Proibire i libri in carcere non è costituzionale di Piero Sansonetti Il Dubbio, 10 febbraio 2017 Non sono mai stato d’accordo con chi dice che le "sentenze si rispettano e basta". Io penso che le sentenze si possono discutere. In alcuni casi si devono discutere, perché sono sbagliate o ingiuste. La sentenza della Corte Costituzionale sul 41 bis e il diritto negato a leggere i libri e i giornali, che è stata emessa l’altra sera, è ingiusta e sbagliata. Riassumo brevemente i fatti. Il 41 bis è il regime di carcere duro nel quale vivono molte centinaia di detenuti, in maggioranza accusati di reati di tipo mafioso. Personalmente ho sempre ritenuto incostituzionale il regime di carcere duro, ma oggi non parliamo di questo. Il 41 bis da diversi anni contiene una disposizione che permette alle direzione delle varie carceri di impedire che ai detenuti siano consegnati libri, riviste e giornali. Un detenuto di Spoleto, recentemente, si è rivolto al giudice di sorveglianza per protestare contro questa misura. Il detenuto, che probabilmente la Costituzione l’aveva letta, sosteneva che la misura è in contrasto con la Costituzione. Il giudice di sorveglianza, il dottor Fabio Gianfilippi, ha giudicato molto ragionevole l’osservazione, e ha sollevato la questione davanti alla Corte Costituzionale. La quale mercoledì ha stabilito che l’obiezione di Gianfilippi è del tutto infondata. E dunque, niente libri per i detenuti al carcere duro. Il giudice Gianfilippi aveva sollevato la questione, citando gli articoli della Costituzione numero 15, e cioè quello relativo alla libertà di corrispondenza, numero 21, sul diritto all’informazione, e gli articoli 33 e 34 che garantiscono il diritto allo studio. Mi pareva davvero inoppugnabile il ragionamento del magistrato. Ma ci sono anche altri articoli della Costituzione, solennissimi, i quali non capisco come si possano conciliare col divieto alla lettura. A partire dall’articolo numero 2, che i padri costituenti, appunto, hanno voluto mettere proprio in cima alla nostra Carta, subito dopo l’affermazione generale che l’Italia è una repubblica fondata sul lavoro e che il potere appartiene al popolo. Dice l’articolo 2: "La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità". Tra i diritti inviolabili dell’uomo, oltre a quello di mangiare, bere e sopravvivere, esiste o no quello di leggere? Pensavo di si. Andiamo avanti. Articolo 3. Dice così: "Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge". Tutti: anche i detenuti. Hanno la stessa dignità del Presidente della repubblica. Come si può rispettare la loro dignità proibendogli la lettura?. E poi c’è l’articolo 9: "La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura". Qualcuno conosce un modo per far crescere la cultura vietando i libri? Infine c’è il famoso e sempre vilipeso articolo 27: "Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato". Francamente questo mi pare un articolo di una chiarezza rara. Ed è impossibile considerare questo articolo conciliabile col divieto di leggere. Non è un trattamento umano quello che subisce chi viene privato della possibilità di leggere dei libri. E non può esserci, in questo trattamento, nessuna aspirazione alla rieducazione. Mi dispiace se appaio un po’ saccente, però stavolta non ho dubbi: i giudici costituzionali si sono sbagliati, Lo hanno fatto per superficialità? Lo hanno fatto per ragioni politiche? Lo hanno fatto per non entrare in contrasto con un senso comune "punizionista" (scusate il neologismo...) al quale la Costituzione piace poco? Qualcuno mi ha spiegato che lo hanno fatto semplicemente per senso di responsabilità. Loro dicono: qualche direttore di carcere ci ha segnalato che, attraverso la circolazione dei libri, i mafiosi facevano circolare anche "messaggi" all’interno del carcere. Cioè, comunicavano tra loro. Non so se è vero, può anche darsi. Ma la Costituzione non è un testo che serve a indicare cosa sia utile o opportuno per governare un paese, o una città, o una scuola, o una prigione: la Costituzione fissa dei principi assoluti e che vanno rispettati. Qualcuno magari potrebbe anche ritenere utile alla difesa della sicurezza che si uccidano i colpevoli di reati molto gravi. Però la Costituzione non lo consente, e non è che non lo consente perché nega l’utilità della pena di morte (potremmo anche fare l’esempio dell’utilità della tortura) ma perché ritiene la pena di morte (e la tortura) in contrasto coi valori fondamentali della repubblica. I giudici costituzionali, per quel che ne so io, non sono chiamati a giudicare l’utilità o l’opportunità di alcuni comportamenti delle autorità. Sono chiamati a dire se questi comportamenti violano o no la Costituzione. Ebbene, vietare l’ingresso dei libri e dei giornali in cella, non c’è il minimo dubbio, viola la Costituzione. E la sentenza della Corte è sbagliatissima, crudele, e ispirata a una idea molto arretrata di civiltà. Le nostre prigioni sono di nuovo piene di Maurizio Gallo Il Tempo, 10 febbraio 2017 A distanza di tre anni dallo "svuota carceri" oltre cinquemila detenuti in più. I sindacati: erano solo misure-tampone, ora ci vuole una riforma strutturale. Ci risiamo. Atre anni dal decreto battezzato "svuota carceri", un nome promettente adottato per un provvedimento che doveva scongiurare la "punizione" da parte dell’Unione europea, le nostre prigioni sono nuovamente sovraffollate. In base agli ultimi dati pubblicati dal ministero della Giustizia, nei 191 istituti di pena della Penisola al 31 gennaio c’erano 55.381 detenuti rispetto a una capienza ottimale di 50.174, cioè 5.207 in più. Non solo. In 84 casi il fenomeno è superiore al 120% e in quello più eclatante, la casa di reclusione di Brescia "Verziano", si arriva addirittura al 184,7%, con una capienza di 72 unità contro i 133 "ristretti" presenti in cella. Tra i primi dieci più congestionati c’è anche (al 9° posto) la Casa circondariale di Latina: 120 in cella contro i 76 previsti (157,9% in più). Lo svuota carceri - Era il febbraio de12014 quando Palazzo Madama diede il via libera, con 147 sì e 95 no, al nuovo decreto. La legge prevedeva l’aumento dell’uso di braccialetti elettronici, i domiciliari per scontare la pena residua non superiore ai 18 mesi a casa, l’attenuante sullo spaccio di droga di "lieve entità", l’affidamento in prova fino a una pena di 4 anni e uno "sconto" temporaneo (valido dal 1° gennaio 2014 al 24 dicembre 2015) da 45 a 75 giorni a semestre, definito "liberazione anticipata speciale" e concesso se il detenuto era meritevole. Infine, l’ampliamento della misura dell’espulsione per gli stranieri. Da allora, malgrado questa corsa "strategica" allo svuotamento delle carceri, all’epoca popolate da oltre 60.000 persone, le celle si sono riempite di nuovo. Troppo. Non solo. Secondo molti, questi numeri non fotografano del tutto la realtà: "I dati delle "capienze regolamentari" non tengono conto delle celle chiuse perché inagibili o in fase di ristrutturazione: pertanto, il sovraffollamento è sicuramente superiore a quello indicato - spiega sulla sua pagina Facebook la radicale Rita Bernardini, in sciopero della fame per amnistia, indulto e riforma della Giustizia - Inoltre, per i grandi istituti c’è da tenere presente che ci sono sezioni più vuote e sezioni super-affollate. Per esempio, Rebibbia Nuovo Complesso, che viene indicato con una capienza regolamentare di 1.175 posti e una presenza di 1.398 persone detenute, ha un sovraffollamento del 119% complessivo, ma con sezioni che superano abbondantemente la media nazionale". Diritti negati - La combattiva militante radicale fa notare che i dati emblematici del ministero di via Arenula sul sovraffollamento rappresentano "solo un indicatore dell’illegalità dell’esecuzione penale nel nostro Paese". Ma ci sono altri elementi negativi: "la fatiscenza e l’insalubrità delle strutture; il malfunzionamento della sanità (e, quindi, la mancanza di diagnostica e cure); la carenza cronica di attività trattamentali (lavoro, studio, sport); la difficoltà fino all’impossibilità di mantenere i rapporti affettivi coni propri familiari; il mancato accesso alle pene alternative; le mancate risposte alle istanze presentate ai magistrati di sorveglianza, ai direttori, agli educatori; l’alta percentuale dei detenuti in attesa di giudizio (35%); la promiscuità tra detenuti in attesa di giudizio e condannati definitivi e fra detenuti vicini al fine pena e detenuti con pene lunghe da scontare; l’impossibilità per i detenuti stranieri di rivendicare i propri diritti per l’assenza dei mediatori culturali; l’ inesistenza in molti istituti del regolamento interno". I Sindacati - "Quelli dello svuota carceri sono provvedimenti-tampone, invece è necessaria una riforma strutturale - sottolinea il segretario generale del Sappe Donato Capece. Le nostre prigioni sono stracolme di emarginati, malati di mente e autori di piccoli reati, che dovrebbero essere affidati a una speciale aliquota della polizia penitenziaria e destinati a misure alternative". Per il segretario del sindacato degli agenti penitenziari, anche i braccialetti elettronici sono insufficienti: "Molti detenuti sono in attesa, ma non arrivano - spiega. Ce ne sono circa duemila a fronte di un’esigenza di 4-5.000. Poi ci sono circa 8.000 detenuti, la maggior parte extracomunitari, con pene residue di soli mesi. Potrebbero essere scarcerati e destinati a lavori di pubblica utilità ma non ci sono uomini sufficienti e, quindi, rimangono in cella". Anche per il sindacalista i dati ministeriali sono da correggere: "La capienza ottimale è di 43 mila unità", precisa Capece. Che aggiunge: la risposta la deve dare la politica, che invece taglia gli agenti mentre crescono i detenuti. Facciamo un appello - conclude il responsabile del Sappe - al governo e al ministro per un tavolo con i sindacati che trovi finalmente una soluzione definitiva". Il pericolo Ue - Insomma, un quadro desolante e rischioso per il nostro Paese, che potrebbe incorrere in altri guai comunitari, come la condanna del 2013 da parte della Corte europea dei diritti umani di Strasburgo per la detenzione di migliaia di esseri umani in celle anguste come loculi: meno di tre metri quadrati a testa. La Corte quattro anni fa ci condannò per il trattamento inumano e degradante di sette carcerati. Dove erano detenuti? Nelle carceri di Piacenza e di Busto Arsizio, quest’ultima nella recente "lista nera" del ministero della Giustizia e al decimo posto per sovraffollamento. Sovraffollamento delle carceri: Orlando ottimista, ma i numeri continuano a crescere di Federico Olivo blastingnews.com, 10 febbraio 2017 I numeri delle persone detenute peggiorano il sovraffollamento delle carceri nonostante le affermazioni del Ministro della Giustizia Andrea Orlando. "Nell’ambito dell’esecuzione penale è cessata l’emergenza dovuta al sovraffollamento". Parole chiare, nette, quelle del Ministro Andrea Orlando, pronunciate in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario presso la Suprema Corte di Cassazione lo scorso 26 gennaio. Pochi giorni prima, il 18 gennaio, sempre Orlando, nella sua relazione sulla #giustizia presentata al Parlamento aveva affermato: "In carcere ci sono 54.653 detenuti, 10mila in meno rispetto al 2013" (Liana Milella - Repubblica.it). Affermazioni senz’altro rassicuranti come quelle già espresse in passato. Peccato però che abbiano tutta l’aria di dichiarazioni utilizzate più dagli esperti di marketing che a comunicazioni ufficiali di un Ministro della Repubblica... a meno che il Guardasigilli non abbia a disposizione altri dati rispetto a quelli pubblicati sul sito giustizia.it e dai quali è possibili ricavare il seguente grafico riferito al 31 dicembre di ogni anno: Partiamo dalla prima affermazione: "è cessata l’emergenza dovuta al sovraffollamento". Basandoci sui dati elaborati dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, a fronte di una capienza di 50.228 posti detentivi in tutte le carceri italiane, il 31 dicembre 2016 erano presenti 54.653 persone detenute. A conti fatti, sono 4.425 persone in più rispetto ai posti disponibili, quindi, il sovraffollamento continua. La seconda affermazione invece, quella sul netto calo delle persone detenute dal 2013 ad oggi, è senz’altro vera, ma non tiene conto della variabile "tendenza", e la tendenza del sovraffollamento delle carceri è in netta ripresa. Andrea Orlando infatti, cita l’effettivo calo delle 10mila presenze delle persone detenute dal dicembre 2013 al dicembre 2016, ma omette di specificare che dal dicembre 2015 al dicembre 2016 c’è stato un incremento di 2.489 presenze. L’indulto del 2006 era stato in grado di tamponare il problema del sovraffollamento. Infatti, dal febbraio 2009 fino al marzo 2014 (più di cinque anni consecutivi) i detenuti presenti nelle carceri hanno superato costantemente le 60.000 unità, con una fase critica dall’ottobre 2009 al giugno 2013 (tre anni e mezzo consecutivi) in cui non si è mai scesi sotto le 65.000 presenze, con un picco di 69.155 detenuti a novembre 2010! L’emergenza carceri di quegli anni è il motivo per cui la Cedu (Corte Europea dei diritti dell’Uomo) ha emesso la sentenza del gennaio 2013 sul ricorso presentato da "Torreggiani e altri contro l’Italia" che ha condannato l’Italia per la violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea. Tra le soluzioni adottate dal Parlamento e Governo in quei mesi, c’è stata anche la liberazione anticipata speciale, cioè lo "sconto" di detenzione per buona condotta che è passata da 45 a 75 giorni ogni 6 mesi di carcere. La misura, introdotta con un Decreto Legge a dicembre 2013, aveva valore retroattivo dal gennaio 2010 e aveva una durata di 2 anni di applicabilità. Il sovraffollamento delle carceri, da allora, ha avuto una tendenza al decremento. Lo stesso Andrea Orlando, in carica come Ministro della Giustizia del Governo Renzi dal febbraio 2014, già dalla fine di quell’anno ha iniziato a dispensare fiducia con affermazioni rassicuranti sulla possibilità che di lì a breve il sovraffollamento sarebbe stato solo un ricordo. E invece proprio al termine della applicabilità della liberazione anticipata speciale che ha cessato i suoi effetti a dicembre 2015, il numero delle persone detenute nelle carceri italiane è tornato a salire. Di fatto, quindi, l’emergenza sovraffollamento non è mai terminata e anzi, dal gennaio 2016 ha ricominciato ad aggravarsi. È comprensibile che in una cerimonia solenne come quella dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, il Ministro della Giustizia cerchi di "fotografare" la Giustizia italiana nel modo migliore possibile, ma è del tutto evidente che si tratta solo di una fotografia scattata cercando l’inquadratura migliore che è cosa ben diversa dalla realtà dei fatti e dei numeri. L’On. Enza Bruno Bossio (Pd) con Rita Bernardini per la riforma sistema penitenziario cosenzainforma.it, 10 febbraio 2017 La parlamentare: "Dare maggiore rilievo al ruolo del Tribunale di Sorveglianza". "Esprimo vicinanza a Rita Bernardini che da domenica ha ripreso lo sciopero della fame per accendere un faro su delicato tema della legalità nelle carceri. Il problema del sovraffollamento carcerario, del riconoscimento pieno dei diritti ai detenuti, l’esigenza di supportare coloro che riacquistano la libertà nel tentativo di reinserimento nella società, l’urgenza di affrontare sia il problema sanitario all’interno delle carceri sia quello del meccanismo di accesso alle pene alternative sono temi condivisi dalla mia attività parlamentare. Impegno che si è concretizzato nella presentazione di una proposta di legge in materia di revisione delle norme sul divieto di concessione dei benefìci penitenziari nei confronti dei detenuti o internati che non collaborano con la giustizia". Sono queste le dichiarazioni della parlamentare Pd sul sistema carcerario e sulla vicenda di Rita Bernardini in sciopero della fame. "La mai proposta va nella direzione di dare maggiore rilievo al ruolo del Tribunale di Sorveglianza al fine di superare quegli automatismi che, nell’attuale normativa, rende impossibile la concessione dei benefici penitenziari a causa della presunzione di non rieducatività del reo - continua la nota del deputato - con la mia proposta di legge saranno i Giudici di Sorveglianza ad entrare nel merito del singolo caso valutandolo in concreto e nel merito. Si tenta così di risolvere i seri problemi di costituzionalità che l’attuale sistema dell’ergastolo ostativo pone sotto due profili: quello rieducativo del reo e quello del divieto di trattamenti contrari al senso di umanità. Nei prossimi giorni il Senato riprenderà la discussione del disegno di legge sull’ordinamento penitenziario e la richiesta di Rita Bernardini di stralciare dal Ddl la parte relativa alla riforma penitenziaria al fine di dedicare il giusto e congruo spazio di discussione intorno ad una questione dolorosa ed urgente qual è il tema dei diritti dei detenuti, rappresenta una scelta ed una richiesta che non possiamo ignorare". Magistrati di Sorveglianza, sono meno di 200 per oltre 55mila detenuti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 10 febbraio 2017 I magistrati di sorveglianza in tutta Italia sono pochi e costretti a fronteggiare una quantità di detenuti che, al contrario, è ai limiti dell’insostenibile: 55.381. Questo è il quadro che emerge dall’elenco generale riguardante le sedi vacanti degli uffici di sorveglianza aggiornato al 30 gennaio 2017. Un documento che la radicale Rita Bernardini è riuscita a reperire dal Consiglio superiore della magistratura. Dall’elenco emerge che i magistrati di sorveglianza sono costretti a seguire dai 117 ai quasi 400 detenuti a testa. In totale risulterebbero in servizio 204 giudici, quota da cui vanno però sottratti 21 posti vacanti. Per ogni magistrato, se l’organico fosse al completo, risulterebbe una media di presa in carico di 271 detenuti. Ma la mole di lavoro risulta maggiore proprio perché mancano delle unità. La situazione è questa, nonostante l’iniziativa del ministro della Giustizia Orlando che nel settembre del 2015 aumentò la pianta organica dei magistrati di sorveglianza, prevedendo l’introduzione dei giudici di prima nomina per sopperire ai "vuoti". Invece, secondo quanto risulta dal documento, la distribuzione non ha coperto in maniera equa i posti scoperto. Per esempio nella sola Lombardia l’organico prevede 25 magi- strati, ma effettivamente in servizio ce ne sono 20. In pratica ogni magistrato deve prendersi in carico ben 393 detenuti. Giovanna Di Rosa, presidente del Tribunale di sorveglianza di Milano, è intervenuta alla trasmissione "Radio Carcere" condotta da Riccardo Arena su Radio Radicale e ha spiegato che nel suo distretto, nel 2015, la pianta organica è stata aumentata, sulla carta, da 10 a 12 magistrati. In realtà i posti vacanti sono 4. Quindi nel distretto di Milano, operano solamente otto magistrati. Come se non bastasse, in alcune regioni come la Basilicata, Lazio, Toscana e Trentino, manca addirittura la figura del presidente del Tribunale di sorveglianza. È evidente che con la carenza dell’organico si penalizza la funzione rieducativa del sistema penitenziario e anche la salvaguardia del rispetto dei diritti di ogni singolo detenuto. Il magistrato di sorveglianza ha il compito di vigilare sull’organizzazione degli istituti di prevenzione e pena e di prospettarne al ministero della Giustizia le varie esigenze, in particolare quelle relative alla rieducazione e alla tutela dei diritti di quanti sono sottoposti a misure privative della libertà. Al magistrato di sorveglianza spettano l’approvazione del programma di trattamento rieducativo individualizzato per ogni singolo detenuto (che l’amministrazione del carcere è tenuta per legge a redigere), la concessione dei permessi, l’ammissione al lavoro all’esterno, l’autorizzazione a effettuare visite specialistiche, ricoveri ospedalieri o ricoveri per infermità psichica (su richiesta del servizio medico del carcere), la decisione sulla liberazione anticipata (45 giorni ogni sei mesi di detenzione del condannato che partecipa all’opera di rieducazione) e sulla remissione del debito dovuto per spese processuali penali o di mantenimento in carcere. La legge pone al magistrato di sorveglianza l’obbligo di andare frequentemente in carcere e di sentire tutti i detenuti che chiedono di parlargli, e gli attribuisce il compito di valutare i reclami presentati dai detenuti per provvedimenti disciplinari disposti dall’amministrazione penitenziaria o per altri motivi. Autorizza i colloqui telefonici dei detenuti e l’eventuale controllo della corrispondenza. Visto il parere della direzione dell’istituto autorizza l’ingresso di persone estranee all’amministrazione penitenziaria, come quanti prestano attività di volontariato o partecipano a iniziative di formazione o di lavoro rivolte ai detenuti. Il magistrato di sorveglianza inoltre decide sulle sospensioni e i differimenti nell’esecuzione della pena, sovrintende all’esecuzione delle misure alternative alla detenzione carceraria (affidamento in prova ai servizi sociali, detenzione domiciliare, semilibertà). Provvede al riesame della pericolosità sociale e alla conseguente applicazione, esecuzione e revoca, delle misure di sicurezza disposte dal tribunale ordinario. Determina in merito alle richieste di conversione o rateizzazione delle pene pecuniarie. Decide per quanto concerne le espulsioni di detenuti stranieri e le prescrizioni relative alla libertà controllata. Esprime un parere sulle domande o le proposte di grazia. Tutte funzioni che servono a garantire l’attuazione dell’articolo 27 della Costituzione italiana secondo il quale "le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato". Vista la mole di lavoro dei magistrati di sorveglianza e l’organico così ridotto è evidente che ne risulti danneggiato tutto il sistema penitenziario, soprattutto i detenuti e le loro famiglie. Sul reato di tortura deciderà un’Aula che lo ha già rinnegato di Michele Passione (Avvocato) Il Dubbio, 10 febbraio 2017 Il Senato si accinge a riesaminare il testo dopo aver fatto di tutto per stravolgere il dettato Onu. La nuova legge sarebbe imposta dalla convenzione ratificata dall’Italia nell’ormai lontano 1988. Ma oltre ai ritardi, pesano i tentativi di limitare l’applicabilità. Qualche giorno fa è stata data notizia che la capigruppo ha disposto il ritorno nell’aula del Senato (sopravvissuto alla temperie del 4 dicembre) della discussione del reato di tortura, ancorché non sia ancora noto il giorno in cui questo avverrà. Ho avuto modo di leggere nei mesi scorsi il volume Tortura della professoressa Donatella Di Cesare, filosofa teoretica, nel quale si disvela in maniera mirabile la forza del tabù che la sorregge, l’ignominia complice di chi si richiama ad una ragion di Stato, il suo nesso stretto con il potere. Non so dire (nessuno può dirlo) cosa accadrà, se e quando la Camera Alta riprenderà l’esame del testo, ma è utile ricordare il punto in cui siamo rimasti, e le ragioni (?) del miserabile arresto della discussione. Sul sito del Senato possono leggersi i lavori dell’Aula, nelle sedute del 7 e 14 luglio 2016, fino a quando, in data 19 luglio, la conferenza dei capigruppo ha stabilito di posporre l’esame del ddl "al fine di un ulteriore approfondimento del testo". Verrebbe da ridere, se non ci fosse da piangere. Si tratta di un obbligo di legge che il nostro Paese volontariamente elude da quasi trent’anni, avendo ratificato nel 1988 la Convenzione Onu del 1984, secondo la quale "Ogni Stato assicura che tutti gli atti di tortura costituiscano reati ai sensi della sua legge penale". Salva la definizione ("più ampia") che ogni Stato è libero di adottare, a mente di quanto previsto dalla Convenzione il termine tortura va inteso nel senso indicato nella norma citata. Eppure. L’introduzione del reato di tortura (l’unico costituzionalmente necessario, ex articolo 13, comma 4, della Costituzione), secondo quanto approvato dalla commissione permanente del Senato (relatori Buemi e D’Ascola), implicherebbe "reiterate violenze o minacce gravi", o "l’agire con crudeltà", che cagionino, tra l’altro "un verificabile trauma psichico". Ritorna, come si vede, la tortura di Stato: una volta si può, se non è grave non è. Eppure, come sostenuto da altro filosofo, Lombardi Vallauri, "il diritto, per sfuggire al rischio di porsi come dinamica autoreferenziale, deve essere giustificato filosoficamente a partire da opzioni valoriali che attengono alla concezione della giustizia". Nel passaggio dalla Camera al Senato, il confuso testo votato il 9 aprile 2015 (due giorni dopo l’umiliante, ma sacrosanta, condanna dell’Italia da parte della Corte europea per i Diritti dell’uomo per i fatti della Diaz) è diventato irricevibile. È sparita l’intenzionalità della condotta. L’aggravante (bilanciabile) per i fatti del pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio scatterebbe solo se commessi nell’esercizio del ruolo. Si è eliminata l’inclusione del reato di tortura tra quelli per i quali il termine prescrizionale è raddoppiato. Quali le ragioni di questo scempio? Vediamole. Secondo il presidente della commissione Giustizia Nico D’Ascola (autore dell’emendamento sulla reiterazione, salva la sua specificazione contraria in Aula), "se una sola violenza o una sola minaccia fosse stata ritenuta sufficiente a classificare il delitto di tortura, altro non avremmo fatto che sovrapporlo a delitti preesistenti". Secondo il suo predecessore, il senatore Palma, ancora, si sarebbe confuso "non so con quale conoscenza del diritto" il reato di tortura con altri reati; "bisognava fortificare il concetto che non erano sufficienti un’unica violenza e un’unica minaccia per realizzare il reato... cambiate il testo o, con il beneplacito del Nuovo centrodestra, fatevi tutte le nuove maggioranze che volte con i 5 Stelle". Ed ancora, con altri interventi (tra gli altri, dei senatori Stefani, Falanga, Caliendo, Centinaio, Gasparri) si è affermato che "quando abbiamo inserito la parola "reiterate" abbiamo immaginato un qualcosa che non avesse una sua dimensione temporale minima, ma che avesse una di- temporale estesa nel tempo... il reiterato è insito, perché la condotta che integra un’ipotesi di tortura in un’ipotesi delittuosa che può essere impercettibile, richiede la presenza di reiterate condotte... l’ordine pubblico è il tema principale... la tortura è proprio nel concetto della reiterazione dell’atto: si trattiene una persona, la si picchia, e si fa un uso abituale della violenza che si protrae nel tempo con atti plurimi. Senza addentrarmi in discussioni giuridiche, filosofiche o etiche complesse, questa è la tortura... noi non vogliamo sentir dire che d’ora in poi le Forze dell’ordine non possono più fare quello che vogliono, perché stanno mantenendo l’ordine pubblico in questo Paese. Di conseguenza, stare dalla loro parte in questo momento vuol dire stare dalla parte di chi chiede l’ordine pubblico, di chi chiede una società diversa, rispetto allo schifo di questo Paese". Per altri, contrari alla reiterazione della condotta, il punto di equilibrio sarebbe rappresentato dal mantenimento del plurale del termine minacce. Le parole sono pietre. P. S. Non l’avrei mai pensato, mai nella vita, ma son d’accordo con il senatore Giovanardi; visto il desolante quadro politico, giuridico, etico, si introduca il reato di tortura come descritto nella Convenzione Onu, e si colmi il buco nero nel quale ci troviamo. "Omicidio sul lavoro", un disegno di legge contro le morti bianche di Riccardo Chiari Il Manifesto, 10 febbraio 2017 Presentato in Senato un disegno di legge per introdurre nel codice penale il reato specifico sugli omicidi bianchi. Firmatari Casson (Pd) e Barozzino (Si), che con il compagno di partito Airaudo denuncia: "È forse più grave uccidere violando le norme stradali piuttosto che violando quelle antinfortunistiche?". Lo scorso anno 1.400 vittime sul lavoro. Da un magistrato sempre attento ai diritti del lavoro, e da un operaio rimasto vivo per miracolo nella strage alla Thyssen Krupp di Torino - sette compagni furono arsi vivi - arriva una proposta di legge per introdurre nel codice penale il reato specifico di omicidio sul lavoro. Gli autori del progetto sono i senatori Felice Casson e Giovanni Barozzino, che insieme all’ex sindacalista Giorgio Airaudo hanno presentato a Palazzo Madama l’iniziativa politica. Partendo da un dato di fatto: "La precarizzazione selvaggia introdotta dal jobs act ha isolato i lavoratori e indebolito ulteriormente la loro capacità contrattuale. Con questo disegno di legge vogliamo introdurre un elemento di giustizia nel devastante mosaico che caratterizza la sicurezza negli ambienti di lavoro, mettendo fine alla dilagante impunità concessa ai datori di lavoro che non rispettano le leggi". Le parole di Barozzino trovano conferma anche nelle pieghe degli interminabili processi sugli omicidi bianchi, che possono finire in archivio prima dell’esaurimento dei tre gradi di giudizio. Non solo Viareggio: è di questi giorni l’appello della Cgil Umbria contro la possibile prescrizione per una delle periodiche stragi di lavoratori, quella alla Umbria Olii che costò la vita a quattro operai: "La Cgil continua ad essere al fianco dei familiari delle vittime - segnala il sindacato - e con loro chiediamo che si scongiuri il rischio della prescrizione. In una vicenda nella quale i familiari hanno già dovuto subire l’affronto di una richiesta danni milionaria da parte del titolare dell’azienda Giorgio Del Papa, un fatto senza precedenti, sarebbe davvero una sconfitta per lo Stato se la giustizia non riuscisse a fare il suo corso, cancellando le gravi responsabilità già accertate in primo e secondo grado di giudizio". Nel dettaglio, il disegno di legge definisce fra le tante anche la parola lavoratore, che andrà a rappresentare chi, nel settore pubblico o privato, svolge attività lavorativa. Con o senza retribuzione. Sono nove gli articoli che costituiscono il ddl e che vanno a configurare il reato di omicidio sul lavoro, con le diverse graduazioni a seconda delle norme violate in tema di sicurezza sul lavoro e le conseguenti sanzioni. Il reato viene aggravato dallo sfruttamento del lavoro e da eventuali lesioni personali gravi o gravissime. "Il nuovo reato di omicidio sul lavoro - spiegano Casson (Pd), Barozzino e Airaudo (Si) - attribuisce rilevanza penale ad una serie di condotte, distinguendole in base al grado della colpa. Tra le principali misure viene punito con la reclusione da 2 a 7 anni l’omicidio commesso violando le norme sugli infortuni sul lavoro e quelle delle malattie professionali. Si prevede un aggravio di pensa nei casi in cui il datore di lavoro non adempie gli obblighi previsti per legge in materia di sicurezza, e cioè la valutazione dei rischi e la nomina del responsabile sicurezza e prevenzione, e l’obbligo di comunicare all’Inail la natura delle lavorazioni e i conseguenti rischi. Si prevede inoltre la reclusione da 8 a 12 anni quando la morte del lavoratore sia causata dalla violazione delle norme in materia di sostanze pericolose ed esposizione ad agenti biologici. Infine si punisce con il carcere da 5 a 10 anni chi causa la morte di una persona mettendogli a disposizione strumenti di lavoro non conformi alla normativa Ue e nazionale". Infine Barozzino guarda ai numeri della quotidiana strage sul lavoro: "Secondo l’Osservatorio Indipendente di Bologna sugli infortuni e le malattie professionali, l’anno scorso sono morti 641 lavoratori sui luoghi di lavoro, che salgono a oltre 1.400 se si considerano i morti ‘in itinerè sulle strade e le altre innumerevoli posizioni lavorative, perché è assicurata all’Inail solo una parte degli oltre 6 milioni di partite Iva individuali. Arrivati a questo punto ci siamo chiesti perché voler prevedere un aumento di pena solo per l’omicidio stradale, e non anche per coloro che causano la morte di persone violando le norme antinfortunistiche. È forse più grave uccidere violando le norme stradali piuttosto che violando quelle antinfortunistiche?". Terrorismo, sì al carcere per chi si addestra di Enrico Bronzo Il Sole 24 Ore, 10 febbraio 2017 Corte di cassazione - Sentenza 6061/2017. È legittima la restrizione in carcere per la persona addestrata a commettere atti di terrorismo. Questa la decisione presa dalla Corte di cassazione con la sentenza 6061depositata ieri. Analizzando la legge 43/2015 sul contrasto al terrorismo, la Corte ricorda che la norma (articolo 270-quinquies del Cp) equipara ai fini della punibilità l’addestratore alla persona addestrata (anche online). Nel dettaglio, la Corte ha specificato che "l’addestrare e il fornire istruzioni, sul lato del "docente", implicano senza dubbio un’immediata strumentalità delle tecniche insegnate a realizzare sia atti di violenza che a perseguire finalità terroristiche, e analogamente è a dirsi per l’addestrato stricto sensu, legato da un rapporto specifico, anche se non necessariamente stringente, con chi gli impartisce l’addestramento". La Corte accomuna per rilevanza penale anche coloro che "si limitano a raccogliere in via autonoma istruzioni fornite a incertam personam, vale a dire destinate a chiunque intenda avvalersene... non fosse altro per la potenziale, enorme diffusività di quel bagaglio di conoscenze, messo a disposizione di un numero indeterminato e pressoché infinito di "lupi solitari"". Il ricorso viene quindi rigettato e l’indagato rimane in carcere. La Corte di cassazione respinge anche un altro motivo del ricorso, in cui si afferma che il Tribunale non abbia dedicato un’analisi al tema delle esigenze cautelari, o che sia mancata una compiuta disanima delle obiezioni difensive (anche sul possibile ricorso al "braccialetto elettronico"). Ma per la Corte il provvedimento impugnato chiarisce invece che l’indagato si era dimostrato conoscitore di tecniche utili a eludere intrusioni da parte della forza di polizia. Inoltre il ricorrente aveva non solo visionato filmati su come non essere spiati attraverso il telefono cellulare, ma anche scaricato un corso online utile a quelle finalità. Riciclaggio la casa comprata con i soldi della bancarotta di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 10 febbraio 2017 Corte di cassazione - Sentenza 6262/2017. Via libera alla confisca obbligatoria, dopo la condanna per riciclaggio, dell’appartamento comprato con il denaro proveniente dal delitto di bancarotta fraudolenta. La Cassazione (sentenza 6262) respinge il ricorso contro la "scelta" della Corte d’appello di confermare la sentenza del Giudice dell’udienza preliminare che aveva condannato la ricorrente, in sede di patteggiamento, per il reato di riciclaggio. Alla base della condanna c’era un trasferimento, di circa 70mila euro, derivanti dal reato di bancarotta fraudolenta, commesso dal fratello e dalla cognata della ricorrente, in relazione al fallimento della loro società. Nella ricostruzione dei giudici, per "dissimulare" la provenienza delittuosa del denaro, l’importo per l’acquisto di un immobile in Trentino era stato versato in dollari americani con bonifici provenienti dal Costarica, Paese in cui i familiari avevano trasferito i loro interessi e con cui l’imputata non aveva mai avuto rapporti. La ricorrente dal canto suo affermava la provenienza lecita del denaro e la violazione dell’articolo 648-quater del Codice penale per l’errata individuazione dei beni da confiscare. La Corte d’appello avrebbe confermato la confisca dell’intero immobile, per un valore molto superiore a quello contestato come profitto del reato ipotizzato, senza un’adeguata valutazione. Per la difesa, trattandosi di un’ipotesi di confisca per equivalente, e era necessario far riferimento solo all’importo indicato nel capo di imputazione. Sempre in base alla tesi difensiva, sarebbe contro il diritto l’affermazione della Corte territoriale secondo la quale l’acquisizione dell’intero immobile confiscato non era sufficiente a compensare la grande sottrazione di beni contestata con la bancarotta e che dovevano essere "destinati" al fallimento. Alla Corte d’appello sarebbe infatti "sfuggito" che in nessun caso l’acquisizione dell’immobile poteva diminuire o compensare, anche parzialmente, le distrazioni societarie, perché il bene confiscato, sarebbe destinato all’erario e non alla massa fallimentare. La Cassazione respinge le argomentazioni della difesa. I giudici ricordano che nel caso esaminato è stata correttamente ordinata (articolo 648-quater, comma 1, del Codice penale) la confisca obbligatoria dei beni profitto del reato. Una misura che scatta nel caso di condanna dopo il patteggiamento, per i reati di riciclaggio, impiego di denaro o altri beni di provenienza illecita e auto-riciclaggio. Nella nozione di profitto del reato rientrano anche gli impieghi redditizi del denaro di provenienza delittuosa, in quanto "simili trasformazioni o impieghi non possono impedire che venga sottratto ciò che rappresenta l’obiettivo stesso del reato posto in essere". La "conversione" del denaro in beni di altra natura, fungibili o no, non argina sequestro preventivo e confisca, che possono riguardare il bene oggetto di investimento. È dunque profitto del reato anche il bene immobile acquistato con somme di denaro illecitamente conseguite, quando il suo impiego "sia casualmente collegabile al reato e sia soggettivamente attribuibile all’autore di quest’ultimo". Privacy, sui dati sensibili parola alle Sezioni unite di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 10 febbraio 2017 Corte di cassazione - Sentenza 3455/2017. Saranno le Sezioni unite a stabilire se la banca e la Regione violano le norme sulla privacy nel fare riferimento, nella causale di pagamento, alla legge sugli indennizzi per i danni da vaccini obbligatori o da trasfusioni di sangue infetto. La Prima sezione della Cassazione (ordinanza interlocutoria 3455), prende atto dell’annoso contrasto della giurisprudenza sul punto e chiede alle Sezioni unite di dare un’interpretazione uniforme, partendo dalla definizione delle nozioni di trattamento e comunicazione dei dati sensibili. L’ordinanza prende le mosse dal ricorso di un cittadino che lamentava la diffusione di dati sensibili rivelatori del suo stato di salute perché, nel disporre il pagamento per via telematica la Regione aveva fatto riferimento alla legge 210/1992, la stessa usata dall’istituto di credito per contraddistinguere il "movimento" nell’estratto conto inviato al cliente. Il ricorso era stato respinto dal Tribunale di Napoli. La Cassazione ricorda che esiste una nutrita giurisprudenza di legittimità che, nell’analizzare molti casi analoghi, è arrivata a conclusioni opposte. Con la sentenza 10947 del 2014 proprio la Prima sezione, muovendosi sul solco tracciato dal codice della privacy, (Dlgs 196/2003) aveva precisato il dovere di trattare i dati personali nel rispetto dei diritti fondamentali, con particolare riguardo ai dati sensibili idonei a rivelare lo stato di salute. Anche gli enti pubblici, aveva precisato la Cassazione, devono evitare la diffusione delle notizie "sensibili" ricorrendo a tecniche di cifratura o a codici di identificazione che li rendano temporaneamente non leggibili a chi è autorizzato ad accedervi. I giudici avevano dunque concluso, trattandosi di un caso sovrapponibile a quello analizzato nell’ordinanza di rinvio, che sia la Regione sia la banca avevano - indicando la legge "fonte" di indennizzo - trattato il dato illegittimamente. Una scelta dalla quale aveva preso le distanze la Terza sezione con la sentenza 10280 del 2015 che, in un’identica fattispecie, aveva escluso la violazione delle norme sulla privacy. Secondo i giudici non ci sarebbe stata la diffusione, che si configura solo quando un dato è conoscibile e messo a disposizione di soggetti indeterminati e in qualunque forma. Ipotesi esclusa per la banca, anche considerando la pluralità di soggetti che ne potevano conoscere il dato in ragione del servizio svolto. Per la Cassazione chi trasmette i dati a una persona giuridica, che opera attraverso i suoi organi, non può esigere che questa identifichi prima la persona a cui indirizzare la comunicazione. Neppure la Regione avrebbe violato le norme sulla privacy, e in particolare l’articolo 22 che detta le regole di trattamento per gli enti pubblici. La norma sarebbe infatti destinata a impedire che, attraverso la consultazione di banche dati, possano essere identificati i titolari, ma non applicabile alla Regione che si era limitata a indicare, per ragioni di trasparenza ed efficacia dell’attività amministrativa, la causale del pagamento. La banca inoltre aveva agito nel rispetto del contratto di conto corrente su mandato dello stesso cliente. Anche se la giurisprudenza ha affermato che non è necessario alcun consenso da parte del titolare di dati sensibili, escluso anche dal codice sulla privacy, quando il trattamento è necessario per adempiere un obbligo di legge. Per il mafioso la misura cautelare personale, ma non necessariamente quella patrimoniale di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 10 febbraio 2017 Corte di cassazione - Sezione V penale - Sentenza 9 febbraio 2017 n. 6067. Al soggetto che partecipa all’associazione mafiosa va applicata senza dubbio la misura cautelare personale senza però che ciò comporti automaticamente anche la confisca. Le misure, quindi, di diversa natura devono restare ben distinte e soprattutto vanno opportunamente motivate. Questo in estrema sintesi il contenuto della sentenza della Cassazione n. 6067/2017. La vicenda. La Corte si è trovata alle prese con un soggetto che aveva contatti con la ‘ndrangheta e questo era stato dimostrato da diversi elementi passati peraltro in giudicato. Tra questi la circostanza che all’imputato fosse consentito di lavorare nella zona controllata dalla cosca e che questi partecipasse alla distribuzione dei lavori. Veniva contestato, inoltre, il fatto che favorisse gli interessi del clan contribuendo a occultare la proprietà di beni immobili riconducibili all’organizzazione criminale e a i suoi esponenti di vertice. Come se non bastasse la partecipazione era stata poi attribuita in quanto il soggetto aveva accompagnato un appartenete al clan presso l’ospedale per andare a trovare un familiare. La misura applicabile sulla base di queste contestazioni era quindi dettata da una pericolosità qualificata. Al soggetto, tuttavia, era stata inflitta anche una misura patrimoniale sulla scorta di una pericolosità generica giustificata dalla circostanza che fosse evasore abituale. La Cassazione ha respinto i motivi di appello relativi alla pericolosità qualificata considerato il fatto che i vari fatti erano stati ampiamente dimostrati nella fase di merito e quindi i ricorsi in tal senso sono stati ritenuti inammissibili. Di diverso avviso, invece, la Cassazione sulla pericolosità generica, nel caso, non totalmente dimostrata. E questo perché né il custode giudiziario né il giudice delegato avevano riscontrato l’ipotesi di sistematica evasione fiscale. Si legge, inoltre, nella decisione come gli stessi giudici di merito avessero analiticamente vagliato le deduzioni difensive giungendo in merito alle misure patrimoniali ad accoglierne alcune, respingerne altre correggendo le tabelle iniziali e concludendo però che restava sostanzialmente intatta la sproporzione tra i redditi denunciati e gli acquisti fatti. L’errore commesso nel merito. I Supremi giudici hanno rilevato, però, come la Corte territoriale fosse giunta a fornire una motivazione apparente sulla sussistenza dei requisiti previsti dall’attuale codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione (ex articoli 1 e 4 del Dlgs 159/2011) che individuano coloro che possono essere sottoposti alle misure. L’errore commesso, infatti, si legge nella sentenza, è stato quello di aver etichettato l’imputato come evasore fiscale, condizione che non si deduce o si sovrappone a quella di chi debba ritenersi "abitualmente dedito a traffici delittuosi" e "viva abitualmente, anche in parte con i proventi di attività delittuose". La Cassazione così è giunta ad affermare che il mero status di evasore fiscale non è sufficiente a giustificare l’applicazione della misura cautelare patrimoniale. Questo perché va esaminato il concetto di evasore e verificare in base anche agli ultimi parametri normativi se costituisca un reato oppure più semplicemente un illecito amministrativo. Il giudice del rinvio pertanto dovrà esaminare concretamente tutti gli elementi per qualificare e quantificare l’evasione. Solo con questa verifica si potrà concretamente valutare se applicare o meno il provvedimento ablativo. I Supremi giudici hanno annullato il provvedimento impugnato limitatamente alla confisca collegata alla pericolosità generica. Sicilia: il Garante dei detenuti Fiandaca "nell’Isola la situazione è migliorata" livesicilia.it, 10 febbraio 2017 La risposta alla conferenza stampa di Apprendi e Caputo. "Sono grato agli onorevoli regionali Pino Apprendi e Toto Cordaro per avere richiamato l’attenzione pubblica, nel corso di una recente conferenza stampa a Palazzo dei Normanni, sui diversi problemi relativi alle strutture carcerarie siciliane. Sono del resto problemi ben noti, ma che non presentano affatto un livello di gravità tendenzialmente maggiore di quello riscontrabile in altre regioni italiane. Pertanto, appare eccessiva l’enfasi con cui i due illustri parlamentari hanno sottolineato la presunta condizione di estrema gravità della situazione carceraria in Sicilia, come se ci si trovasse in una condizione particolarmente allarmante. Né sembra giustificato, almeno nei termini in cui viene formulato, l’invito al Presidente Rosario Crocetta a riferire con urgenza in Parlamento sulla questione: com’é noto, nessun Presidente regionale ha competenze e poteri diretti di intervento in materia carceraria". Così in una nota il garante dei detenuti della Regione Siciliana Giovanni Fiandaca commenta la conferenza stampa congiunta dei deputati Cordaro e Apprendi sulle criticità delle carceri siciliane. "In ogni caso - prosegue il comunicato di Fiandaca, la tutela dei diritti dei detenuti spetta a un apposito soggetto istituzionale istituito con legge regionale, e cioè al Garante dei diritti fondamentali dei detenuti, ruolo che personalmente rivesto dal maggio 2016. I problemi sollevati dai due deputati mi sono ben noti in qualità di Garante e costituiscono da alcuni mesi oggetto di particolare attenzione e cura da parte dell’Ufficio da me presieduto. Mentre i due deputati regionali, nel rivolgere l’invito al Garante ad attivarsi al più presto, finiscono col diffondere il falso messaggio che il Garante sia stato, finora, in proposito inattivo: purtroppo, i politici per guadagnare visibilità tendono non di rado a drammatizzare e a lanciare accuse infondate anche in forma velata. Come i due deputati dovrebbero sapere, all’Ufficio del Garante spetta di redigere una relazione da presentare al Parlamento siciliano ogni anno: il che implica che come Garante presenterò una completa relazione sul lavoro espletato a fine maggio di quest’anno (essendo questa la prima scadenza che obbliga il mio Ufficio a riferire al Parlamento)". Il giurista anticipa qualcosa sul quadro riscontrato nella sua attività: "Sin da ora però posso attestare che, diversamente da quanto sembra emergere dalla conferenza stampa dei due deputati, non esiste in Sicilia un tasso di sovraffollamento maggiore che in altri contesti: il livello quantitativo di detenuti è nella media nazionale, anzi forse con alcuni decimali in meno. In atto la situazione è anche migliorata rispetto allo scorso anno. Oggi, infatti, rispetto ad una popolazione di 6.137 detenuti sono infatti potenzialmente disponibili 6.250 posti: dico potenzialmente perché mille posti non sono sin da subito utilizzabili perché in fase di ristrutturazione, ma i lavori di recupero dovrebbero essere espletati in tempi ragionevoli. Ovviamente, quando si parla di dato medio bisogna intendersi: può accadere cioè che, mentre alcuni istituti hanno un numero di detenuti inferiore alla disponibilità di posti, qualche istituto penitenziario presenta un numero di detenuti maggiore rispetto alla prevista capienza. Ma quel che va comunque sottolineato è che già da alcuni anni nessun detenuto si trova sotto i tre metri quadri di spazio, cioè quella soglia interdetta dalla nota sentenza Torreggiani. Si aggiunga che tutti i detenuti usufruiscono di almeno 8 ore quotidiane di attività al di fuori delle celle". Firenze: Sinistra Italiana "Opg di Montelupo, avanguardia per detenuti o speculazione?" gonews.it, 10 febbraio 2017 Dopo la chiusura dell’Opg, sulla destinazione del complesso dell’Ambrogiana siamo arrivati al dunque. Abbiamo presentato una mozione in Consiglio regionale per chiedere alla Giunta un atto di civiltà e coraggiosa e intelligente amministrazione: sostenere un progetto innovativo rivolto a detenuti a fine pena e al loro reinserimento sociale. Un simile progetto permetterebbe il mantenimento di un istituto a custodia attenuata nei locali delle ex scuderie, impiegando i detenuti nelle attività di manutenzione dell’immobile e di ausilio alla destinazione pubblica della villa, sia essa museale, convegnistica o ricettiva". "L’alternativa che pericolosamente si prospetta è quella di una speculazione a vantaggio di pochi", affermano i consiglieri Tommaso Fattori e Paolo Sarti di Si Toscana a Sinistra. "E non ci rassicura, sotto questo profilo, l’incongrua presenza del neo ministro allo sport Lotti, originario di Montelupo, alla conferenza stampa annunciata domani in Regione: si prefigurano conflitti d’interesse?" "Restano ferme alcune domande senza risposta. Perché si vuol chiudere un carcere perfettamente ristrutturato in grado di accogliere immediatamente 160 persone, decongestionando le altri carceri toscane? Perché più di cento lavoratori devono essere messi in mobilità?", continuano Fattori e Sarti. "Questo progetto, che il Ministero della Giustizia aveva condiviso e promosso fino al 2014, costituirebbe un’esperienza all’avanguardia, capace di valorizzare in maniera esemplare un patrimonio che appartiene alla collettività, senza buttare alle ortiche i sette milioni di euro recentemente spesi per il restauro della parte destinata agli alloggi dei detenuti, evitando un colpevole e grave spreco di denaro pubblico di cui non mancheremmo d’interessare la Corte dei Conti". Concludono Fattori e Sarti: "Vorremmo istituzioni capaci d’ investire davvero sulla funzione rieducativa della pena e di progettare carceri ben diverse da quei "non-luoghi" stranianti a cui ci siamo purtroppo abituati. È così strano pensare che un carcere possa essere persino bello? Parliamone con i cittadini di Montelupo, condividiamo con loro questa prospettiva all’interno del percorso partecipativo che il Comune ha chiesto di avviare. Siamo certi che ci darebbero ragione". Lamezia Terme: sede del Provveditorato nell’ex carcere? Pd: ognuno faccia la sua parte cn24tv.it, 10 febbraio 2017 "Le notizie apparse in questi giorni sui mezzi d’informazione - scrivono in una nota i consiglieri comunali Mariolina Tropea, Nicola Mastroianni e Pino Zaffina del Gruppo consiliare del Pd di Lamezia Terme - riportano in primo piano il tema sull’ubicazione della sede del Provveditorato Regionale dell’Amministrazione penitenziaria per la Calabria". I tre Dem si riferiscono al fatto che la città, da qualche anno, ha visto la chiusura del carcere locale, dopo che il Ministero della Giustizia, nella stessa struttura, aveva precedentemente effettuato dei lavori di miglioramento e messa in sicurezza della struttura. "Alle legittime dimostranze della cittadinanza e del personale del penitenziario lametino - affermano - era stata chiara e netta la risposta da parte, sia del Ministero: nella struttura dell’ex carcere circondariale sarà collocata la sede del Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria, che era ed è attualmente alloggiato in locali non idonei, con tanto di canone di locazione da pagare". "Decisione - evidenzia il Gruppo consiliare Pd - che certamente non ripagava per la chiusura di un carcere storico in una città con gravi problemi delinquenziali e sede del Tribunale, ma che in ogni caso mirava a mitigare gli effetti negativi della soppressione della casa circondariale sull’economia cittadina. Oggi oscuri disegni mettono seriamente in discussione quanto già deciso e assunto. Si abbandona all’oblio l’ex carcere di Lamezia e si va alla ricerca affannosa in altra città della sede del Provveditorato, per lasciare Lamezia sempre più povera e isolata". Tropea, Mastroianni e Zaffina chiedono in modo fermo e determinato che ognuno svolga la sua parte: che l’amministrazione cittadina si interfacci da subito con la dirigenza generale del Provveditorato regionale per dare possibile disponibilità; che il presidente della provincia di Catanzaro indichi i locali ubicati in Lamezia di proprietà dell’Ente provinciale che siano idonei allo scopo; che la Deputazione regionale e nazionale interroghi il Governo nazionale sulle ragioni del cambiamento di decisione. Roma: il 16 febbraio all’Ospedale San Pietro s’inaugura il Repartino detenuti lagone.it, 10 febbraio 2017 La Asl Roma 4 inaugura giovedì 16 febbraio alle ore 10.30 la Nuova Camera di Sicurezza (Repartino Detenuti) la cui realizzazione è stata resa possibile grazie alla perfetta sinergia tra Amministrazione Penitenziaria, Direzione della Casa Circondariale di Civitavecchia e Azienda Usl Roma 4. Il progetto di riqualificazione è stato visionato insieme ai responsabili della sicurezza del carcere e al Sindacato della Polizia Penitenziaria (Spp). La vecchia Camera di Sicurezza situata al piano secondo del nosocomio di Civitavecchia è stata completamente demolita per il rifacimento di tutte le tramezzature interne, dei pavimenti e sottostanti massetti, degli infissi e degli impianti elettrici e idrico-sanitari. Il nuovo Repartino Detenuti sarà dotato di pareti interne in muratura comprendenti apposizioni in acciaio e reti di sicurezza; pavimenti in gres porcellanato; infissi in pvc con vetri di sicurezza antisfondamento e reti antizanzare; porte di sicurezza in acciaio; sanitari in acciaio inox stondato; videocitofono e videosorveglianza; condizionamento e impianto di rilevazione incendi adeguato alle più recenti normative; finitura in tinta sanificata lavabile. L’intervento di riqualificazione della Camera di Sicurezza (Repartino Detenuti) si è reso necessario per garantire i livelli di sicurezza e di comfort dei detenuti ricoverati, degli agenti di sicurezza e dei visitatori. Il Direttore della Asl Roma 4, dott. Giuseppe Quintavalle si ritiene molto soddisfatto del lavoro svolto per migliorare la condizione dei detenuti ricoverati. Per andare incontro alla duplice esigenza della sicurezza e del diritto alla cura, si è lavorato a stretto contatto con i responsabili SPP per rispondere a tutte le esigenze volte a garantire l’incolumità e la dignità di detenuti e del personale penitenziario. Pescara: progetto "Giustizia riparativa", detenuti impiegati per lavori di pubblica utilità cityrumors.it, 10 febbraio 2017 Rinnovata la convenzione tra Comune e carcere di San Donato per attivare i percorsi di inclusione lavorativa per i detenuti. Con il progetto ‘Percorsi di giustizia ripartivà infatti, già rodato negli anni precedenti, si prevede l’inserimento dei detenuti sia negli uffici comunali, per svolgere le mansioni di digitalizzazione e archiviazione degli atti, sia nella cura e manutenzione del verde e delle spiagge pubbliche. Quest’anno l’iniziativa sarà estesa a più detenuti: 12 impiegati nel progetto, mentre lo scorso anno ne erano 8. "Ad individuarli sarà l’equipe della Casa Circondariale, che avrà il compito di stilare un programma personalizzato e prevedere un tutor di progetto. I detenuti lavoreranno dalle ore 9 alle 13 per cinque giorni a settimana", afferma l’assessore alle Politiche sociali, Antonella Allegrino. Caserta: otto detenuti di Carinola al lavoro nel Parco Reale della Reggia di Maria Luisa Allocca Il Mattino, 10 febbraio 2017 Otto detenuti della struttura penitenziaria di Carinola al lavoro nell’enorme Parco Reale del Monumento patrimonio Unesco. L’articolo 27 della nostra Costituzione nel terzo comma sancisce che "Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato". Questo principio, enunciato nella legge fondamentale, è presupposto essenziale ed irrinunciabile in termini di funzione della pena. Da sempre la funzione della pena è stata oggetto di riflessioni etico - giuridiche. Ponendo attenzione però solo sulle teorie elaborate a cavallo tra la fine del Settecento e gli inizi dell’Ottocento, che hanno rappresentato le manifestazioni più compiute in relazione ai possibili significati di idea - pena, è possibile citare la teoria della retribuzione di Kant, l’idea di prevenzione generale di Anselm Feuerbach, il pensiero di prevenzione speciale di Karl Grolman o ancora la tesi dell’emenda di Karl Krause. Tutte elaborazioni che, tuttavia, mal si conciliano con il nostro contesto ordinamentale, ispirato ai principi dello stato sociale di diritto, sintesi delle anime liberali e solidaristiche che caratterizzarono la nostra Assemblea Costituente. In particolare, con riferimento all’art. 27, co. 3, vi è un espresso riferimento alla pena in termini di rieducazione. Il rispetto dell’uomo, anche se abbia commesso un reato, è la premessa fondamentale per il suo recupero sociale. Il telos della risocializzazione, o della non de - socializzazione, deve essere alla base di un diritto penale umano e razionale. Affinché ciò sia possibile e, soprattutto efficace, è ovviamente richiesta una adesione volontaria e una partecipazione attiva dei soggetti. Ai fini dell’attuazione della funzione di rieducazione è richiesto che nella fase di esecuzione della pena non via sia spazio alcuno per le intimidazioni, anche perché si andrebbe a violare il principio costituzionale, precettivo, del divieto di trattamenti contrari al senso di umanità. Il protocollo di intesa siglato dal direttore della Reggia di Caserta, Mauro Felicori, e dalla direttrice del casa di reclusione di Carinola, Carmela Campi, lo scorso 9 agosto, aveva proprio l’obiettivo di migliorare le condizioni di vita dei detenuti, consentendo a quest’ultimi la reintegrazione nel contesto socio - lavorativo, dal momento che hanno avuto la possibilità di imparare lavorando, instaurando ottimi rapporti con i dipendenti della Reggia di Caserta. Il progetto di pubblica utilità è stato previsto per una durata di sei mesi, ma rinnovabili, coinvolgendo otto detenuti della struttura carceraria, affidando a questi ultimi mansioni di manutenzione, pulizia e bonifica. Martedì 7 febbraio il sottosegretario alla Giustizia Gennaro Migliore ha visitato la Reggia di Caserta e ha affermato che "L’esperienza lavorativa fatta dai detenuti del carcere di Carinola alla Reggia di Caserta è stata molto positiva e costituisce un modello che riproporremo anche in altre parti d’Italia". Questa è stata la possibilità per abbattere dogmi e pregiudizi e, a tal proposito, la direttrice del casa penitenziaria, Carmela Campi, nel ringraziare sentitamente per l’eccellente lavoro svolto dalla squadra del carcere, dai magistrati del Tribunale di Sorveglianza, e dai dipendenti della Reggia di Caserta ha precisato che "questo lavoro aumenta la sensibilità culturale collettiva, si abbattono pregiudizi e si dà una seconda possibilità. Il progetto alla Reggia di Caserta proseguirà con altri otto detenuti, già pronti a prendere servizio". Vercelli: rissa in carcere tra italiani e nordafricani, tre detenuti all’ospedale di Floriana Rullo La Repubblica, 10 febbraio 2017 Si sono picchiati con violenza estrema, italiani contro nordafricani, per motivi che non hanno voluto raccontare nemmeno alle forze dell’ordine. Per questo ieri pomeriggio tre detenuti del carcere "Billiemme" di Vercelli sono finiti al pronto soccorso dell’ospedale Sant’Andrea con lesioni su ogni parte del corpo. Durante la rissa non è stato ferito alcun agente della polizia penitenziaria, ora potenziata con rinforzi da Biella e Novara. Una situazione, tuttavia, di estremo pericolo secondo il sindacato di polizia penitenziaria Sappe. "L’intervento è stato davvero rischioso" denuncia il segretario piemontese Vicente Santilli, che aggiunge: "Ieri pomeriggio si sono fronteggiati alcuni detenuti italiani e nordafricani. Alcuni di loro hanno riportato diverse escoriazioni su viso e testa. Il personale di polizia penitenziaria, seppur in numero assai contenuto, è stato bravo a fronteggiare le violenze ed a ricondurre la situazione alla normalità, anche se sono stati momenti drammatici e particolarmente pericolosi e stressanti. Ora l’amministrazione penitenziaria regionale adotti con tempestività urgenti provvedimenti, a cominciare dall’assumere serie misure disciplinari e penali verso i detenuti responsabili dei gravi fatti accaduti nel carcere di Vercelli. Non si faccia finta di non voler vedere le cose come sono: ossia che l’istituto penitenziario ha un organico insufficiente di polizia penitenziaria e che c’è una parte di popolazione detenuta violenta e sfrontata, che non si fa problemi ad alterare l’ordine e la sicurezza del carcere dando vita ad episodi violenti e incresciosi, forse perché la risposta in termini penali e disciplinari ai loro comportamenti violenti e illegali è troppo tenue". Il Sappe, attraverso il segretario generale Donato Capece, torna a sottolineare "i disagi che oggi caratterizzano l’istituto di pena di Vercelli, che presenta molti problemi sotto il profilo della sicurezza e dell’organizzazione del lavoro del personale di polizia penitenziaria, clamorosamente sotto organico rispetto alle reali necessità: mancano infatti circa 70 poliziotti penitenziari in organico rispetto al previsto". Il leader nazionale del Sappe esprime inoltre "apprezzamento e vicinanza al reparto di polizia penitenziaria di Vercelli" e giudica la condotta dei detenuti "irresponsabile e gravissima". E denuncia: "Contiamo ogni giorno gravi eventi critici nelle carceri italiane, episodi che vengono incomprensibilmente sottovalutati dall’amministrazione penitenziaria. Ogni 9 giorni un detenuto si uccide in cella mentre ogni 24 ore ci sono in media 23 atti di autolesionismo e 3 suicidi in cella sventati dalle donne e dagli uomini del Corpo di polizia penitenziaria. Aggressioni, risse, rivolte e incendi sono all’ordine del giorno e i dati sulle presenze in carcere ci dicono che il numero dei detenuti è in sensibile aumento. Come si può dunque sostenere che è terminata l’emergenza nelle carceri italiane?". Continua Capece: "Da quando sono stati introdotti nelle carceri "vigilanza dinamica" e "regime penitenziario aperto" sono decuplicati eventi gli eventi critici in carcere: questo è un fatto grave. Se è vero che il 95 per cento dei detenuti sta fuori dalle celle tra le 8 e le 10 ore al giorno, è altrettanto vero che non tutti sono impegnati in attività lavorative e anzi trascorrono il giorno a non far nulla. Nel 2016 ci sono stati 39 suicidi di detenuti, 1.011 tentati suicidi, 8.586 atti di autolesionismo, 6.552 colluttazioni e 949 ferimenti. E spesso sono i poliziotti penitenziari a subire le conseguenze di queste sconsiderate violenze. Nel carcere di Vercelli, nello specifico, si sono contate 68 colluttazioni, 85 atti di autolesionismo e 5 tentati suicidi sventati in tempo dalla polizia penitenziaria". Siracusa: il carcere di Augusta si apre all’alternanza scuola-lavoro di Antonio Gelardi lacivettapress.it, 10 febbraio 2017 Il rapporto di collaborazione fra il mondo della scuola e la casa reclusione Augusta si arricchisce di un nuovo capitolo. È infatti in avanzata fase di studio la stipula di una convenzione con l’istituto comprensivo Arancio Ruiz di Augusta per lo svolgimento del progetto alternanza scuola lavoro di alcuni studenti presso l’istituto penitenziario. L’iniziativa si aggiunge alle altre condotte congiuntamente dall’Arangio Ruiz e la casa di reclusione, quali il laboratorio teatrale detenuti e studenti, giunto al settimo anno, e l’attività di lavoro gratuito prestata da detenuti presso il sito scolastico. L’alternanza, lo ricordiamo per i non addetti ai lavori, costituisce una modalità di realizzazione dei corsi nel secondo ciclo del sistema d’istruzione e formazione, per assicurare ai giovani l’acquisizione di competenze spendibili nel mercato del lavoro. I percorsi di alternanza scuola lavoro quindi sono organicamente inseriti nel piano triennale dell’offerta formativa dell’istituzione scolastica come parte integrante dei percorsi di istruzione; Gli studenti potranno essere impiegati per le seguenti figure: ragioneria, segreteria, settore amministrativo, ricerca e sviluppo, economato, risorse umane, ricevimento, accoglienza, front-office e back office. Così recita la nota di presentazione a firma del dirigente scolastico Maria Concetta Castorina, che ha pensato l’iniziativa e che ha richiesto la disponibilità per attuazione di percorsi di alternanza scuola-lavoro La direzione proporrà in particolare di affidare l’attività di tutoraggio all’ufficio educatori, in modo da incentrare la partecipazione in quello che potremmo chiamare il core business dell’istituto penitenziario, le attività di osservazione e rieducazione. Quindi lo studio della personalità, le attività riabilitative quali istruzione, lavoro, attività artistiche. E la partecipazione alle équipe multidisciplinari che riuniscono tutti gli operatori impegnati nelle attività risocializzanti: educatori, psicologi, psichiatri, medici, polizia penitenziaria. La presenza di studenti all’interno della casa di reclusione è da tanti anni una costante, per parecchi mesi l’anno ragazzi e ragazze sciamano per i corridoi per raggiungere il teatro o i laboratori. Questa volta si tratta dello svolgimento di un momento formativo pensato per accostare gli studenti al mondo del lavoro. Un mondo peculiare, quello del carcere, ma che nella realtà di Augusta è aperto al territorio. La direzione e l’istituto scolastico studieranno, ciascuno per la propria parte tutte le modalità atte a rendere massimamente formativo e proficuo questo periodo. Da parte della direzione del carcere un grazie sin d’ora al mondo della scuola per la fiducia accordata e per aver pensato di realizzare questo ponte di collegamento con la casa di reclusione. Milano: corso di formazione della Sesta Opera San Fedele, dal carcere alla vita sociale chiesadimilano.it, 10 febbraio 2017 "Custodire, accompagnare, reinserire", un incontro sulle strategie di affiancamento nell’ambito del corso per volontari promosso dalla Onlus. Custodire, accompagnare e reinserire. Questi i temi che saranno affrontati nell’incontro promosso sabato 11 febbraio (ore 9-12.30, piazza San Fedele 4, Milano) da Sesta Opera San Fedele Onlus, in collaborazione con Caritas Ambrosiana e Seac, nell’ambito del ciclo "Sesta opera di misericordia: visitare i carcerati". Gli approcci corretti, gli errori da evitare e gli obiettivi da perseguire saranno illustrati da Maria Visentini (ispettrice del Carcere di Opera, Teresa Mazzotta (vicedirettrice di San Vittore), Severina Panarello (direttore di Uepe Milano) e Claudio Cazzanelli (direzione di A & I Scs Onlus). "Il carcere è sicuramente un luogo di difficile accesso, ma carico di umanità e di voglia di riscatto - spiega Guido Chiaretti, presidente Sesta Opera, la più antica associazione di volontariato penitenziario milanese. Per questo è giusto accostarsi con atteggiamenti, metodi e strumenti corretti, lasciandosi sorprendere da come alcuni di questi criteri siano in realtà utili anche nella vita corrente, nel rapporto tra pari, per superare casi di conflitto". Avvicinarsi al mondo del carcere, abbattere le barriere mentali e culturali che separano i luoghi della detenzione dalla vita sociale gli obiettivi del corso che terminerà sabato 4 marzo. Gli incontri sono aperti a tutti coloro che desiderano impegnarsi in questo volontariato e agli operatori già operativi di tutte le associazioni di volontariato penitenziario. L’iniziativa si tiene nella Sala Matteo Ricci (piazza San Fedele 4, Milano), dalle 9 alle 12.30. Il contributo alle spese è di 40 euro per tutto il corso Info: sestaopera.it. Ivrea (To): nel carcere lo spettacolo "Sbarre di carta" e il pranzo con detenuti e volontari Il Biellese, 10 febbraio 2017 Evento promosso dall’associazione Itaca con RnS Piemonte-Valle d’Aosta e Prison Fellowship Italia. 3142, per il carcere. Un omicida, per il mondo. Un uomo nuovo, dopo il perdono ricevuto e la conversione. La storia di Alessandro è arrivata intensa e forte dentro la Casa circondariale di Ivrea, in un sabato piovigginoso, grazie all’evento "Insieme è più bello", voluto ed organizzato dall’associazione Itaca di Biella in collaborazione con Rinnovamento nello Spirito Santo Piemonte-Valle d’Aosta e Prison Fellowship Italia. Una storia di vita, quella di Alessandro Serenelli, ambientata agli inizi del Novecento quando avvenne l’assassinio della giovanissima Maria Goretti, proclamata santa nel 1950. Una storia, uguale a quella di tanti altri, se non fosse che nella vita di Alessandro entrò impetuosamente Gesù Cristo. Si fece largo nel cuore, dapprima con il perdono ottenuto dalla stessa vittima e da Assunta, la mamma di Marietta (così chiamavano la piccola Goretti) e poi con un lungo e travagliato percorso di conversione. Nel 1929, dopo 27 anni di reclusione e graziato per buona condotta, Alessandro uscì dal carcere, non più come un giovane disperato e senza speranza, ma come uomo nuovo, salvato dal Perdono. Fuori dal carcere visse come autentico figlio di san Francesco, accolto nel convento dei Minori Cappuccini delle Marche tra preghiera e lavoro, portando avanti quel percorso di cambiamento e riscatto che aveva intrapreso. Una vicenda raccontata nel libro "Alessandro Serenelli. Storia di un uomo "salvato" dal perdono" di padre Giovanni Alberti. E proprio lui è giunto a Ivrea per presentare, tratto dal suo libro, lo spettacolo "Sbarre di carta", portato in scena da "Perla d’oriente", il Laboratorio artistico del gruppo "Pentecoste" di RnS attivo al Santuario "Madonna delle Grazie e Santa Maria Goretti". Un’intensa occasione di riflessione che i detenuti hanno mostrato di cogliere ed apprezzare fortemente. E di perdono ha parlato anche Caterina Miracola leggendo la lettera fatta pervenire da Marcella Reni, presidente di Prison Fellowship Italia Onlus, associazione che lavora per "conciliare tutte le parti coinvolte e colpite dalla criminalità, in modo da annunciare e dimostrare il potere di redenzione e di amore trasformante di Gesù Cristo per tutti gli uomini". Un impegno cui guarda, nella preghiera, anche Rinnovamento nello Spirito Santo, come testimoniato dal coordinatore regionale, Fulvio Dalpozzo. L’uomo non è il suo reato e l’amore è autentico se è esigente, per aiutare a restituire dignità: questi i concetti espressi da Susanna Peraldo, presidente dell’associazione Itaca, che tra l’altro ha letto due poesie di Giovanni Fornara tratte dal libro "Attenti al lupo". Tre realtà e una cinquantina di volontari, tutti con la stessa maglietta verde, uniti dallo slogan "Insieme è più bello". Sono stati loro a sedersi a tavola (o a servire) con i detenuti per un grande pranzo - nelle varie sezioni del carcere - che ha radunato 300 persone. In tavola, l’acqua Lauretana, donata dall’azienda biellese. Un convivio voluto dall’associazione Itaca - sul solco del tradizionale "Pranzo di Natale" - che ha visto protagonista nella preparazione l’Istituto di Istruzione Superiore "Gae Aulenti" (ex "E. Zegna"), sede di Cavaglià, diretto da Cesare Molinari. Il menù è stato scelto in condivisone dai professori Alberto Peveraro, Andrea Botalla ed Annika Garutti, dopo aver effettuato un sopralluogo alle attrezzature del carcere. Un aiuto significativo è arrivato dall’assistente scolastica Francesca Trunfio per gli acquisti e la logistica. Intensa anche la partecipazione della vicepreside Daniela Vergano che ha partecipato all’intera giornata di sabato. Agli allievi impegnati (4 e 5 anno) verranno riconosciuti crediti scolastici. Hanno lavorato per tutte le giornate, da mercoledì a sabato. Un’esperienza unica per Alan Zampieri Alan, Daniel Zoltan, Amedeo Hidane, David Graziolo, Simone Bider, Luca Prini, Ricardo Cordoves, Ayrton Micottis, Carlotta Raviglione, Ahkouk Omaima, Sanaa Katai, Harunaj Norela, Melissa Penolazzi, Rebecca Penolazzi, Irene Pagliarin, Ilaria Mosca, Giulia Zogno, Noemi Alberto e Flavia Bondonno. A loro e al "Gae Aulenti" sono arrivati gli elogi della senatrice Nicoletta Favero che ha partecipato anche al convivio intrattenendosi con detenuti e volontari, dopo aver visitato la struttura. Intensa giornata che si è realizzata anche in virtù della grande disponibilità e collaborazione della Casa circondariale di Ivrea, con il direttore Assuntina Di Rienzo affiancata dall’educatrice ministeriale Elisabetta Demuro e da tutto il personale, prima fra tutti la Polizia Penitenziaria. Esperienza unica per tutti. "Gli agenti - racconta Omaima Ahkouk - ci hanno consigliato di avere un atteggiamento accorto, ma - quello che mi è piaciuto - ci hanno detto di avere sempre il sorriso perché il sorriso non fa male. E noi ragazze siamo state sempre sorridenti e abbiamo notato che i detenuti hanno avuto un atteggiamento educato, gentile e disponibile. Sono entrata in carcere tranquilla, ma vedere tante sbarre, la sicurezza, gli agenti attorno tuttavia il tempo di ambientarsi e pareva di lavorare in una cucina qualsiasi". Ed aggiunge: "È un’esperienza che mi ha reso felice e la consiglierei ad ogni persona che frequenta l’Alberghiero. Si è a contatto con persone che magari hanno anche bisogno di vivere qualcosa di diverso durante il loro periodo di detenzione". Un’esperienza unica un po’ per tutti, anche per Ilaria Mosca che dice: "Mi ha stupito la sensibilità di certi detenuti rimasti davvero contenti di questo evento. Odori, parole, sguardi così forti da non poter spiegare in semplici parole. Una giornata rimasta davvero dentro di noi". Firenze: audio-teca a Sollicciano, perché la musica può aiutare a combattere l’odio di Fulvio Paloscia La Repubblica, 10 febbraio 2017 La libertà oltre le sbarre è una canzone. O un pezzo di musica classica, di jazz, la colonna sonora del film. L’ascolto non apre certo i cancelli di un carcere, ma fa vivere al detenuto quella che Franco Mussida, già chitarrista della Pfm, chiama "libertà emotiva". Obiettivo di un progetto che è iniziato nel 1987, in sordina, e con ben altre dotazioni tecnologiche, ma che adesso trova il suo coronamento con il placet del Ministero della giustizia, la collaborazione della Siae e dell’Università di Pavia, sotto l’alto patronato del presidente della Repubblica, che proprio ieri ha conferito al musicista la medaglia di rappresentanza. Nella sua forma attuale, Co2 ha preso il via nel 2013 in 4 penitenziari; oggi la quota è salita a 12, e tra queste c’è anche Sollicciano, dove approda oggi alle 14 con una performance-laboratorio. C’è un server con 1700 brani di ogni genere possibile, dal jazz alla techno, suddivisi in 27 aree emotive e suggeriti da musicisti del calibro di Paolo Fresu, tanto per citare un nome. Al server sono collegati sei postazioni tablet dove il detenuto può scegliere, ascoltare un estratto, confermare oppure no se l’area emotiva relativa a quel pezzo è adeguata, testimoniare quali sentimenti la musica produce in lui. Ogni collocazione di audio-teca è preceduta da un corso di formazione riservato alla direzione, ai vari operatori, alla polizia penitenziaria e anche ad un gruppo di detenuti chiamati a fare da custodi al progetto, oltre ad avere compiti di promozione e ad avere la possibilità di creare "compilation": un esercizio, dunque, di responsabilità. "La grande differenza con gli esordi di questo progetto, trent’anni fa, e la sua completa attuazione oggi non sta solo nella dotazione tecnologica, ma anche nella popolazione dei detenuti - spiega Mussida - un tempo tutti italiani, oggi per la maggior parte stranieri. Per questo ho voluto che nell’audio-teca fossero incluse solo pagine strumentali: la lingua può essere una barriera". Invece le reazioni vanno aldilà del colore della pelle e della cultura di provenienza: "Quando presento il progetto ai detenuti - racconta Mussida - io stesso suono alcuni brani dal vivo dopo aver distribuito dei fogli con, prestampati, alcuni emoticon. Dopo l’ascolto, chiedo ai detenuti di sollevare e mostrarmi quello che meglio racconta ciò che hanno provato. Qualche giorno fa, a Venezia, ho fatto ascoltare "C’era una volta in America" di Morricone, e la reazione è stata unanime: faccine tristi, malinconia, nostalgia. A prescindere dal Paese di provenienza. Davanti agli stati d’animo nessuna differenza. Non c’è odio che tenga". Mussida ha più volte visitato Sollicciano: "ogni casa circondariale ha un suo spirito, che va aldilà dello standard qualitativo, dalla situazione logistica, dalle inevitabili carenze. Quello del carcere è fiorentino mi sembra sia in piena linea con la città: l’arte, ospitata con una forte determinazione. Nei corridoi sono stati dipinti dei murales molto belli, che appagano gli occhi di chi li osserva; ai detenuti sono riservati attività musicali. Questo mi fa essere ottimista e mi fa pensare che l’audio-teca sarà accolta con entusiasmo". Lecce: le detenute si esibiscono con una band musicale corrieresalentino.it, 10 febbraio 2017 Si è concluso nei giorni scorsi a Lecce un laboratorio musicale promosso dal Comune di Lecce e rivolto alle detenute della Casa circondariale di Borgo San Nicola. L’iniziativa è stata curata e diretta dalla professoressa Monica Terlizzi. "La musica come processo educativo e di integrazione" - questo il titolo del laboratorio - è un progetto che ha presentato una prospettiva disciplinare dal carattere educativo straordinario nel sistema della giustizia, che oggi tende al recupero e alla risocializzazione in forme nuove ed originali. Per la prima volta il gruppo di detenute che ha animato il laboratorio ha realizzato il grande sogno di cantare; le detenute, infatti, si sono esibite con una band musicale diventando protagoniste per un pubblico speciale che ha assistito alla performance. L’attività del laboratorio è servita a sottolineare e far emergere le profonde implicazioni delle funzioni musicali con l’affettività e l’emotività attraverso un intervento didattico mirato a ristabilire nelle detenute valori, equilibri e sentimenti. "La musica ci ha rese libere", hanno detto in coro le protagoniste di questa iniziativa. Un’occasione straordinaria per le detenute che hanno cantato e sono state accompagnate al pianoforte dalla professoressa Monica Terlizzi e alla batteria da Gianmarco Razzano, in una veste pop che ha scatenato emozioni e grande consenso. A consentire l’ottima riuscita del laboratorio organizzato dal Comune di Lecce - sono stati la direttrice della Casa circondariale, Rita Russo, il vicedirettore Giuseppe Renna e l’educatrice Francesca Panzera che ha svolto una significativa attività di mediazione. Roma: "Please Come Back". Il mondo come prigione? romatoday.it, 10 febbraio 2017 Oggi che la comunicazione globale vuol dire anche controllo globale, che la condivisione figlia di internet e dei social network smantella la nostra privacy, la parola prigione assume significati decisamente nuovi: con la mostra "Please Come Back". Il mondo come prigione? a cura di Hou Hanru e Luigia Lonardelli al Maxxi dal 9 febbraio al 21 maggio 2017, 26 artisti attraverso 50 opere mettono in luce le problematiche relative al controllo tipiche della società contemporanea. Lo sviluppo esponenziale delle tecnologie digitali, l’avvento dei social network, l’utilizzo dei Big Data, hanno progressivamente e inesorabilmente cambiato la nostra società che assiste al crollo delle filosofie di condivisione sociale e urbana e all’instaurarsi di nuovi regimi che, in nome della sicurezza, ci spogliano, con il nostro consenso, di ogni spazio intimo e personale. Please Come Back parte da queste considerazioni, e cerca una risposta alla domanda: che cosa vogliamo torni indietro nelle nostre vite dal paradiso perduto dell’età moderna? Allestita nella Galleria 5 del Maxxi, l’esposizione prende il titolo dall’opera omonima del collettivo Claire Fontaine, nata da una riflessione degli autori sulla società come spazio di reclusione e il modo inquietante in cui ne facciamo parte. Partendo da queste considerazioni Please Come Back assume come centro d’indagine la società contemporanea sotto il controllo di un sistema di potere. La mostra si compone di tre sezioni: Dietro le mura, Fuori dalle mura e Oltre i muri. Della prima sezione - Dietro le mura - sono protagonisti artisti che hanno fatto una esperienza diretta della prigione, sia perché sono stati reclusi, sia perché ne hanno fatto il soggetto del proprio lavoro, sia perché sono cresciuti in ambienti caratterizzati da questa presenza ingombrante. Tra questi Berna Reale con un video che racconta la luce della torcia olimpica all’interno delle carceri brasiliane, Harun Farocki che utilizza i filmati delle videocamere di sorveglianza del carcere di massima sicurezza di Corcoran in California e le interviste di Gianfranco Baruchello ai detenuti delle carceri di Rebibbia e Civitavecchia. In Fuori dalle mura troviamo le opere di quegli artisti che hanno compiuto una riflessione sulle prigioni che non possiamo vedere, sui regimi di sorveglianza, capaci di trasformare le città contemporanee in vere e proprie "prigioni a cielo aperto". Tra questi Superstudio che con il suo Monumento Continuo aveva profeticamente immaginato un modello di urbanizzazione globale alternativo alla Natura, Mikhael Subotzky che presenta materiali video forniti dalla polizia di Johannesburg; Lin Yilin con la sua performance che riproduce una scena di privazione della libertà per testare le reazioni dei cittadini della città cinese di Haikou e di Parigi, o Rä Di Martino che trasforma Bolzano nel fondale di una messa in scena con finti carri armati. Nella terza sezione - Oltre i muri - protagonista è il tema della sorveglianza come "pratica organizzativa dominante", fenomeno omnipervasivo nella nostra società dopo l’11 settembre 2001. Ecco allora, tra le opere presenti in quest’area, la pratica della "guerra al terrore" che diventa protagonista del lavoro di Jenny Holzer, il progetto di Simon Denny che si ispira alle rivelazioni di Snowden, Jananne Al-Ani che riproduce la prospettiva del drone investigando diversi siti in Medio Oriente, mentre Zhang Yue con un lavoro visionario prefigura future guerre o un piano per la distruzione degli Stati Uniti. Tra le opere esposte anche due acquerelli su seta di Shen Ruijun, Lake e Abuse del 2009, che verranno acquisiti nella collezione del Maxxi. Please Come Back. Il mondo come prigione? nel presentare lo sguardo di questi artisti sul complesso intreccio di temi che caratterizza la riflessione sulla società odierna, ci mette di fronte a una visione critica di quest’ultima, che evidenzia l’allarme e nello stesso tempo propone come soluzione un ritorno ai valori fondamentali e inalienabili dell’individuo. Migranti. Accordo Libia-UE: cosa c’è dietro la narrazione dei salvataggi in mare La Repubblica, 10 febbraio 2017 Il Consiglio Italiano per i Rifugiati (Cir) giudica inaccettabili le conclusioni adottate nella Riunione informale dei Capi di Stato dell’Unione Europea tenutasi a Malta. "Sono respingimenti per delega". Per giunta affidati ad un Paese ancora profondamente instabile e dove i migranti sono incarcerati e sottoposti a trattamenti inumani. Il Consiglio Italiano per i Rifugiati (Cir) segnala l’estrema gravità delle conclusioni adottate nella Riunione informale dei Capi di Stato dell’Unione Europea tenutasi a Malta la scorsa settimana. "Si tratta di un piano che prevede diverse azioni finalizzate a prevenire il traffico degli esseri umani - si legge in un documento del Cir - a rafforzare le Autorità e la Guardia Costiera Libiche per meglio gestire i confini e ad assicurare rinvii e "sbarchi sicuri" sulle coste libiche di quei migranti e rifugiati intercettati dalle stesse autorità libiche nelle acque nazionali. Questa pratica - prosegue la nota - consentirebbe di travestire i respingimenti in Libia realizzati dall’Italia nel periodo 2009- 2010 in acque internazionali, per i quali il nostro Paese è stato duramente condannato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo" Respinti dove è a rischio libertà e incolumità. Insomma, l’attore diretto non sarebbe più una forza navale di uno Stato Europeo, bensì le forze libiche pilotate dall’Unione attraverso l’invio di denaro, di mezzi e di formazione. "Questa operazione per delega - dice ancora il Consiglio Italiano per i Rifugiati - non cambierebbe però il risultato: la violazione del principio di non refoulement che prevede l’impossibilità di respingere i rifugiati verso territori in cui la loro vita o libertà sarebbero minacciate. Troviamo inaccettabile - ha detto Roberto Zaccaria, presidente del Cir - che dietro la narrazione del salvataggio delle vite umane e della necessità di combattere il traffico di esseri umani, si nascondano politiche attuate con l’interesse prioritario di prevenire in realtà l’arrivo dei migranti e rifugiati nel territorio dell’Unione". Una scelta in contrasto con le regole di Frontex. "Il fatto che questi respingimenti, che dovrebbero cominciare già dalla prossima primavera, avverrebbero a opera di autorità libiche in acque libiche non li rende meno gravi o legalmente accettabili - prosegue il documento del Cir - lo stesso Regolamento dell’Unione relativo alla guardia di frontiera e costiera europea (Frontex) all’Art. 34 prevede che "nell’esecuzione dei suoi compiti, la guardia di frontiera e costiera europea provvede affinché nessuno sia sbarcato, obbligato a entrare o condotto in un paese (…..) in violazione del principio di non respingimento, o in un paese nel quale sussista un rischio di espulsione o di rimpatrio verso un altro paese in violazione di detto principio". La finalità delle attività previste, di formazione, sostegno materiale, attraverso mezzi e finanziamenti alle autorità libiche - dice ancora la nota - sarebbe esattamente quella di sbarcare i migranti e i rifugiati in Libia, dove sarebbero esposti al rischio reale di subire maltrattamenti". Il ritorno volontario assistito. "La Libia - ha aggiunto Roberto Zaccaria - è un Paese in cui diversi analisti e osservatori da anni denunciano l’esistenza di una prassi sistematica di violazione dei diritti umani ai danni dei migranti e rifugiati africani in transito verso l’Europa. Inoltre, la Libia non può ancora offrire ai richiedenti asilo una protezione adeguata contro il rischio di rimpatrio nei Paesi africani di origine dove essi rischierebbero di essere perseguitati o uccisi". La dichiarazione del Consiglio Europeo, e in modo più esaustivo la Comunicazione congiunta della Commissione europea e dell’Alto rappresentante, prevede poi azioni volte a rinforzare la protezione dei migranti e sviluppare programmi di Ritorno Volontario Assistito. "Rimandarli in Libia è inaccettabile". "Crediamo che tutte le azioni di protezione in paesi terzi siano fondamentali - ha detto ancora il presidente del Cir - e crediamo siano quelle in cui l’Unione Europea debba investire moltissimo. Ma sono azioni che, partendo dall’attuale contesto libico, non potranno dare risultati se non in un arco temporale di medio-lungo periodo. Prima che questo scenario si realizzi, il respingimento di rifugiati e migranti verso la Libia è del tutto inaccettabile. La chiusura della rotta libica, rinforzata anche dalle azioni di controllo previste dal piano per il confine terrestre a Sud della Libia, senza al contempo poter mettere in atto effettive alternative di protezione per i migranti e rifugiati è una gravissima violazione dei loro diritti fondamentali". Cosa si dovrebbe e potrebbe fare. "Dovrebbe essere costruito, in Libia e in altri Paesi africani - ha concluso Roberto Zaccaria - un sistema in cui ci siano da una parte azioni di Cooperazione allo sviluppo per consolidare la crescita e lo stato di diritto nei Paesi di origine e di transito; dall’altra dovrebbero essere avviate politiche per favorire gli ingressi legali in Europa, dei corridoi umanitari e flussi regolari per motivi di lavoro, studio e famiglia. Un programma del genere dovrebbe prevedere il consolidamento di contesti locali e il rafforzamento del tessuto della società civile affinché la protezione dei rifugiati e migranti possa essere garantita". Egitto. Chiusa la più importante Ong per le vittime di violenza e tortura di Riccardo Noury Corriere della Sera, 10 febbraio 2017 Questa mattina al Cairo i tre appartamenti che costituiscono la sede del Centro El Nadeem per la riabilitazione delle vittime della tortura sono stati sigillati (nella foto) da due funzionari scortati da un folto numero di agenti di polizia, in applicazione dell’ordinanza di chiusura del Centro emessa nel marzo 2016 dal ministero della Salute per pretestuose inadempienze a una non meglio specificata normativa ministeriale. Tra l’altro, l’ordinanza faceva riferimento a un solo appartamento, quello dove si trova l’ambulatorio. Al momento della chiusura lo staff del Centro non era presente, mentre è stato arrestato il portiere dell’edificio. La direttrice e cofondatrice del Centro, la dottoressa Aida Seif Al-Dawla, subito arrivata sul posto, è stata minacciata d’arresto. Il Centro El Nadeem, fondato negli anni Novanta da Aida Seif Al-Dawla, Suzanne Fayyad e Magda Adly, si è preso cura di migliaia di vittime di violenza e tortura. Ha fornito sostegno a tantissime donne vittime di violenza sessuale e violenza domestica, anche attraverso il sostegno psicologico e legale. In questi decenni il Centro è stato una costante spina nel fianco del governo egiziano, pubblicando rapporti sulle torture, sul diniego di cure mediche ai detenuti e sulle morti in carcere. La decisione di chiudere il Centro El Nadeem rappresenta una pericolosissima escalation della repressione contro le organizzazioni non governative egiziane e rischia di costituire un precedente per dar luogo a ulteriori chiusure. Lo scorso anno l’Unione europea aveva espresso contrarietà per il provvedimento di chiusura del Centro El Nadeem e forse per questo motivo la sua attuazione era stata rimandata. Evidentemente ora il governo del Cairo dev’essersi sentito incoraggiato ad agire dal pre-accordo su terrorismo e immigrazione annunciato appena due giorni fa. Kenya. I giudici della Corte suprema: "il campo profughi di Dadaab non va chiuso" La Repubblica, 10 febbraio 2017 "La decisione del governo di cacciare i rifugiati somali - hanno detto i giudici - costituisce un atto di persecuzione di un gruppo, è illegale, discriminatoria e quindi incostituzionale e viola il diritto internazionale". L’Alta Corte del Kenya ha annullato la decisione del Governo di chiudere il campo profughi di Dadaab, il più grande del mondo, al confine meridionale della Somalia, che ospita ormai da anni quasi 700 mila persone, nella maggior parte somali. "La decisione del governo della Repubblica di Kenya del campo di Dadaab è da considerare nullo - ha detto il giudice John Mativo, dopo una denuncia presentata dalla Commissione Nazionale per i diritti del Kenya e dall’Unhcr, oltre che dalla Ong Kituo Cha Sheria. Da parte sua, il governo keniota per giustificare la sua decisione, ha presentato argomenti di sicurezza, senza peraltro fornire prove di rischi che la potessero violare. Un atto di persecuzione. "La decisione del governo di cacciare i rifugiati somali - ha detto il giudice - costituisce un atto di persecuzione di un gruppo, è illegale, discriminatoria e quindi incostituzionale e viola il diritto internazionale". La stragrande maggioranza dei profughi vuole restare in Kenya. Erano fuggiti, in periodi diversi, fin dalla guerra civile del 1991, ma poi man mano molti di loro sono voluti scampare dagli abusi e dalle violenze dei miliziani di Shabaab, formazioni armate radicali. Altra ragione di fuga dalla Somalia è stata la siccità ricorrente.