"Ristretti Orizzonti"? Più che una rivista, per il Dap è un pizzino di Errico Novi Il Dubbio, 11 febbraio 2017 Via Arenula: periodico da vietare a chi è detenuto al 41 bis. L’amministrazione penitenziaria ricorre contro il Tribunale di Sorveglianza di Sassari che aveva autorizzato un presunto boss a ricevere il giornale. Ristretti Orizzonti è un "importante punto di riferimento sul mondo della detenzione". È il Dap a riconoscerlo. Lo fa però in un reclamo con cui ne vuole negare la lettura a un recluso al 41 bis. Secondo l’Amministrazione penitenziaria, infatti, attraverso i contenuti della rivista potrebbero essere "veicolate e scambiate informazioni illecite all’esterno". È scritto nel "controricorso" opposto dal Dap alla decisione con cui il Tribunale di Sorveglianza di Sassari aveva accolto una precedente istanza di un recluso al regime 41 bis nel carcere sardo, istanza relativa appunto al divieto di abbonarsi a Ristretti orizzonti imposto da via Arenula. È il responsabile del settore Alta sicurezza, il magistrato Carlo Villani, a firmare il contro-reclamo, presentato allo stesso ufficio di Sassari lo scorso 3 novembre e che, ad oggi, non risulta definito. Il ministero della Giustizia non si esita dunque ad ammettere testualmente che il rifiuto iniziale di ricevere Ristretti Orizzonti fosse stato imposto al recluso in questione, il presunto boss Alessio Attanasio, per "impedire un uso improprio della rivista, quale possibile strumento di collegamento con gruppi criminali". Il giornale prodotto all’interno del carcere di Padova sarebbe addirittura un potenziale veicolo di informazioni tra mafiosi. O potrebbe quantomeno tornare utile, sostiene ancora il Dap, per la verifica della "esecuzione di ordini illeciti veicolati all’esterno". Ad aver provato con successo, almeno una prima volta, a resistere a tale preclusione è appunto il presunto esponente della mafia siracusana Alessio Attansasio. Uno abituato a battersi per i propri diritti persino senza l’ausilio degli avvocati. Già vanta, tra le altre, una "battaglia" simile, che lo portò a rivolgersi persino al Tar quando nel 2014 il Magistrato di Sorveglianza della sede in cui era detenuto all’epoca, Novara, esitava nell’autorizzarlo a ricevere in cella alcuni libri di Isabel Allende. Nulla di più attinente dunque alla materia definita tre giorni fa dalla sorprendente decisione della Corte costituzionale sul limitato diritto alla lettura dei detenuti al 41 bis. Nel caso specifico, pur non trattandosi di un giudizio di costituzionalità, la sorpresa è per certi aspetti superiore. Colpisce la tesi del Dap secondo cui Ristretti sarebbe pubblicazione suscettibile di veicolare scambi di informazioni tra le cosche. Colpisce tanto più che il controricorso di via Arenula è stato depositato appena 4 giorni dopo la visita dell’ex premier Matteo Renzi al carcere di Padova. In quella occasione, l’allora capo del Governo insieme con il guardasigilli Andrea Orlando, tuttora in carica, visitò anche la redazione della rivista. Possibile che un’iniziativa editoriale legittimata e riconosciuta fino al più alto livello istituzionale possa essere considerata "strumento improprio" di messaggi tra criminali? Sì, secondo l’amministrazione penitenziaria. Che a sostegno della propria tesi cita un precedente rifiuto di acquistare un altro giornale attento alle tematiche carcerarie. "È infatti accaduto che ad alcuni detenuti in regime di 41 bis", si legge nel contro-reclamo, "sia stato inibito l’acquisto, la ricezione e la lettura di un quotidiano, il Garantista, contenente al suo interno un inserto lettere dal carcere". Esattamente come il nostro giornale. "Ecco perché il carcere cattivo fa male" di Chiara Bert iltrentino.it, 11 febbraio 2017 Due ex detenuti si raccontano agli studenti: "La scuola e il lavoro ci hanno salvati". La vita in cella e la scrittura come rifugio. Che lezione strana, e intensa, ieri mattina al liceo Rosmini. Duecento ragazzi nell’Aula magna, in cattedra niente professori. Ci sono due ex detenuti a parlare di reati, di pena, di vittime e colpevoli, e della vita che si sono ripresi in mano, molto grazie alla loro convinzione, molto anche grazie alla fortuna. Con loro c’è Ornella Favero, giornalista, da anni volontaria nel carcere Due Palazzi di Padova, dove ha fondato la rivista "Ristretti orizzonti" in cui lavorano detenuti (anche delle sezioni di alta sicurezza), ex detenuti e volontari. "Dalla viva voce" si chiama il progetto, promosso dall’associazione Il Gioco degli Specchi, che porta storie di carcere dentro le scuole e nelle prossime settimane porterà dodici classi trentine a visitare il carcere di Padova grazie a insegnanti come Amedeo Savoia e Antonella Valer. Le storie. "Mi chiamo Andrea, ho 38 anni e sono finito in carcere quando ne avevo 21 perché ho ucciso una persona in un periodo in cui ero scollegato dalla realtà". Comincia così il video in cui Andrea racconta la sua storia: asciutto, crudo, parte da lontano, da quando ragazzino comincia a farsi le canne. Solo anni dopo arriverà l’eroina, la convinzione di dominarla, la lotta con i genitori che tentano disperatamente di salvarlo ("Erano diventati solo un ostacolo, li detestavo"), fino alla tragedia che segnerà la sua vita. Viene condannato in primo grado a 25 anni, poi ridotti a 21, con gli sconti per buona condotta e l’indulto ne ha scontati 15, da 7 è un uomo libero, lavora in uno sportello di orientamento giuridico. "Sono stato fortunato a capitare a Padova - dice - perché dal carcere sono uscito gradualmente, i permessi, il lavoro all’esterno, la semilibertà. Ho potuto ricostruirmi e ricostruire il rapporto con la mia famiglia, quando sono uscito avevo un lavoro che mi ha permesso di essere indipendente. Se dopo 15 anni di galera esci e hai solo un sacco nero con le tue poche cose, non ce la fai". In cattedra c’è anche B. (chiede di non scrivere il suo nome, "se uno ha scontato la pena ha il diritto di scomparire") ma la faccia ce la mette anche lui, parlando davanti a platee di studenti della sua vita, e lavorando nella redazione di "Ristretti Orizzonti". Ha 55 anni, è stato fuori e dentro dal carcere infinite volte da quando ne aveva 19, e venne arrestato la prima volta per furto. Quinto di 10 fratelli, frequentava il liceo artistico, un giorno decide di lasciare la scuola affascinato dalla bella vita e dai soldi dei contrabbandieri. Comincia la sua carriera criminale rubando con gli amici, nei parchi, statue che poi rivendono: dai furti si passa alle rapine, poi allo spaccio di droga. "Il carcere per me è stata una scuola di criminalità". Racconta dell’ozio, "il pensiero fisso era uscire il più presto possibile e ricominciare, quando uscivo si festeggiava con i vecchi amici, e tutto ricominciava uguale". Dentro e fuori, fino all’ultimo arresto per traffico di droga. La spavalderia si sgretola, arriva il conto dei vari processi: 14 anni, una montagna, finiti di scontare un anno e mezzo fa. La salvezza. Per B. arriva al Due Palazzi di Padova: "Un educatore mi propose di riprendere a studiare, ho iniziato a collaborare con il giornale. Ho incontrato volontari, studenti, insegnanti, ma soprattutto le vittime di reato. È stato un ascolto importante, prima pensavo che un furto è un reato contro il patrimonio, poi ho capito che la vita delle vittime viene stravolta". Anche B. ha sperimentato un’uscita graduale dal carcere, ha ricostruito i legami familiari, anche con suo figlio: "Di lui mi sono perso tanto, ma oggi è contento di quello che faccio". Gli studenti ascoltano, in un silenzio totale dove perfino i cellulari tacciono. Poi, quando è il loro turno, prendono coraggio e fanno domande: com’è stato reinserirsi?, è facile mantenere una buona condotta?, come si comportano gli agenti?, come hai superato la tossicodipendenza?, qual è il primo pensiero quando entri?, pensi mai a come sarebbe stato se non fosse andata così?. Andrea e B. rispondono senza reticenze. "All’inizio chiedevamo di evitare domande sulle storie personali", spiega Ornella Favero, poi abbiamo capito che parlare di carcere in generale lo fa sentire qualcosa di distante". C’è bisogno di storie per avvicinare, per interessare. La vita in cella. Pochi metri quadrati da condividere, "immaginatevi di stare per anni con la persona che detestate", provoca Andrea. "Non hai spazi privati, gli agenti ti possono controllare anche mentre sei in bagno. Non decidi tu quando fare la doccia, né quando spegnere la luce". "Pensate solo a cosa vuol dire vivere per anni rinunciando alla sessualità", aggiunge B., "ho accettato cose vergognose ma ho fatto finta di niente per evitare provvedimenti disciplinari, e non ne ho mai preso uno". In cella la convivenza forzata alza il livello della tolleranza, ma provoca anche tensioni. "La scrittura - racconta Andrea - è spesso l’unico rifugio, io mi chiudevo di notte nel bagno-cucina, e scrivevo". La violenza in carcere c’è, "purtroppo ricadono sugli agenti anche compiti che non competono a loro". Chi entra in carcere con problemi di dipendenza quasi sempre viene lasciato a se stesso, "nelle mani dei compagni di cella". "Mi avranno dato degli ansiolitici per dormire, dentro è la prassi", prova a ricordare Andrea, "ma quando sono entrato ero l’assassino, la mia dipendenza è stata messa da parte. Pensavo che sarei rimasto lì per sempre". Invece no, per lui e per B. il dopo-pena è arrivato, con il riscatto. Pena e recupero. Favero cita l’articolo 27 della Costituzione, le pene devono tendere alla rieducazione del condannato. E sferza i ragazzi: "Il carcere cattivo incattivisce, fa uscire peggiori. Dovrebbe invece assomigliare a una scuola. Il 70% di chi marcisce in galera, come molti chiedono, quando esce torna a delinquere. La percentuale scende tra il 16 e il 19% tra chi rientra nella società con percorsi guidati che passano per lo studio, occasioni di lavoro, condizioni dignitose. Se lo Stato è umano, ci guadagna la società, è un investimento sulla sicurezza. Smettiamola di illuderci che noi siamo i buoni, in carcere finiscono tanti che non lo avrebbero mai immaginato. Il carcere ci riguarda". (Articolo pubblicato sul quotidiano "Il Trentino" il 10 febbraio 2017) Un libro è più libro se letto al 41bis di Ferdinando Camon Avvenire, 11 febbraio 2017 Un detenuto a Terni, condannato all’ergastolo, ha chiesto di poter ricevere qualche libro. La direzione del carcere ha detto no. Il detenuto ha sporto reclamo. Da lì è partita una questione di legittimità diretta alla Corte costituzionale. La Corte costituzionale ha definito la questione "non fondata". E così, per ora, i carcerati al 41bis non potranno né ricevere né spedire libri. La condanna al 41bis è anche un addio ai libri. È cosa buona? È cosa giusta? Andiamoci piano, il rifiuto di dare-ricevere libri per il 41bis ha le sue ragioni. Con i libri passano messaggi di ogni tipo, suggerimenti, ordini, informazioni, con scritture o sottolineature. Il 41 bis è più sicuro con l’entrata-uscita di libri o senza? Senza, dice la Consulta. E ha ragione. La questione posta alla Consulta faceva riferimento ad alcuni princìpi della Costituzione che stabiliscono per ognuno il diritto all’istruzione e il diritto a un trattamento umano e non degradante. Il diritto all’istruzione, all’apprendimento, alla conoscenza è da intendersi cessato se l’uomo va in carcere? Certamente no. Se è in fin di vita? Certamente no. Tutti, quando facciamo una pausa nella vita, per esempio andiamo all’ospedale, ci portiamo dietro dei libri. Infelice colui che non lo fa. Ci sono perfino dei libri (sto per dire qualcosa di eccessivo, e se non sono capito è colpa mia, chiedo scusa), ci sono dei libri che io leggo "solo" quando sto male, ho la febbre, sto a letto o vado in ospedale. Libri che amo moltissimo. A volte non mi dispiace (ecco la cosa eccessiva) andare in ospedale, perché così posso riprendere in mano quei libri. Uno è "La Città di Dio" di Agostino. Ricordo quando mi fu regalato. Andavo in stazione a prenotare un rapido per il giorno dopo, in bicicletta, una vecchietta cieca mi taglia la strada, cado e mi rompo la punta della tibia. Ricovero. In ospedale gli amici mi portano quel libro appena stampato da Einaudi in edizione sontuosa. Roma è distrutta dai barbari, la fonte della civiltà sul mondo si spegne, Agostino si chiede che senso ha lavorare, studiare, scrivere, combattere, morire, se poi la barbarie vince. E risponde. Quella era la prima Roma, la nostra. L’editore Einaudi, comunista dichiarato, tradusse quell’opera quando moriva l’impero comunista: era la fine di Mosca capitale dell’impero, e Mosca era un’altra Roma, nuova madre e maestra dell’umanità. Leggendo quel libro in ospedale, sentivo la febbre salire più per la lettura che per la frattura. L’incidente che m’aveva provocato la frattura era ampiamente compensato da quella lettura. Che senso avrebbe privare gli ergastolani di un incontro che potrebbe correggere la colpa che li ha fatti finire in carcere? Ma il problema non è che leggano i libri, il problema è che li ricevano. Da chi? E cosa c’è dentro? Da una parte c’è il diritto del carcerato a leggere, dall’altra c’è il diritto di tutti noi all’efficacia del 41bis. E allora siamo al problema: per essere efficace, il 41bis deve equivalere a una morte civile. È un vecchio problema, se sia più crudele l’ergastolo o la morte. Cioè: se l’ergastolo non sia in realtà una "morte lunga". Mi torna sempre in mente un film argentino bellissimo e crudele, Il segreto dei suoi occhi, in cui un uomo si vendica di un altro uomo, che gli ha ucciso la compagna, chiudendolo in un suo ergastolo privato, nella boscaglia, senza parlargli mai. Il prigioniero impazzisce per la mancanza di parole e supplica di essere ucciso. Dunque: morire è meno crudele che perdere le parole. Adesso nel nostro 41bis i condannati perdono le parole scritte, i libri. Non possono chiederli, non possono riceverli, non possono passarli. Eppure, essenzialmente, i libri sono scritti proprio per questo: sono messaggi che mandiamo ai nostri fratelli umani per dire loro qualcosa d’importante, di estremo, di riassuntivo, di conclusivo. Se il condannato alla morte lunga vuol leggere un libro prima di morire, bisogna trovare il modo di farglielo leggere. Il libro è più libro se viene letto anche al 41bis. Caritas nelle carceri "dietro le sbarre si salvi la dignità" di Pierluigi Dovis e Fredo Olivero lavocedeltempo.it, 11 febbraio 2017 Un appello alla necessità di preservare l’umanità dei detenuti. Rivolte ripetute nelle carceri brasiliane, che hanno avuto come conseguenza "il più vasto e orribile massacro" del sistema carcerario regionale, secondo il pensiero espresso dal segretario alla Pubblica sicurezza dello stato di Manaus. Ma anche la ferma voce di Papa Francesco che sollecita: "gli istituti penitenziari siano luoghi di rieducazione e di reinserimento sociale, e le condizioni di vita dei detenuti siano degne di persone umane". Segnali lontani con riflessi vicini colti da più d’un consigliere regionale o comunale, tanto da indurlo a recarsi in visita alle nostre carceri per valutare le condizioni di vita di chi vi è detenuto, italiano o straniero, colpevole o ancora in attesa di giudizio. Il carcere è da sempre un quartiere dimenticato della città. Se ne occupa chi vi è preposto con qualche volontario e ministro di culto, quelli che in gergo sono chiamati "articoli 17 e 78". Non essendoci sui media torinesi cronache di fatti gravi ce ne facciamo una ragione sufficiente per non pensarci più. E se anche potesse emergere che al di là del muro di recinzione la vita quotidiana sia costellata di privazioni poco rispettose della dignità umana, ci tranquillizzeremmo pensando che la punizione è utile alla redenzione. E lo è se non viene vissuto come vendetta ma come correzione. Ma per un carcerato la punizione consiste nella privazione delle libertà personali, non nel rendergli la vita uno slalom tra ostacoli di ogni genere: parola di Costituzione italiana. Il sovraffollamento del carcere non fa parte della pena e, ancor meno, del percorso di reinserimento. L’attesa esageratamente prolungata di essere giudicati per un fatto di cui si è accusati, l’estrema difficoltà a vivere la relazione profonda con i propri cari soprattutto quando questi vivono al di la del Mediterraneo, le levatacce in piena notte per venire spostati di cella senza alcun apparente motivo, l’essere trattenuti solo perché non in possesso di tutti i documenti necessari al soggiorno nel Belpaese, la lunghissima litania di "domandine" per ottenere il farmaco antidolorifico o la pur necessaria carta igienica non fanno parte della pena. Diventare "proprietà dello Stato per un certo numero di anni", come testimoniò un carcerato torinese a Benedetto XVI durante un incontro della Caritas, non fa parte né della pena né della necessaria restituzione verso la società offesa dal reato. Sono cose che non riabilitano la persona. È dentro la prospettiva opposta, profondamente mana ed evangelica, ancorata al diritto e non figlia di superficiale buonismo, che si muovono le tante iniziative della fraternità interna ed esterna al carcere. A fondamento del percorso riabilitativo c’è necessità urgente di curare la prospettiva del dialogo tra culture e fedi differenti, collocate quasi a caso dall’assegnazione dei posti nelle sezioni e nelle celle. La significativa presenza di carcerati provenienti da altri contesti territoriali pone a chi si occupa di loro - ma anche alla società e alla Chiesa - la questione della capacità di superare le singole posizioni culturali di partenza, rette dall’assioma più o meno dichiarato secondo cui non avremmo nulla da imparare perché abbiamo già tutte le risposte. Riconoscere l’altro come persona e rispettarla in quanto tale, pur nella sua dignità "rinchiusa in carcere" è la strada per progettare vero reinserimento. Citare il termine dialogo pensando al carcere, luogo della istituzionalizzazione massima di una persona, lascia molti perplessi. Ma, se perseguito con impegno, sincerità, conoscenza e competenza può diventare attore efficace di cambiamento e di sviluppo. L’obiettivo non può essere quello di attrarre a sé l’altro, convincendolo che la propria sia la strada migliore - ivi compresa quella delle convinzioni etiche e religiose - ma è capacità far emergere ciò che l’altro ritiene importante, ciò che costituisce il suo mondo interiore per coglierne il filo rosso che ci lega. Il dialogo si realizza anche grazie alla presenza di qualcuno che sappia farsi mediatore di culture, figura ad oggi praticamente assente dal panorama carcerario. È per approfondire queste prospettive che pochi giorni fa la garante per i diritti dei detenuti della Città di Torino, Monica Gallo, ha lanciato l’idea della creazione di uno spazio interno alla Casa Circondariale dedicato al silenzio, alla riflessione, alla preghiera cui tutti possano accedere. Non si tratta di erigere una cappella laica, quanto di offrire uno strumento concreto per favorire l’emersone della dignità di quei fratelli. Fuori dal recinto ci sono altre iniziative simili, che vanno studiate e approfondite per farne strumenti di abbattimento del pregiudizio, vera priorità educativa e culturale. Nel campo della giustizia minorile, ad esempio, la logica del dialogo è stata vincente proprio nella nostra città dove tanto si è lavorato e pensato a partire dai minori più fragili, italiani e soprattutto stranieri. Ancora oggi a San Salvario come a Porta Palazzo sono migliaia i ragazzi e i giovani accolti, accompagnati, inseriti in svariate attività da volontari che li hanno letteralmente strappati o dalla reclusione o dalla concreta possibilità di sperimentarla. Il carcere è uno spudorato microcosmo della società che lo circonda. Sperimentare tra le sue sbarre percorsi di dialogo umanizzante è modo concreto per rendere più umana la società intera. E questa è cosa che interessa tutti, specialmente i discepoli di quel Gesù che è venuto per liberare ogni persona dalle proprie schiavitù. Sicurezza e degrado nelle città: la sfida più difficile da vincere di Marco Ludovico Il Sole 24 Ore, 11 febbraio 2017 Il governo guidato da Paolo Gentiloni affronta un terreno minato, molto sentito dai cittadini ma affrontato finora con scarso successo: il livello di sicurezza nelle città. Dà il via così a un decreto legge per smuovere un sistema di centri istituzionali rivelatosi finora inefficace davanti a problemi vissuti ogni giorno. Come l’occupazione abusiva di immobili; l’uso e l’abuso di alcol consumato per strada e nelle piazze fino a impedire il sonno dei residenti; un accattonaggio in diversi luoghi pubblici, come le stazioni ferroviarie, che diventa spesso molesto e insidioso per la sicurezza dei passanti. Il testo annovera tra gli interventi una lotta più aspra alla vendita di merci contraffatte e al commercio ambulante in luoghi non consentiti; stabilisce che dopo una sentenza passata in giudicato i writer, su disposizione del giudice, ripuliscano o riparino ciò che è stato danneggiato o lavorino per la collettività fino all’equivalente del risarcimento del danno. L’elenco è suggestivo, anzi è probabile che venga integrato durante la discussione parlamentare. Il senso del decreto è di richiamare all’impegno, in una condivisione di responsabilità, gli attori in gioco in ogni area metropolitana. Sindaci, Regioni, prefetti e lo stesso Stato nelle sue articolazioni di pubblica sicurezza a cominciare dalle forze dell’ordine. La sicurezza urbana è così un "bene pubblico" e deve essere considera "integrata" tra le istituzioni in prima linea. L’asse sindaci-prefetti, richiamato più volte dal ministro dell’Interno Marco Minniti, diventa strategico: non solo, dunque, nella gestione dell’immigrazione e la prevenzione contro le minacce antiterrorismo, ma innanzitutto, ogni giorno, per ridurre al minimo ogni segno negativo contro la "convivenza civile" indicata nel decreto. La mossa del governo Gentiloni è di indubbio impatto politico. Ma non priva di rischi. Al di là degli annunci si misura, infatti, e sarà misurata ogni giorno dai cittadini. È un’operazione tentata già altre volte: il provvedimento richiama e rilancia, per esempio, i patti per la sicurezza nelle città che furono lanciati già dall’ultimo esecutivo guidato da Romano Prodi, con ministro dell’Interno Giuliano Amato e viceministro proprio Minniti. La chiave di volta nel successo sta nella capacità di incidere sulle abitudini e le prassi degli attori in campo nelle città: prefetti, questori, sindaci, presidenti di regione. Ciascuno, quasi sempre finora, proiettato sul proprio percorso; tutti, nella maggior parte dei casi, ben poco coesi e integrati in un’azione istituzionale comune. La scommessa di Gentiloni e Minniti è far saltare questo schema consolidato, ormai improduttivo se non nefasto per la sicurezza dei cittadini. Minniti: "Daspo urbano per chi viola le regole dei territori" di Nicoletta Cottone Il Sole 24 Ore, 11 febbraio 2017 "Non ci sono nuovi reati né aggravanti di pena ma misure come la possibilità di applicare in modo più ampio quello che si applica nelle manifestazioni sportive: davanti a reiterate violenze sportive c’è il daspo, di fronte a reiterati elementi di violazione di alcune regole sul controllo del territorio le autorità possono proporre il divieto di frequentare il territorio in cui sono state violate le regole". Lo ha detto il ministro Marco Minniti illustrando il decreto sicurezza approvato in cdm. Sulla sicurezza delle città oggi "abbiamo preso decisioni di un certo rilievo", ha sottolineato il premier Paolo Gentiloni, dopo il consiglio dei ministri, spiegando che il provvedimento sulla sicurezza è stato preso d’intesa con l’Anci. Il decreto mira a realizzare un modello trasversale e integrato tra i diversi livelli di governo mediante la sottoscrizione di appositi accordi tra Stato e Regioni e l’introduzione di patti con gli enti locali. Il ministro Minniti ha ricordato che "la sicurezza urbana va intesa come un grande bene pubblico. La vivibilità, il decoro urbano e il contrasto alle illegalità sono elementi che riguardo il bene pubblico". E ha spiegato che il decreto "prevede il rafforzamento dei poteri di ordinanza dei sindaci: avranno potere autonomi e la possibilità di patti tra territori e ministero degli Interni che prima non avevano una cornice legislativa". Previste nuove modalità di prevenzione e di contrasto all’insorgere di fenomeni di illegalità quali, ad esempio, lo spaccio di stupefacenti, lo sfruttamento della prostituzione, il commercio abusivo e l’illecita occupazione di aree pubbliche. Il decreto prevede forme di cooperazione rafforzata tra i prefetti e i Comuni con l’obiettivo di incrementare i servizi di controllo del territorio e promuovere la sua valorizzazione. Il nuovo decreto "è stato ampiamente discusso, meditato, voluto" dall’Anci e dalla conferenza delle Regioni con l’idea di "un grande patto strategico di alleanza tra Stato e poteri locali". In Italia, ha detto il ministro, il modello sicurezza funziona, "non c’è emergenza ma bisogna stabilire che se il centro è modello nazionale si può pensare ad un modello che guardi meglio il territorio da Bolzano a da Agrigento". Con il decreto legge scatterà per i vandali l’obbligo di ripulitura e ripristino dei luoghi danneggiati, con obbligo di sostenere le spese o rimborsarle. Prevista anche una prestazione di lavoro non retribuita in favore della collettività per un tempo non superiore alla durata della pena sospesa. L’articolo 639 del codice penale già prevede che chi deturpa o imbratta cose altrui sia punito, con la multa fino a euro 103. Se il fatto è commesso su beni immobili o su mezzi di trasporto pubblici o privati, si applica la pena della reclusione da uno a sei mesi o della multa da 300 a 1.000 euro. Se il fatto è commesso su cose di interesse storico o artistico, si applica la pena della reclusione da tre mesi a un anno e della multa da 1.000 a 3.000 euro. Nei casi di recidiva per le ipotesi di cui al secondo comma si applica la pena della reclusione da tre mesi a due anni e della multa fino a 10.000 euro. Condanna a pulire per chi sporca la città. Nel decreto sulla sicurezza urbana c’è una "norma che prevede la pulizia e il ripristino per violazioni al decoro urbano. Il giudice, cioè, se qualcuno sporca, può condannarlo a ripristinare quello che ha sporcato: è una sfida di civiltà", ha detto il ministro Minniti. Divieto di frequentare esercizi pubblici e aree urbane. Arriva anche la possibilità di imporre il divieto di frequentazione di determinati pubblici esercizi e aree urbane ai soggetti condannati per reati di particolare allarme sociale. Misure per prevenire l’occupazione di immobili. Il provvedimento prevede anche misure per prevenire l’occupazione arbitrarie di immobili. Compito del prefetto impartire prescrizioni per prevenire il pericolo di turbative per l’ordine e la sicurezza pubblica e per assicurare il concorso della forza pubblica all’esecuzione di provvedimenti dell’autorità giudiziaria. Mendicanti, prostitute e "balordi" saranno espulsi dalle città di Errico Novi Il Dubbio, 11 febbraio 2017 "Non si tratta di nuovi reati", assicura il ministro dell’Interno Marco Minniti. Ed è vero: il codice penale non c’entra. Ma si tratta di norme severissime, seppur di carattere amministrativo: su tutte, il "daspo urbano", un inedito divieto di accesso al centro storico delle città d’arte che potrà durare fino a 12 mesi. È inserito insieme con altre "misure urgenti" nel decreto Sicurezza urbana varato ieri dal Consiglio dei ministri. "Uno strumento che rafforza il potere dei sindaci e difende il decoro delle città", spiega il capo del Viminale. Le norme hanno destinatari di vario genere: spacciatori di droga, alcolisti, chi pratica "l’accattonaggio molesto "o esercita la prostituzione. L’obiettivo è tutelare le "zone di pregio artistico dei centri urbani, quelle più interessate dai grandi flussi turistici". Non è il solo intervento inedito messo a disposizione degli amministratori locali. Un altro daspo infatti riguarderà in particolare gli spacciatori di droga e consisterà nel divieto per questi soggetti di frequentare determinarti locali pubblici, quelli più frequentati dai giovani a cominciare dalle discoteche. Il divieto durerà da 1 a 5 anni, e sarà applicato in questo caso in modo parallelo alle eventuali condanne penali. Si tratta del decreto sicurezza di cui si era parlato per la prima volta nello scorso mese di maggio, e che è arrivato in capo a un lungo confronto con l’Anci. Il daspo per "accattoni molesti", prostitute e alcolisti potrà dunque prescindere del tutto da eventuali condanne penali. Potrà scattare in seguito a specifica ordinanza del primo cittadino, a cui competerà l’individuazione di quelle aree del centro storico di "particolare pregio e interesse turistico" da tutelare anche con la messa al bando degli indesiderati. Chi sarà sorpreso dalla polizia municipale in comportamenti o pratiche lesive di "quel grande bene pubblico che è il decoro urbano", come spiega Minniti, sarà punito con una sanzione pecuniaria e "il divieto di frequentare i posti dove le violazioni sono state commesse", sempre secondo l’espressione usata dal ministro dell’Interno in conferenza stampa. Divieto che durerà 48 ore. E che appunto, in caso di "recidiva", potrà arrivare a 12 mesi. "Sono norme forti", riconosce lo stesso Viminale, "ma sono anche il risultato di precise richieste dell’Anci", cioè dell’Associazione che riunisce i sindaci di tutta Italia, attualmente presieduta dal primo cittadino di Bari Antonio De Caro. In realtà nel decreto varato ieri a Palazzo Chigi qualche nuova norma penale c’è, ed è ancora Minniti a ricordarlo: "In caso di violazioni del decoro urbano, il giudice potrà comminare pene alternative: chi sporca, ad esempio, potrà essere condannato a ripulire". A fine Consiglio dei ministri, a parlare con la stampa c’è anche il guardasigilli Andrea Orlando. È insieme con lui che Minniti ha predisposto l’altro decreto varato ieri, quello sull’immigrazione. Vi compaiono le norme sui Cie e sulla "semplificazione dei procedimenti per le richieste d’asilo" annunciate subito dopo l’attentato di Berlino dello scorso dicembre, ma in buona parte congelate in un ddl che lo stesso Orlando aveva inviato a Palazzo Chigiu già nel settembre scorso. Come concordato anche con la Conferenza Stato- Regioni, parte delle misure viaggia dunque sulla corsia preferenziale del decreto legge, Compresa l’istituzione delle sezioni speciali in 14 tribunali (due in più rispetto a quanto previsto inizialmente) e l’abolizione dell’appello per chi aspira alla protezione internazionale: "Il procedimento sarà ricorribile esclusivamente in Cassazione", conferma il ministro della Giustizia. Che aspira nelle procedure più articolate previste per l’esame amministrativo delle istanze dinanzi alle commissioni provinciali per scongiurare le ombre di incostituzionalità. Separazione carriere, i penalisti puntano su una legge popolare di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 11 febbraio 2017 Una legge popolare per la separazione delle carriere. Lo stralcio della riforma dell’ordinamento penitenziario dalla riforma del processo penale. La condivisione delle preoccupazioni dei procuratori per la riforma della magistratura onoraria. Beniamino Migliucci, presidente delle Camere penali, fa il punto da Matera, in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario dei penalisti, sulle questioni aperte e traccia un’agenda per i prossimi mesi. La raccolta delle firme per un Ddl che disciplini la separazione delle carriere tra giudici e pm, con la previsione tra l’altro di due Csm, rappresenta, spiega Migliucci anche un cambio di strategia rispetto al referendum: "In questo modo possiamo mettere in campo una riforma organica. Cosa che con il referendum non sarebbe stata possibile. È tempo di tornare a mettere al centro del dibattito sulle politiche della giustizia un tema cruciale. E alla vigilia di una campagna elettorale tutte le forze politiche dovrebbero esprimersi su un punto che è anche culturale. Parlare di separazione delle carriere vuol dire anche discutere della separazione dei poteri". Migliucci non ci va leggero e sottolinea come "l’unitarietà della giurisdizione è un concetto autoritario. La terzietà del giudice è nota a tutti i Paesi che hanno adottato un codice accusatorio. È una convinzione che si sta facendo strada anche nella magistratura. Quando il primo presidente della Cassazione Giovanni Canzio chiede l’apertura di finestre di controllo giurisdizionale nella fase delle indagini presuppone evidentemente la presenza di un giudice terzo". Quanto all’allarme dei vertici delle procure sulla riforma della magistratura onoraria che sguarnirebbe e dequalificherebbe il lavoro dei vpo, Migliucci dichiara di condividerne la preoccupazione nel nome di una giustizia penale che se deve sfuggire al populismo dell’espansione irragionevole dei reati (da ultimo l’omicidio stradale, quando invece servirebbe una depenalizzazione ben più coraggiosa di quella, timida, di un anno fa) dall’altro non può abdicare a minime esigenze di efficienza. E proprio nel segno dell’efficienza, da coniugare con la conservazione di un livello adeguato di garanzie, dovrebbe muoversi la riforma del codice di procedura. Migliucci si dice consapevole della difficoltà di un’approvazione del Ddl delega in questo scorcio di legislatura ma spezza una lancia a favore del l’urgenza di uno stralcio almeno della parte sull’ordinamento penitenziario anche per dare uno sbocco all’elaborazione promossa dal ministro della Giustizia Andrea Orlando con gli stati generali dell’esecuzione penale. E poi, avverte il presidente dei penalisti, "è necessario uscire dall’equivoco della prescrizione. Che matura soprattutto nella fase delle indagini preliminari, troppo spesso fuori controllo anche solo quanto alla durata". Infine Migliucci si dichiara contrario alla possibile riduzione dei gradi di giudizio nei procedimenti di immigrazione e per il riconoscimento dello status di rifugiato, "perché partire dai più deboli? Riflettiamo invece su possibili limitazioni all’impugnazione del Pm rispetto alle sentenze di assoluzione". Le Sezioni unite della Corte di cassazione bocciano le modifiche in peggio per il reo di Dario Ferrara Italia Oggi, 11 febbraio 2017 No a modifiche in peggio per il reo. Quando il giudice dell’esecuzione applica le norme sul reato continuato non può quantificare gli aumenti di pena per i reati-satellite in misura superiore a quelli fissati dal giudice della cognizione con la sentenza irrevocabile di condanna. E ciò perché l’istituto ex articolo 81 cp risulta comunque ispirato dal favor rei. Lo stabiliscono le Sezioni unite penali della Cassazione con la sentenza 6296/17, pubblicata il 10 febbraio, che smentisce l’orientamento maggioritario della giurisprudenza di legittimità. Diritti negati. Accolto il ricorso del condannato per droga. A conti fatti il giudice della cognizione aveva determinato la pena per la condotta meno grave in misura meno severa di quella disposta in sede di esecuzione. E questo è inammissibile perché può avere effetti paradossali: il condannato che vedesse il suo trattamento sanzionatorio peggiorato in sede di esecuzione non potrebbe ottenere una serie di diritti che l’ordinamento riconosce ai detenuti e che invece avrebbe potuto rivendicare se si fosse applicata la sentenza della cognizione passata in giudicato. Norma di confine. È il reo, d’altronde, a chiedere l’applicazione della continuazione ed è lui che sceglie i titoli di condanna relativi ai reati da includere nella richiesta di riconoscimento del vincolo: risulta dunque legittima da parte sua l’aspettativa di una decisione non modificabile in peggio. Senza dimenticare che l’articolo 671 cpp è ritenuta norma di confine fra cognizione ordinaria ed esecuzione penale: conferisce al giudice dell’esecuzione poteri più di quelli tradizionalmente riconosciutigli dall’ordinamento. Diritti e libertà. Di più: l’intangibilità del giudicato, fa capire il collegio esteso, non è più un dogma del processo. La giurisprudenza costituzionale e di legittimità va delineando un sistema che tutela i diritti di libertà: persegue "decisioni giuste non solo perché rispettose della legge ma perché percepibili come sostanzialmente tali dal comune senso di giustizia". E il giudicato può recedere solo in favore del condannato e mai contro: l’applicazione di un trattamento sanzionatorio anche solo pro quota più sfavorevole al reo risulta in contrasto con l’evoluzione in corso nel diritto penale e processuale. Parola al giudice del rinvio. Cagliari: "diritti negati", i detenuti della sezione di Alta sicurezza in sciopero della fame L’Unione Sarda, 11 febbraio 2017 Scatta oggi la protesta nella sezione Alta sicurezza nella casa circondariale di Uta. In una sola cella sono stipate troppe persone, sarebbe particolarmente complicato riuscire a parlare coi parenti, poche le telefonate concesse rispetto al consentito, anche accedere ai servizi previsti dal regolamento risulterebbe particolarmente complicato. Sono solo alcuni dei motivi che hanno spinto i detenuti reclusi nel "circuito Alta sicurezza" del carcere di Uta, aperto Io scorso settembre, ad annunciare l’avvio, a partire da questa mattina, dello sciopero della fame. È la sezione che raggruppa gli imputati o condannati per reati di mafia, sequestro di persona e traffico internazionale di droga. Gli "ospiti" sono circa cinquanta, solo tre dei quali sardi. La decisione è stata comunicata dagli stessi detenuti con una lettera inviata all’avvocato cagliaritano Franco Villa, componente del direttivo nazionale dell’Osservatorio Carcere dell’Unione delle camere penali italiane. Basta col cibo, nessuno (così assicurano) toccherà i pasti serviti all’interno della Casa circondariale. A cominciare dal latte servito per colazione. Questi i punti "dolenti" secondo gli ospiti dell’Alta sicurezza: il sovraffollamento, perché in stanze progettate per due detenuti è stato aggiunto il terzo letto; la difficoltà nei colloqui in funzione degli orari di visita, soprattutto per i parenti che vengono da fuori Sardegna (la stragrande maggioranza); l’asserita impossibilità di effettuare tutte le telefonate previste dal regolamento penitenziario; la difficoltà o impossibilità nell’utilizzo dei servizi, in particolare della palestra e della biblioteca; la mancata evasione delle domande in matricola per parlare con gli educatori o gli assistenti sociali. Il legale ha preannunciato una prossima visita all’istituto di pena, "già autorizzata dal Dipartimento amministrazione penitenziaria", per verificare di persona se le condizioni lamentate dai carcerati "corrispondano alla situazione reale". Montelupo Fiorentino: il manicomio-carcere chiude dopo 131 anni, tra sprechi e ritardi di Veronica Potenza e Lucia Aterini Il Tirreno, 11 febbraio 2017 A Montelupo lo stop dell’Opg atteso da 5 anni, incerto il destino della villa. Ma nel frattempo sono stati buttati 7 milioni di euro. Smagliati, giorno dopo giorno per anni, filo per filo, staccati con fatica da chi li aveva generati, i tessuti di vita e morte, di sofferenza e pazzia, di amore e violenza, che per 131 anni sono stati custoditi in un luogo maestoso quanto inadatto, si sono disgregati per l’eternità. L’Opg (Ospedale Psichiatrico Giudiziario), nell’immenso complesso mediceo dell’Ambrogiana, ha chiuso con l’ultimo internato trasferito a Volterra. Il manicomio criminale non esisterà più come contenitore di esistenze pericolose, imbarazzanti, rifiutate da tutti e da tutto. Un carcere per malati gravi, curati di rinterzo da pochi medici e infermieri, che doveva terminare la propria esistenza già cinque anni fa. E che venne definito dal presidente emerito Giorgio Napolitano "autentico orrore indegno di un Paese appena civile". Un’agonia lunga dovuta all’impreparazione della Regione a gestire la riforma partorita da lei stessa che partiva da un assunto sostanzialmente banale: i pazzi non devono stare in carcere ma in un ospedale per essere curati. L’orrore (citando sempre Napolitano) è continuato colpevolmente perché i malati-detenuti interessano a pochi. Anzi quel mondo così delicato, bisognoso di cura e protezione, in cerca di equilibri mancanti, negli anni Settanta è stato addirittura spudoratamente sfruttato da affiliati a organizzazioni mafiose o camorristiche che, con i ricoveri a Montelupo e perizie compiacenti, riuscivano a stare in carcere molto meno di quello che avrebbero dovuto. Non solo: l’Opg è stato esempio, caso mai in Italia ce ne fosse stato bisogno, di soldi spesi in maniera insensata. Almeno sette i milioni che i contribuenti hanno gettato "figurativamente" da uno dei torrioni dell’Ambrogiana. Perché quei milioni sono stati investiti di recente per ristrutturare l’Opg che doveva divenire un carcere una volta che gli internati fossero sistemati in altro luogo. Ma già da tempo è chiaro che non ci saranno più inferriate lungo l’Arno. E sul futuro della villa non c’è chiarezza. Solo la direttrice dell’Opg Antonella Tuoni aveva un’idea chiara: voleva convertirlo, parzialmente, in struttura a custodia attenuata con i detenuti impegnati nella manutenzione dell’immenso immobile. Un modo per non gettare al vento i fondi pubblici. Ma questo è stato il partito dei perdenti. La chiusura è arrivata dopo anni di limbo fatto di sovraffollamenti, di celle di 30 metri quadrati per 7 persone e gravi carenze di agenti, educatori, psicologi, medici e infermieri. Ad accendere i riflettori sulle condizioni di grave disagio e mancanza di cure è stata la commissione del senatore Ignazio Marino. Partendo dal 2008, un decreto varato dal governo Prodi, aveva gettato le basi per il superamento degli Opg dando alle Regioni una serie di direttive e linee guida per dotarsi di soluzioni alternative. La norma sanciva anche un passaggio di testimone: predominante diventava la competenza sanitaria sotto l’egida del servizio sanitario nazionale. Nello stesso anno venne istituita anche una commissione parlamentare d’inchiesta sull’efficienza del servizio sanitario nazionale. Al vertice il futuro sindaco di Roma, Ignazio Marino, che il 22 luglio del 2010 bussa per la prima volta al portone dell’Ambrogiana. La relazione sull’ispezione mette nero su bianco una situazione di ambienti fatiscenti e di stanze "fino a 9 posti letto, con un sovraffollamento che impedisce ogni movimento alle persone ospitate". Marino riferisce di essersi trovato "in una cella in cui un internato mangiava, uno dormiva e il terzo, in un gabinetto senza pareti, defecava alla presenza degli altri senza ormai più alcun imbarazzo". All’indomani dell’ispezione, l’allora assessore regionale al welfare, Salvatore Allocca, dichiara che l’Opg sarà chiuso nel giro di un anno. Una stima destinata ad essere ampiamente smentita dai fatti. La mancata attuazione del proposito di superamento porta nel dicembre del 2012 i Nas a sequestrare, su mandato della commissione Marino, il reparto Pesa dell’Opg. La porzione di villa destinata ad uso penitenziario, nella quale erano state rilevate gravi carenze strutturali e sanitarie, subisce a quel punto una serie di interventi di adeguamento e ristrutturazione. Per portarli a termine, negli anni, vengono spesi, secondo la stima della direttrice dell’Opg circa 7,5 milioni di euro. La Regione continua a stentare a dare attuazione al piano per il definitivo superamento della struttura e il termine ultimo concesso slitta, a colpi di proroghe, fino al 31 marzo 2015. A quasi un anno di distanza da quella data restano operativi cinque dei sei Opg italiani: Aversa, Barcellona Pozzo di Gotto, Montelupo, Napoli e Reggio Emilia. Nel febbraio 2016 il governo decide di commissariare le Regioni interessate e affida a Franco Corleone, ex senatore e sottosegretario alla giustizia, il compito di portare a compimento l’operazione, facendo sì che vengano finalmente completate le Residenze per l’esecuzione della misura di sicurezza sanitaria (Rems) che dovranno sostituire gli Opg. Come garante regionale dei detenuti, Corleone si era già occupato più volte della questione Opg. In particolare, nel novembre 2015, aveva apostrofato come "illegale e incostituzionale" la detenzione degli internati in una struttura che ormai da mesi non era più contemplata dall’ordinamento giuridico. Un particolare, quest’ultimo, costato alla Regione Toscana anche una condanna da parte del Tribunale di sorveglianza, in accoglimento del ricorso presentato da 47 detenuti montelupini. L’Opg, nel giorno della sua chiusura, non è più quel carcere lugubre e mal tenuto. Un fiume di soldi è stato concentrato nelle ex scuderie dove c’erano le sezioni degli internati. Dal punto di vista della detenzione l’Ambrogiana ora sarebbe una struttura modello: quasi tutti i reparti sono stati ristrutturati ed è stato anche realizzato un impianto di aspirazione fumi, per una spesa di 170mila euro, che nessun carcere ha. Sono state portate a termine la bonifica dell’amianto e la manutenzione della caserma agenti. Un fiume di denaro che ha iniziato a scorrere dal 2007 e si è interrotto a fine 2015 contemporaneamente al manifestarsi, in un convegno con Regione e Demanio, della volontà di destinare la villa Ambrogiana a residenza alberghiera di extra-lusso. Le carte si sono ribaltate: non più un carcere come lasciava prevedere il flusso di risorse investite ma la concessione a privati per lo sfruttamento in chiave turistica. Tra l’altro, sempre a fine 2015, un lavoro da 900mila euro per il recupero di trenta posti nella sezione Ambrogiana viene assegnato con firma del contratto davanti al notaio e poi dopo congelato. Molte meno le risorse che sono state destinate alla villa, sede di uffici. E infatti non è stato possibile continuare le visite all’interno per problemi di sicurezza, il salone granducale affrescato a bosco è chiuso. E nel 2015 è stato bloccato anche l’intervento per mettere in sicurezza una delle torri della villa che non è più accessibile. O meglio, come spiega la direttrice: "Abbiamo pagato 180mila euro per i ponteggi che dovevano servire all’intervento ma poi le impalcature sono state tolte senza fare niente". In più è ricoperta dai rovi e dal degrado la grotta all’approdo sull’Arno (anche questa in passato visitabile). Sebbene lo sgombero dell’Ambrogiana si sia concluso, le soluzioni alternative individuate per gli internati si muovono ancora con un margine d’incertezza. Secondo i progetti iniziali, una volta a regime, la Rems di Volterra avrebbe dovuto avere una capienza di 40 posti letto. In realtà ad oggi ne conta 28, altri 20 arriveranno entro settembre dalla riconversione in Rems dell’ex carcere femminile di Empoli. Nell’attesa, si tampona con soluzioni transitorie come Villa Guicciardini a Firenze e Villa Eoli a Volterra. La villa sarà riconsegnata a breve dall’amministrazione penitenziaria al Demanio. Che poi deciderà la destinazione. Ma l’orizzonte è lontano. Ieri è partito il gruppo di lavoro con Comune, Demanio, Regione e amministrazione penitenziaria. Il sindaco Paolo Masetti ha ipotizzato un museo. Ma solo per una parte del complesso. Per il resto, è l’idea più accreditata, ci vuole il coinvolgimento di un partner privato. Dentro nessun animale feroce, solo uomini Non ho mai trovato un animale feroce dentro le mura dell’Ambrogiana". Parole nette quelle di Riccardo Gatteschi, che per venti anni è stato volontario dell’Opg curando la redazione della rivista "Spiragli" e accompagnando fuori gli internati. Parole che arrivano dal cuore, da quelle migliaia di ore che Gatteschi ha trascorso con loro. "Ho visto un microcosmo con gli stessi sentimenti e reazioni del mondo esterno - racconta Gatteschi che ha scritto anche un libro "La Gabbia dei matti cattivi" - all’Opg non ci sono stati i cattivi, ci sono state persone che hanno sbagliato perché malate. Anche quando hanno ucciso genitori o seviziato donne". E se tanti, una volta usciti, sono morti in maniera violenta o prematura, altri provano a vivere un’esistenza normale. "Ne conosco diversi, tra loro l’Uomo fiamma chiamato così perché si era fatto tatuare il volto con lingue di fuoco rosse e nere, dal mento alle tempie. Da questo periodo buio, poi la decisione di riportare la pelle al suo colore naturale con sedute in un laboratorio specializzato a Verona. E poi l’uscita dall’Opg e un lavoro in campo musicale". E ancora Gatteschi elenca altri successi con reinserimenti a Modena a Firenze. E anche in Francia dove un ex internato lavora nel settore dei cartoni animati. L’Opg è un concentrato di dinamiche disturbate, ha ospitato serial killer del calibro di Gianfranco Stevanin o Bartolomeo Gagliano. Ma alla stessa maniera, dentro gli enormi stanzoni, si è respirato amori e relazioni nonostante le sbarre, i dolori e i disagi psichici. Adele (il cognome è stato omesso per sua richiesta), 40 anni, è la testimonianza diretta di questo particolare aspetto. Ha lavorato per due anni all’Opg come operatrice portando il teatro, la pittura e la scrittura agli internati nell’ambito di vari progetti finanziati dal ministero e in collaborazione con l’Arci. Ecco il suo racconto, in alcuni punti poco circostanziato, per proteggere la sua identità. Con le gioie e i dolori che accompagnano qualsiasi relazione: "Quando entrai per la prima volta all’Ambrogiana non avevo nessuna cognizione del luogo in cui ero finita. La prima cosa che notai, però, fu quella che tutti gli internati si interessarono subito alla mia persona perché ero una donna. E da allora in poi non ho mai smesso di ricevere bigliettini con dediche e pensieri. Come del resto è accaduto a tutte le operatrici impegnate nell’Opg". Adele continua il suo racconto: "Quando mi resi conto del coinvolgimento che sentivo per questa persona lasciai l’incarico, non potevo continuare ad andare a lavorare per vederlo". Da lì in poi iniziò una storia tra loro: "L’ho seguito per quattro anni nelle sue tappe di comunità e di carcere, anche fuori dalla Toscana. E sono stata accanto a lui non solo come compagna ma anche come mamma, sorella e assistente sociale. Lui non aveva mai avuto una vera famiglia, i suoi genitori erano stati spesso in carcere e fin da piccolo lo avevano impiegato per vendere droga. E nonostante gli inserimenti che erano stati tentati con altre famiglie, dopo un periodo scappava sempre. È stato quello che poi alla fine ha fatto anche con me. Mi diceva che voleva riabilitarsi ma dentro di lui scattava una molla che gli faceva fare quello che non voleva e non doveva". "Perché - continua Adele - quando era fuori si sentiva come su Marte, sentiva l’ansia che gli saliva perché non sapeva come comportarsi di fronte alle cose più banali, come un computer o un bancomat. Non riusciva a essere disinvolto nella quotidianità. E per farsi passare l’agitazione finiva per bere". "Io credo di aver sperimentato l’impotenza con lui - conclude l’ex operatrice - Ho speso molte energie per questa relazione perché sono convinta che l’amore rigeneri. Avevo pensato che potesse uscire da quel circolo malefico e in parte avevo preso la nostra relazione in maniera sbagliata, come una sfida professionale. Ma alla fine lui si è arreso a se stesso. Dalla comunità è fuggito ed è tornato a suonare al campanello dell’Opg. Perché solo qui dentro si sentiva tranquillo e non vedeva nemici. E dietro le sbarre trova una dimensione di vita". Orvieto (Pg): il carcere di via Roma non chiude e rimane istituto a custodia attenuata orvietosi.it, 11 febbraio 2017 Il carcere di via Roma non chiude e rimane istituto a custodia attenuata. Dopo che politica, istituzioni e cittadini si sono battuti organizzandosi anche in comitati per impedire il nuovo "cambio di destinazione d’uso" della struttura da istituto a custodia attuata (Ica) a casa di reclusione di media sicurezza, a mettere la parola fine al "casus belli" sollevato da Fabrizio Bonino del sindacato Sappe, ci ha pensato il capo del dipartimento amministrazione penitenziaria Santi Consolo. Atteso da giorni ha incontrato il sindaco e, dopo una visita al carcere che ha definito "esempio da imitare", ha confermato e ribadito la volontà del ministro Orlando di mantenere l’attuale destinazione salvaguardando quindi tutti i laboratori interni al carcere per cui il centro di Orvieto ha già una certa esperienza. Presente all’incontro anche Walter Verini, capogruppo Pd della Commissione giustizia della Camera, che, nel suo intervento, ha sottolineato l’importanza del regime di detenzione a custodia attenuata per il miglioramento della vita dei carcerati grazie anche ai vari corsi di formazione professionale "che agevolano - ha detto - il percorso di recupero alla vita sociale contribuendo anche ad una maggiore sicurezza". È stato proprio il venir meno dei finanziamenti ministeriali per questa esperienza, ma non solo, ad aver portato il direttore Luca Sardella a proporre al provveditorato regionale di convertire nuovamente la struttura a casa di reclusione di media sicurezza. Una decisione per nulla condivisa con il sindacato che, di contro, aveva proclamato lo stato di agitazione. Il problema di fondo era che la permanenza in città di un carcere normale avrebbe potuto essere messa in discussione adesso che il tribunale ha chiuso i battenti e non avendo abbastanza detenuti. Attualmente, infatti, sono una sessantina contro una capacità di almeno 96 carcerati. Ecco perché con l’Ica si cerca di consolidare l’esperienza sulle attività artigianali che prevede anche uno scambio tra i detenuti e l’esterno. Anche il sindaco di Orvieto Giuseppe Germani si è detto soddisfatto di aver firmato il protocollo d’intesa con la direzione del carcere per l’inserimento dei detenuti a custodia attenuata nei lavori socialmente utili di cui il Comune necessita sperando che la collaborazione possa continuare. "Siamo molto contenti - ha commentato Fabrizio Bonino del Sappe - che chi ha il potere di cambiare le cose, come il ministro Orlando, ha manifestato la volontà di lasciarle così come sono". Reggio Calabria: rischio terrorismo, il Garante dei detenuti lancia l’allarme zoom24.it, 11 febbraio 2017 Le problematiche rappresentate dal Garante dei detenuti di Reggio Calabria, nella sua relazione annuale, in riferimento ai due istituti penitenziari reggini. Desta preoccupazione la situazione interna di alcuni istituti penitenziari calabresi. In particolare, a preoccupare è il progressivo aumento di detenuti stranieri, in larga parte di fede islamica, di detenuti tossicodipendenti o sottoposti a terapia psichiatrica. Un mix che determina preoccupazione soprattutto dal punto di vista della sicurezza, anche in considerazione del fatto che le carceri calabresi non sono esentate dal rischio radicalizzazione del terrorismo. Difficoltà e problematiche, queste, secondo quanto riporta Gazzetta del Sud nell’edizione odierna, contenute nella relazione annuale del Garante dei detenuti di Reggio Calabria, Agostino Siviglia, e rappresentate in riferimento ai due istituti penitenziari reggini. Il quadro generale. Negli istituti "Arghillà" e "Panzera", così come in altre realtà, è presente un progressivo sovraffollamento. Stando alla relazione, nel primo caso, a fronte di una capienza di 302 detenuti, al 30 settembre 2016, erano presenti 307 persone ristrette, di cui 81 stranieri. Nel secondo caso, a fronte di una capienza di 186 detenuti ne erano presenti alla stessa data 222, 12 stranieri e 28 donne. Altro "ritardo" sul fronte reggino, registrato dal Garante, attiene all’aspetto della rieducazione, in parte ancora "inesplorato". Problematiche comunque incardinate - sempre secondo quanto riporta Gazzetta - in un quadro generale anche caratterizzato da diverse note positive. Latina: convenzione tra Provincia e Tribunale, dieci detenuti al lavoro sulle strade di Roberta Sottoriva radioluna.it, 11 febbraio 2017 Via al lavoro di pubblica utilità anche in Via Costa. Della Penna: "Un atto di umana fiducia verso chi ha sbagliato". Dieci detenuti si occuperanno nei prossimi mesi della manutenzione delle strade provinciali. Lo faranno gratuitamente insieme ad altri lavori di supporto da svolgere presso gli uffici della Provincia di Latina. Lo prevede una convenzione firmata tra l’ente guidato da Eleonora Della Penna e il Tribunale Ordinario guidato dal giudice Catello Pandolfi. "È un’opportunità alternativa al carcere, un atto di umana fiducia verso chi ha sbagliato con l’obiettivo del recupero e il reinserimento nella società - sottolinea la presidente Della Penna - siamo certi che la misura alternativa al carcere in alcune situazioni specifiche, in reati meno gravi, possa essere certamente utile per il detenuto e di conseguenza per la comunità". Possono accedere a questa misura, le persone che sia state condannate per esempio per violazione del codice della strada o della legge sugli stupefacenti, o ancora, nel caso in cui il giudice stabilisca che la sospensione condizionale della pena è subordinata al lavoro di pubblica utilità. Si tratta in sostanza di lavorare gratuitamente per la collettività (la legge prevede per esempio nella protezione civile, per la tutela del patrimonio pubblico e ambientale o per assistere malati, anziani, minori, ex detenuti o extracomunitari) quando lo decida il giudice: "Questa attività non retribuita in favore della collettività sarà svolta in conformità con quanto disposto nella sentenza di condanna nella quale il giudice indica il tipo e la durata del lavoro di pubblica utilità" - spiegano dalla Provincia di Latina che si impegna ad assicurare il rispetto delle norme, la predisposizione delle misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e morale dei condannati, e garantendo ovviamente l’esercizio dei fondamentali diritti umani e la dignità della persona. Il lavoro di pubblica utilità può essere svolto presso lo Stato, le regioni, le province, i comuni o presso enti e organizzazioni di assistenza sociale o volontariato. Nel caso specifico La convenzione avrà la durata di un anno fino a febbraio 2018, ma sarà rinnovata tacitamente, di anno in anno, fino alla durata massima di cinque anni, se non sarà disdetta da una delle parti. Parma: detenuti al lavoro per pulire i fossi, presto in carcere l’incontro decisivo di Mattia Monacchia Gazzetta di Parma, 11 febbraio 2017 Il sindaco di Berceto, Luigi Lucchi, è tornato alla carica su una delle sue storiche proposte: l’utilizzo dei carcerati per pulire fossi, cunette e sentieri per prevenire il dissesto. "Berceto ha 131 chilometri quadrati di territorio (è il terzo Comune più vasto della Provincia) ormai abbandonato - ha ribadito ancora una volta Lucchi. L’abbandono provoca e aumenta, ogni giorno, il dissesto. In ogni giorno di pioggia, come abbiamo constatato anche recentemente, seppur senza bombe d’acqua, l’acqua va dove vuole. Non è più governata dalle antiche sistemazioni idrauliche agrarie (solchi, canali puliti, cunette pulite, eccetera). Continuo a chiedere a diversi ministri dell’Interno (ricordando la recente visita a Berceto di Anna Maria Cancellieri) e della Giustizia la possibilità di avere campi lavori dei carcerati nel Comune di Berceto per aiutare a governare il territorio. A giorni, grazie al sottosegretario alla Giustizia Cosimo Ferri, incontrerò il direttore delle carceri di Parma". Facile immaginare che il colloquio tra Lucchi e il direttore del penitenziario di via Burla verterà proprio sulla possibilità che i detenuti (non quelli violenti o condannati per reati gravissimi, ha già specificato il primo cittadino bercetese) possano svolgere lavori volti alla salvaguardia del territorio montano. Il sindaco ha spiegato che negli ipotetici campi di lavoro i detenuti dovrebbero essere seguiti da personale di custodia e che il lavoro per la collettività sarebbe una forma di reinserimento per i detenuti stessi. In quest’ottica di doppia salvaguardia dal dissesto idrogeologico e di rieducazione di chi ha sbagliato, nei mesi scorsi è stata rinnovata la convenzione tra il Comune e il Tribunale di Parma perché due condannati alla pena del lavoro di pubblica utilità possano scontarla nel territorio comunale di Berceto, coordinati nell’esecuzione da specifici dipendenti dell’Ente. Una pena che solitamente viene applicata ai condannati per guida in stato di ebbrezza, ubriachezza molesta o violazioni non gravi della legge: Luigi Lucchi ha sottolineato che avere due persone non retribuite che costantemente si occupino della manutenzione del territorio permetterebbe anche ai Comuni senza grandi risorse finanziarie di dare un servizio in più ai cittadini. Vercelli: "realizziamo il sogno di Alessandro, cantautore dietro le sbarre" infovercelli24.it, 11 febbraio 2017 Nella giornata di ieri Marco Grimaldi, capogruppo di Sel-Si in Consiglio regionale, e Silvja Manzi e Igor Boni, direzione nazionale di Radicali Italiani, si sono recati in visita alla Casa circondariale di Vercelli, dopo un colloquio preliminare con la "Garante dei diritti delle persone private della libertà personale" del Comune, Roswitha Flaibani. Accolti dal direttore della Casa di reclusione di Saluzzo, Giorgio Leggieri, che sostituiva la direttrice Tullia Ardito, oggi fuori sede, i componenti della delegazione hanno potuto fermarsi a parlare con detenuti presenti nell’Istituto - 275 di cui 127 italiani, e 24 donne. Il personale effettivo è di 149 unità e 3 educatori, un capo area, e diversi medici dell’ASL vercellese. Parte dei detenuti sono impegnati nei lavori di ritinteggiatura dei piani della palazzina degli anni ‘80. Purtroppo il quinto piano è l’unico interamente ristrutturato, automatizzato e dotato di impianto di sorveglianza, ma non essendo stato ristrutturato il tetto, le infiltrazioni stanno già deteriorando parte dell’opera svolta. Il padiglione femminile è quello che risente di più delle infiltrazioni, nonostante l’estrema cura delle detenute. Rimangono i problemi alle tubazioni e agli impianti di riscaldamento. "La buona notizia - spiegano i componenti della delegazione - pare essere l’arrivo di un’azienda che si occuperà del check-up energetico e della rifunzionalizzazione degli impianti di quattro carceri piemontesi, tra i quali proprio Vercelli". Malgrado il rapporto con l’Asl sia quotidiano e le condizioni riportate sono nella media italiana (per uso di psicofarmaci e terapie di mantenimento delle tossicodipendenze) rimane allarmante, come in altre situazioni carcerarie, l’assenza di specifiche cure odontoiatriche. Secondo i componenti dell’associazione Aglietta, inoltre, la rissa che ha coinvolto nei giorni scorsi alcuni detenuti non sembra essere dipesa dal regime aperto, come sostiene il Sappe, ma da ordinarie conflittualità tra detenuti. "Sentiamo di dover lanciare alcuni appelli - dichiarano i membri della delegazione - Il primo, l’assenza di vere misure alternative alla detenzione, la mancanza di lavori esterni al carcere e la scarsità di quelli all’interno rendono le giornate dei detenuti un limbo inutile al loro reinserimento nella società. Solo 40 le persone impiegate, oltre alle 5 che lavorano nelle serre limitrofe. Per quanto i tentativi di suicidio (5 nello scorso anno) e gli atti di autolesionismo (85 sempre nello stesso periodo) non siano più alti che in altre carceri piemontesi, l’insofferenza e l’assenza di progettualità rendono comunque difficile la vita dentro quelle mura". Infine un messaggio, di speranza, questa volta. "Siamo rimasti fortemente colpiti dalla storia di Alessandro, un giovane cantautore detenuto al primo piano, che spera di far conoscere il suo nuovo brano sulla salute mentale nelle carceri, chiamato "Tso", che ci ha fatto ascoltare. Chiediamo che possa essere registrato e pubblicato online. Speriamo che, nei giorni del Festival della musica italiana, il Dipartimento Amministrazione Penitenziaria acconsenta alla richiesta. Ne vale la pena", concludono Boni, Grimaldi e Manzi. Hai appena applaudito un criminale teatrionline.com, 11 febbraio 2017 Dal 15 al 19 febbraio al Teatro Franco Parenti, Milano. "Hai appena applaudito un criminale" è lo spettacolo tratto dal diario di un laboratorio teatrale tenutosi nel carcere romano di Rebibbia con 12 detenuti dove Daniela Marazita da molti anni lavora nel reparto dove sono rinchiusi i responsabili di reati infamanti come i reati sessuali, gli ex-poliziotti, e i collaboratori di giustizia, i cosiddetti infami. Dalle riflessioni intorno a questo laboratorio è nato un libro divenuto poi il monologo Hai appena applaudito un criminale, intenso racconto dell’esperienza di una donna che sfida il pregiudizio estremo, scegliendo di fare teatro in carcere con uomini colpevoli di indicibili reati. Un’altalena di sentimenti e contraddizioni - dalla diffidenza alla paura, dallo scoramento al riscatto, dalla seduzione al tradimento, dal giudizio morale al dolore, dall’impotenza al rigore, dalla violenza alla finzione - va a disegnare la cronaca dell’ incontro straordinario della protagonista con un mondo di uomini reclusi ancora più "diversi" per aver commesso reati che scuotono la coscienza collettiva, che fanno orrore. Un’esperienza - trasfigurata grazie all’azione teatrale - che penetra inconsapevolmente il sommerso che è in ognuno di noi, un incontro impossibile tra le sbarre che diviene realtà da condividere tra "liberi" e "detenuti": l’accettazione della contraddizione come strumento di sopravvivenza che solo il teatro sa cogliere. Nel luogo della privazione della libertà, dove gli uomini vengono sottratti alla vista, attraverso il teatro si apre una riflessione senza limiti, anche sulle prigioni interiori, sul senso della "detenzione" come pena da infliggere, sul bene, sul male, sul valore della diversità di genere, e di ogni genere. In questo tipo di lavoro si semina senza aspettative e, qualche volta, il miracolo accade a conferma che il teatro possa essere un doveroso atto di civiltà dell’uomo verso se stesso. "Il mio vicino" dal carcere al teatro Ferrara Off di Valerio Gardoni popolis.it, 11 febbraio 2017 I detenuti prima o poi usciranno e verranno a vivere vicino a casa mia: come voglio che sia il mio vicino di casa? Sabato 11 febbraio alle 21 Ferrara Off ospita "Il mio vicino", spettacolo prodotto dal Teatro Nucleo. Sulla base di una domanda tanto semplice quanto non banale, oltre che sull’esperienza artistica e biografica del regista Horacio Czertok, impegnato dal molti anni nella conduzione del laboratorio teatrale interno alla casa circondariale a Ferrara. Spesso ci chiedono perché ci ostiniamo nel tenere vivo il laboratorio teatrale - racconta Czertok - Perché accettare la durezza che ogni giorno il carcere impone a noi come a tutti quelli che sono lì a fare la loro parte. Mi sono trovato a rispondere con un’altra domanda: voi come vorreste i vostri vicini? Per circa tre anni ho lavorato all’Arginone con Moncef Aissa, un cittadino tunisino detenuto. Insieme abbiamo fatto un buon percorso, il mio vicino - a Ferrara Off. Un bel giorno sono uscito da casa e chi ho trovato lì per strada in bicicletta? Moncef. Gli ho chiesto cosa ci faceva lì e se era scappato di prigione, mi ha risposto che era libero e che lì ci viveva. Sulla mia strada. A trenta metri da casa mia. Così è nato questo lavoro: sul filo del racconto delle tante cose che ci siamo trovati a vivere con il teatro nel carcere e che ci hanno fatto crescere, dalle poesia arabe alle risate di Totò, cose che vogliamo condividere per capirle meglio, perché solo nella condivisione si capisce di cosa siamo fatti per davvero. Protagonisti di questo originale lavoro, presentato negli scorsi anni non solo in Italia ma anche in Germania, Ungheria, Spagna e Belgio, saranno dunque Czerok e Aissa, accompagnati in scena dalle musiche originali realizzate da Andrea Amaducci. Il laboratorio da cui è nato lo spettacolo è sostenuto dal Comune di Ferrara, dal Coordinamento regionale Teatro Carcere e dalla Regione Emilia-Romagna. - La legge ci autorizza a partecipare al percorso trattamentale da normali cittadini - conclude Czertok, che è poi quello che siamo in carcere, con l’autorevolezza che la nostra pratica ha guadagnato sul campo. Abbiamo pensato che se possiamo, allora dobbiamo farlo. Siamo veramente felici di accogliere "Il mio vicino" - commenta Marco Sgarbi, tra i fondatori di Ferrara Off - Ci interessa poter proporre alla città contenuti che sappiano suscitare riflessioni sul presente che stiamo vivendo, stimoli che nascono in ambito locale e per questo sono capaci di coinvolgere il pubblico in una dimensione di prossimità. Aperti allo stesso tempo su un panorama di questioni nazionali e internazionali che non si possono ignorare, domande urgenti che la nostra società è chiamata a rispondere. Un ulteriore motivo di soddisfazione è sviluppare ulteriormente, attraverso questo spettacolo, la collaborazione avviata con il Teatro Nucleo, nell’ottica di costruire a Ferrara una rete di soggetti attivi nell’ambito della produzione culturale sempre più interconnessa, propositiva e collaborativa. Migranti. Gentiloni "più veloce l’asilo, più chiari i rimpatri" di Nicoletta Cottone Il Sole 24 Ore, 11 febbraio 2017 Oggi il governo rende "più rapidi i processi di concessione del diritto d’asilo ai rifugiati, più trasparenti i meccanismi di accoglienza facilitando con diverse misure i meccanismi necessari per i rimpatri". Lo ha detto il premier Paolo Gentiloni dopo l’approvazione del decreto in consiglio dei ministri del pacchetto di misure sull’immigrazione. Il provvedimento approvato dal governo vuole "trasformare" quelle dei migranti "da fenomeno irregolare gestito da organizzazioni criminali in un fenomeno regolare dove si arriva in un modo sicuro e in misura controllata nel nostro Paese", ha spiegato il premier. Immigrazione, servizio civile, degrado delle città i temi all’ordine del giorno. Non chiudiamo le porte, ma migrazione regolare - "L’obiettivo strategico non è chiudere le nostre porte ma trasformare sempre più i flussi migratori da fenomeno irregolare a fenomeno regolare, in cui non si mette a rischio la vita ma si arriva in modo sicuro nei nostro paesi e in misura controllata". Arrivano i nuovi Cie - Nuovi Centri per rimpatriare chi non ha diritto a rimanere in Italia, lavori socialmente utili a titolo gratuito per i richiedenti asilo, incentivi per i comuni che accolgono lavori di pubblica utilità per i richiedenti asilo: sono questi i principali ingredienti del pacchetto immigrazione predisposto dal ministro dell’Interno Marco Minniti. I vecchi Cie "non ci saranno più, diventeranno Centri permanenti per il rimpatrio", ha annunciato il ministro dell’Interno Marco Minniti. I nuovi Cie saranno strutture di piccole dimensioni, con 80-100 posti, fuori dai centri urbani e vicine a autostrade e aeroporti, "con una governance trasparente e poteri di accesso illimitato per il Garante dei detenuti", aveva anticipato il ministro Minniti. Lavori volontari per i richiedenti asilo - "Bisogna abbattere i tempi di riconoscimento del diritto d’asilo, gli attuali 2 anni sono troppi: abbiamo quindi deciso di sopprimere un grado di giudizio per i ricorsi, di assumere 250 specialisti per rafforzare le Commissioni d’asilo e, d’intesa tra prefetture e Comuni, puntiamo all’utilizzazione volontaria gratuita per lavori socialmente utili dei richiedenti", ha detto il ministro dell’Interno, Marco Minniti, al termine del Consiglio dei ministri, ribadendo che saranno creati al posti dei vecchi Cie nuovi Centri permanenti per il rimpatrio, uno per regione, per complessivi 1.600 posti. Migranti. Cpr al posto dei Cie, lavoro non retribuito e rimpatri forzati di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 11 febbraio 2017 Nuovi Cie ma con una denominazione diversa, rimpatri forzati degli irregolari e lavoro non retribuito. Questo è il decreto legge sull’immigrazione varato ieri dal Consiglio dei ministri. Ad annunciarlo in conferenza stampa è il premier Paolo Gentiloni. "Sono misure - spiega che attrezzano il paese a nuove sfide, innanzitutto per rendere più rapidi i processi di riconoscimento di asilo per i rifugiati, rendendo più trasparenti l’accoglienza e facilitando i rimpatri". Si tratta del piano del Viminale ufficializzato dal ministro dell’Interno Marco Minniti durante l’audizione alle commissioni riunite Affari costituzionali di Camera e Senato. "Serve la possibilità di utilizzare i richiedenti asilo per lavori di pubblica utilità - ha spiegato, finanziati con fondi europei. Non si creerà una duplicazione nei mercati del lavoro, perché non sarà un lavoro retribuito". Ufficializzate anche le nuove linee programmatiche su immigrazione e sicurezza: "Bisogna abbattere i tempi di risposta per i richiedenti asilo, che sono mediamente di due anni. Bisogna quindi intervenire dal punto di vista legislativo riducendo di un grado di giudizio per i ricorsi e con assunzioni nelle commissioni d’asilo". Conferma, inoltre, una linea dura in tema di rimpatri: "Non mi accontento - ha sottolineato Minniti - del foglio di via. In condizioni di civiltà e rispetto, chi non ha diritto a restare deve esser riportato nel paese di provenienza". ll tema dei rimpatri forzati è particolarmente caro al ministro, il quale ha specificato che "se funzioneranno, partiranno i rimpatri volontari assistiti, per i quali prevediamo il raddoppio dei fondi". Nella nuova programmazione in tema di migranti, cambia anche il sistema di accoglienza temporanea e dei centri dedicati all’individuazione e al rimpatrio dei migranti irregolari. Minniti ha annunciato l’intenzione di sostituire gli attuali Cie con strutture denominate Cpr- Centri Permanenti di Rimpatrio. Un cambio di nome, ma non di sostanza: il nuovo piano dell’Interno, infatti, prevedrebbe la riapertura di un centro per regione, con capienza totale di 1600 posti sul territorio nazionale. Nel corso degli anni, la campagna "LasciateCIEntrare" ha denunciato una serie infinita di violenze, rivolte, atti di autolesionismo, suicidi e morti all’interno di questi tipi di strutture oltre che d’illegalità nella loro gestione sia operativa che rispetto alle procedure d’identificazione ed espulsione. Un sistema che ha già ampiamente dimostrato la sua dannosità ed inutilità. "LasciateCIEntrare" spiega che ad oggi sono 4 i Cie operativi in Italia - Brindisi, Caltanissetta, Roma, Torino - dotati di 574 posti disponibili di cui effettivi 359. Al 30 dicembre 2016 risultavano trattenute 288 persone. L’istituto del trattenimento è di fatto una misura coercitiva che incide sulla libertà personale la cui natura giuridica si sostanzia in una forma di privazione della libertà, sia pure di natura amministrativa. Dal 1 gennaio al 15 settembre 2016, le persone transitate nei Cie sono state 1.968. Di queste, 876 sono state rimpatriate, circa il 44%. Rimpatri costosi e non rispettosi dei diritti umani. A ciò va aggiunto che avere un quadro completo del costo globale del sistema della detenzione amministrativa è complesso, data la scarsa trasparenza del sistema. Si stima che dal 2011, la spesa complessiva per la loro gestione sia stata di almeno 18 milioni di euro. Un costo elevatissimo, a cui corrisponde una situazione disperata nei centri: un grosso business sulla pelle dei migranti che viene perpetrato a nome della sicurezza nazionale. "LasciateCIEntrare" stronca anche la proposta sul lavoro non retribuito ai richiedenti asilo. Lo definisce lavoro forzato perché "è questo l’unico modo per definire il lavoro gratuito che i migranti dovranno prestare agli enti locali e alle aziende private, in attesa che le commissioni si pronuncino sulla loro domanda di asilo". Secondo LasciateCIEntrare le espulsioni, centri di rimpatrio, lavoro obbligatorio, procedure rapide per l’asilo sono solo parte di una gestione europea della mobilità che punta a fare dei migranti forza lavoro ricattabile. "È quanto mai urgente propone la campagna, come ha recentemente dichiarato Emma Bonino insieme a molti sindaci italiani, chiedere l’abolizione della Bossi Fini, vera fabbrica della clandestinizzazione dello straniero". Le alternative a tutto ciò sono possibili e quanto mai urgenti. In tal senso, le istanze della campagna "LasciateCIEntrare" continueranno ad essere sottoposte alle forze parlamentari, politiche, amministrative, istituzionali e alla società civile finché non giungeranno risposte adeguate a comprendere l’entità della sfida in atto e misurarsi sulla stessa con un conseguente senso di responsabilità. Meno diritti ai migranti per tacitare le destre di Alessandro Dal Lago Il Manifesto, 11 febbraio 2017 Questo decreto non è che il tentativo di rendere meno visibili i Cie per tacitare la cordata Grillo-Salvini-Meloni e ingraziarsi l’Europa: vi facciamo vedere come siamo efficienti e severi con i clandestini. Il decreto sull’immigrazione varato ieri dal Consiglio dei ministri (insieme all’altro, immancabile, sulla sicurezza urbana) segue le iniziative del ministro Minniti in tema di blocco degli sbarchi (accordi con Libia, Niger ecc.). E come queste, è destinato al fallimento. Ovviamente, sulla pelle di migranti e profughi. Il decreto, in sostanza, prevede due tipi di misure: lo "snellimento" delle procedure di riconoscimento del diritto d’asilo e la "razionalizzazione" dei Cie, che da oggi vengono denominati Cpr, Centri permanenti per il rimpatrio. La tendenza tipicamente governativa di cercare di risolvere i problemi cambiando nomi e sigle è soddisfatta ancora una volta. Un tempo c’erano i Cpt (Centri di permanenza temporanea), un ossimoro grandioso, come se le prigioni fossero chiamate, che so, centri di libertà internata. Poi sono arrivati i Cie (Centri di identificazione ed espulsione), che però fanno troppo repressione indiscriminata. E ora, in modo più sensibile ai diritti umani verbali, si parla di "rimpatrio", come se profughi e migranti non vedessero l’ora di tornare a casa, sotto le bombe. Ma iniziamo dall’asilo. Come ha chiarito il ministro Orlando, il rifiuto dell’accoglienza come profughi "non è reclamabile", se non in Cassazione. Quindi niente appello. Il che significa semplicemente che un profugo proveniente dalla Nigeria può vedersi respinta la domanda, andarsene in un Cpr, starci un bel po’, essere espulso in Libia, preso in carico da qualche banda armata al servizio del governo Serraji, e poi sparire in un prigione libica (dove sono documentate violenze di ogni tipo, dagli stupri e agli omicidi). È da qui che farà ricorso in Cassazione? Quanto ai Cpr, si prevedono centri in ogni regione per complessivi 1.600 posti. Ora, qui c’è qualcosa che non torna proprio. Secondo dati del Ministero degli interni, su 41.000 irregolari rintracciati nel 2016, 22.000 non sono stati espulsi o allontanati alle frontiere. Per non parlare di chi non è stato rintracciato (perché finito nel lavoro nero, nelle campagne ecc.). E per tutta questa gente dovrebbero bastare 1.600 posti? Ma si tratterà di permanenze brevi, obietta Minniti, che ama, anche lui, gli ossimori. Ma se la massima permanenza prevista è di 90 giorni, chi garantisce che in poco tempo i Cpr non si gonfino, rendendo le condizioni di vita degli internati ancora più tragiche di quanto non siano nei Cie? Non lo garantisce proprio nessuno, neppure il misterioso "garante dei migranti", di cui non si conoscono poteri e giurisdizione. E poi c’è quella norma che prevede la possibilità per i comuni di impiegare i migranti "su base volontaria" per lavori "socialmente utili", per rendere l’attesa (di che cosa?) meno snervante. Come dire, lavora gratis che ti passa la noia. Dietro questa norma, io vedo - chissà perché - il contributo del ministro Poletti. In sostanza, migranti e richiedenti asilo diventano dei voucher umani che i comuni possono spendere per pulire le strade, cancellare i graffiti dai muri e così via. Risparmiando così risorse umane e materiali. Un piccolo contributo degli stranieri alla diminuzione della spesa pubblica del generoso paese che li accoglie. Ma resta il fatto che la servitù è servitù, anche quando è volontaria. Questo decreto non è che il tentativo di rendere meno visibili i Cie per tacitare la cordata Grillo-Salvini-Meloni e ingraziarsi l’Europa. Visto che gli altri paesi non ricollocano i migranti che arrivano da noi, vi facciamo vedere come siamo efficienti e severi con i clandestini. Così, magari, ci condonate un altro decimale del deficit. Tra i migranti fermi in Libia: "Il piano Ue non funziona. I soldi finiranno ai trafficanti" di Francesco Semprini La Stampa, 11 febbraio 2017 Corruzione e mancanza di mezzi rischiano di far saltare l’intesa. Mousa è nato in Mali e ha 28 anni, è in Libia da due e lavora come addetto alle pulizie in un negozio di Tripoli, con la speranza di dare una svolta alla sua vita. Venerdì scorso è stato sequestrato da una banda specializzata in estorsioni a danno di migranti africani. I suoi amici hanno pagato 1300 dinari per la liberazione, il suo stipendio di tre mesi: porta evidenti i segni del trauma ma vuole raccontare la sua storia. Jane è una signora nigeriana che alcuni mesi fa ha salvato una connazionale ridotta a schiava del sesso dai trafficanti di esseri umani. L’ha assistita sino a quando non è stata rimpatriata. Come lei - racconta - ce ne sono decine che vengono abbandonate in fin di vita per la strada. Juliette e il marito sono profughi del Rwanda, l’anno scorso dopo l’ennesima irruzione delle milizie nella loro casa di Tripoli hanno deciso di attraversare il mare assieme alle due figlie. Volevano chiedere asilo in Italia, ma la loro storia non la possono più raccontare perché sono stati tutti inghiottiti dal Mediterraneo. Tre storie di ordinaria tragedia, come quelle dei 181 mila disperati sbarcati nel 2016 in Italia, e i circa 5 mila morti accertati in acque libiche. Numeri dinanzi ai quali l’Italia e l’Europa si sono finalmente attivate attraverso le intese con la Libia, sulla cui attuazione pesano però variabili e incognite. L’Ue stanzia fondi affinché le autorità libiche gestiscano in maniera più efficace le attività di intercettazione dei migranti all’interno delle proprie acque territoriali, e li detengano o li rimpatrino. Il piano si espone però al fuoco incrociato di organizzazioni umanitarie del settore come Unhcr, Iom, Human Rights Watch, Msf, Amnesty International. Alcuni operatori attivi in territorio libico tengono a sottolineare i loro dubbi, evidenziando ad esempio "forti elementi di sofferenza della Guardia costiera libica, primo fra tutti la mancanza di mezzi navali ed equipaggiamenti adeguati, senza i quali il solo addestramento si rivelerà poco efficace". Pesa poi il morale dello staff libico, "messo alla prova dal mancato pagamento degli stipendi e dalla presenza di episodi di corruzione locale, agevolata dalla forte disponibilità economica dei trafficanti". Un secondo elemento - spiegano fonti vicine alle autorità locali - riguarda la reale capacità di isolare i trafficanti e quindi di sostenere le comunità locali senza che i fondi vadano a finire nelle tasche di potentati locali o milizie". C’è poi il nodo dei centri libici di accoglienza/detenzione, noti per scarsità di risorse e condizioni inadeguate alla permanenza dignitosa dei migranti. "È sorprendente che non si prendano in considerazione ipotesi alternative alla detenzione, ovvero impiego dei migranti in lavori socialmente utili o strutture private, anche considerando i costi stratosferici della detenzione e rimpatrio - sempre minori che in Italia - ma pur sempre elevatissimi. Visto il numero crescente di migranti, presenti e in arrivo, ci chiediamo quale sarà il costo reale per la Libia, l’Italia e l’Europa". C’è infine l’aspetto cruciale della genesi dei viaggi della speranza. Mousa, Jane e Juliette provengono dal "serbatoio", ovvero la fascia dell’Africa nera e subsahariana, che si estende dall’Atlantico alla Nigeria. Tutti hanno fatto tappa ad Agadez, in Niger, primo hub delle rotte della speranza, da dove il traffico si biforca. Una parte entra in territorio algerino e poi in Libia attraverso la provincia sud-orientale di Ghat, o attraverso il confine nord-orientale di Ghadames, la maggioranza invece sceglie di evitare l’Algeria, ed entrare attraverso il confine desertico-montuoso Niger-Libia sino a Sebha, principale snodo dei migranti in Libia. L’accordo europeo al riguardo dedica un paragrafo specifico delle "Priorità" ai confini meridionali della Libia. "Un aspetto che dovrebbe essere prioritario, o almeno gestito in parallelo a quello relativo alla lotta agli scafisti". In questo senso, occorre ragionare come se oggi i reali confini dell’Europa non siano definiti dalla sponda sud del Mediterraneo ma si estendano alle frontiere di sabbia del Sahel. Finché la Libia non avrà trovato la sua stabilità". Pochi crimini, troppe celle vuote. Affittasi penitenziario in Olanda di Alessandra Coppola Corriere della Sera, 11 febbraio 2017 Calano i reati di un quarto, Belgio e Norvegia inviano detenuti, una prigione diventa hotel, e dodici strutture vengono convertite in centri d’accoglienza per rifugiati. Questa prigione non è una prigione. Nel cortile centrale si gioca a calcio, i cancelli s’aprono e chiudono a piacere, i panni stesi, la sala del barbiere, le lavatrici in funzione, i corsi per imparare ad andare in bicicletta. Vuoto di detenuti, il complesso De Koepel ad Haarlem, periferia occidentale di Amsterdam, è stato convertito in centro d’accoglienza per rifugiati e il reporter dell’Ap Muhammed Muheisen, che l’ha fotografato per sei settimane, l’ha trovato meno angosciante del previsto. S’immaginava che per siriani, afghani, iracheni, una coppia yazida, un ragazzo marocchino omosessuale, una cinese cristiana, e per tutti gli altri donne, uomini e bambini in cerca di protezione faticosamente arrivati fin qui, potesse essere inquietante l’alloggio in carcere. Invece le uniche lamentele che ha sentito ripetere - ha raccontato alla rivista Time - riguardavano la qualità del cibo. La "crisi" delle prigioni - La vera storia è un’altra: l’Olanda ha così tanti penitenziari inutilizzati che può permettersi di trasformarne dodici in strutture per rifugiati. E addirittura riesce a mettere a reddito le celle vuote affittandole ai Paesi vicini, dalle carceri sovraffollate. Il Belgio ha già da tempo trasferito oltreconfine 500 detenuti, la Norvegia ha siglato un accordo da 25 milioni di euro l’anno per prendere in prestito il complesso di Norgerhaven: 240 reclusi, una sala Skype per parlare coi parenti, direttore inviato da Oslo, guardie carcerarie rigorosamente olandesi. È così estesa la "crisi delle prigioni" che s’è aperta pure una questione sindacale per i 2.600 lavoratori che rischiano il posto alla prossima chiusura. Di 60 penitenziari l’Olanda ne ha già svuotati 19. Uno dei primi, la storica casa circondariale di Roermond, è ormai un boutique hotel con la stanza del Giudice e la suite De Cipier, "il secondino". Per il 2021 l’amministrazione prevede di dichiarare un esubero di 3.000 celle. Dove sono finiti i criminali di un tempo? Dove sono i criminali? - Il New York Times l’ha chiesto al criminologo dell’Università di Erasmus, a Rotterdam, René van Swaaningen, che per cominciare spiega una mentalità pratica e poco moralista. "Le prigioni sono costose", se esistono pene alternative, programmi di riabilitazione, braccialetti elettronici e così via, nei Paesi Bassi sono favoriti. In cella finiscono solo i detenuti considerati davvero pericolosi. Il professore aggiunge anche che negli anni Novanta il boom immobiliare ha portato alla costruzione di più strutture del necessario. Nel mentre, i tassi di criminalità sono crollati: ridotti di un quarto in nove anni, 61 reati ogni 100 mila abitanti. In Gran Bretagna è il doppio, negli Stati Uniti cento volte di più. Dal 2005 a oggi la popolazione carceraria si è ridotta del 43 per cento. Una questione di sicurezza - In parte, il crollo è dovuto al fatto che molti reati che affollano le carceri europee, come quelli legati alla droga (si pensi all’Italia) o alla prostituzione, in Olanda sono depenalizzati. In parte, è un problema di polizia. Un servizio della tv britannica Bbc ha raccolto il dubbio della giurista Pauline Shuyt, a Leiden, che spiega il picco delle detenzioni del 2005 con le grandi operazioni contro il narcotraffico all’aeroporto di Amsterdam. "Da allora, le indagini si sono spostate sull’immigrazione clandestina e il terrorismo". S’aggiungano i tagli ai commissariati e alle risorse degli inquirenti. S’apre un’ultima questione - la ragione per cui il governo di centrodestra di Mark Rutte è riluttante a pubblicizzare il calo dei crimini -: il rischio di una carenza nel sistema di sicurezza del Paese. Sommando la questione sindacale, al New York Times il portavoce del ministero della Giustizia, Jaap Oosterveer, confessa: il surplus di celle "è al tempo stesso una buona e una cattiva notizia". Tunisia. Relatore Onu su diritti umani: siamo preoccupati per la situazione delle carceri Nova, 11 febbraio 2017 Il relatore speciale dell’Onu per i diritti umani e la lotta contro il terrorismo, Ben Emmerson, ha concluso una visita ufficiale in Tunisia durante la quale ha rilevato alcune "anomalie" nel sistema detentivo del paese. Emmerson si è detto soddisfatto dell’impegno delle autorità tunisine nella lotta contro il terrorismo e l’estremismo violento, sottolineando come Tunisia abbia attuato non solo misure di sicurezza ma anche iniziative nel settore sociale, economico, giudiziario e dei diritti umani. Emmerson ha aggiunto che ci sono però "elementi preoccupanti" relativi a "periodi prolungati di custodia cautelare, le condizioni di detenzione, l’uso di decreti per limitare la libertà di movimento e gli arresti domiciliari senza un adeguato controllo giudiziario, così come accuse di abusi e torture". Il responsabile dell’Onu ha richiamato l’attenzione sull’uso della legge terrorismo e di "altri atti legislativi contro i giornalisti" e si è detto preoccupato "per le condizioni di detenzione a Mornaguia, che sono ben al di sotto degli standard minimi internazionali. La prigione ha un sovraffollamento del 150 per cento. Il segretario generale del sindacato delle carceri e del recupero dei detenuti in Tunisia, Badreddine Rajhi, ha detto di recente che attualmente i detenuti hanno a disposizione circa 1,6 metri quadrati di spazio ciascuno. Inoltre, il sindacalista ha detto che il capo dello Stato, Beji Caid Essebsi, concederà l’amnistia ad alcuni detenuti e sconti di pena per altri. Da parte sua, Ben Hsan ha "giustificato" le cattive condizioni in cui vivono i detenuti dipende da alcuni fattori, come per esempio la mancanza di un’infrastruttura adeguata. Il funzionario ha ricordato anche gli episodi di vandalismo avvenuti durante la rivoluzione dei gelsomini ed il menefreghismo dei governi precedenti tra le cause delle condizioni attuali delle carceri tunisine. Secondo Hsan, a marzo di quest’anno lo spazio vitale destinato ad ogni detenuto aumenterà fino a raggiungere i 2 metri quadrati. Colombia. I bambini-soldato che tornano a vivere grazie alla pace di Carlo Davide Lodolini e Marta Serafini Corriere della Sera, 11 febbraio 2017 "Dopo un po’ non è più uccidere. È difendersi. O tu, o loro". Manuel, 19 anni, ha il corpo forte da uomo e gli occhi ancora da adolescente. "Quando è morto mio padre, ero piccolo. Subito dopo, con mio fratello maggiore ce ne siamo andati di casa e abbiamo iniziato a vivere per strada. Avevo solo 13 anni quando sono entrato nella guerriglia", racconta a Sette. Parla a fatica, come se le parole fossero delle pietre da sollevare e gettare lontano. Manuel è stato un bambino soldato della guerriglia colombiana, cinquantadue anni di conflitto che hanno lasciato sul terreno oltre 260 mila morti, 45mila desaparecidos e 6,9 milioni di sfollati e che hanno visto le Farc reclutare tra gli 8 e i 13 mila minori, sia maschi che femmine. "Mio fratello non era uno cui piaceva farsi dare ordini. Non obbediva ai superiori. Così un giorno mi hanno detto "salutalo". Poi l’hanno portato fuori dall’accampamento e l’hanno ammazzato. "Chino, abbi cura di te", è stata l’ultima cosa che mi ha detto". Oggi Manuel è un desvinculado, uno svincolato come vengono chiamati negli accordi di pace i bambini soldato delle Farc per distinguerli dagli smobilitati, gli adulti che hanno combattuto. Sulla mano destra si è fatto tatuare il suo cognome, una lettera su ogni dito. "Ora ho un lavoro, faccio il metalmeccanico e finalmente vivo da solo, senza che nessuno mi dica cosa devo fare", spiega orgoglioso mentre accarezza una cartolina di un quadro del Caravaggio che gli hanno regalato a Roma, dove si trova per portare la sua testimonianza. A salvarlo dalla morte, è stato un progetto dei padri salesiani di Ciudad Don Bosco che da oltre 15 anni lavorano per strappare alla guerra colombiana questi ragazzi. "Quando abbiamo iniziato ci occupavamo del recupero dei giovani sicari di Pablo Escobar o dei minorenni sfruttati nelle miniere di carbone. Poi abbiamo capito che era necessario impegnarsi anche su questo fronte perché il governo non sapeva come trattare il caso dei bambini che avevano combattuto", sottolinea Rafael Bejarano Rivera, direttore di Ciudad Don Bosco. Il programma inizia con due centri, uno a Cali cui poi si aggiunge poi quello di Medellín da cui negli anni passano oltre 2.300 giovani. "Al loro arrivo, l’età media è 16 anni, per lo più sono stati catturati che avevano 9 anni", aggiunge padre Bejarano Rivera. Ancora oggi questi adolescenti vivono in uno stato di terrore permanente. "Quasi tutti sono entrati nei gruppi armati perché li hanno minacciati di uccidere le loro famiglie. E nonostante oggi siano liberi hanno ancora paura di tornare a casa e di essere puniti per aver disertato", sottolinea James Areiza, coordinatore del progetto. "In alcuni casi la guerriglia li ha fatti inginocchiare e ha detto loro di scegliere quale genitore uccidere". Privazioni, abusi, stupri e violenze. Quando arrivano al centro dei salesiani, i ragazzi non sono abituati a gesti semplici come un abbraccio o una stretta di mano. "Se sbagliano vengono da te a testa bassa e ti chiedono di essere puniti, perché credono che quella sia la regola", continua Areiza. Nel caso di Manuel ci sono voluti quattro anni per farlo tornare alla vita. "Il programma prevede tre fasi ed è su base volontaria". Si inizia con la restituzione dei diritti con un lavoro di recupero portato avanti da un team di psicologi, medici, nutrizionisti ed educatori. "Ogni 30 ragazzi viene formata un’equipe per seguirli". Poi viene scelto un piano di formazione e vengono ripresi i contatti con la famiglia. "Fondamentale, come nel caso di Manuel, è insegnare loro a leggere e scrivere perché non sono mai andati a scuola e far sì che imparino un mestiere". Infine, quando compiono la maggiore età, inizia il percorso di reinserimento nella società che viene sviluppato in collaborazione con il governo. "La cosa più difficile? È stato imparare a studiare". Ride Catalina, 19 anni, con gli occhi da bambina, che un istante dopo tornano ad essere duri come quelli di un militare. Catalina è entrata nel programma di Ciudad Don Bosco, a Medellín, nel 2013 ed è stata un soldato per tre anni. "Odiavo mia madre", racconta con la voce dolce. "Il mio patrigno mi picchiava sempre, anche con dei bastoni tolti dal fuoco. Una volta lui ha cercato di abusare di me e quando io gliel’ho detto, lei non mi ha creduto, anzi ha iniziato a picchiarmi nonostante io tentassi di difenderla". Catalina passa l’adolescenza in strada, non crede in niente. "Stavo sempre in giro. Ho anche cercato di uccidermi con il basuco (una pasta a base di cocaina che si fuma, ndr). Poi sono entrata nella guerriglia, per mancanza di valori, per povertà". In poco tempo Catalina capisce che la promessa di una vita uguale per tutti e giusta è solo una favola buona per il reclutamento. "Quasi subito mi sono accorta che i capi si comportavano in modo diverso con alcune di noi. Dormivamo tutte per terra, ma certe avevano delle assi su cui appoggiarsi. E quando ho chiesto alle miei compagne motivo di questo favoritismo, mi è stato risposto che dovevo farmi gli affari miei". Come se non bastassero le privazioni di cibo e di sonno, Catalina impara presto che in guerra più di tutto vale il detto "mors tua vita mea". "Una notte l’esercito colombiano ha attaccato il nostro campo. Ero con il mio fidanzato. Abbiamo iniziato a correre, io non riuscivo perché ero ferita. Lui mi ha fatto scudo con il suo corpo ed è morto. Quella notte, di tanti che eravamo siamo rimasti in pochi", ricorda. Come tutte le sue compagne si trasforma in uomo, che imbraccia un’arma e uccide come una macchina. "Sono passata da essere una bambina che ragiona da tale a una persone fredda che non ha mai paura di niente". Oggi Catalina ha ricominciato a vestirsi con abiti femminili, l’obbligo della divisa e il divieto di truccarsi sono un ricordo. Da grande sogna di diventare un’infermiera o un’avvocatessa per i diritti dell’infanzia. Ma la cosa più importante per lei ora è di aver imparato a socializzare con le persone che le stanno vicino "Se devo pensare a un colore, prima ero grigia ora sono bianca. Sono anche riuscita a fare pace con mia madre e a condividere certe cose con lei…e chissà, magari un giorno racconterò ai miei nipoti delle mie ferite di guerra". Per le ragazze, la vita nelle fila della guerriglia facilmente si traduce in abusi sessuali di ogni tipo. "Molte di loro sono state costrette ad avere rapporti con i superiori o a fidanzarsi con i compagni per diminuire i rischi di fuga", sottolinea ancora Areiza. Chi è rimasta incinta è stata costretta ad abortire anche più volte, oppure i neonati sono stati regalati o venduti ai contadini dei villaggi vicino ai campi. "Quando arrivano alla casa protetta, in tante chiedono se possiamo aiutarle a recuperare i loro figli". Ma si tratta di un’impresa troppo spesso disperata, che le fa cadere in depressione e in alcuni casi le porta al suicidio. Per Catalina e Manuel il fallimento del primo accordo di pace firmato nel giugno 2016 e respinto in ottobre dal 5,3 per cento dei colombiani è stato un duro colpo. "Per loro, la pace significa poter tornare a casa", afferma padre Bejarano Rivera. "Una parte della società colombiana fatica ancora ad accettare le violenze e gli orrori della guerra e quindi trova impossibile pensare di siglare un accordo con chi li ha commessi. Ma al di là di tutto il trattato di pace è fondamentale perché questi ragazzi vengano restituiti alla società", conclude Bejarano Rivera. La liberazione dei bambini soldato da parte di tutti i gruppi della guerriglia è normata in entrambi i trattati, anche nel secondo siglato nel novembre 2016 dopo il referendum. E se le Farc ammettono di aver solo 75 minori nelle loro fila, è chiaro come il numero sia molto più alto e il lavoro da fare ancora lunghissimo. Intanto, ora che il terrore dà loro un po’ di tregua, sia Manuel che Catalina spiegano di voler avere un giorno dei figli. "Ma solo quando mi sarò sistemato", dice Manuel. Per far sì che la storia non si ripeta. Argentina. Nuova sfida per la pastorale carceraria: "e dopo l’uscita, cosa c’è?" fides.org, 11 febbraio 2017 Organizzato dalla Pastorale delle Carceri, il 3 e 4 febbraio si è svolto il ritiro spirituale dei cappellani carcerari nel Convento San Alfonso, a Villa Allende, Cordoba. Hanno partecipato 22 cappellani provenienti da tutto il paese e membri della Commissione episcopale per la Pastorale delle Carceri, presieduta da Sua Ecc. Mons. Esteban Maria Laxague Sdb, Vescovo di Viedma. La Messa di chiusura ha coinciso con l’apertura di un altro incontro, quello per i responsabili diocesani che lavorano in questo campo e che si è svolto da sabato 4 a martedì 7 febbraio. Erano presenti 32 diocesi dell’Argentina, mentre lo slogan "e dopo l’uscita, cosa c’è?" era un chiaro riferimento al problema della situazione dei detenuti che riguadagnano la libertà. Secondo quanto informa la nota inviata a Fides da Aica, sono stati giorni di lavoro e scambio di esperienze per affrontare questa nuova problematica da parte dei responsabili della Chiesa. Sua Ecc. Mons. Pedro Torres, Vescovo ausiliare di Cordoba, ha trattato il tema della "Dignità del lavoro" per tutti. La Messa finale ha presentato le sfide nuove e difficili che si presentano, ma anche le proposte di preparazione tecnica del personale che già lavora in questo settore. In Argentina, la Chiesa cattolica ha preso a cuore la pastorale dei detenuti. La realtà delle carceri tuttavia è molto varia e difficile da seguire: nel paese ci sono più di 250 prigioni, che ospitano in tutto 69.000 prigionieri, secondo l’ultima pubblicazione del Sistema Statistico Nazionale del 2014.