti stanno meglio che altrove, ma se lo Stato non rispetta i patti è legittimo protestare". E intanto interviene su Facebook il segretario della Lega e presidente NcS Matteo Salvini: "Il sindaco di Vitulano (Benevento) ha chiuso una via comunale, facendo scaricare una massa di terra per bloccare la strada, per evitare l’arrivo di nuovi immigrati previsto dalla prefettura. Per qualche buonista ha sbagliato, per me ha fatto bene! Il sindaco è del Pd: razzista, populista e leghista anche lui? Comunque sarò appena possibile a trovare i cittadini di Vitulano". Il sindaco Scarinzi replica: "Lo ringrazio dell’attenzione, ma penso che non ci sia bisogno della sua visita su questa questione specifica. Se poi ci vuole venire a trovare, sarà nostro gradito ospite". Migranti. Tra i guardacoste libici: "pochi mezzi, ma proviamo a fermarli" di Francesco Semprini La Stampa, 13 febbraio 2017 Nella base di Tripoli: "Fiduciosi dell’aiuto italiano. Ora non riusciamo a controllare neanche il terreno". Centralità dell’intesa Italia-Libia, rafforzamento della sicurezza negli hub di terra, flotta differenziata, strumenti e addestramento e un’inossidabile fiducia nel futuro. Sono questi i pilastri del rilancio della lotta al traffico di esseri umani alla luce delle recenti intese raggiunte dal governo di Tripoli con l’Italia e l’Europa. Accordi quadro sulla cui attuazione entrano in gioco una serie di variabili, per capire le quali ci rechiamo da chi è impegnato in prima linea su questo fronte, la Guardia costiera libica. L’appuntamento è alla base di Abu Sitta, nota ai più per essere diventata il luogo simbolo della svolta politica libica, il punto di approdo di Fayez al-Sarraj, giunto nella capitale via mare all’inizio della scorsa primavera per guidare il Consiglio presidenziale del governo di accordo nazionale targato Nazioni Unite. Ad accoglierci è Ayoub Omar Ghasem, la voce delle forze navali libiche che vigilano sulle coste occidentali del Paese, da Sirte sino al confine con la Tunisia, suddivise in tre settori di competenza ben distinti. Si tratta di un’area ad alta intensità di traffici, il cui epicentro è ad Ovest, da Tripoli a Sabratha passando per Zawia. Ghasem lo indica su una grande mappa distesa sul tavolo per le conferenze nel suo immenso ufficio, prima di mostrarci alcuni filmati: "Siete i primi a vederli", sottolinea il comandante. Si tratta di video girati in navigazione durante l’intercettazione di imbarcazioni cariche di migranti, che hanno lasciato le coste libiche diretti verso l’Italia. "Guardate, queste sono le condizioni in cui operiamo", chiosa l’ufficiale. Parte da un antefatto, la guerra del 2011: "I bombardamenti della Nato hanno polverizzato la flotta navale libica", e quindi anche le motovedette che Gheddafi aveva varato per contrastare i traffici di migranti in base agli accordi del 2008. Ad oggi le forze costiere possono contare su piccole imbarcazioni e un paio di unità più grandi per le rotte di altura. "Abbiamo gommoni adattati al pattugliamento che possono portare 18-20 persone al massimo - spiega l’ufficiale - sono più piccoli dei natanti usati per le traversate". E questo costringe a improbabili operazioni di recupero da parte dei guardacoste, costretti a prendere a bordo più clandestini di quanti sia possibile durante il soccorso, e compiere più viaggi verso la riva. O avventurarsi in pericolose operazioni di traino con il rischio di ribaltamento dei gommoni stracarichi di disperati. A volte invece le stesse guardie sono oggetto di aggressione degli scafisti, che tentano di sottrarre le imbarcazioni e proseguire la rotta verso le acque internazionali. Il comandante ci mostra un filmato nel quale in un’operazione sola sono stati fermati sette gommoni, ognuno dei quali aveva a bordo almeno 115 persone. Si tratta di natanti che a volte sono abilitati a non superare le 5 miglia marine. Quando i barconi vengono intercettati si informa subito il "Department for combating illegal migration" (Dcim) l’ente addetto a investigazione, intercettazione, arresto, detenzione e rimpatri dei migranti irregolari che dipende dal ministero degli Interni, a differenza della Guardia costiera che fa capo alla Difesa. "Si comunica il numero dei migranti e alcuni dettagli fondamentali, poi si aspetta il loro arrivo per la traduzione nei centri di detenzione". L’attesa dipende dalle contingenze del momento, talvolta passano alcuni minuti, qualche volta ore, "a volte è capitato di attendere anche un giorno perché le condizioni di emergenza non rendevano possibile un intervento tempestivo". "È capitato qualche volta che qualcuno scappasse, e la mancanza di presidi sulla costa rende impossibile accoglierli in strutture adeguate, e talvolta non c’è la possibilità di dargli da mangiare perché mancano i fondi". A volte è la gente del posto che si prende cura dei migranti in attesa, dando loro da mangiare e da bere. Ancor prima che in mare infatti i problemi sono sulle coste, come spiega Ghasem: "La sezione occidentale, quella a più alta concentrazione di traffici, ha diversi presidi, come Zawia e Sabratha, ma molti non sono operativi a causa della mancanza di mezzi e di fondi. Il comandante spiega che formazioni armate e trafficanti sono diventate più forti e minacciano le stesse forze della guardia costiera: "Il principale supporto inizia sul terreno ancor prima che in mare". Gli scafisti quasi sempre sono migranti che si pagano il passaggio: "Serve un training molto limitato, una giornata di "lezioni" perché l’obiettivo è di far arrivare l’imbarcazione al massimo sino a dove si trovano le unità navali di "Sophia". La missione - spiega - paradossalmente diventa un incentivo per i trafficanti a usare mezzi sempre più precari". Nonostante i mezzi limitati le unità libiche hanno intercettato 40 mila persone in 5 anni, con un incremento nell’ultimo anno grazie agli sforzi del Gna e l’inizio dell’addestramento congiunto con i militari europei. Ma quale tipo di aiuto serve? "Occorre tutto, mezzi, strumenti, fondi, addestramento, è necessaria una flotta flessibile", imbarcazioni per l’intercettazione dei natanti più leggere e unità più grandi per riportare a terra i clandestini. Dell’ipotesi di operare congiuntamente con gli europei in acque libiche non appare molto convinto il comandante: "Chi ci dice che effettivamente il problema potrebbe trovare una soluzione? In realtà entra in gioco un fattore di immagine di "sovranità violata"". Per l’Italia certo cambierebbe, perché chi viene intercettato torna subito in Libia, ma il timore per i libici è che il loro Paese diventi un imbuto senza uscita, nel quale rimangono "intrappolati" i migranti illegali che entrano dai porosi confini del Sud. Con costi di detenzione e rimpatrio dirompenti. La domanda è pertanto d’obbligo: è fiducioso nelle intese appena siglate da al-Sarraj? "Ho fiducia nell’Italia, voi subite i danni di questi traffici tanto quanto noi. È un percorso complicato, ci vorrà del tempo, forse non tutto sarà attuato, ma con l’Italia al nostro fianco ce la faremo a sconfiggere questo flagello". Stati Uniti. Caccia agli irregolari: 3 milioni di immigrati a rischio deportazione di Elena Molinari Avvenire, 13 febbraio 2017 Retate: migliaia di fermi. Il governo ha intensificato le espulsioni di immigrati senza documenti, che coinvolgono anche persone senza precedenti penali e con figli statunitensi. Dopo la sconfitta in tribunale, Donald Trump si appresta a firmare un nuovo decreto che renda più difficile l’ingresso negli Stati Uniti ad alcune categorie di persone. Nel frattempo, il governo Usa ha già cominciato a mettere in atto un altro ordine esecutivo, con il quale il presidente Usa ha promesso di deportare tre milioni di immigrati senza documenti. Nell’ultima settimana sono state infatti "migliaia gli arresti in centinaia di raid in almeno sei Stati" da parte degli uomini dell’Immigration and Customs Enforcement (Ice). Le operazioni, che secondo le autorità sono dirette contro criminali, hanno coinvolto in realtà anche migranti irregolari senza precedenti penali e con figli in possesso di cittadinanza statunitense - un gruppo che l’Amministrazione Obama aveva protetto dall’espulsione. Il decreto del 25 gennaio scorso del nuovo capo della Casa Bianca amplia invece enormemente le linee guida inviate da Washington agli agenti dell’immigrazione sulle categorie da arrestare con urgenza. Oltre ad aver seminato paura nelle comunità di migranti, i raid hanno provocato un esodo di richiedenti asilo verso il Canada, raggiunto spesso a piedi attraversando campi innevati. Ieri il presidente Usa ha anche ribadito la sua determinazione a costruire il muro al confine con il Messico, respingendo le stime dei media che il suo costo sarà ben più alto delle previsioni della Casa Bianca. Trump ieri ha però riservato le sue più velenose invettive via Twitter alla magistratura federale, colpevole di aver sospeso il suo stop all’ingresso negli Stati Uniti dei cittadini di sette Paesi islamici e dei rifugiati. "Il nostro sistema legale è a pezzi!", ha scritto il neo-presidente. Il capo dello staff della Casa Bianca, Reince Priebus, ha insistito che un appello alla Corte Suprema resta possibile, ma il presidente si è detto impaziente di ribadire il suo bando con un nuovo decreto. Riaffiora intanto il dossier compromettente stilato dall’intelligence russa su Trump. Il fascicolo potrebbe contenere elementi credibili, stando agli investigatori americani che stanno indagando sulle 35 pagine raccolte da un ex spia britannica e circolate su Internet poco prima che il nuovo presidente si insediasse alla Casa Bianca. Secondo la Cnn, gli agenti segreti Usa hanno provato che alcune telefonate trascritte nel documento sarebbero avvenute nei giorni e alle ore citate. Non ci sono notizie sui temi discussi e neppure la certezza che Trump sia menzionato. Tuttavia, le prove nelle mani degli investigatori Usa danno alla polizia e all’intelligence americana "grande sicurezza" nella veridicità di alcuni aspetti del dossier. La Casa Bianca si è limitata a dirsi "disgustata dalle notizie false di Cnn", nelle parole del portavoce Sean Spicer. Il fascicolo descrive, oltre a comportamenti sessualmente compromettenti del magnate, anche i rapporti tra Trump e alcuni notabili del governo russo, sostenendo una diretta influenza del Cremlino sul miliardario. La decisione dei servizi Usa di rivelarne l’esistenza sia a Trump che a Barack Obama ha suscitato le ire del tycoon e una tensione mai appianata fra il nuovo capo della Casa Bianca e le agenzie d’intelligence. Malumori destinati a crescere dopo le indiscrezioni, emerse sempre da fonti d’intelligence, che Mosca starebbe valutando di consegnare Edward Snowden agli Stati Uniti come "regalo" al nuovo inquilino di Pennsylvania Avenue. Rifugiatosi in Russia, Snowden è la talpa che ha rivelato lo scandalo delle intercettazioni della National Security Intelligence (Nsa) ai danni di milioni di americani. Trump lo ha duramente attaccato in passato, definendolo un traditore e "una spia che deve essere giustiziata" Stati Uniti. Gas e sedia elettrica, in Mississippi pronti metodi alternativi per le esecuzioni di Riccardo Noury Corriere della Sera, 13 febbraio 2017 Il Congresso del Mississippi si è portato avanti il lavoro: se il protocollo attualmente in vigore per l’esecuzione delle condanne a morte tramite iniezione letale sarà giudicato incostituzionale, sarà automaticamente adottato il metodo dell’ipossia da azoto. Se pure questo sarà valutato contrario alla Costituzione, si passerà alla fucilazione tramite plotone d’esecuzione. Se ai giudici non piacesse neanche questo, sarà la volta della sedia elettrica. I parlamentari del Mississippi sanno perfettamente che le probabilità che la Corte suprema degli Usa - persino ora che è a maggioranza conservatrice - giudichi costituzionali metodi ormai non più utilizzati da anni sono scarse. Il loro obiettivo è dimostrare l’attaccamento alla pena di morte, a tutti i costi, contro quella che chiamano "l’offensiva liberal degli abolizionisti". Dal 2002 al 2012 in Mississippi sono stati messi a morte 17 prigionieri. Poi, come in altri stati degli Usa, le scorte di uno dei tre farmaci che compongono l’iniezione letale sono finite. Dopo che le principali aziende produttrici mondiali si sono dichiarate indisponibili a nuove spedizioni, oggi negli Usa non c’è più alcun protocollo compatibile con quello approvato da precedenti sentenze della Corte suprema. In molti stati, compreso il Mississippi, le esecuzioni sono state sospese non prima, però, che qua e là venissero fatti veri e propri esperimenti su esseri umani. Stati Uniti. Le guardie non la fanno uscire dalla cella, detenuta partorisce sul pavimento Il Mattino, 13 febbraio 2017 Costretta a partorire in carcere perché secondo le guardie non era vero che aveva le doglie. Jessica Preston, detenuta 27enne incinta, è stata costretta a mettere al mondo il suo bambino sul pavimento della cella. La donna, finita in carcere per un’infrazione alla guida, non potendosi permettere la cauzione stava scontando la sua pena detentiva nella Macomb County Jail a Detroil, in Michigan, quando sono iniziate le sue doglie. La condanna da scontare era di 5 giorni e proprio durante l’ultimo di detenzione la neo mamma ha iniziato ad avere le contrazioni. Quando ha chiesto alle guardie di essere portata in ospedale le agenti non le hanno creduto, così, come mostrano le immagini delle telecamere di sicurezza, ha partorito in cella. La donna subito dopo, come riporta anche il Mirror, è stata portata in ospedale ma dopo le visite e i controlli, che hanno mostrato il perfetto stato di salute di madre e figlio è stata nuovamente condotta in cella per una settimana con l’accusa di possesso di sostanze stupefacenti. Ora però è stata aperta un’inchiesta sul carcere. Stati Uniti. Detenuto da 16 mesi perché si rifiuta di decrittare i suoi hard disk di Daniele Particelli nytimes.com, 13 febbraio 2017 Un ex sergente della polizia di Philadelphia, Francis Rawls, è detenuto legalmente ormai da 16 mesi perché continua a rifiutarsi, nonostante l’ordine di un giudice, di permettere alle autorità di accedere al contenuto di due hard disk di sua proprietà confiscati durante un raid. L’uomo è sospettato di aver collezionato del materiale pedopornografico e le prove del suo coinvolgimento, secondo gli inquirenti, sarebbero contenute proprio in quei due hard disk, criptati col software FileVault di Apple. Il sequestro è avvenuto nel settembre 2015, nel corso di un’operazione di polizia scattata al termine di una delicata indagine incentrata proprio su Francis Rawls. Le autorità di Philadelphia sono certe che in quei due hard disk si trovi un ricco archivio di immagini che servirà a incriminare e condannare l’ex poliziotto, ma fino a quando i due hard disk non saranno decrittati non si potrà procedere con la formulazione delle accuse. L’uomo non ha ceduto nemmeno davanti all’ordine del giudice, che ha così disposto la sua detenzione fino a quando non adempirà a quanto richiesto. Di fatto l’ex poliziotto è detenuto senza alcuna accusa e, almeno in teoria, potrebbe restare dietro le sbarre a tempo indeterminato. Al momento, infatti, la Corte Suprema degli Stati Uniti non si è mai ancora espressa sulle questioni riguardanti la decrittazione di un qualsiasi tipo di dispositivo e non esistendo un precedente di questo genere il caso di Rawls si trova in una sorta di limbo. Non è chiaro, di fatto, se il Quinto Emendamento - in cui si legge, tra le altre cose, che "nessuno potrà essere obbligato, in qualsiasi causa penale, a deporre contro se medesimo" - protegga anche i cittadini dal venir costretti a decrittare i propri apparecchi digitali. La Corte d’Appello di Philadelphia è già stata interpellata sulla questione, ma al momento non ha ancora fornito risposta. Bahrein. La rivolta dimenticata di San Valentino compie sei anni di Riccardo Noury Il Fatto Quotidiano, 13 febbraio 2017 Nabil Rajab, presidente del Centro per i diritti umani del Bahrein, trascorrerà in carcere il sesto anniversario della rivolta di San Valentino. Il 14 febbraio 2011, nella rotonda della Perla della capitale Manama, si svolsero le prime manifestazioni per chiedere, anche nella piccola isola del Golfo Persico governata dalla famiglia reale al-Khalifa, diritti, libertà e fine delle discriminazioni nei confronti della maggioranza sciita. Una rivolta che la propaganda saudita da subito etichettò come ispirata dall’Iran e che i protagonisti continuano a celebrare come non settaria, ma "di popolo". Uomini e donne, tanti giovani, attivisti per i diritti umani, insegnanti, sindacalisti, medici, giornalisti, persino moltissimi sportivi sono scesi in strada in questi anni. L’Arabia Saudita intervenne militarmente, già nella primavera del 2011. Ci furono decine di morti. Silenzio, allora e ora, da parte del governo statunitense e di quello britannico, i principali alleati del Bahrein. Seguirono processi con condanne all’ergastolo - tra cui quella di Abdulhadi al-Khawaja, il più noto difensore dei diritti umani - torture, assalti alle manifestazioni pacifiche con uno smodato uso di gas lacrimogeni, condanne a morte (tre delle quali eseguite all’inizio di quest’anno, non succedeva dal 2010) e provvedimenti odiosi, come la revoca della cittadinanza (solo nel 2016, a 80 persone) o il divieto di recarsi all’estero. Lo scorso anno almeno 30 difensori dei diritti umani e altre persone che avevano espresso critiche contro il governo non hanno potuto viaggiare all’estero, anche per partecipare alle sessioni del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite. Con la condanna all’ergastolo di Abdulhadi al-Khawaja, la direzione del movimento per i diritti umani è passata alle sue figlie, Mariam e Zainab; poi, costrette entrambe all’esilio, a Nabil Rajab. Rajab è in carcere dallo scorso giugno, con una serie di accuse che potrebbero costargli anche 15 anni di carcere: si va dall’offesa alle istituzioni e a stati amici (per aver denunciato le torture nelle carceri, i crimini di guerra sauditi in Yemen e la collusione tra apparati di sicurezza bahreiniti e Stato islamico) alla diffusione di notizie e voci false allo scopo di screditare lo stato", attraverso il suo profilo Twitter e dichiarazioni e interviste pubblicate sul New York Times e su Le Monde. La prossima udienza è fissata per il 21 febbraio.