Il pacchetto Minniti calpesta i diritti di Patrizio Gonnella Il Manifesto, 12 febbraio 2017 Migranti e sicurezza. Contro le ordinanze dei sindaci e le nefandezze del decreto anche noi ci appelleremo ai giudici e alla rule of law. Siamo vicini alle elezioni. E il governo spera di racimolare consensi con la solita sbobba su sicurezza e immigrazione. Ieri sono state approvate una serie di misure, perlopiù vessatorie. Esprimono una idea della sicurezza palesemente classista. Migranti, poveri, persone con problemi vari, sono il target di misure detentive o comunque limitative della libertà personale. Un mix pericoloso. L’ennesimo pacchetto sicurezza che arriva dal fronte democratico. Ne avevamo già visti più di uno. Nessuno utile a sconfiggere culturalmente o politicamente le destre. Nonostante i Centri di identificazione ed espulsione (Cie) abbiano data prova vergognosa di sé, il governo prova a gonfiarli nei numeri fino a contenere 1.600 migranti in via di identificazione. Anche la durata massima di permanenza si estende: 135 giorni contro gli attuali 90. Per provare a convincere gli scettici, i Cie cambiano però nome. Il fatto che non si chiamino più Cie, ma Centri per il rimpatrio (Cpr), non ne cambia però la natura illiberale e la loro profonda ingiustizia. Inchieste istituzionali, governative, non governative, internazionali, giornalistiche ne hanno nel tempo ampiamente smascherato la natura intrinsecamente violenta. I migranti sono un problema. Per velocizzare i tempi per il riconoscimento del diritto di asilo, nel decreto si fa quel che non si deve, ovvero si toglie un grado di giudizio, l’appello, per chi ha visto la propria istanza rigettata in primo grado. Ma l’asilo non è trattabile al pari di una questione condominiale. Attiene alla vita e non può essere parzialmente degiurisdizionalizzato. In sintonia culturale regressiva sono le norme presenti nel decreto sicurezza; sono conferiti poteri di ordinanza ai sindaci con misure che limitano la libertà di movimento. Misure simili erano state giudicate incostituzionali non molto tempo fa dalla Consulta. Misure che furono volute dall’allora ministro degli interni Roberto Maroni con il quale l’attuale ministro degli interni è in perfetta continuità normativa e simbolica. Cambia solo il linguaggio per indorare la pillola. Ma di progressista in tutto questo non c’è niente. Come non c’è nulla di democratico nel vietare a persone non condannate in via definitiva la frequentazione di certi luoghi. Sono vere e proprie misure di prevenzione messe nelle mani dei sindaci che così si potranno rifare una verginità dopo aver lasciato le città senza autobus, sporche e prive di servizi di welfare. Possiamo immaginarne l’uso che ne potrà fare qualche sindaco sceriffo leghista del nord. Lo griderà ai quattro venti. E la destra capitalizzerà elettoralmente. Infine nel decreto c’è una misura indegna che è la più indecente di tutte: le sanzioni contro coloro che fanno accattonaggio. Dunque i poveri cadono sotto la scure di un governo che ha come maggior azionista il partito democratico. Sin dal ‘700 nobili e guardie si scagliavano contro mendicanti e vagabondi. Il mondo intero si indigna contro il Muslim Ban di Donald Trump. Eppure, come denuncia il Financial Times, il governo italiano adotta una linea morbida. Quasi, quasi, visti i decreti di ieri, può definirsi un governo amico. Trump se l’è presa contro i giudici che, azionati dall’American Civil Liberties Union, hanno bloccato il suo decreto. Contro le ordinanze dei sindaci e le nefandezze del decreto anche noi ci appelleremo ai giudici e alla rule of law. Dunque chiediamo di segnalarcele per consentirci di contestarle per via giurisdizionale. Senza giustizia non può esserci sicurezza di Davide Giacalone Il Giornale, 12 febbraio 2017 C’è un solo modo per evitare che le violenze commesse da alcuni inneschino paure pericolose e rifiuti generalizzati: individuare e punire i responsabili, scagionando chi fosse accusato a sproposito. Far funzionare la giustizia. Le società in cui la giustizia non riesce a essere la risposta al crimine s’imbarbariscono. Vale per una ragazza che viaggia su un treno e subisce violenza, come vale per l’orda vandalica che assalta la biblioteca dell’università bolognese (oltre ad assaltarla, del resto, non saprebbero come utilizzarla). Vale per i clandestini che bloccano le stazioni, come per il moltiplicarsi di commerci illeciti e visibilissimi. Generalizzare è incivile. Lasciare correre è irresponsabile. Non serve inasprire le pene, perché quell’approccio è già stato descritto da Alessandro Manzoni: le gride sempre più tonitruanti e arcigne, perché sempre più inutili e inapplicate. Serve che la repressione del crimine sia considerata una minaccia reale, non un’ipotesi letteraria. Da questo punto di vista mi preoccupa che il governo abbia inserito in un decreto legge il potere di "daspo" ai sindaci: potranno impedire a soggetti non raccomandabili di avvicinarsi a determinati luoghi. Ma che succede se quelli se ne fanno un baffo? Un divieto ha senso se la sua violazione espone al concreto rischio della punizione. Altrimenti siamo alla grida. Nel decreto gemello si trova la cancellazione di un grado di giudizio, nel caso in cui una domanda d’asilo venga respinta lo straniero potrà ricorrere solo in Cassazione. Non so se resisterà al vaglio di costituzionalità, ma temo che non risolva il problema, occorrendo comunque troppo tempo. La giustizia nazionale è accessibile a chi si trova legittimamente in un Paese, o vi commette un reato. Chi prova a entrarci e non è gradito deve essere tenuto fuori senza coinvolgere i tribunali. Si rivolga, semmai, alla giustizia internazionale. Magari ha ragione, ma non può essere il modo per allargare le già affollate file di quanti popolano una terra di nessuno, in attesa di giudizio. La paura è un sentimento che può salvare la vita. Se infondata va fugata. Il panico, invece, avvelena e minaccia la vita. Per evitare che dalla prima si passi al secondo non servono proclami, ma giustizia. Sempre che non se ne debba parlare solo a proposito di pensioni dei magistrati e indagini pubblicate sui giornali e orfane di processi. L’avvocatura crea un osservatorio dei più importanti casi di ingiustizia di Sara Marci L’Unione Sarda, 12 febbraio 2017 Si chiama Opg (Osservatorio per la giustizia) ed è la prima banca dati gestita dell’avvocatura italiana, nata dall’idea di Patrizio Rovelli, del foro di Cagliari, cuore e mente di un progetto ambizioso che si propone di combattere la malagiustizia attraverso la "raccolta e pubblicazione dei più significativi precedenti giurisprudenziali e dei più importanti casi di giustizia/ingiustizia". "Per migliorare la qualità dell’attività del difensore nel processo penale e al tempo stesso costituire un momento fondante nella formazione delle nuove generazioni di giuristi e far sì che l’avvocato, oltre che competente e appassionato difensore dei diritti di tutti, sia sempre di più anche intransigente garante del sistema delle regole costituzionali e democratiche di giustizia", si legge nel manifesto della neonata associazione, costituta a gennaio e battezzata ufficialmente venerdì, nell’incontro-dibattito: "Giustizia: entriamo nel merito". Lo hanno fatto avvocati, giuristi e magistrati, anche in collegamento da Roma: "Si sente il bisogno di una grande istituzione che supplisca alle deficienze costituzionali del nostro Paese", ha sottolineato Mauro Mellini, storico leader dei Radicali, ex parlamentare e già componente del Consiglio superiore della magistratura. "In una fase in cui Procure e magistrati tendono a sostituirsi ai poteri dello Stato, l’osservatorio potrebbe costituire un rimedio valido a questo degrado": intervento duro. Come quello di Rovelli: "La giustizia così com’è non può essere presentata al popolo italiano, la gente vuole la prova, che la legge è uguale per tutti, battiamoci perché sia così e ci siano zero ingiustizie". Traguardo raggiungibile, partendo che si rivolge agli avvocati ma si apre alla partecipazione di chiunque si riconosca nei valori di uguaglianza, libertà e giustizia. Il primo presidente della Cassazione Canzio: controllo dei giudici sulle imputazioni di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 12 febbraio 2017 Sulla scelta delle imputazioni è troppo ampia la discrezionalità del pubblico ministero. Per questo Giovanni Canzio, primo presidente della Cassazione, nel suo intervento all’inaugurazione dell’anno giudiziario organizzata dalle Camere penali, spiega che andrebbe spalancata una finestra di controllo giurisdizionale oggi non prevista dall’ordinamento. Tanto più necessaria quando dalla scelta derivano conseguenze assai rilevanti sia in termini di rito sia di strumenti di indagine. Canzio che aveva introdotto il tema poche settimane fa è stato ieri più circostanziato. Esemplificando con l’utilizzo nel capo di imputazione dell’associazione criminale che apre le porte a un utilizzo esteso delle intercettazioni; oppure con la libertà del Pm nella scelta dell’iscrizione nel registro degli indagati; ancora con la determinazione di una soglia puntuale per l’esercizio dell’azione penale dopo la chiusura delle indagini. Meglio pensare, davanti a queste criticità, a un’estensione del controllo da parte del giudice piuttosto che a un rafforzamento delle possibilità di intervento della procura generale. La riflessione di Canzio è stata condotta in un contesto più ampio, che muove dalla contrarietà alla separazione delle carriere e da una valutazione assai severa della riforma Castelli del 2006 dell’ordinamento giudiziario. Una riforma che, a giudizio di Canzio, ha condotto a una sorta di segregazione culturale del pubblico ministero, che rischia di rimanere separato da una comune cultura della giurisdizione che il primo presidente della Cassazione considera un valore da preservare. Tanto da rendere auspicabile una condivisione da parte dell’intero ceto dei giuristi di categorie interpretative comuni che pongano un argine alla asserita legittimità di molte, troppe, interpretazioni. Per il procuratore di Torino Armando Spataro il tema della separazione delle carriere, sul quale i penalisti si accingono a una raccolta di firme per una legge di iniziativa popolare, non rappresenta una priorità. Anche alla luce dei numeri da Spataro stesso illustrati che, in 5 anni, vedono il passaggio di funzioni avere interessato 179 casi, quota assai marginale. In un intervento non privo di spunti polemici (Spataro ha dichiarato di non condividere pressoché nulla delle più recenti dichiarazioni del presidente Anm Piercamillo Davigo e ha criticato la scelta della stessa Anm di disertare la cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario in Cassazione; come pure ha criticato quei magistrati che conducono indagini pensando di ricostruire la storia magari in assenza di più robuste basi investigative) il procuratore di Torino ha messo sul tappeto la proposta di una commissione magistrati-avvocati per la buona giustizia, un po’ come la buona scuola. Per affrontare temi comuni come la gestione mediatica dei processi, la magistratura onoraria, le misure organizzative, la comune avversione rispetto alle prospettive di gerarchizzazione del pubblico ministero. Per Spataro poi non si può pensare a una giustizia succube dell’economia; paradigmatico il caso Ilva con un diritto alla salute che non può che precedere le esigenze di prosecuzione della produzione. Il giudice di Reggio Calabria che salva i figli dai boss: "sono le madri a chiedermelo" di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 12 febbraio 2017 Di Bella, il presidente del Tribunale per i minorenni celebrato dal "New York Times": 40 i minori allontanati. Sperimentano la chance di una vita diversa dall’unica conosciuta nelle loro famiglie di ‘ndrangheta, grazie ai provvedimenti civili di decadenza o limitazione della responsabilità genitoriale. "Di recente abbiamo provato a parlare con la giovane moglie di uno ‘ndranghetista condannato a lunghe pene, lei stessa in attesa di scontare alcuni anni, e con gli altri familiari tutti o assassinati o già detenuti. Le ho chiesto: ha pensato, quando andrà in carcere, che cosa accadrà ai suoi bambini? Che vogliamo farne, lasciarli in balia di questa vita? Lei non ha detto niente. Ma a distanza di tempo è tornata. Da sola. È scoppiata a piangere. E mi ha fatto una sola domanda: se si fa come mi propone, quando sarò di nuovo libera avrò la certezza di ritrovare i miei figli? Certo. E adesso il progetto è partito anche per lei, i suoi due figli sono già presso una famiglia di supporto, lontano dalla Calabria". Sono già una quarantina i minori, e una decina le loro madri o sorelle, che dall’estate 2012 - quando il Corriere lo raccontò per la prima volta - sperimentano la chance di una vita diversa dall’unica conosciuta nelle loro famiglie di ‘ndrangheta, grazie ai provvedimenti civili di decadenza o limitazione della responsabilità genitoriale emessi dal Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria presieduto da Roberto Di Bella. Quando può scattare l’allontanamento temporaneo? "Nei casi più gravi nei quali sia valutato un concreto pregiudizio, riconducibile al metodo educativo mafioso, all’integrità psicofisica dei minori". Che risultati avete avuto? "Chi riprendendo la scuola interrotta, chi seguendo i percorsi di educazione alla legalità organizzati, hanno tutti dimostrato di possedere potenzialità che erano compresse dal deleterio ambito di provenienza". E fallimenti, nessuno? "Fino ad ora solo un ragazzo ha preso un Daspo allo stadio". All’inizio vi criticavano, eravate quelli "che deportavano i figli"... "I provvedimenti sono a tutela dei ragazzi e non contro le famiglie, servono a far sì che siano "liberi di scegliere" il proprio destino affrancandosi dalle orme parentali". Una rivoluzione che ha portato la Calabria in prima pagina sul "New York Times". Da cosa nacque? "Dal constatare che continuavamo a processare sempre gli stessi cognomi nei minori imputati di omicidi, associazione mafiosa, traffico di droga, estorsioni: figli di padri al 41 bis che, una volta maggiorenni, presto finivano pure loro al 41 bis e ci trovavano già i fratelli". Nella ‘ndrangheta scarseggiano i collaboratori proprio perché dovrebbero denunciare i più stretti consanguinei: la vostra giurisprudenza minorile inizia a spezzare questa spirale? "In alcuni casi i provvedimenti hanno determinato o accelerato la disgregazione di relazioni familiari e modelli culturali apparentemente intangibili". E stanno scuotendo le donne nei clan. "Alcune indottrinano i figli secondo la cultura mafiosa, ma ce ne sono altre provate dalla sofferenza di lunghe carcerazioni o dalle morti dei familiari. Dopo una prima comprensibile aspra opposizione, molte accettano i programmi educativi e le prescrizioni imposte, nella speranza (inconfessabile) di salvare i loro figli da un destino ineluttabile, e forse quasi sollevate dalla responsabilità di assumere decisioni altrimenti laceranti nel sistema in cui sono inglobate. Abbiamo madri che hanno iniziato percorsi di collaborazione con la giustizia proprio nei locali del Tribunale per i minorenni, e altre che ci pregano di allontanare i loro ragazzi". Le donne cambiano, e gli uomini? "Dai detenuti al 41 bis di solito ci arrivavano sempre insulti o minacce. Ma proprio di recente uno, solo uno ma almeno è la prima volta, condannato a decenni da scontare, ci ha scritto: "Grazie dell’opportunità che avete dato ai miei due figli piccoli: l’avessi avuta io alla loro età, forse non sarei finito qui". Reggio Calabria resta però un caso isolato. "Un esperimento ancora artigianale, che vive molto sull’iniziativa dei singoli e sul volontariato. E invece occorrerebbe un appoggio istituzionale in risorse, personale, circuiti educativi e soprattutto sbocchi professionali". Sarà più facile o difficile con la ventilata soppressione dei Tribunali per i Minorenni? "Non lo so. Ma so che il minorile è un settore di giurisdizione che non può essere mortificato dalla logica dei numeri e dei flussi, in un’ottica aziendale e di limitato orizzonte, perché nei minori è riposta la speranza di rinnovamento culturale possibile - come dimostra questa esperienza - anche in realtà complicate come quella calabrese". "È ragazzo, crede che la cella gli darà rispetto" di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 12 febbraio 2017 Sono la madre di omissis, di anni 15. Sono anche la sorella di omissis, che il Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria ha giudicato per omicidio negli anni 90 e che ora, per altro omicidio, si ritrova all’ergastolo. Sono la sorella di omissis, condannato per avere picchiato un carabiniere. Sono la sorella di omissis e figlia di omissis, che sono stati uccisi di recente in un agguato di mafia. Anche mio cugino e il figlio di 11 anni sono stati ammazzati". Comincia così il verbale che ha raccolto le dichiarazioni di una madre, immersa in una famiglia di ‘ndrangheta, che ha chiesto al Tribunale per i minorenni di allontanare i propri due figli. Ecco come prosegue: "Sono venuta qui (dal giudice minorile, ndr) in occasione del processo penale che si celebrerà oggi nei confronti di mio figlio omissis, per segnalarle la forte preoccupazione di madre per la sua sorte e per quella di suo fratello più piccolo, di anni 13. Mio figlio è giù in aula di udienza, ma non sa che io sono qui da voi, presidente. I miei due figli sono ribelli, violenti, frequentano cattive compagnie, sono affascinati dalla ‘ndrangheta. Temo possano imboccare una strada senza ritorno. Mio figlio pensa che andare in carcere sia un onore e pensa che può dargli rispetto, ma in realtà non sa cosa è il carcere e cosa potrebbe accadergli lì dentro. Io non riesco a controllare i miei figli, nonostante i miei sforzi, e chiedo al Tribunale per i minorenni di essere aiutata perché possano aver un destino diverso da quello di mio padre, di mio marito e dei miei fratelli. La prego, mandi i miei figli lontano da Reggio Calabria (...). La prego di comprendere quanto sia sofferta la mia decisione, che per la prima volta comunico a un giudice, ma è l’unica soluzione. Nella mia famiglia non c’è nessuno, nessuno di cui mi possa fidare...". Il verbale della signora a questo punto si interrompe: "L’Ufficio dà atto che la verbalizzazione viene sospesa perché la signora palesa, piangendo, una condizione di profonda prostrazione emotiva". Sollecito in carcere da innocente. I giudici negano il risarcimento di Marco Gasperetti Corriere della Sera, 12 febbraio 2017 Il giovane arrestato assieme ad Amanda Knox e poi assolto per l’omicidio a Perugia di Meredith Kercher, aveva chiesto 516mila euro di indennizzo per i 4 anni dietro le sbarre. Il primo commento: "Altra pagina nera della giustizia italiana". Nessun risarcimento per i quattro anni trascorsi in carcere da innocente per Raffaele Sollecito accusato, e poi assolto in Cassazione insieme ad Amanda Knox, per l’omicidio di Meredith Kercher. La Corte d’Appello di Firenze ha infatti rigettato la richiesta di un risarcimento di 516 mila euro presentata da Sollecito per "ingiusta detenzione". Secondo le prime informazioni, i giudici avrebbero giudicato contraddittorie le dichiarazioni dell’ex imputato nella prima fase delle indagini che poi portarono all’arresto dello studente e della sua allora fidanzata. La Cassazione e le indagini mal condotte - Durissimo il commento di Raffaele Sollecito. "Credevo di avere già vissuto le pagine più nere della giustizia italiana ma devo rilevare che oggi ne è stata scritta un’altra che mi lascia sbigottito", ha detto l’ex studente e oggi ingegnere informatico pugliese. Alla richiesta di risarcimento si erano opposti la procura generale di Firenze e il ministero delle Finanze. Nella richiesta di risarcimento i legali di Sollecito avevano richiamato la motivazione della sentenza della Cassazione nelle pagine in cui venivano criticate le indagini secondo la Suprema Corte mal condotte dagli inquirenti e dalla procura di Perugia. In primo grado, nel 2009, Raffaele Sollecito e l’americana Amanda Knox erano stati condannati dalla Corte d’Assise di Perugia a 25 anni e 26 anni di carcere per omicidio. Nel 2011 vennero poi assolti e scarcerati dalla Corte d’Assise d’appello dal reato di omicidio (alla Knox fu confermata la condanna a tre anni per calunnia). Nel 2013 la Corte di Cassazione annullò poi l’assoluzione e rinviò gli atti alla Corte d’Assise d’Appello di Firenze che condannò (2014) Sollecito a 25 anni e Knox a 28 anni e 6 mesi. Infine, il 27 marzo 2015, il verdetto assolutorio della Cassazione. Virginia Raggi e la sua "boutique legale" di Riccardo Arena ilpost.it, 12 febbraio 2017 Ormai è fatta. Virginia Raggi, indagata per abuso d’ufficio e falso, ha deciso di rispondere ai Pm di Roma. Risultato: 8 ore di interrogatorio. 8 ore di risposte e di affermazioni che rimarranno cristallizzate negli atti del processo che verrà. Un successone! Un successone che evidenzia la strategia difensiva elaborata. Infatti, certamente la difesa del sindaco di Roma, o meglio la "boutique legale" (come si definisce sul suo sito), avrà ben ponderato l’ipotesi che la Raggi si avvalesse della facoltà di non rispondere. Una facoltà riconosciuta dalla legge a chi è indagato, proprio per evitare di fornire risposte che possano col tempo nuocere alla difesa. E certamente questa è stata un’alternativa oggetto di una seria e complessa riflessione. Infatti, la "Boutique legale" si sarà chiesta: "Perché rispondere? Perché rischiare di aggiungere elementi a chi ti accusa?" E ancora: "Perché prestarsi al gioco della domanda inaspettata?". D’altronde, la Raggi ben poteva non rispondere ai Pm e allo stesso tempo intraprendere una chiara e determinata campagna sui mezzi di informazione. Una strategia questa, che sarebbe stata assai utile per annullare l’importanza dell’indagine e dell’interrogatorio e che sarebbe stata assai utile per evidenziare come sia inaccettabile che un sindaco venga messo in discussione dall’ennesima indagine della Magistratura. E invece no. La decisione è presa. La Raggi risponde ai Pm. Ora, decidendo di rispondere ai Pm, ci si immagina che certamente, la "Boutique legale" abbia preparato per ore e ore la propria assistita all’interrogatorio. Certamente, anche se è noto che l’accusa sa sempre di più rispetto a chi è indagato, si sono pensate tutte le imprevedibili domande che potevano porre il dottor Dall’Olio e soprattutto il dottor Ielo. Già sarà andata così. È sicuro. Peccato, che grazie alla scelta di rispondere ai Pm e grazie a quelle 8 ore di interrogatorio, la Raggi è riuscita in almeno due risultati. Accusare Raffaele Marra, ora in carcere, dandogli la possibilità di parlare. Arricchire il "caso Raggi" di un nuovo elemento: l’indagine a carico di Salvatore Romeo per abuso d’ufficio. Sì, davvero un successone. Siracusa: in cella per tentato omicidio, detenuto 27enne si impicca in carcere nuovosud.it, 12 febbraio 2017 Mistero sulla morte di un detenuto di Rosolini avvenuta nel carcere di Cavadonna a Siracusa. La vittima è Pietro Nolasco, 27 anni. Il giovane, secondo quanto si apprende, si sarebbe impiccato nella sua cella. La salma su disposizione del pm di turno, è stata trasferita all’obitorio dell’Umberto I di Siracusa. Il magistrato dovrà dare l’incarico al medico legale per eseguire l’autopsia per stabilire le cause della morte. Pietro Nolasco era stato arrestato martedì scorso con l’accusa di violenza sessuale, tentato omicidio e rapina. Secondo i militari dell’Arma, dopo avere adescato una donna l’avrebbe stuprata in una zona di campagna per poi prenderla a calci e pugni in pieno volto. Secondo la ricostruzione dei carabinieri, il giovane le avrebbe ha poi strappato dal collo due collanine in oro ma avrebbe, infine, tentato di strangolarla per ucciderla. La vittima, dopo essere stata trascinata nell’auto dal presunto stupratore, sarebbe riuscita a fuggire chiedendo aiuto ai militari che l’hanno soccorsa e poi bloccato il giovane. La vittima era finita in ospedale in prognosi riservata. Ancona: figlio morto in carcere, la mamma "voglio la verità" di Alessandra Pascucci Il Resto del Carlino, 12 febbraio 2017 Ci sono due magistrati indagati per la morte di Daniele Zoppi, il 34enne di Ancona trovato senza vita nel penitenziario di Montacuto il 23 luglio 2015, dopo tre richieste di scarcerazione per motivi di salute. Zoppi, che era in carcere dall’autunno 2014 per scontare una pena definitiva per spaccio, soffriva di tre ernie al disco e di stenosi lombare (uno schiacciamento del canale vertebrale che gli aveva fatto perdere sensibilità alle gambe), disturbi aggravati dall’obesità (pesava 140 chili) e aveva chiesto di essere trasferito in una struttura sanitaria per essere curato. I giudici del Tribunale di sorveglianza di Ancona avevano rigettato le sue richieste: l’ultimo diniego era arrivato il 13 luglio 2015, dieci giorni prima della morte. Il fascicolo contro i giudici di sorveglianza è stato aperto dalla Procura de L’Aquila, competente per i magistrati marchigiani: il pm ha ipotizzato il reato di abuso d’ufficio, ma ha già chiesto l’archiviazione, cui si oppone la madre di Daniele, Soriana Candiloro, rappresentata dall’avvocato Luca Bartolini. Secondo il legale va riformulata l’ipotesi di reato: andrebbe contestata eventualmente l’omissione di atti d’ufficio. L’udienza davanti al gip abruzzese è fissata per il primo marzo. Un altro fascicolo è stato aperto contro ignoti dal sostituto procuratore di Ancona Paolo Gubinelli. La relazione del medico legale nominato consulente della Procura di Ancona parla di morte naturale: il cuore di Daniele Zoppi non ha retto. "Non so se la morte di Daniele potesse essere evitata - dice la signora Candiloro. So solo che mio figlio stava molto male, ma per i giudici le sue condizioni di salute non erano incompatibili con il carcere. Ora voglio la verità e, se ci sono responsabili per la morte di mio figlio, devono pagare. Daniele aveva presentato tre richieste, non una sola. Non voleva sottrarsi al suo debito con la giustizia e mi ripeteva: ‘Io pago, ma almeno mi curino’". Soriana Candiloro aveva visto suo figlio per l’ultima volta il 4 luglio durante una visita. "Daniele stava preparando la terza richiesta di scarcerazione, doveva operarsi allo stomaco per curare l’obesità, e mi diceva che se fosse rimasto ancora a lungo in carcere sarebbe morto. Purtroppo mio marito sta male e potevo andare in carcere solo una volta ogni tre settimane". Il rimpianto più grande della signora Candiloro è proprio quello di non aver visto suo figlio nei giorni subito precedenti la morte: "Faccio l’infermiera, ma quando l’avevo visto il 4 luglio mi sembrava non fosse tanto grave. Solo dopo la morte, un volontario del carcere mi ha detto che, due giorni prima, aveva visto Daniele molto sofferente: aveva le gambe gonfie e nere e respirava a fatica. Di mio figlio - dice tra le lacrime - avrò sempre negli occhi l’immagine dell’ultima visita". Palermo: sciopero della fame per 350 detenuti del carcere Pagliarelli di Salvo Palazzolo La Repubblica, 12 febbraio 2017 La protesta covava da giorni nelle celle dove sono rinchiusi boss grandi e piccoli, esattori del pizzo e favoreggiatori. È il "Padiglione 20" del carcere di Pagliarelli, quello dei detenuti dell’Alta sorveglianza: sono 340 ospitati in quattro piani. Da martedì, fanno lo sciopero della fame. Protestano perché le celle sono senza riscaldamento e senza acqua calda. In alcune stanze, poi, il tetto è pieno di crepe e piove dentro. Nei giorni del gran freddo a Palermo sono stati momenti difficili a Pagliarelli. I detenuti dell’alta sorveglianza hanno già messo per iscritto le loro doglianze, le hanno girate ai vertici del penitenziario. E annunciano di proseguire la protesta in modo ancora più eclatante, con uno sciopero della sete. Da due giorni, battono anche le stoviglie contro le grate. Il garante dei detenuti della Regione, il professore Fiandaca, ha già assicurato il suo interessamento, sollecitando un intervento del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e del ministero della Giustizia. Ieri mattina, a Pagliarelli, è arrivato il deputato regionale Pino Apprendi, in questi mesi impegnato in un giro di visite nelle carceri siciliane. "C’è un disagio generale a Pagliarelli - spiega - la caldaia è sottodimensionata, ma basterebbe poco per potenziarla. Si potrebbero anche installare delle semplici pompe di calore nella sala colloqui, dove in questi giorni donne e bambini incontrano i propri cari in condizioni proibitive". Per Apprendi, sono necessari "progetti e investimenti urgenti" per Pagliarelli. "Intanto, però, si potrebbero avviare dei piccoli interventi". Ma non è così semplice. In gioco ci sono anche esigenze di sicurezza all’interno del reparto che ospita i detenuti per mafia. E su questo fronte, la dirigente dell’istituto, Francesca Vazzana, e il comandante della polizia penitenziaria, Giuseppe Rizzo, hanno fama di essere inflessibili. Così, ai boss è vietata la vita comune durante la giornata, per scongiurare il rischio di incontri e summit. I detenuti insistono: chiedono di potere ricevere dai propri cari cappellini di lana, scalda-collo e maglie di lana. Ma non solo. Chiedono anche di estendere i canali visibili in Tv, poi quattro telefonate mensili per chi ha figli al di sotto dei dieci anni. I detenuti per mafia chiedono anche celle per non fumatori, vitto più abbondante, un numero maggiore di asciugacapelli e ventilatori. Chiedono anche vino e birra, "in quantità moderata". Palermo: l’On. Apprendi "al carcere Pagliarelli mancano i termosifoni, anche nelle celle" di Mauro Faso giornalelora.com, 12 febbraio 2017 Dal primo del mese rifiutano il mangiare fornito dalla struttura penitenziaria e da giorno sette hanno rinunciato anche al consumo delle proprie scorte alimentari, i detenuti del "padiglione 20" della Casa Circondariale Palermo "Pagliarelli". Diverse centinaia gli ospiti della struttura. Le protesta pacifica, nasce da disagi facilmente evitabili, così riferisce l’On. Pino Apprendi, deputato all’Ars "l’indiscutibile certezza della Pena, non sottende una condizione di vita disumana per chi sta scontando quanto comminato dalla Giustizia", dice Apprendi. In Italia la pena ha una funzione rieducativa, questo prevede la nostra Costituzione, continua l’Onorevole, e dunque porre rimedio alle precarie condizioni di vita di molti detenuti nelle carceri italiane, si pone come intervento a garanzia del successivo reinserimento sociale a cui è connesso lo stato di detenzione. Non possiamo sperare di diminuire il tasso di criminalità se non agiamo sul lato umano, attraverso concreti percorsi rieducativi che devono essere avviati e conclusi durante il periodo di privazione della libertà. Se non garantiamo quanto previsto dalle norme vigenti rispetto, ad esempio, agli spazi minimi garantiti all’interni delle celle, alla possibilità di fare una doccia calda ogni giorno, garantendo i livelli di igiene e di sicurezza sanitaria, se non troviamo le risorse per le figure professionali specializzate nei percorsi rieducativi e per il personale di Polizia Penitenziaria, continuamente sottoposto a turni impegnativi e tensioni di ogni genere, allora non potremo dar seguito a quanto normato sprecando risorse finanziarie e, ritrovando in libertà ex detenuti ancor più lontani dal sistema legale di una Società Civile, conclude Pino Apprendi. In queste ore nella sua qualità di Deputato, Apprendi si è recato nella struttura penitenziaria ad ascoltare le richiesta espresse da una delegazione di detenuti. "Una nota manoscritta consegnatami brevi manu, riporta le numerose richieste a cui in parte - continua l’Onorevole - si potrebbe già adesso dar seguito. Tra le richieste compaiono: la possibilità di indossare guanti e scalda-collo durante l’ora d’aria, almeno nei periodi più freddi; l’installazione di pompe di calore almeno (mancano i termosifoni anche nelle celle) nelle sale in cui i detenuti incontrano moglie e figli garantendo almeno il benessere dei visitatori; maggiori scorte di medicinali in medicheria; la possibilità di effettuare più telefonate ai figli minori di anni 10". Una, più di tutte, salta agli occhi tra tante altre richieste, una spicca in modo particolare e preoccupante, la possibilità a prescindere dall’esito positivo o negativo per le varie richieste, di ricevere comunque una risposta. Al momento una sola risposta è arrivata ai detenuti del reparto Nord, per tramite della Direzione del C.C. Pagliarelli, scritta dal Garante dei detenuti in Sicilia, il prof. Giovanni Fiandaca, venuto immediatamente a conoscenza della situazione. La nota del Garante, riportante come oggetto quanto seguente: " Doglianze detenuti del reparto Nord del carcere Pagliarelli di Palermo", informa sostanzialmente i detenuti di aver preso formale contatto con la direzione del carcere ed inviato contestualmente una lettere al Dap per sollecitarne l’intervento. Continua la nota chiedendo ai detenuti di tenere informato l’Ufficio del Garante stesso. Ma in vero il tempo stringe e vola più veloce delle note burocratiche; la vita umana, al di là di ogni deviazione che l’abbia coinvolta, è prioritaria ed è per questo, che l’on. Apprendi affida anche al mezzo stampa la propria preoccupazione per l’agitazione che vessa nel carcere e alle paventate minacce di sciopero della sete. Dobbiamo garantire un sistema penitenziario umano e rieducativo, per non venir meno a quanto scritto nella nostra Costituzione e non far si che anche la Società Civile possa cadere nell’illegalità attraverso l’indifferenza ed il silenzio, così auspica l’Onorevole Pino Apprendi. Carceri: tensione a Cagliari Uta, agenti in stato agitazione cagliaripad.it, 12 febbraio 2017 Una violenta lite tra due detenuti, un altro salvato mentre tentava il suicidio ed un terzo bloccato mentre danneggiava la cella. Tensione all’interno del Carcere di Cagliari Uta, lo denuncia il sindacato Uil-Pa Polizia penitenziaria che ha proclamato lo stato di agitazione ed è pronto ad attuare altre forme di protesta se non saranno risolti al più presto i problemi. "Sono ormai ordinari gli eventi critici nell’Istituto, dove la maggior parte dei detenuti soffre di problemi psichiatrici - sottolinea il segretario del sindacato, Michele Cireddu - il Dipartimento ha creato un vero mix esplosivo nell’Istituto cagliaritano dove sono ristretti detenuti con gravi problemi psichiatrici e altri all’alta sicurezza. Il risicato organico fatica a fronteggiare i numerosi eventi critici, ormai frequenti, talvolta si verificano in diverse sezioni detentive contemporaneamente, spesso l’unico responsabile della sorveglianza è costretto a dei salti mortali per gestire le situazioni". Secondo il sindacato il personale di Polizia penitenziaria si sente abbandonato e in costante emergenza, a questo problema si aggiunge quello della presenza del direttore che deve dirigere tre istituti contemporaneamente oltre che svolgere altri incarichi. "È impossibile continuare in questo modo - sottolinea Cireddu - le relazioni sindacali sono ai minimi termini, l’organizzazione del lavoro a nostro avviso va rivista, è arrivato il momento di rimboccarsi le maniche a vari livelli per evitare che il sistema tracolli definitivamente" Roma: evase dal carcere di Rebibbia a ottobre, arrestato nel comasco di Michela Allegri Il Messaggero, 12 febbraio 2017 Un latitante pericoloso, protagonista di un’evasione da film: il 27 ottobre, con due compagni di cella, è fuggito dal carcere di Rebibbia, dopo aver segato le sbarre della finestra ed essersi calato dal muro di cinta con lenzuola annodate. Mikel Hasanbelli, albanese di 38 anni, detto "Erion", si nascondeva in una villetta a Luisago, in provincia di Como. Quando ieri notte gli agenti hanno fatto irruzione, ha tentato di fuggire, ma non ha avuto scampo. È stato ammanettato insieme al cugino, accusato di detenzione di stupefacenti. Per quasi quattro mesi, gli investigatori della Dda di Roma, coordinati dal procuratore aggiunto Michele Prestipino e dalla pm Nadia Plastina, hanno indagato senza tralasciare nemmeno un dettaglio. Hanno scoperto che Hasanbelli, condannato in via definitiva con fine pena nel 2020, si era rifugiato dai parenti. Gli stessi parenti che, interrogati dagli inquirenti, hanno mentito raccontando di non avere informazioni su di lui, e che ora verranno accusati di favoreggiamento. Gli investigatori hanno messo sotto intercettazione i loro telefoni e hanno scoperto che il fuggiasco li aveva raggiunti per tornare a gestire gli affari di famiglia. Hasanbelli è uno dei boss di un giro di stupefacenti e prostituzione nel milanese. Restano invece ricercati gli altri due evasi, entrambi albanesi. Si tratta di Ilir Pere, 40 anni, condannato per droga e tentato omicidio, e Basho Tesi, 35 anni, ergastolano per omicidio. La carriera criminale dell’ex latitante inizia nel 2000, quando suo padre viene assassinato a Tirana nell’ambito di una faida con una famiglia rivale. Due anni dopo, Erion e il fratello si vendicano: ad Anversa, in Belgio, uccidono uno degli esecutori dell’omicidio. Per questa vicenda, Hasanbelli viene condannato a 25 anni. Il curriculum criminale si arricchisce poi di altre contestazioni legate alla droga e alla prostituzione. Nell’agosto 2015, Erion viene arrestato a Fiumicino. Viene poi mandato a Rebibbia, dove, con i compagni di cella, riesce a scappare. Ad agevolare i fuggiaschi, le pessime condizioni in cui versa la prigione, finita sotto la lente della Procura per falle nel sistema di sicurezza ed episodi di corruzione. Siracusa: "Fare con meno", compostaggio di comunità al carcere di Augusta lagazzettaaugustana.it, 12 febbraio 2017 Presentato lo scorso 9 gennaio presso il Palazzo di Città, il progetto "Fare con meno", per la prevenzione e minimizzazione dei rifiuti nel territorio di Augusta, fa tappa alla Casa di reclusione. Con una conferenza stampa, tenuta venerdì mattina e coordinata da Michela Italia, si è esposta l’iniziativa specifica del compostaggio, ovvero la trasformazione di rifiuti organici in terricciato, presso l’istituto di pena. "Un progetto sperimentale, il secondo in Italia - ha introdotto il tema l’assessore all’Ambiente Danilo Pulvirenti, che prevede la gestione comunitaria del rifiuto organico prodotto dalle cucine della Casa di reclusione. Tutto avverrà attraverso la progettazione di un percorso facilitato, attività di formazione per operatori e detenuti e co-creazione della compostiera di comunità". Verranno coinvolti, in prima battuta, 20 dipendenti della Casa di reclusione e 210 detenuti su 456, come riferito da Omar Pennisi, in rappresentanza dell’associazione "Rifiuti zero Sicilia", che provvederà alla formazione. Una prima fase di osservazione scientifica servirà per studiare e quindi stilare un vero e proprio opuscolo a carattere scientifico che possa servire per azioni similari in altre realtà. Manuela Trovato, che curerà in prima persona alcune tappe del progetto, ha spiegato: "Si vuole contribuire, oltre alla riduzione della produzione dei rifiuti e degli impatti ambientali, a valorizzare il riutilizzo in loco del compost e ad aumentare le possibilità di un cambio comportamentale dei detenuti ed operatori, stimolando buone pratiche e dando delle conoscenze professionali da spendere per un prossimo reinserimento in società". Nella compostiera, realizzata rigorosamente in legno dai detenuti, come illustrato dall’architetto Marco Terranova, uno dei professionisti che collaborano al progetto, andranno sia scarti di lavorazione provenienti dalla cucina che rimasugli dei pasti. Non subiranno la stessa sorte quegli alimenti integri e commestibili, che saranno inseriti in un circuito per riutilizzare gli sprechi alimentari. È stato inoltre auspicato che ad Augusta si possa realizzare un laboratorio in cui creare e costruire le compostiere per la comunità locale. Il direttore della Casa di reclusione, Antonio Gelardi, ha provveduto ad esporre gli ulteriori vantaggi: "Limitare i consumi di acqua, di energia ed effettuare in generale interventi di efficientamento energetico è il tema del Piano d’azione regionale che vede impegnata la direzione e che consisterà nell’indirizzare i destinatari (sia lavoratori che detenuti) verso comportamenti virtuosi. Si tratta di dare un contenuto innovativo al concetto di "risocializzazione" per restituire alla società un cittadino più consapevole ed "educato" secondo un’accezione del termine non stereotipata ed innovativa". A Marcello Mirabella è stato affidato l’incarico di referente di tale azione del progetto "Fare con meno" all’interno della Casa di Reclusione di Augusta. Mentre Francesco Ruta, responsabile progetto per la Datanet, società aggiudicatrice del piano comunicazione, ha illustrato le nuove mascotte della famiglia "Fare con meno". Il sindaco di Augusta, Cettina Di Pietro, ha così concluso: "Il Comune di Augusta ha da anni avviato una proficua collaborazione con la Casa di reclusione attraverso una convenzione che a breve verrà ampliata, per l’impiego di detenuti in lavori di manutenzione ad ausilio alla squadra lavori. Siamo certi che il progetto "Fare con meno", all’interno della Casa di reclusione, produrrà certamente effetti positivi e verrà realizzato con successo". "Un altro me", di Claudio Casazza di Chiara Pizzimenti vanityfair.it, 12 febbraio 2017 Nel carcere milanese di Bollate c’è il primo esperimento italiano di recupero dei condannati per reati sessuali. Un documentario racconta il percorso di detenuti e psicologi smontando molti stereotipi. "Basta che la vedo camminare o dentro al bar". Non è la minigonna, non sono le parole, non è la provocazione. A Sergio non serviva niente di tutto questo per essere attratto dalle donne. Donne, al plurale, perché è lui stesso a dire che è stato con centinaia nella sua vita. Prima del carcere ovviamente, carcere in cui è finito per un reato commesso contro una donna. Sergio è un infame nel gergo carcerario, è fra quelli che violentano, quelli che sono accusati di pedofilia o pedo-pornografia. Di sè dice: "Forse sono guasto. Una ciambella senza il buco". Insieme ad altri, condannati come lui, è fra i protagonisti di un documentario "Un altro me" di Claudio Casazza che racconta il percorso portato avanti da un’equipe di psicologi, criminologi e terapeuti, il primo esperimento in Italia per evitare il rischio che le violenze siano compiute ancora. Il punto fare in modo che il reato non torni e insieme il timore che succeda. "Qui è astinenza totale per forza - dice uno dei detenuti - ma non è che mi faccio prete quando esco". È la risposta alla proposta di stare un po’ senza, sesso ovviamente per non andare oltre, al momento dell’uscita dal carcere. "E come si fa?" dice un altro. E Sergio cosa vorrebbe fare appena uscito? "Andare al bar a prendere un caffè. Stavo sempre al bar prima". Quel bar dove vedeva le donne. L’Unità di trattamento per autori di reati sessuali a Bollate, Milano, è il primo tentativo di trattamento (non cura) e presa in carico di autori di reati sessuali nella realtà penitenziaria italiana. È attiva da 11 anni con 250 casi affrontati e sono 7 recidivi contro una media riportata dagli studi internazionali del 20% di possibilità di ripetere in reato. Di fare cioè quello che uno dei condannati minaccia: "Io esco di qua e vado a scoparmele tutte". "Facciamo colloqui preliminari valutando anche la motivazione. Il recupero parte sempre da una volontà personale" spiega Maritsa Cantaluppi, una psicoterapeuta dei gruppi. È un percorso che dura un anno, con incontri 1 o 2 volte la settimana per un paio d’ore oltre agli altri appuntamenti come quelli di arte-terapia. Si firma un simbolico contratto di impegno e c’è un monitoraggio dopo la scarcerazione al Presidio Criminologico Territoriale all’interno dei progetti del C.I.P.M. (Centro Italiano per la Promozione della Mediazione). Se lo stereotipo della minigonna non esiste si scopre che altri invece sono forti. "Il maschio paga le pene e lei no. È una puttanella da discoteca che va in giro a farsi agguappare e poi denuncia". Lo dice un detenuto e da qui parte la spiegazione che la provocazione non è un reato, il reato arriva quando, in qualsiasi momento, lei ha detto no e tu sei andato avanti. "Viene fuori più su quelli accusati di maltrattamenti che nei condannati per violenza sessuale - aggiunge la dottoressa Cantaluppi - insieme a cose come: "La legge è squilibrata, se una donna dice qualcosa viene ascoltata e il maschio ha automaticamente torto. Poi probabilmente il magistrato è una donna"". Un’idea di disuguaglianza di trattamento al contrario che appare radicata. Luca Bollati è terapeuta del trattamento intensificato per autori di reati sessuali e spiega che se fosse possibile farebbe la conduzione degli incontri in carcere con un uomo e una donna proprio "per dare l’idea dell’equilibrio". L’idea di una parità dei sessi che qui è molto lontana. "L’obiettivo - dice Bollati - è mantenere una forma di controllo su fantasie che rimarranno. Saperle gestire, non cancellarle. Agire nei punti e momenti in cui la persona è ancora in grado di intervenire per fermarsi. La pena non può essere solo sanzione, ma si ripara facendo un compito". Il compito di chi segue il gruppo è anche raccontarsi davanti agli altri, che, sì, a volte giustificano, ma condannano anche. Non è sempre una questione di sesso, ma il sesso diventa il mezzo per esprimere la propria superiorità. "Non volevo una prestazione sessuale. L’ho violentata per averne il controllo. Era spaventata, incredula e traumatizzata con una pistola puntata contro. Avevamo rapporti orali da un anno. Non si aspettava questo da me"."Sapevo che stavo sbagliando, ma la volevo accontentare. Mi sono divertito, ma si è divertita anche lei. La cosa che mi dava più fastidio è che avesse il controllo lei". Qui lui ha 50 anni, lei quasi 14 e lui arriva a dire: "non le ho fatto così male". Un male che una sentenza ha quantificato in 140 foto e 54 filmati pedopornografici. È la sentenza, quando la si va a leggere, che fa più impressione, anche a chi lavora con i detenuti. Con loro il rapporto è una cosa più personale. Per Maritsa Cantaluppi, che, come molte altre donne, lavora con questi detenuti non è stato traumatico il confronto: "Non è il reato che rende il contesto ostile è il contesto stesso, è il carcere. Non penso al reato sessuale, non si affronta il discorso in un modo per cui se ne ha paura". Non tutti riconoscono subito il reato, ne accettano solo una parte, all’inizio minimizzano, poi passano per senso di colpa e vergogna. Il gruppo serve anche a comprendere il reato vedendolo negli altri, in quello che è loro successo, in quello che hanno fatto. Il confronto più duro è con una vittima. Ce n’è una in carne e ossa (alcuni detenuti pensano che sia un’attrice, una presa in giro) e ce n’è una che si racconta in una lettera: "Non sono neanche l’ombra di quello che ero prima dello stupro". C’è sempre la vittima. Anche nella lettera che un detenuto deve scriverle ipoteticamente: "Dedicato alla vittima, non per un improprio perdono, ma a parziale risarcimento e per la giustizia". Ma una vittima dovrebbe andare a vedere questo film? "Dipende dal livello di elaborazione - dicono i terapeuti. Per una vittima l’importante è fare cose compatibili con il pezzo di percorso che sta facendo. In un momento di finta sicurezza potrebbe essere una vittimizzazione ulteriore". L’Italia degli esclusi e i "terremoti" sociali di Luca Ricolfi Il Sole 24 Ore, 12 febbraio 2017 Fino a una decina di anni fa, ovvero fino allo scoppio della lunga crisi in cui ancor oggi siamo impigliati, la società italiana poteva, con qualche approssimazione, essere descritta mediante lo schema delle "due società", una felice espressione dovuta ad Alberto Asor Rosa (che la coniò nel lontano 1977). Da una parte il vasto mondo dei garantiti, fatto di dipendenti pubblici e di dipendenti privati protetti da Statuto dei lavoratori e sindacati. Dall’altra la società del rischio, fatta di lavoratori autonomi, dipendenti delle piccole imprese, lavoratori precari delle imprese maggiori. Una frattura, questa fra le due società, che gli studiosi del mercato del lavoro preferivano raccontare con il concetto di dualismo, sottolineando le enormi disparità presenti nel mercato del lavoro italiano fra lavoratori protetti e lavoratori non protetti in materia di licenziamenti, infortuni, malattia, cassa integrazione, disoccupazione. Oggi quella frattura esiste ancora, seppur attenuata dalle norme introdotte dal Jobs Act. Accanto ad essa, tuttavia, nel decennio della crisi si è aggravata una ulteriore, ancor più profonda, frattura: quella fra le prime due società (delle garanzie e del rischio), e la Terza società, la società degli esclusi. Chi sono i membri della Terza società? E che cosa li distingue da quelli delle prime due società? Fondamentalmente la loro esclusione dal circuito del lavoro regolare. Della Terza società fanno parte i lavoratori in nero, i disoccupati in senso stretto (che cercano attivamente lavoro), e i disoccupati in senso lato (disponibili al lavoro, anche se non ne stanno cercando attivamente uno). Complessivamente si tratta di circa 9 milioni di persone, ovvero di un segmento della società italiana che ormai ha raggiunto una dimensione comparabile a quella degli altri due. Un segmento che, negli anni precedenti alla crisi superava di poco i 6 milioni di persone, ma negli anni fra il 2007 e il 2014 è letteralmente esploso, con un incremento del 40% in soli 7 anni. Si potrebbe supporre che la presenza di una sacca di esclusi sia un fenomeno sostanzialmente fisiologico delle società avanzate, specie dopo la lunga crisi che ha colpito le loro economie in questi anni. Il Dossier della Fondazione Hume sulla Terza società mostra però che, in Europa, solo Grecia e Spagna hanno una quota di esclusi superiore a quella dell’Italia, mentre paesi come Germania, Regno Unito, Francia, Austria, Olanda, Belgio, Svezia, Finlandia, hanno quote prossime a metà della nostra. Ma è soprattutto l’analisi del passato che ci aiuta a capire l’importanza della Terza società in Italia. Se, con l’aiuto dei non molti dati statistici disponibili, proviamo ad andare a ritroso nel tempo, scopriamo che la Terza società emerge e riemerge, come un fiume carsico, in diversi periodi della nostra storia. Nei settant’anni che vanno dalla fine della seconda Guerra mondiale ad oggi, la Terza società è stata in rapida espansione in almeno tre lunghi periodi: il periodo 1963-1972, quando l’apparato produttivo italiano si è ristrutturato espellendo forza lavoro debole, un processo a suo tempo descritto da Marcello De Cecco come risposta "ricardiana" alla crisi; gli anni 80 e i primi anni 90, che furono anche gli anni centrali del lungo processo di "scomparsa dell’Italia industriale", a suo tempo descritto da Luciano Gallino; e infine il decennio della lunga crisi iniziata nel 2007, in cui il peso della Terza Società è tornato a crescere a ritmi molto intensi. In ciascuno di questi tre periodi la Terza società ha accresciuto in modo sensibile il proprio peso rispetto alle altre due, e nell’ultimo, secondo la ricostruzione della Fondazione Hume, ha toccato il suo massimo storico. Oggi, fatta 100 la popolazione attiva o potenzialmente attiva, circa il 30% appartiene alla Terza società, ovvero si trova in una condizione di esclusione. Sarebbe un errore, tuttavia, pensare a questo segmento della società italiana solo e semplicemente in termini di povertà, emarginazione, deprivazione. Della Terza società fanno parte i disoccupati in senso stretto (che cercano attivamente un lavoro), e molti lavoratori in nero sfruttati e sottopagati. Ma in essa rientrano anche soggetti per i quali il lavoro irregolare è una scelta, o soggetti che non cercano attivamente lavoro perché possono permettersi di non lavorare, come accade per una frazione non trascurabile delle casalinghe e dei cosiddetti Neet (giovani Not in Employment, Education, or Training). La Terza società, in altre parole, è sociologicamente una realtà bifronte, fatta di ceti bassi, in condizioni di povertà assoluta o relativa, ma anche di ceti medi, che sopravvivono grazie al lavoro retribuito dei familiari e alle risorse accumulate dalle generazioni precedenti. Ci si potrebbe chiedere, a questo punto, se la Terza società abbia anche qualche tipo di rappresentanza nel sistema politico, ovvero quali siano i partiti che meglio riescono ad intercettarne il consenso. Ebbene, anche su questo punto il dossier della Fondazione David Hume fornisce qualche informazione utile, basata su un sondaggio commissionato alla società Ipsos. Considerata nel suo insieme, la Terza società si distingue dalla prima e dalla seconda per la sua preferenza per il Movimento Cinque Stelle e per la sua refrattarietà verso Pd e Forza Italia, i due architravi del sistema politico della seconda Repubblica. Se consideriamo separatamente i suoi tre segmenti, lavoratori in nero, disoccupati e scoraggiati, possiamo inoltre osservare che i lavoratori in nero prediligono anche l’estrema sinistra e Fratelli d’Italia, i disoccupati guardano con interesse alla Lega e ai piccoli partiti di centro, mentre i lavoratori scoraggiati (che hanno smesso di cercare lavoro) si orientano in modo più massiccio di qualsiasi altro gruppo sociale verso il movimento Cinque Stelle, che qui raccoglie oltre il 50% dei consensi. Difficile dire quali conseguenze potrà avere, nell’immediato futuro, la crescita dell’esercito degli esclusi, massicciamente sovra-rappresentati nelle regioni del Mezzogiorno. Possiamo osservare, tuttavia, che le due precedenti grandi onde di espansione della Terza società, quella degli anni ‘60 e quella degli anni ‘80, sono terminate entrambe con una crisi politica e un radicale cambio di stagione. La prima onda è sfociata nel Sessantotto, ossia nel grande ciclo di lotte che ha coinvolto studenti, operai e donne fra il 1968 e il 1976. La seconda onda è sfociata nel cambio di regime del 1992-1994, con Mani pulite e il crollo dei partiti della prima Repubblica. Resta da vedere se anche la terza onda anomala, quella che si è dispiegata nel decennio della lunga crisi, produrrà un nuovo terremoto nella società italiana. Jihad e populismo assediano le democrazie di Maurizio Molinari La Stampa, 12 febbraio 2017 Le democrazie industriali si trovano davanti ad una doppia temibile sfida: il jihadismo dall’esterno, il populismo dall’interno. Diverse per genesi, identità e pericolosità entrambe tali minacce possono indebolire in maniera strategica l’Occidente, ed hanno bisogno di risposte urgenti capaci di respingerle e, in ultima istanza, batterle. Il jihadismo è una minaccia alla sicurezza, si origina dalla decomposizione degli Stati nazionali arabo-musulmani in Nordafrica e Medio Oriente ed è portatrice di una rivoluzione sanguinaria che si propone di dominare l’Islam e sottomettere tutti coloro che considera infedeli o apostati. Per rispondere a tale nemico le democrazie hanno bisogno di una dottrina di sicurezza che indichi nei jihadisti il maggiore pericolo esterno, assegnando il compito della difesa alla Nato e siglando intese strategiche con ogni altra nazione - dal Marocco alla Giordania, dalla Russia a Israele, dal Giappone all’Australia - impegnata a combatterlo. Serve dunque un grande patto internazionale contro la Jihad. Il populismo è anch’esso una minaccia alla sicurezza ma si origina dall’interno, dalla rivolta dei ceti medi impoveriti dalla globalizzazione e bisognosi di nuove forme di protezione economica e sociale. Leader e movimenti che nei Paesi dell’Occidente si propongono di demolire l’establishment dando voce alla rabbia popolare si giovano della carente attenzione dei partiti tradizionali per le nuove forme di povertà. Sconfiggere tale minaccia, disinnescando la genesi del populismo, richiede ai leader delle democrazie avanzate di dotarsi di politiche di crescita e sviluppo capaci di sanare le diseguaglianze, aumentare il tenore di vita e in ultima istanza ridare fiducia a milioni di famiglie sul futuro dei propri figli. Per superare la duplice sfida il metodo non può essere che uno: combattere il jihadismo come se il populismo non esistesse e rispondere al populismo come se il jihadismo non vi fosse. Sono due emergenze parallele, egualmente decisive, ma devono essere affrontate separatamente perché in un caso si tratta di ridisegnare la sicurezza collettiva e nell’altro di riprogettare la prosperità collettiva. I leader che sapranno raccogliere tali sfide potranno ridefinire, rinvigorire e rilanciare il primato delle democrazie nel XXI secolo. Per comprendere l’urgenza di assumere l’iniziativa su entrambi questi fronti bisogna prestare attenzione alle avvisaglie di tempesta ovvero guardare a quanto avvenuto negli ultimi giorni a Quebec City e Lione. Nella città canadese una moschea è stata attaccata con armi da fuoco da un estremista bianco spinto da motivazioni di matrice razzista, causando un pesante bilancio di vittime. Ed a Lione, nel Sud della Francia, la leader del Front National, Marine Le Pen, ha lanciato la corsa all’Eliseo sulla base di una piattaforma ultranazionalista che promette l’uscita da Unione Europea e Nato. In entrambi i casi si tratta di espressioni estreme, ultranazionaliste, del populismo anti-sistema destinate a giovare alla propaganda jihadista che punta a reclutare in Europa e Nord America fra i residenti musulmani per moltiplicare gli attacchi. Ovvero, il maggiore rischio per le democrazie è trovarsi imprigionate in una morsa di intolleranza: da un lato i jihadisti, dall’altro l’ultra-nazionalismo. La presenza di significativi flussi migratori verso Europa e Nord America può aggravare tale dinamica perché i profughi vengono considerati una sorta di invasori dagli ultranazionalisti e le tensioni che innescano vengono sfruttate - non di rado - dalla propaganda jihadista per fomentare odio verso i Paesi di arrivo. Lo scenario peggiore è quello di scivolare verso un confronto diretto fra jihadisti e populisti, gli uni alimentati dagli altri e viceversa: non è scontato ma è possibile. Ecco perché servono in fretta politiche comuni radicalmente innovative, da parte di Europa e Stati Uniti, per disinnescare i pericoli che incombono su tutti noi. Migranti. Sull’intesa con Tripoli incognita diritti umani di Sara Menafra Il Messaggero, 12 febbraio 2017 Poche garanzie per i centri migranti. L’accordo resiste ma alla lunga resta prioritario stabilizzare il Paese decisivo il ruolo delle Nazioni Unite. Il governo di Paolo Gentiloni per il momento mostra sangue freddo. L’accordo con il governo libico di Fayez al Serraj in tema di immigrazione almeno formalmente non è messo in discussione dall’eventuale assenza di un delegato Onu che si occupi specificamente della crisi libica. Anzi, anche se nessuno può sostenerlo in questi termini, visto che finora quell’intesa è stata sottoposta alle pesanti critiche del predecessore del palestinese Fayyad, Martin Kobler, che parlava di grave rischio di violazione dei diritti umani e aveva mantenuto una posizione attendista, la messa in mora Usa di un delegato Onu è guardata quantomeno con indifferenza. I rischi sono però dietro l’angolo e a nessuno sfugge che il 2017 stia segnando un numero di sbarchi costante o persino in leggera crescita rispetto all’anno scorso. Se l’Onu dovesse ridurre il proprio ruolo in Libia e il paese dovesse precipitare in una situazione ancora meno stabile di quella attuale, per Serraj mantenere le promesse fatte all’Italia diventerebbe difficile. E perché almeno in prospettiva l’Italia avrà bisogno di organismi riconosciuti dalle Nazioni unite che tutelino i diritti umani dei migranti salvati in acque libiche. Tanto più se a sostenere l’intesa dovesse esserci l’Europa in forme maggiori di quanto fatto finora. L’intesa siglata lo scorso 2 febbraio e sulla quale il ministro degli Interni Marco Minniti ha avuto un peso decisivo (la missione in Libia è stata là prima del suo mandato) è composta di otto articoli e cita esplicitamente come precedente l’intesa del 2008 con Muammar Gheddafi che prevedeva un impegno economico per il nostro paese di 5 miliardi di euro. Stavolta, i finanziamenti diretti in Libia sono molto meno consistenti: 200 milioni dunque molto, molto meno anche di quanto la Germania ha speso per l’accordo analogo con la Turchia. In sintesi, si prevede che la Libia si impegni alla "predisposizione di campi di accoglienza dei migranti in Libia, sotto l’esclusivo controllo del ministero dell’Interno" libico "lavorando al tempo stesso affinché" i paesi di provenienza accettino "il rimpatrio dei propri cittadini". La Libia, poi, si impegna anche al pattugliamento via mare, col supporto tecnico dell’Italia e finanziamenti anche europei, e ad attivare i controlli nel sud del paese. L’Italia dovrebbe fornire "sostegno e finanziamento a programmi di crescita" e "supporto tecnico e tecnologico agli organismi libici incaricati della lotta all’immigrazione clandestina". Per funzionare, l’intero meccanismo ha bisogno di un governo libico sempre più forte. E, invece, il ruolo di Serraj è costantemente messo in discussione. "Proprio in questi mesi il precedente delegato Onu stava lavorando ad una nuova intesa tra i tre governi presenti, al momento nel paese", spiega Mania Toaldo senior policy fellow dello European Council on Foreign Relations (Ecfr): "Se il delegato Onu salta o si indebolisce, l’intera fase di stabilizzazione potrebbe fare preoccupanti passi indietro". Tutta da costruire è, poi, la tutela dei diritti umani per i migranti riportati in Libia dalla Guardia costiera, come prevede l’accordo. Al momento, in Libia esistono solo centri di detenzione gestiti dalle milizie e quindi senza nessuna regola né procedura. L’accordo con l’Italia parla della realizzazione di nuovi centri gestiti dal ministero. Stati Uniti. Arrestati migliaia di immigrati, Trump prepara un nuovo divieto di Marco Valsania Il Sole 24 Ore, 12 febbraio 2017 Da New York a Los Angeles centinaia di clandestini fermati in attesa di deportazione, panico tra le minoranze Trump preannuncia un nuovo ordine esecutivo per rilanciare il blocco agli ingressi. Giro di vite negli Stati Uniti contro gli immigrati. Mentre il presidente Donald Trump si prepara a varare un altro decreto di blocco agli ingressi, dopo quello bocciato dai giudici, in vari stati centinaia, forse migliaia, di clandestini sono stati fermati in attesa di espulsione. C’è il padre arrestato al rientro a casa. Il ragazzo prelevato dal posto di lavoro, un cantiere edile o la cucina di un ristorante. Il meccanico di Long Island che dà al figlio minorenne la lista dei contatti d’emergenza, se una di queste sere non lo vedesse tornare. E la madre uscita in manette dopo essersi presentata a un regolare appuntamento con l’ufficio immigrazione. L’amministrazione di Donald Trump ha inaugurato un nuovo capitolo della crociata sugli immigrati, facendo scattare retate nelle grandi città contro i clandestini. Con gli agenti armati di uno dei suoi ordini esecutivi: un decreto che allarga le priorità per le deportazioni a infrazioni minori e accuse non ancora provate. Una definizione che oggi include il ricorso a fasulli documenti di identità quali i numeri di social security, le cifre identificative necessarie all’impiego, "crimine" che riguarda molti degli oltre undici milioni di immigrati illegali negli Stati Uniti. L’ufficio dell’Immigration and Customs Enforcement ha negato di aver iniziato operazioni straordinarie, affermando che gli arresti riportati negli ultimi cinque giorni non sono una svolta ma fanno parte di periodiche azioni di cento squadre di agenti già all’opera sotto la presidenza di Obama, che nell’anno più intenso, il 2012, aveva espulso 400mila clandestini. Ha criticato le notizie diffuse sui social media come "pericolose e irresponsabili". E citato 160 persone catturate a Los Angeles che in gran parte - 150 - avevano una fedina penale e violato precedenti ordini di espulsione. La differenza è però l’ampliamento dei criteri per arresto e deportazione, che hanno portato al fermo di centinaia di persone seminando il panico tra avvocati dei diritti civili e minoranze etniche. E provocando una nuova crisi diplomatica con il Messico: il Ministero degli Esteri ha lanciato un avvertimento "all’intera comunità messicana" negli Stati Uniti "di prendere precauzioni e rimanere in contatto con il consolato più vicino". Un gruppo di influenti politici e personalità messicane, tra i quali l’ex ministro degli Esteri Jorge Castaneda, ha pubblicizzato una strategia che invita gli immigrati a lottare in tribunale per i loro diritti. Preoccupazioni serpeggiano inoltre nelle aziende americane. Trump ha anche messo a punto una nuova offensiva per superare gli ostacoli posti dalla magistratura al suo divieto ai rifugiati e ai visti da sette paesi islamici. Ha in preparazione un nuovo ordine esecutivo, per domani o dopodomani, che imporrebbe una messa al bando più limitata e precisa per evitare ricorsi. Questo non esclude un appello alla Corte Suprema sul decreto originale, che è convinto di vincere ma che, ha ammesso, richiede tempo. Ma il presidente, volato nel fine settimana al suo resort di Mar-a-lago in Florida dove ha ospitato il premier giapponese Shinzo Abe, è stato scosso da altre polemiche e scandali. Il Segretario Onu Antonio Guterres ha indicato l’ex primo ministro palestinese Salam Fayyad quale prossimo inviato in Libia, ricevendo la bocciatura dell’ambasciatore Usa Nikki Haley che ha accusato la scelta di essere squilibrata e anti-Israele. Il consigliere per la Sicurezza Nazionale Michael Flynn, stando inoltre a intercettazioni di routine dell’intelligence, nel giorno stesso dell’imposizione di nuove sanzioni da parte di Obama contro Mosca per le interferenze nelle elezioni a favore di Trump, ha parlato con l’ambasciatore del Cremlino a Washington e discusso proprio delle ritorsioni. Discussioni sulle sanzioni potrebbero rappresentare un reato, perché a privati cittadini, come era Flynn prima dell’insediamento, non possono condurre politica estera. Stati Uniti. Proposta-shock: pena di morte per i medici che aiutano ad abortire di Riccardo Noury Corriere della Sera, 12 febbraio 2017 Il senatore repubblicano Joseph Silk, affiliato al gruppo "Aboliamo l’aborto umano" noto alle cronache per le minacce alle operatrici sanitarie e l’esposizione fuori dai seggi elettorali di enormi immagini di feti, ha presentato al Senato dello stato dell’Oklahoma una proposta di legge che considera le procedure mediche per l’interruzione della gravidanza alla stregua di un omicidio di primo grado e, conseguentemente, prevede la pena di morte per i medici coinvolti. "Dobbiamo essere coerenti: o proteggiamo la vita umana o non la proteggiamo, che sia la vita di un bambino di un anno o di un feto di quattro settimane. Come uomo politico, il mio primo dovere è di proteggere la vite degli innocenti presentando proposte di legge" - ha dichiarato il senatore Silk. La proposta di legge non chiarisce se la donna assistita nell’interruzione di gravidanza debba essere considerata - come logica vorrebbe - complice in omicidio. Così, una donna costretta ad abortire a causa di complicanze nella gravidanza potrebbe finire in carcere e i medici che l’hanno aiutata verrebbero condannati a morte. L’anno scorso una proposta di legge simile non superò il veto della governatrice Mary Fallin, repubblicana a sua volta. Ma con l’aria che tira oggi negli Usa, il senatore Silk (che ha presentato un’altra proposta per introdurre nella legislazione norme discriminatorie nei confronti delle persone omosessuali) stavolta potrebbe averla vinta. Dall’Oklahoma proviene anche il giudice Neil Gorsuch, che il presidente Trump ha da poco nominato alla Corte suprema per sostituire il defunto Antonin Scalia. Negli ultimi anni Gorsuch ha fatto parte della Corte d’appello del X circuito occupandosi di diversi casi di pena di morte. Al termine di una delle più terribili esecuzioni della storia contemporanea della pena capitale negli Usa - Clayton Lockett agonizzò per 43 minuti tra sofferenze infinite per l’inefficacia del sedativo che gli era stato somministrato - Gorsuch liquidò il ricorso dei familiari di Lockett dicendo che si era trattato di "un’innocente disavventura" e di un "incidente isolato". Turchia. Il Ministro Cavusoglu "nessun giornalista in carcere solo per aver scritto articoli" Nova, 12 febbraio 2017 Secondo il ministro degli Esteri turco, Mevlut Cavusoglu,non ci sono giornalisti in carcere in Turchia solo per reati di opinione. Lo riferiscono quotidiani spagnoli, riportando dichiarazioni fatte da Cavusoglu a Madrid durante la sua visita che si è conclusa ieri. "Non c’è un solo giornalista in carcere in Turchia per aver scritto un articolo. Se ci fosse, vorrei sapere chi è", ha detto Cavusoglu citato dalla stampa spagnola. Il capo della diplomazia di Ankara ha detto che molte persone in Turchia sono in prigione per aver sostenuto il fallito golpe del 15 luglio scorso, e tra questi vi sono anche giornalisti. Cavusoglu ha quindi criticato l’organizzazione Reporter senza frontiere (Rsf), accusata di resoconti "poco obiettivi" sulla situazione della libertà di stampa in Turchia. Secondo la Ong, sono oltre 100 i giornalisti in carcere in Turchia. "Ad oggi, 348 giornalisti sono in arresto nel mondo: si tratta di un incremento del 6 per cento rispetto al 2015. Il numero di giornalisti professionisti imprigionati è cresciuto del 22 per cento e si è quadruplicato in Turchia dopo il mancato colpo di stato del mese di luglio", ha indicato Reporter senza frontiere nel suo ultimo rapporto di dicembre scorso. "Alle porte dell’Europa, una vera e propria caccia alle streghe ha provocato l’arresto di decine di giornalisti e reso la Turchia la più grande prigione per la professione. In un anno, il regime di Erdogan ha cancellato ogni pluralismo dei media al cospetto di un’Unione europea silente sulla questione", ha denunciato Christophe Deloire, segretario generale di Rsf in un comunicato.