Intervista a Mauro Palma: “terapia psichiatrica in carcere, un diritto negato” di Donatella Coccoli Left, 9 dicembre 2017 Nella medicina penitenziaria ci sono ancora ambiguità legate all’idea di punizione. “Come si cura in strutture apposite chi si ammala di cancro, così si deve fare nei confronti di chi ha una patologia mentale”, dice Mauro Palma, presidente del Garante dei detenuti. Che ha appena inviato al Governo raccomandazioni per rinnovare la sanità penitenziaria. È appena tornato da sopralluoghi in istituti penitenziari e Rems della Sardegna Mauro Palma, presidente del Garante dei detenuti. La sua è un’attività di monitoraggio costante nei luoghi dove si trovano coloro che sono “privati di libertà personale”. Nel caso dei “folli rei”, cioè i malati mentali autori di reati, questi luoghi sono le Rems, le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza che dal 2015 hanno sostituito gli Opg. Palma le conosce bene. “Ho visto casi di contenzione meccanica, con persone legate, altri in cui il malato era in una stanza bianca senza nulla, con il solo letto fissato al centro, ed è una contenzione ambientale. Sono stato anche in strutture all’apparenza all’avanguardia. Poi però se ti fermi tre giorni ti accorgi che le persone sono sedate e allora siamo nella contenzione farmacologica. Ma per fortuna ho visto anche Rems in cui vengono attuati ottimi progetti terapeutici a seconda dei bisogni di ciascun malato”. Quando visita una Rems, Palma porta uno psichiatra con sé. “Bisogna stare attenti, io comunque non ho una posizione ideologica. La contenzione, per esempio, può essere utile a giudizio del medico in una determinata fase e con una determinata prassi, ma non può essere il trattamento della malattia mentale”. Le Rems sono state istituite con la legge 81/2014 che ha sancito il superamento degli Opg. “Un grande passo di civiltà”, dice Palma. Dentro gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, in effetti, i “folli rei” non erano seguiti dai servizi sanitari territoriali e potevano rimanere all’infinito tra quelle antiche mura, per la continua proroga delle misure di sicurezza: i cosiddetti “ergastoli bianchi”. Condizioni disumane, come dimostrò nel 2011 la Commissione d’inchiesta parlamentare guidata dal senatore Ignazio Marino. Adesso, la legge 81 stabilisce un limite per la permanenza nelle Rems e i Dipartimenti di salute mentale devono elaborare piani terapeutici ad hoc per ogni recluso. “Dopo una partenza stentata - continua - nelle Rems permangono alcune criticità molto forti. La prima, è il fatto che ci sono andati anche coloro in misura di sicurezza provvisoria, quando, secondo me, avrebbero dovuto ospitare solo quelli in misura di sicurezza definitiva. Questo fatto mi fa pensare che implicitamente e per cultura c’è la tendenza - che ora però si sta attenuando - a considerare la Rems in modo riduttivo rispetto all’Opg. Per cui, se un giudice prima ci pensava due volte a inviare una persona in un Opg ora con la Rems lo fa con più facilità, anche per reati di minore gravità”. Il risultato è, da una parte, la crescita nelle residenze del numero di persone in misura di sicurezza provvisoria, per le quali è difficile quindi predisporre un progetto terapeutico continuativo, e dall’altra, l’affollamento, “per cui si è creata addirittura una lista di attesa”, dice Palma. Ma in questi casi, sottolinea il Garante, quando cioè non c’è posto, “andrebbero create strutture nel sociale, oppure, come nel caso di Valerio Guerrini, andrebbe pensata la detenzione domiciliare”. Ma c’è un secondo problema che il sistema attuale non affronta in modo efficace. I detenuti che si ammalano in carcere dove vanno? Prima venivano inviati negli Opg, così come coloro che appena arrivati dovevano essere sottoposti alle osservazioni psichiatriche. Ma oggi? “Il principio è quello di considerare la malattia psichiatrica allo stesso modo della malattia somatica” afferma Mauro Palma. Un principio che è esattamente il contenuto di una delle raccomandazioni che il Garante dei detenuti ha inviato al Consiglio dei ministri in vista degli imminenti decreti legge. “Come chi si ammala di cancro non può essere tenuto in una cella, cosi anche chi elabora una malattia mentale deve essere ricoverato in una struttura medica ad hoc”. Dovrebbero essere articolazioni psichiatriche, non “un braccetto del carcere dove ogni tanto va uno psichiatra”, dipendenti dal Dipartimento di salute mentale. “C’è però un ulteriore problema”. Quale? “Sospendere la pena per malattia mentale con l’esistenza dell’art. 148 (che riguarda l’infermità psichica in carcere, ndr), non è più possibile, perché il giudice, secondo quell’articolo, inviava i detenuti negli Opg. Quindi l’art. 148 va abolito e nel 147 laddove si parla di malattie somatiche si devono includere anche quelle psichiche. Spero che questo venga recepito nei nuovi decreti”. Invece di aumentare il numero di Rems con il rischio di creare tanti piccoli Opg, Palma considera quindi molto più positivo creare strutture sanitarie non solo dentro ma anche a fianco del carcere, sotto la responsabilità delle Asl. In questo modo “deve essere possibile realmente predisporre un progetto terapeutico e portarlo a termine senza ostacoli specifici. E questo varrebbe anche per chi è sottoposto alle osservazioni psichiatriche, ed è troppo spesso soggetto a trasferimenti”. I servizi psichiatrici del sistema sanitario secondo linee guida che unifichino i protocolli regione per regione sono chiamati a esercitare il loro ruolo in modo responsabile e soprattutto continuativo. Troppo spesso oggi lo psichiatra vede il malato in maniera sporadica. “Se non si garantisce la continuità il discorso sulla salute si fa complicato. Con questa storia dei contratti a termine nelle Asl non solo non c’è continuità negli interventi ma nemmeno nell’interlocuzione, nell’instaurare un rapporto che se è importante nelle malattie del corpo in quelle psichiatriche è fondamentale”. L’amministrazione della giustizia che ha in carico la persona privata della libertà, osserva Palma, deve esser esigente nei confronti della Asl e “non deresponsabilizzarsi”. Infine, oltre all’abolizione dell’art.148, c’è un altro punto importante nelle raccomandazioni inviate al governo. “Il medico non dovrà più far parte del consiglio di disciplina, come è stato sempre fin dal 1946, per cui è dentro la macchina che decide l’isolamento del detenuto. No, il medico ha il potere di interrompere l’isolamento anche sin da subito, ma senza far parte del consiglio di disciplina”. La medicina penitenziaria, quindi, secondo la visione del Garante dei detenuti, deve perdere qualsiasi ambiguità legata ancora al concetto di punizione per fare un salto verso la garanzia del diritto alla salute. Fisica e psichica. Quando il lavoro rende liberi. Dal carcere alla vita vanityfair.it, 9 dicembre 2017 “Il carcere non deve chiudersi su se stesso. Se manca un orizzonte aperto sei su un’isola, com’era un tempo a Pianosa, all’Asinara”. Luigi Pagano, che a Pianosa e all’Asinara ci è stato da vice direttore, comincia da qui. Da quelle fortezze impenetrabili, sbarrate al mondo esterno, esattamente il contrario di quello che lui vorrebbe vedere e per cui lavora da una vita. Dopo un periodo romano (era vice capo dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria) è da poco tornato come Provveditore regionale alle carceri a Milano, dove aveva diretto San Vittore e aperto, nel 2001, la struttura di Bollate. “Non mi piace la definizione di “carcere modello” che spesso viene associata a Bollate”, sottolinea, “Bollate non è un modello originale, si rifà all’ordinamento legale del 1975. In Italia sembra che il non originale non vada bene: ma anche solo poter applicare la legge diventa rivoluzionario. In questo caso è una rivoluzione normale, nel doppio senso del termine. La fortuna che abbiamo avuto è stata di avere un terreno vergine. Partendo dall’esperienza di San Vittore, si è lavorato specialmente in negativo: quello che non andava bene a Milano, lì lo abbiamo fatto in positivo”. C’è però un motivo per cui parlando di Bollate lo si definisce “carcere modello”: qui il tasso di recidiva è del 17%, contro una media nazionale del 70, e la ragione si chiama “lavoro”. “Il carcere è soprattutto privazione, non è solo perdita della libertà personale”, ha ricordato il vice direttore Cosima Buccoliero intervenendo lo scorso ottobre alla conferenza TEDx di Milano. “E privazione totale: non si può telefonare quando si vuole, non si può mangiare quello che si vuole, non si possono vedere i propri cari quando si vuole, non si può neanche assumere una compressa per il mal di testa. E per qualunque esigenza bisogna chiedere il permesso a qualcuno. Si è consegnati all’istituzione carcere: la persona è dentro e tutto il resto è fuori. Ma il detenuto non è un reato che cammina”. Dei circa 58mila detenuti italiani, 15mila lavorano alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria. “È un numero importante, raddoppiato rispetto al passato perché è stato significativamente incrementato il budget; anche i salari, che erano fermi ai contratti collettivi del ‘93, sono stati adeguati”, osserva Pagano. “Dal punto di vista trattamentale, però, lavorare per l’amministrazione penitenziaria è poco utile. Il lavoro “contaminato” con l’esterno, la società, fa invece fatica a decollare. In totale riguarda meno di 3000 detenuti, di cui 701 in Lombardia (640 uomini e 61 donne). Il problema è che l’azienda esterna deve pagare in base ai contratti collettivi ma i tempi del carcere non si adattano alle esigenze lavorative: ci sono l’ora d’aria, i colloqui con magistrati, avvocati, famigliari, le esigenze processuali, il calo inevitabile del rendimento perché sei in carcere… Tutti fattori che non coincidono con l’interesse delle imprese. Quando sono stato a Roma abbiamo provato a immaginare una riforma che tenesse conto di questi punti critici ed esaltasse il percorso trattamentale. L’idea era che il detenuto rinunciasse a una parte della paga stabilita, diciamo 1/3, ma contrattualizzasse sia il lavoro sia la modalità del trattamento. Si poteva anche prevedere di agganciare un’esperienza “fuori”: per esempio, lavori 5 giorni e se il rendimento è positivo nel weekend vai a casa. C’è una sentenza della Corte costituzionale che dice di guardare anche all’interesse delle aziende: è necessaria una trasformazione, che forse potrebbe diventare un cavallo di Troia per aprire il carcere. Contaminare con l’esterno è indispensabile, il reinserimento non si può basare sull’autarchia. Ovviamente non basta che l’azienda entri. Si potrebbe appaltare il lavoro e stop, come succede in altri paesi, invece bisogna creare il dopo. Non è il lavoro di per sé che importa: si figuri, da napoletano preferisco mille volte la pigrizia. È la relazione che trasforma le persone e fa vedere orizzonti più vasti”. Da qualche tempo questi orizzonti più vasti si possono vedere e toccare, in negozi che propongono oggetti, cibo, vino nati in carcere. A Venezia dalla collaborazione con Mark Bradford, l’artista che ha rappresentato gli Stati Uniti alla Biennale delle Arti visive di Venezia, è nato Process Collettivo, a Torino c’è FreedHome. Nella Milano di Pagano, si è da poco conclusa la quinta edizione della mostra mercato I frutti del carcere e da 5 anni al n. 1 di viale dei Mille c’è il Consorzio Vialedeimille. “Siamo nati come incubatore di start up per imprese ristrette, cioè carcerarie, poi nel 2015 cinque cooperative sociali che lavorano nelle carceri lombarde di San Vittore, Milano-Opera, Bollate, Monza, e che impiegano oltre 100 persone detenute e altrettante fuori, hanno fondato il Consorzio”. Elisabetta Ponzone è la voce del Consorzio e l’ideatrice di Borseggi, laboratorio di sartoria nel reparto maschile del carcere di Opera. Borseggi è uno dei progetti di Opera in fiore, che si occupa di gestione del verde, allestimenti e vendita di fiori e piante. Altro progetto della cooperativa è Opera fresca, che consegna frutta e verdura nelle aziende. Poi ci sono E.s.t.i.a., che è nata nel 2003 a Bollate con il teatro: oltre agli spettacoli e alla formazione, offre anche servizi di falegnameria e restauro mobili. Alice è la storica cooperativa sociale di San Vittore, con sartoria (anche forense) e produzione di accessori in pelle. A Bollate, Bee4 Altre Menti coordina un centro servizi e cura l’assistenza per macchine da caffè, mentre Zerografica gestisce una tipografia e propone la digitalizzazione di archivi cartacei. Ai soci fondatori si sono quest’anno aggiunti IN Opera, con un laboratorio di panificazione, e Il Gabbiano che opera fuori dal carcere in un terreno di montagna a rischio abbandono e cura vigne, meleti, orti. Al Consorzio milanese si trovano vino, marmellate, panettoni, cioccolato, grembiuli gourmet, borse, cashmere, corone dell’avvento, runner, calendari, cartoline, fiori, piante, pane fresco e crostate. Ogni oggetto è anche la storia di vite pronte al cambiamento e al riscatto sociale. Come quella di Carlo, padrone di casa del Consorzio, libero dal 14 aprile 2015. “La prima condanna grossa l’ho avuta per traffico internazionale di droga: 4 anni e 9 mesi in Brasile, poi mi hanno estradato, in tutto mi sono fatto 16 anni e due mesi. Poi ho continuato con il traffico e mi hanno riarrestato, in tutto ho passato 23 anni e mezzo in carcere, mezza vita. La prima volta che sono uscito ero incazzato nero, volevo spaccare tutto. L’ho spaccato e poi hanno spaccato me”. La svolta per lui è stato il trasferimento a Bollate: “Avevo un lavoro, un’entrata dignitosa per concentrarmi su qualche progetto. Ho cambiato il modo di pensare. In carcere ho cominciato a fare teatro e ho avuto la possibilità di incontrare persone regolari, uno scambio di idee fondamentale. Oltre al Consorzio, lavoro con la compagnia teatrale di Opera e di Bollate. Adesso sto cercando di mettere in piedi una scuola di teatro per i ragazzini del quartiere Trecca, quello in cui sono cresciuto: bisogna prenderli da piccoli, 10 anni è già un’età a rischio”. Gualtiero, invece, al Consorzio lavora grazie all’articolo 21, che consente di uscire dal carcere durante il giorno; ogni sera rientra a dormire a Bollate. “In carcere ho creato Zerografica, una tipografia che dà lavoro ai detenuti come me. È evidente quanto sia importante lavorare, altrimenti non sei niente. Ma se sei solo “dentro” è impossibile creare le basi per un futuro diverso fuori”. Gualtiero si è appena laureato. Sebastiano ha una moglie e quattro figlie: dopo anni passati nel laboratorio di Bollate, è lui che si occupa della panetteria del Consorzio. “L’altro giorno una cliente mentre comperava il pane mi ha detto che suo figlio adolescente sta prendendo una brutta piega. Frequenta sbruffoni e mezzi delinquenti. Le ho detto di portarlo qui, che gli avrei raccontato che cos’è il carcere e chi sono i veri eroi”. La signora è tornata. E suo figlio sembra aver capito. “Ogni mattina, quando esco dal carcere e prendo il tram per venire qui a lavorare, guardo sempre le altre persone che viaggiano con me. Ci sono barboni, persone vestite bene e male, giovani e vecchi. Mi piace tantissimo. Seduti lì, io fuori dalla mia cella e loro fuori dalle loro case, siamo tutti uguali”. Carlo, Gualtiero e Sebastiano si possono incontrare in viale dei Mille. Sempre, ma soprattutto a dicembre: oltre a un orario prolungato (dalle 10 alle 19, tutti i giorni), la novità di quest’anno sono “i mercoledì al Consorzio”, con una fetta di panettone offerta ai visitatori ma anche agli anziani del quartiere, con l’invito a comprare regali di Natale belli e buoni, anzi buonissimi. L’appuntamento è per il 13 e il 20 dicembre. Il 13 verrà anche presentata, con un reading, l’antologia poetica Onde anomale (edizioni Zerografica), con i testi dei ragazzi che frequentano il laboratorio di poesia del carcere di Bollate. Domani digiuno contro l’ergastolo di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 9 dicembre 2017 Una iniziativa dell’Associazione Liberarsi Onlus in occasione dell’anniversario della Dichiarazione dei Diritti Umani. Tra le adesioni quella della Camera penale di Milano: “una pena perpetua, senza via di scampo”. Aumentano le adesioni al digiuno organizzato dai detenuti ed ergastolani di tutta Italia contro la pena dell’ergastolo. Parliamo dell’iniziativa - già annunciata su Il Dubbio - che si svolgerà domani, domenica 10 dicembre, in occasione dell’anniversario della dichiarazione dei diritti dell’uomo. Arriva l’adesione ufficiale da parte dell’Osservatorio Carcere dell’Unione delle Camere Penali Italiane. Anche la Camera penale di Milano ha già annunciato la sua partecipazione. “La pena dell’ergastolo - scrivono i penalisti di Milano -, se comminata per i reati previsti dal primo comma dell’art. 4 bis del nostro ordinamento penitenziario, è caratterizzata dalla impossibilità di accesso ai benefici penitenziari. Una pena perpetua, senza via di scampo. L’unica modalità di uscita dal tunnel del “fine pena mai” è il riconoscimento di una condotta da parte dell’ergastolano di collaborazione effettiva, ovvero, dopo gli interventi della Corte Costituzionale, recepiti poi nell’art. 4 bis, della impossibilità o della irrilevanza della collaborazione”. La Camera penale di Milano denuncia che la non revisionabilità della pena di durata indeterminata è in palese contrasto con la finalità di risocializzazione della pena prevista dalla nostra Carta Costituzionale e la preclusione assoluta lede persino l’autonomia di giudizio della magistratura di sorveglianza nel proprio compito di valutazione dell’individuo sulla base della personalizzazione del trattamento che sta alla base del nostro sistema penitenziario e dell’esecuzione penale in genere. “Il sistema si pone - sottolineano i penalisti - in contrasto con i più recenti principi del diritto penale moderno, rinvenibili nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. Secondo tali principi ogni Stato deve disciplinare chiaramente le modalità e le tempistiche della revisione anche della pena dell’ergastolo, riconoscendo anche a questa categoria di detenuti il “diritto alla speranza”, ricompreso nell’art. 3 Cedu. Questo diritto - prosegue la Camera penale di Milano - è, per i giudici di Strasburgo, insito nella persona umana, in quanto, se è vero che i condannati all’ergastolo “effettivo” sono responsabili di gravi reati e le loro condotte hanno inflitto ad altri indescrivibili sofferenze, tuttavia, essi conservano un’umanità fondamentale e hanno la capacità intrinseca di cambiare. Ne consegue che, indipendentemente dalla quantità della pena loro inflitta, essi conservano la speranza di riscatto per gli errori commessi”. Gli avvocati della camera penale di Milano ricordano che hanno organizzato incontri ed eventi di riflessione sul punto, non ultimo quello dello scorso 22 novembre presso la Casa di reclusione di Opera alla presenza dell’onorevole Elvio Fassone, autore del libro Fine pena: ora e con la partecipazione attiva degli stessi ergastolani. Hanno aderito alle mobilitazioni indette dall’Unione delle Camere Penali italiane per l’abolizione dell’ergastolo ostativo. Hanno inoltre partecipato con l’Osservatorio carcere Ucpi al tavolo 16 degli Stati Generali dell’esecuzione penale proprio al fine di ridisegnare o quantomeno ridurre l’ostacolo normativo alla concessione dei benefici penitenziari nei confronti dei condannati per i reati di cui all’art. 4 bis. “La recente revisione dell’ordinamento penitenziario però denunciano i penalisti - non ha previsto il superamento dell’ergastolo ostativo né ha modificato le condizioni di accesso ai benefici penitenziari, accesso ancora subordinato al requisito della collaborazione”. Proprio per tutte queste motivazioni, per la camera penale di Milano è doverosa la loro partecipazione alla giornata del 10 dicembre contro l’ergastolo, organizzata dall’associazione “Liberarsi”. Fine pena mai: siamo morti che camminano di Carmelo Musumeci Il Dubbio, 9 dicembre 2017 Sono un ergastolano in regime di semilibertà e da circa un anno svolgo attività di volontariato in una struttura della comunità Papa Giovanni XXIII, fondata da don Oreste Benzi. Ma io rappresento quasi un’eccezione e perciò continuo ancora a lottare contro il carcere a vita, per i miei compagni e per me, perché comunque il mio fine pena rimane nel 9.999. L’Associazione Liberarsi Onlus ha organizzato un giorno di digiuno nazionale per domenica 10 dicembre 2017 (anniversario della dichiarazione dei diritti umani) contro la pena dell’ergastolo. Si può aderire e avere più informazioni sul sito www. liberarsi. net. Ecco perché bisognerebbe abolire questa terribile e crudele pena: la pena dell’ergastolo è una sentenza senza speranza e con questa condanna gli ergastolani muoiono ancor prima di finire la loro pena. E li vedi camminare in carcere in modo di- verso da tutti gli altri prigionieri, perché fanno su e giù come morti in vita. Si muovono come spettri, guardando il tempo che va via, facendo una decina di passi avanti e una decina di passi indietro. Perduti per sempre in un mondo perduto, senza avere nulla, neppure il nulla, per cui attendere, sperare e vivere. Camminano senza neppure pensare, perché non riconoscono più il mondo che li ha visti nascere. La loro sembra una passeggiata della morte, con la morte e per la morte, e marciano da un muro all’altro, privi di sogni e di ogni speranza. Passeggiano nelle loro celle, da una parte all’altra, senza saper cosa fare. Indecisi a volte se morire o vivere. Vagano in un fazzoletto di cemento per mesi e anni. Da una parete all’altra con una pena senza fine. E con un giorno uguale all’altro. Muoiono un po’ a ogni passo, per tornare di nuovo a morire ancora un po’ ogni volta che incontrano il muro di fronte e si fermano per girarsi. Camminano sapendo che non possono guardare in faccia il futuro, consapevoli che possono solo guardare il tempo che va via, perché il loro domani è già tutto scritto, e il loro futuro sarà una lenta agonia senza rimedio che durerà un’intera vita. I passi degli ergastolani sono lenti e corti, forse perché non possono andare da nessuna parte e i loro sogni finiscono dove iniziano, e muoiono passo dopo passo. I loro cuori si spengono dentro a poco a poco, perché avranno sempre un presente uguale al futuro, poiché la loro vita diventerà una malattia o una morte lenta, bevuta a sorsi. Questi sono i discorsi che spesso alcuni ergastolani fanno fra di loro: “Ho perso il piacere di vivere perché mi sembra di vivere in mezzo al nulla”. “Hai ragione, qui tutto sembra assurdo e la nostra condanna che non finirà mai lo è ancora di più”. “Se non sai il giorno, il mese e l’anno in cui finirà la tua pena, praticamente sei inghiottito da un buco nero e hai davanti a te una distanza infinita senza nessun orizzonte”. “Vivere un’intera vita chiuso in una gabbia è certamente la peggiore delle torture”. “Questa terribile condanna avvelena l’esistenza e se cerchi di resistere diventi ancora più matto”. “Hai ragione, l’ergastolano non può fare altro che ammazzare il tempo in attesa di crepare lui stesso”. “Se c’è una cosa che l’ergastolano ha è il tempo: per questo camminiamo lentamente e forse perché più piano ci muoviamo e più il tempo passa in fretta”. “Il guaio peggiore è che abbiamo troppo tempo e poche cose per viverlo”. “Ormai non possiamo fare altro che osservare la nostra vita trascorrere senza di noi, perché non potremo più vedere il mare, i fiori, gli alberi e i sorrisi dei bambini e il nostro presente sarà uguale al nostro futuro, per tutti i giorni a venire”. “Penso che una buona pena dovrebbe essere la medicina per curare il malato e non certo il veleno per farlo soffrire senza scampo”. “Speriamo di vivere il meno possibile, per accorciare la nostra pena e far uscire almeno il nostro cadavere anche senza di noi”. Quanti omicidi in famiglia si commettono? di Paolo Magliocco La Stampa, 9 dicembre 2017 Il triplice omicidio confessato da Mattia Del Zotto, che ha avvelenato i parenti con il tallio, è un caso raro. Gli omicidi in Italia sono sempre di meno, e quelli commessi all’interno delle famiglie sono una percentuale piuttosto bassa del totale e sono pure loro in calo. I sociologi Marzio Barbagli e Alessandra Minello hanno studiato i dati del Ministero dell’Interno e hanno verificato che sui 397 omicidi volontari commessi nel 2016, quelli avvenuti nelle famiglie o per motivi passionali sono stati 46. Dieci anni prima, nel 2007, erano stati esattamente il doppio, cioè 92, e vent’anni prima 121. Per fortuna anche più rari sono i casi di infanticidio come quello avvenuto a Reggio Emilia: secondo i dati del Ministero dell’interno nel 2016 ci sono stati 3 casi e l’anno precedente appena 1. In generale, tutti i dati mostrano che in Italia il numero di persone uccise volontariamente sono sempre di meno e la diminuzione riguarda tutte le categorie, dagli omicidi della criminalità organizzata a quelli della criminalità comune. Solo le persone uccise per una rissa o una lite mostrano una tendenza meno chiara nell’analisi di Barbagli e Minello. Comunque, nella conferenza stampa di Ferragosto il ministro dell’Interno Marco Minniti ha potuto annunciare il record minimo di 200 omicidi nei primi sette mesi di quest’anno. E già i 397 casi del 2016 erano un dato positivo mai registrato prima. Di anno in anno, insomma, le cose vanno sempre meglio e in Italia si uccide sempre meno. È una tendenza che condividiamo con tutta l’Unione europea, ma che in altri Paesi è decisamente meno chiara. Per esempio la Francia ha un numero di omicidi decisamente superiore al nostro e in Germania non c’è una chiara tendenza verso una loro diminuzione. Invece nel nostro Paese all’inizio di questo decennio gli omicidi erano più di 500 all’anno, nel 2000 sfioravano i 750 e dieci anni prima erano sopra quota mille: anche se alcuni anni non rispettano rigorosamente la regola (il 2011 per esempio ha visto più omicidi del 2010 e del 2012) la tendenza statistica è molto chiara. A non diminuire altrettanto in fretta, però, è la violenza contro le donne: il numero di vittime di sesso femminile cala, ma più lentamente del totale e così la percentuale di donne uccise sul totale cresce. Il presidente Mattarella tentato dalla grazia per Dell’Utri di Francesco Damato Il Dubbio, 9 dicembre 2017 Ma è in imbarazzo per una serie di problemi legati alle altre pendenze giudiziarie del detenuto e per il sentire dell’opinione pubblica. La solita mosca che vaga per corridoi e stanze del Quirinale mi ha riferito di avere visto Sergio Mattarella, appena rientrato dal Portogallo, alzare il sopracciglio sinistro sfogliando la rassegna stampa. Sarebbe accaduto quando egli si è imbattuto nelle notizie sull’ex parlamentare di Fi Marcello Dell’Utri. In alcuni articoli e commenti il presidente è stato tirato in ballo anche lui come capo dello Stato per via di quel benedetto, penultimo comma dell’articolo 87 della Costituzione. Che gli conferisce il potere di “concedere grazia e commutare le pene”. Dell’Utri, si sa, ha già scontato metà della pena di sette anni di carcere comminatagli in via definitiva per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa, entrato ormai nelle consuetudini giudiziarie, o nella giurisprudenza, come dicono i tecnici, unendo due articoli diversi del codice penale. È un reato che ha fatto storcere il muso, e non solo alzare le sopracciglia, a molti specialisti del diritto e ai giudici europei. Che sono già intervenuti per smentire i colleghi italiani che avevano applicato addirittura retroattivamente questo reato a Bruno Contrada per fatti risalenti a prima che esso fosse entrato nella giurisprudenza italiana. E il caso di Dell’Utri è analogo a quello di Contrada, al quale è stata almeno ricostruita la carriera di poliziotto, non potendogli essere restituita la libertà sottrattagli con la lunga detenzione già scontata al momento del verdetto europeo. Dell’Utri, afflitto da malanni molto seri, fra cui un tumore alla prostata che richiede un trattamento radioterapico, ha chiesto di essere quanto meno ricoverato in un ospedale. Ma il tribunale di sorveglianza di Roma ha disposto diversamente, per quanto i periti del carcere, del detenuto e persino del Procuratore Generale avessero ritenuto incompatibile la detenzione con le necessarie terapie. Dell’Utri ha accolto la decisione del tribunale di sorveglianza annunciando di volere rinunciare alle cure e ai pasti per lasciarsi morire. La mosca proveniente dal Quirinale non ha saputo spiegarmi bene il significato preciso di quell’alzata di sopracciglio del presidente Mattarella. Che mi azzardo pertanto a interpretare da solo fidandomi un po’ dell’intuito e un po’ di come io abbia imparato a conoscere l’uomo negli anni in cui frequentava la Camera. Da buon cristiano il presidente della Repubblica non può certamente essere rimasto insensibile di fronte alle notizie sulla salute di Dell’Utri, pur con tutto il rispetto dovuto per le valutazioni del tribunale di sorveglianza di Roma anche da lui, che è peraltro il presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, oltre che della Repubblica. Né Mattarella può essere rimasto intimamente insensibile ai richiami mediatici ai suoi poteri di grazia e di commutazione delle pene, ma è prigioniero della fitta boscaglia giudiziaria nella quale si trova diabolicamente Dell’Utri. In quanto condannato in via definitiva, l’ex parlamentare potrebbe chiedere e pure contare sulla benevolenza del capo dello Stato, come Ovidio Bompressi a suo tempo, condannato in via definitiva a 22 anni di reclusione per il delitto Calabresi, potette contare sul presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Che lo liberò tenendo conto delle sue gravi condizioni di salute. Ma, a parte il clamore di una grazia o di una commutazione di pena disposta a ridosso di una decisione restrittiva del tribunale di sorveglianza, e perciò scambiabile per una deliberata sconfessione di quell’organo giudiziario, per non parlare della speculazione politica cui si presterebbe un atto di clemenza nel clima dannatamente elettorale in cui ci troviamo, col vento che soffia per giunta proprio sulle vele del partito alla cui fondazione contribuì Dell’Utri, il presidente della Repubblica ha le mani legate anche dalle altre pendenze giudiziarie del detenuto. Da ben quattro anni, che da soli gridano vendetta, Dell’Utri è sotto processo a Palermo per le presunte trattative fra lo Stato e la mafia nella stagione delle stragi mafiose del 1992 e 1993. E da qualche mese è rientrato, col suo amico Silvio Berlusconi, sotto le lenti degli inquirenti, in particolare a Firenze, come possibile mandante di quelle stragi. Che è un reato non prescrivibile, per cui le inchieste già archiviate possono riaprirsi all’infinito alla prima chiacchiera raccontata dal pentito di turno, com’ è accaduto in questo caso. In tali condizioni, se fossi stato nei panni di Mattarella, di fronte al groviglio di notizie e polemiche su Dell’Utri avrei alzato non uno ma entrambi i sopraccigli, sin forse a farmi saltare sul naso gli occhiali e a mordermi le mani di rabbia. Cella stretta, il ministero della Giustizia risarcisce il detenuto Il Secolo Trentino, 9 dicembre 2017 Il detenuto ha diritto all’indennizzo da parte del Ministero della Giustizia se lo spazio minimo vitale in cella è inferiore ai tre metri quadri. E per determinarlo in cella detentiva collettiva occorre far riferimento alla superficie della camera detentiva fruibile dal singolo detenuto ed idonea al movimento e, pertanto, occorre detrarre dalla complessiva superficie della cella non solo lo spazio destinato ai servizi igienici e quello occupato dagli arredi fissi ma anche lo spazio occupato dal letto a castello, costituendo quest’ultimo una struttura tendenzialmente fissa e comunque non facilmente amovibile. A stabilire questi principi, la significativa ordinanza 29323/17 della Cassazione civile pubblicata il 7 dicembre. Nella fattispecie, i giudici della dalla terza sezione civile hanno accolto il ricorso di un detenuto avverso il decreto del tribunale di Torino, che aveva agito per chiedere la condanna del ministero della Giustizia ad oltre 23 mila euro per essere stato ristretto in un più istituti di detenzione piemontesi in celle comuni dalle minuscole dimensioni. Con il primo motivo il ricorrente aveva lamentato che il Tribunale di Torino non avesse scomputato dalla superficie complessiva della cella l’ingombro del letto e ha sostenuto che ciò avrebbe determinato una notevole riduzione del computo dei giorni trascorsi negli istituti di pena di Torino e Asti in condizioni inumane e degradanti. La Suprema Corte ha ritenuto valida tale doglianza e ha ricordato che lo stesso collegio, in sede penale, ha più volte affermato che, “ai fini della determinazione dello spazio individuale minimo inframurario, pari o superiore a tre metri quadrati, da assicurare a ogni detenuto affinché lo Stato non incorra nella violazione del divieto di trattamenti inumani o degradanti, in base all’articolo 3 della Convenzione dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, così come interpretato dalla conforme giurisprudenza della Corte Edu in data 8 gennaio 2013 nel caso Torreggiani”, il giudice deve detrarre dalla superficie lorda della cella l’area occupata dagli arredi. Ora, in tale prospettiva, si considera un ingombro anche il letto a castello, struttura “dal peso ordinariamente consistente, non amovibile, né fruibile per l’estrinsecazione della libertà di movimento nel corso della permanenza nella camera detentiva e, quindi, idonea a restringere, per la sua quota di incidenza, lo spazio vitale minimo all’interno della cella”. Su Facebook ai domiciliari, punito, ma la Cassazione dice no di Cristina Genesin Il Mattino di Padova, 9 dicembre 2017 Detenuto condannato a Padova si oppone alla revoca e ottiene di “tornare a casa”. Era stato rispedito in carcere perché sorpreso a mettere like e condividere post. “Navigare” online e sentirsi liberi. Forse ancora più liberi, abbandonandosi al flusso della rete e all’infinita possibilità di comunicare offerta dai social. Una sensazione irresistibile per chi vive una condizione di detenzione, anche se da recluso più fortunato di altri perché non costretto dietro le sbarre, ma in una prigione domestica. Sarà per sentirsi “connesso” con il mondo che Donato Antonio Piccioli, 39enne brindisino - una vita spesa in anni di guai con la giustizia per storie di droga nel Padovano nonostante l’arruolamento nel Sena Rugby, squadra marchigiana - non aveva resistito alla tentazione di avere un profilo Facebook, condividere post ed esprimere il proprio gradimento con i “like”. Alla faccia della libertà “congelata”. Uno scivolone che lo ha rispedito dritto in galera per scontare due anni e 8 mesi di carcere, inflitti con rito abbreviato dal Gup di Padova il 23 aprile 2015, quando i carabinieri hanno scoperto il suo profilo Facebook tutt’altro che inattivo. Ma lui Donato Antonio Piccioli non si è rassegnato. Ha impugnato l’ordinanza del tribunale di Sorveglianza di Lecce del 28 giugno 2016, destinata a revocare gli arresti domiciliari che stava scontando in Salento. E ha vinto. I giudici della Cassazione hanno azzerato la revoca, rinviando il caso al tribunale di Sorveglianza per una nuova valutazione alla luce delle considerazioni da loro espresse che riconoscono le ragioni del detenuto. “L’uso di Internet non può essere considerato vietato tout court quando... abbia funzione conoscitiva o di ricerca” scrive la Prima sezione penale della Cassazione, “L’ordinanza impugnata si è limitata a revocare gli arresti domiciliari in forza di un automatismo basato sulla mera presa d’atto della pura e semplice violazione della prescrizione (il divieto di comunicare con l’esterno), disancorata dall’indicazione di specifici elementi di fatto (ad esempio il contenuto delle comunicazioni)”. Insomma secondo i giudici doveva essere accertato che cosa avesse davvero combinato il recluso tramite il social. Al contrario, nel provvedimento di revoca dei domiciliari si faceva un generico riferimento alla tipologia dei siti visitati e alla condivisione di alcune foto relative al Fronte Europeo per la Siria accompagnate da alcuni “mi piace”. Per la Sorveglianza, invece, solo visitando quel profilo “Fronte Europeo”, condividendo foto e cliccando qualche “like”, Piccioli aveva violato le regole imposte agli arresti domiciliari rendendo “la misura inidonea ad assicurare la finalità di rieducazione e reinserimento sociale del detenuto”. La Cassazione non è d’accordo: “Non ci si può limitare al singolo episodio...”. Bisogna “valutare il contenuto dei contatti intrattenuti con terzi e la complessiva condotta”. Roma: detenuto di 66 anni, ristretto a Regina Coeli, si impicca e muore Corriere della Sera, 9 dicembre 2017 Un altro suicidio nelle carceri romane. Un detenuto di 66 anni, ristretto a Regina Coeli perché imputato in un processo per ricettazione, si è tolto la vita nella notte di giovedì nella sua cella della VI Sezione. Quando si è impiccato con lui si trovavano quattro reclusi che hanno raccontato agli agenti della Penitenziaria di non essersi accorti di nulla. Sulla morte del detenuto è stata aperta un’inchiesta. Comunicato del Sappe Nuovo suicidio di un detenuto in un carcere italiano. “Nella notte, un detenuto italiano di 60 anni, imputato per ricettazione e ristretto nella VI sezione si è impiccato nella propria cella, che condivideva con altri quattro detenuti che non si sono accorti di nulla. Il pur tempestivo intervento dell’unico poliziotto penitenziario di servizio nulla ha potuto e l’uomo è purtroppo deceduto”. Ne da notizia Maurizio Somma, segretario nazionale per il Lazio del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. Amareggiato il segretario generale del Sappe, Donato Capece: “Questo nuovo drammatico suicidio di un altro detenuto evidenzia come i problemi sociali e umani permangono, eccome!, nei penitenziari, lasciando isolato il personale di Polizia Penitenziaria (che purtroppo non ha potuto impedire il grave evento) a gestire queste situazioni di emergenza. Il suicidio è spesso la causa più comune di morte nelle carceri. Gli istituti penitenziari hanno l’obbligo di preservare la salute e la sicurezza dei detenuti, e l’Italia è certamente all’avanguardia per quanto concerne la normativa finalizzata a prevenire questi gravi eventi critici. Ma il suicidio di un detenuto rappresenta un forte agente stressogeno per il personale di polizia e per gli altri detenuti. Per queste ragioni un programma di prevenzione del suicidio e l’organizzazione di un servizio d’intervento efficace sono misure utili non solo per i detenuti ma anche per l’intero istituto dove questi vengono implementati. È proprio in questo contesto che viene affrontato il problema della prevenzione del suicidio nel nostro Paese. Ma ciò non impedisce, purtroppo, che vi siano ristretti che scelgano liberamente di togliersi la vita durante la detenzione”. “Negli ultimi 20 anni le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria hanno sventato, nelle carceri del Paese, più di 19mila tentati suicidi ed impedito che quasi 145mila atti di autolesionismo potessero avere nefaste conseguenze”, conclude il leader nazionale del primo Sindacato del Corpo. “Il dato oggettivo è che la situazione nelle carceri resta allarmante. Altro che emergenza superata”. Tolmezzo (Ud): agente penitenziario si spara con la sua pistola e muore in carcere di Paola Treppo Il Gazzettino, 9 dicembre 2017 Dramma nel carcere di massima sicurezza di Tolmezzo dove una guardia penitenziaria si è tolta la vita sparandosi in testa con la sua pistola; in quel momento l’uomo, residente in Friuli Venezia Giulia, si trovava all’interno della Casa circondariale ma non era in servizio. Soccorso immediatamente dai colleghi è stato tempestivamente assistito dal personale medico giunto sul posto con una ambulanza inviata dalla centrale Sores di Palmanova. Ma purtroppo per la guardia penitenziaria non c’era più nulla da fare se non decretare il decesso. Fatali le ferite riportate al capo dopo l’esplosione del colpo di arma da fuoco: l’uomo è morto sul colpo. Informato il magistrato di turno della Procura di Udine, la salma è stata rimossa e affidata ai parenti tramite le onoranze funebri. La tragedia intorno alle 2 e 30 di questa notte, sabato 9 dicembre. Non sono note le cause del gesto. Comunicato del Sappe Ennesima tragedia nel Corpo di Polizia Penitenziaria, A quindici giorni dalla notizia del suicidio di un Agente di Polizia Penitenziaria a Padova, è notizia di oggi che un altro appartenente al Corpo - un Assistente Capo di 51 anni, tra i più anziani del carcere - si è tolto la vita questa notte, verso le 3, uccidendosi con l’arma di ordinanza nella caserma del carcere di Tolmezzo nella Portineria del carcere. A dare la tragica notizia è Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. “Sembra davvero non avere fine il mal di vivere che caratterizza gli appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria, uno dei quattro Corpi di Polizia dello Stato italiano”, commenta Giovanni Altomare, segretario regionale per il Friuli Venezia Giulia del Sappe. “Siamo sconvolti. L’uomo era benvoluto da tutti, molto disponibile, e lavorando all’Ufficio Servizi del carcere era sempre a disposizione degli altri. Davvero perdiamo un amico, prima che un collega”. Ancora oscure le cause che hanno portato l’uomo al tragico gesto, ma Capece sottolinea come sia importante “evitare strumentalizzazioni ma fondamentale e necessario è comprendere e accertare quanto hanno eventualmente inciso l’attività lavorativa e le difficili condizioni lavorative nel tragico gesto estremo posto in essere dal poliziotto. Non può essere sottaciuto ma deve anzi seriamente riflettere la constatazione che negli ultimi 3 anni si sono suicidati più di 55 poliziotti e dal 2000 ad oggi sono stati complessivamente più di 110, ai quali sono da aggiungere anche i suicidi di un direttore di istituto (Armida Miserere, nel 2003 a Sulmona) e di un dirigente generale (Paolino Quattrone, nel 2010 a Cosenza). Negli ultimi mesi, vi sono stati suicidi di poliziotti penitenziari a Padova, Termini Imerese, Cosenza (dove l’uomo aveva prima ucciso la moglie) e Marsala. Quel che è certo è che sui temi del benessere lavorativo dei poliziotti penitenziari l’Amministrazione Penitenziaria continua ad essere in grave affanno e in colpevole ritardo, senza alcuna iniziativa concreta. I poliziotti continuano a suicidarsi, l’Amministrazione Penitenziaria non mette in campo alcuna concreta iniziativa per contrastare il disagio lavorativo e dare un sostegno a chi è in prima linea nelle carceri”. Il pensiero del Sappe va “ai familiari, agli amici e ai colleghi del nostro collega. A loro va il nostro pensiero e la nostra vicinanza”, prosegue Capece, che però ha dure parole verso i vertici del Ministero della Giustizia e dell’Amministrazione Penitenziaria: “Questo di Tolmezzo, a poche settimane dal caso di Padova, è l’ennesimo suicidio di un poliziotto penitenziario ma l’Amministrazione Penitenziaria continua a non fare nulla di concreto per contrastare il disagio psicologico dei poliziotti, anche se non è direttamente collegato col servizio”, conclude. “Questo aiuta a capire quali evidentemente siano le priorità per l’Amministrazione Penitenziaria. Non il fatto che contiamo ogni giorno gravi eventi critici nelle carceri italiane, compresi i numerosi suicidi di appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria, episodi che vengono incomprensibilmente sottovalutati proprio dal Dap”. Napoli: celle piene, lunedì 11 dicembre la marcia dei penalisti Il Mattino, 9 dicembre 2017 Una marcia della Camera penale di Napoli verso il carcere di Poggioreale andrà in scena lunedì mattina, a partire dal Palazzo di giustizia, in concomitanza con l’inizio di una settimana di astensione dalle udienze. Un caso che ripropone all’attenzione la questione carceri, o meglio, l’sos sovraffollamento delle celle. La giunta della Camera penale, rappresentata dal presidente Attilio Belloni, intende così dare seguito a un pacchetto di astensioni finalizzato a sensibilizzare l’opinione pubblica sull’imbuto delle procedure dinanzi al Tribunale di Sorveglianza, sulla mancanza di investimenti per garantire speditezza dei fascicoli e migliorare la condizione dei detenuti, seguendo i dettami della Costituzione della stessa”. Napoli: penalisti in marcia per i detenuti, lunedì sfileranno anche i Radicali di Fabrizio Ferrante Ristretti Orizzonti, 9 dicembre 2017 Lunedì 11 dicembre a Napoli si terrà un corteo indetto dalla Camera Penale di Napoli, mirante a evidenziare ancora una volta le problematiche insite nel sistema giudiziario. “Una marcia per i detenuti” è il titolo della manifestazione che partirà dalla sede della Camera Penale partenopea, presso il Tribunale al Centro Direzionale, per concludersi all’esterno del carcere di Poggioreale. Alla mobilitazione hanno aderito anche associazioni o gruppi esterni al mondo dell’avvocatura: in particolare saranno presenti i Radicali sia nella pattuglia che si riconosce e milita nel Partito Radicale con l’associazione Penna Bianca, sia alcuni militanti di Radicali Italiani che a Napoli collaborano con il dirigente nazionale del movimento, Raffaele Minieri. Non è un caso se proprio i Radicali (che seppur divisi condivideranno la stessa piazza) abbiano scelto di appoggiare l’iniziativa delle Camere Penali e non solo in virtù della recente sinergia messa in campo per la raccolta firme a favore della legge di iniziativa popolare sulla separazione delle carriere in magistratura. A leggere le argomentazioni che porteranno lunedì in piazza i penalisti, infatti, riemergono battaglie sempre attuali che da anni Marco Pannella aveva iniziato a combattere. Se le carceri sono l’anello terminale della catena della malagiustizia è evidente come le disfunzioni partano da prima e secondo i promotori del corteo: “Le inefficienze e le disfunzioni del tribunale di sorveglianza di Napoli ostacolano il diritto di difesa dei detenuti”. Si citano inoltre, nel testo che annuncia l’appuntamento di lunedì, “il trattamento disumano e degradante” - come definizione della Cedu e del Comitato per la prevenzione della tortura - a cui sono sottoposti i detenuti, più volte al centro degli appelli e degli scioperi della fame di Pannella e dei Radicali già durante il primo mandato di Giorgio Napolitano al Quirinale che nel suo messaggio alle Camere parlò di “tremenda urgenza che ci umilia davanti all’Europa”. Era l’otto ottobre 2013, qualche anno è passato ma i trattamenti inumani sono tutt’ora denunciati con iniziative in questo senso già in corso proprio a Napoli (con l’avvocato radicale Raffaele Minieri) dove molti detenuti stanno scegliendo il ricorso alla giurisdizione contro le condizioni di detenzione non sempre legali. Sovraffollamento e abuso della custodia cautelare sono le altre due criticità all’ordine del giorno: i numeri in questo caso sono eloquenti e raccontano di 7450 detenuti in più nelle carceri italiane per un totale di circa 58 mila ristretti in poco più di 50 mila posti di capienza regolamentare. Compresi quelli ricavati togliendo spazi di socialità per una cifra originaria di 37 mila, portata a quella attuale di 50 mila che tuttavia rimane passibile di osservazioni. Sovraffollamento che in Campania è particolarmente impattante, visto che le cifre riportate dai penalisti napoletani parlano di 1.142 detenuti oltre il numero di posti disponibili. Già le recenti visite ispettive effettuate da Radicali Italiani avevano evidenziato il sovraffollamento di ritorno: a Poggioreale ci sono 2.210 detenuti in 1.637 posti, a Secondigliano oltre 1.300 in circa 800 posti e a Santa Maria Capua Vetere 960 ristretti in 850 posti. Tra questi detenuti molti sono in custodia cautelare e anche in questo caso si tornano a evidenziare questioni da tempo sul tavolo: su 57994 detenuti ci sono 20515 persone in attesa di giudizio, spesso anche del primo grado. Di questi, le cifre dicono che una percentuale vicina al 50% finiscono assolti al termine del processo dopo un periodo di ingiusta detenzione. La manifestazione partirà alle ore 11 all’esterno del Palazzo di Giustizia dove ha sede la Camera Penale di Napoli e si concluderà all’esterno del vicino carcere di Poggioreale. Genova: carcere di Marassi, in aumento i casi psichiatrici di Marco Lignana La Repubblica, 9 dicembre 2017 Detenuti con problemi di disagio che andrebbero trattati in strutture che non ci sono. Due giorni fa, nel carcere di Marassi, un detenuto senegalese di 36 anni ha aggredito due agenti. La sera prima non voleva uscire da quella che è definita “sala socialità”. Continuava a ripetere di essere stato ingiustamente arrestato, nonostante la sua colpevolezza (traffico di droga) fosse del tutto evidente. Lo hanno riportato nella sua cella di peso. Il giorno dopo, quando doveva spostarsi in un ufficio, un’altra reazione. Sull’episodio la versione del sindacato Uil-Pa, che l’ha denunciato, e dei vertici del carcere è diversa. Per i primi il detenuto “ha divelto il tubo dello scarico del water, ne ha appuntito il ferro ricavato e ha infilzato i due poliziotti, il primo alla schiena e il secondo in un braccio”. Per i vertici “si trattava di un tubo di plastica agitato dal 36enne, che poi ha soltanto graffiato i due agenti, i quali non sono neanche andati al pronto soccorso”. Il fatto, al di là di come lo si racconta, è il segnale di un qualcosa che non va. Un qualcosa che drammaticamente sta toccando tutta la società, e a maggior ragione un luogo delicatissimo per definizione come il carcere. Perché al detenuto senegalese sono stati diagnosticati problemi psichiatrici. Accentuati dall’astinenza da droga e alcol. Non è certo l’unico, oggi, nella casa circondariale genovese. Anzi. Lo conferma la direttrice del carcere, Maria Milano, che ammette come da qualche anno a questa parte ci siano “sempre più casi di detenuti che non sono “soltanto” persone che hanno commesso reati, ma individui che vanno aiutati, supportati, curati per seri problemi mentali. E infatti quando il detenuto ha preso quel tubo e lo ha rivolto contro gli agenti era presente anche lo psichiatra, visto quel che era successo la sera precedente”. Non è una questione di nazionalità, anche se gli stranieri sono sicuramente numerosi. Semmai di anagrafe: “Teniamo presente che l’età media dei detenuti si sta abbassando sempre di più”. E allora si ritorna al messaggio già lanciato le scorse settimane. Prima dal dipartimento di Salute mentale e dipendenze della Asl3: “L’età dei pazienti è sempre più precoce, è scesa ai 14-16 anni la fase di esordio di disturbi gravi, sia mentali che legati alle dipendenze”. Poi dall’ospedale Gaslini: “La fascia di età sino ai 14 anni vede emergere problematiche molto gravi e multiple, legate a crisi di aggressività verso gli altri e loro stessi anche con l’autolesionismo”. In carcere, però, per forza di cose tutto è estremizzato. E possono non bastare “tutte quelle figure che lavorano a stretto contatto con gli agenti, perché qui non ci sono soltanto psichiatri e altre figure del personale sanitario, ma pure mediatori culturali”, ricorda Maria Milano. I casi psichiatrici a Marassi sono decine. In un carcere che deve già fare i conti con i cronici problemi di sovraffollamento e di carenza di personale. Su questo sindacati e direttrice sono d’accordo. Il vero aiuto dovrebbe arrivare da Calice al Cornoviglio, vicino a Spezia. Lì è prevista l’apertura di un Rems, “Residenza per l’Esecuzione della Misura di Sicurezza”, le strutture residenziali sanitarie che hanno sostituito gli ospedali psichiatrici giudiziari. L’unica in Liguria, finora, è a Pra, ma può ospitare soltanto venti pazienti alla volta, come previsto dalla legge. Attualmente la Liguria ha una convenzione con la residenza di Castiglione delle Stiviere (Mantova), ma per soli dieci posti. Per il resto, tutti a Marassi, dove si fa quel che si può: “Il nostro è un lavoro complesso, spesso molto faticoso, logorante. E nostri agenti vantano una professionalità enorme”, sospira la direttrice Milano. Certo a Marassi il problema non sono soltanto i casi psichiatrici. Aggressioni o altri episodi “di ribellione” possono sempre capitare, come in qualsiasi casa circondariale. Ma anche qui vertici e sindacati si dividono. Le associazioni di categoria vogliono l’allestimento di una sezione speciale, già prevista dall’ordinamento, dove un detenuto che compie gesti pericolosi viene temporaneamente isolato: celle singole, contatto con gli altri ridotto al minimo, ora d’aria e attività sociali quasi azzerate. Per 15-20 giorni, valutando nel frattempo il comportamento. Se la condotta è buona, può ritornare alla vita di prima. Per la direttrice però il problema non si pone perché “di fatto un’organizzazione del genere per questi casi esiste già”. Non, però, in un’ala del carcere dedicata, strutturata. Firenze: la sfida del nuovo direttore di Sollicciano “aprire le porte del carcere alla città” di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 9 dicembre 2017 Lunedì si insedia Prestopino nel giorno del Consiglio comunale straordinario: “Grande segnale”. “Dobbiamo trovare le chiavi per aprire le porte di Sollicciano alla città”. Il nuovo direttore di Sollicciano, Fabio Prestopino, sogna un carcere che non sia un corpo estraneo alla città, ma parte integrante di essa. Messinese, 52 anni, ex direttore al Don Bosco di Pisa, comincerà ufficialmente il suo mandato proprio lunedì prossimo, quando il penitenziario fiorentino ospiterà il Consiglio comunale straordinario dopo l’invito arrivato anche tramite una lettera pubblicata dal Corriere Fiorentino lo scorso 31 ottobre e firmata dal cappellano del carcere don Vincenzo Russo e da Massimo Lensi, dell’associazione radicale “Andrea Tamburi”. “Un evento importante - ha detto Prestopino - Un chiaro segnale che la municipalità è vicina all’ambiente detentivo, e spero anche un viatico per tutto il periodo della mia direzione”. Certamente un momento di forte interazione tra chi vive il carcere da dentro - come detenuti e agenti - e chi lo vive da fuori, spesso decidendone le sorti, come i politici. Secondo Prestopino, “è fondamentale che il carcere sia un luogo trasparente, una parte della città, il nuovo corso dell’amministrazione penitenziaria va proprio in questo senso”. Per farlo però, serve un cambio di rotta rispetto al passato. Prestopino ha già qualche idea, come quella di potenziare il ruolo dei volontari in carcere: “È importante capire quante ulteriori risorse potranno arrivare da questo mondo”. Detenuti e agenti non dovranno sentirsi isolati, e per questo il neodirettore, oltre al ruolo del volontariato, promette un impegno personale: “Amo frequentare le zone del carcere, non disdegno ascoltare personalmente quali sono gli umori dei singoli detenuti, parlare con loro anche al di fuori delle occasioni formali”. Ancora Prestopino non conosce nel dettaglio la situazione di Sollicciano, ma tra i progetti sui quali ha puntato l’attenzione c’è quello che riguarda il lavoro dei reclusi: “Abbiamo contatti con la Confindustria fiorentina, speriamo che da questa relazione possa nascere qualcosa di importante affinché sia possibile aprire una porta verso l’esterno del carcere”. Un progetto importante, quello di Confindustria a Sollicciano, ideato qualche mese fa su impulso del cappellano Don Vincenzo Russo, che ha portato i vertici dell’unione degli industriali a pianificare progetti lavorativi per i reclusi. Laboratori all’interno del carcere ma anche possibilità professionali fuori dal penitenziario. “Dobbiamo incentivare formule che portino i detenuti a lavorare soprattutto fuori dal carcere - ha detto il neodirettore - La legge lo consente e sarebbe importante soprattutto per i reclusi a fine pena”. Ma Sollicciano ha problemi ancora più urgenti, come il ritardo nei lavori di ristrutturazione e la questione sicurezza, un tasto dolente che, pochi mesi fa, ha provocato l’evasione di tre detenuti. “L’ultimo giro a Sollicciano l’ho fatto due anni fa e ancora non conosco benissimo la struttura, sicuramente posso dire che ci sono criticità strutturali negli impianti, andrà inoltre rivista l’organizzazione e l’interazione con la sanità”. E poi il sovraffollamento, per Prestopino però non sembra al momento una priorità: “Sollicciano non mi pare così sovraffollato, la vivibilità mi sembra accettabile”. Non tollera invece i bambini in cella: “Nella mia esperienza nelle carceri siciliane, ho incontrato tante detenute madri, è stata un’esperienza toccante e destabilizzante, ritengo che i bambini non abbiano nessuna colpa e non è giusto farli crescere in prigione”. Una ragione in più per concretizzare il progetto dell’Icam, la casa famiglia per le detenute madri a Rifredi. E infine, le celle chiuse per tre quarti della giornata: “È in corso una revisione del regime custodiale chiuso, cercheremo di capire come attuarlo concretamente”. Palermo: dieci detenuti dell’Ucciardone produrranno la pasta dentro il carcere Redattore Sociale, 9 dicembre 2017 Firmata la convenzione con il pastificio Giglio che prevede dentro il carcere una sezione dedicata. Per quattro dei 10 detenuti coinvolti ci sarà un assunzione contrattuale. Partire dalla produzione della pasta per intraprendere un cammino diverso che faccia ritrovare la dignità della persona soprattutto attraverso il lavoro. È l’obiettivo del progetto che prevede la nascita all’interno del carcere Ucciardone di un piccolo pastificio in forza della convenzione, siglata lo scorso ottobre, dalla direttrice della Casa di reclusione di Palermo, Rita Barbera e dall’amministratore della società Giglio Lab Srl, Giuseppe Giglio. La finalità alta di questa iniziativa, che verrà svolta dentro il carcere, che attualmente ospita 450 detenuti tutti con pene definitive, oltre ad essere data dall’inserimento lavorativo dei detenuti coinvolti, è anche quella di creare una sorta di piccola impresa autonoma dentro la Casa di reclusione. In particolare, sarà presto operativo un pastificio di piccole dimensioni dedicato alla produzione di pasta secca a lenta essiccazione. La capacità produttiva del pastificio sarà in via previsionale di circa 100 kg/ora di pasta secca in diversi formati e in diverse categorie commerciali, dalla produzione con semola integrale alla pasta di semola di grano duro siciliano a quella prodotta con la semola ottenuta dalla molitura a pietra di varietà autoctone di grano. L’impresa, frutto già dell’esperienza trentennale del pastificio Giglio, ha preso il nome di “Giglio Lab” con la finalità principale di configurarsi come un laboratorio di sperimentazione sociale, culturale ed educativa oltre che tecnica ed alimentare. La prima fase del progetto sarà la formazione specifica dei detenuti che partirà a gennaio prossimo. L’amministratore della società è Giuseppe Giglio, figlio dell’imprenditore Girolamo Giglio, che sta portando avanti il progetto proprio con l’intenzione di assumere alcuni di questi detenuti sia per contribuire al loro processo di rieducazione che per sostenere anche la nascita di un nuovo marchio produttivo dal forte messaggio sociale. Allo scopo, infatti, la casa circondariale sta registrando il suo marchio Ucciardone che oltre ad essere apposto alla pasta verrà presto utilizzato anche per altri prodotti che verranno realizzati nell’ambito di altri progetti. “La convenzione stipulata con il pastificio prevede la manodopera di alcuni detenuti - spiega la direttrice del carcere Rita Barbera alla guida della casa circondariale dal 2011 - nella produzione della pasta. Il titolare del pastificio si occupa di comprare le materie prime e di inserire nel mercato esterno i prodotti. L’amministrazione penitenziaria invece sta offrendo alcuni locali di una sezione dedicata alle attività rieducative ed ha già provveduto all’acquisto delle macchinari necessari ad avviare la produzione ed il confezionamento della pasta. L’impiego dei detenuti in questa attività permetterà all’impresa Giglio di usufruire di alcune agevolazioni fiscali previste dalla legge Smuraglia. Credo - aggiunge Rita Barbera - che sia molto importante che ad alcuni reclusi possa essere data l’opportunità di acquisire alcune competenze con la possibilità reale per alcuni di loro di essere poi assunti dall’impresa che opererà dentro il carcere. Il filo conduttore che auspichiamo è quello del lavoro sia dentro che fuori. Qualora, infatti, l’impresa volesse fare continuare il lavoro alla persona anche dopo che è uscita dal carcere, la legge sempre nell’ottica del reinserimento socio-lavorativo, prevede altri sei mesi di agevolazioni fiscali”. “All’Ucciardone abbiamo tante risorse umane che non possono essere mortificate dall’ozio. Essendo una casa di reclusione con detenuti tutti con sentenze definitive alcune delle quali lunghe - continua la direttrice Barbera, cerchiamo tante strade attraverso le quali i nostri reclusi possano impiegare il loro tempo in maniera proficua. L’impegno lavorativo è molto positivo per la persona prima di tutto e poi anche per le loro famiglie che in questo modo potranno aiutare anche dall’interno. Il nostro desiderio forte resta sicuramente quello che possano aumentare sempre di più le imprese sensibili al tema carcerario in grado di spendersi in maniera piena a favore dei nostri detenuti. Sappiamo bene, però, che occorre ancora fare molto lavoro per sensibilizzare il mercato esterno perché la chiusura della società nei confronti dei detenuti sia dentro che una volta fuori dal carcere è ancora molto forte. Proprio per questo attualmente oltre al laboratorio del pastificio Giglio, stiamo portando avanti anche altri due progetti. In cantiere per il nuovo anno, infatti, contiamo presto di realizzare anche una sartoria sociale ed una lavanderia industriale”, conclude Rita Barbera. “Essere tra i primi produttori di pasta all’interno di un carcere ci fa molto piacere. Da anni come famiglia lavoriamo nel mercato come produttori di pasta fresca - spiega il titolare del pastificio Girolamo Giglio. Adesso con questo progetto, che gestirà mio figlio Giuseppe con la ditta Giglio Lab, verrà prodotta anche pasta secca. Dopo un’esperienza che avevamo iniziato nel carcere Pagliarelli abbiamo accettato la proposta proveniente da un educatore del carcere Ucciardone. Nella direttrice Barbera abbiamo trovato una grande sensibilità perché ci ha aiutato a capire come concretamente potevamo realizzare all’interno di una zona detentiva un progetto di questo tipo”. “Con l’ausilio di una psicologa abbiamo ascoltato e selezionato 10 detenuti dell’Ucciardone segnalati dagli educatori. Si tratta prevalentemente di ragazzi giovani - continua il titolare dell’impresa -. Per quattro di loro, due italiani e due stranieri, è prevista un’assunzione lavorativa a tutti gli effetti con contratti che prevedono una retribuzione. Abbiamo già presentato tutta la documentazione al ministero e riteniamo che l’attivazione completa del lavoro nel nuovo pastificio avverrà a gennaio. Il loro lavoro secondo questo progetto - afferma Giglio - si svolgerà solo dentro il carcere ma per il futuro si potrebbero studiare anche altre strade per fare in modo che qualcuno possa magari continuare anche fuori. L’iniziativa prevede inoltre anche di devolvere un contributo ricavato dalla vendita di ogni pacco di pasta anche a favore delle famiglie con un’attenzione particolare ai loro figli”. “Ci rendiamo conto che i pregiudizi sui detenuti ed il mondo carcerario sono ancora moltissimi - aggiunge ancora Girolamo Giglio -. Dovremmo ricordarci sempre che spesso dietro ad ogni persona reclusa ci sono storie di disagio che andrebbero comprese. Proprio per questo credo che i mass media dovrebbero maggiormente concentrarsi oltre che su chi sbaglia anche su chi riesce a cambiare vita che potrebbe diventare un buon esempio per gli altri”. Rimini: overdose di farmaci in cella, transessuale finisce in coma in ospedale riminitoday.it, 9 dicembre 2017 A dare l’allarme è stato un altro detenuto che ha avvertito gli agenti della polizia Penitenziaria dei “Casetti”. È ricoverato all’ospedale “Infermi” di Rimini, in coma farmacologico, un transessuale peruviano 40enne detenuto nel carcere dei “Casetti” finito in overdose da farmaci. L’uomo, secondo quanto emerso, assumeva una serie di medicinali ma, negli ultimi giorni, avrebbe simulato di ingerirli per poi metterli da parte. Nel tardo pomeriggio di giovedì ha ingoiato tutte le pasticche e si è accasciato sul letto della cella. A dare l’allarme è stato un altro transessuale, che occupa la cella di fronte al 40enne, il quale ha avvertito il personale della polizia Penitenziaria. Gli agenti hanno trovato l’uomo in stato di incoscienza e hanno chiesto l’intervento del 118 arrivato ai “Casetti” con ambulanza e auto medicalizzata. Il transessuale, una volta stabilizzato, è stato trasportato d’urgenza nel nosocomio riminese dove le sue condizioni sarebbero critiche. Pare che all’origine del gesto ci sia stata la preoccupazione del 40enne di venire trasferito in un altro carcere dal momento che, a Rimini, la sezione riservata ai transessuali è in via di smantellamento”. Pisa: volontariato a Volterra, restaurata dai detenuti-allievi la sala prove del carcere di Antonio Bartalozzi pisatoday.it, 9 dicembre 2017 Il progetto ideato dal maestro David Dainelli va avanti dal 2006. La struttura era da alcuni mesi in pessime condizioni. Nella Fortezza-carcere di Volterra è stato ultimato il restauro della sala prove per opera dei detenuti-strumentisti, che partecipano al laboratorio musicale nato da un’idea nel 2006 del maestro volterrano David Dainelli, pianista, bassista elettrico, stimato concertista e didatta, e da un progetto sostenuto dall’Istituto Comprensivo Volterra. Nel 2009 i fondi per sostenere l’attività coi ragazzi del carcere sono terminati, ma è a quel punto che scattò il volontariato. Con l’aiuto dell’Accademia della Musica Città di Volterra e il continuo appoggio degli agenti dell’Istituto e del suo team di educatori, guidato dalla dottoressa Gabriella Greco, insieme sono riusciti a realizzare una sala musica attrezzata e fruibile dai detenuti interessati. Da allora ogni anno, nel grande cortile della Fortezza si organizzano concerti con musicisti ospiti e pubblico esterno. Sulle pareti sono stati dipinti fedeli ritratti di rockstar geniali e ribelli: dagli Stones a Freddie Mercury, fino a Amy Winehouse. “Mesi fa - raccontano i detenuti-performer - a causa di infiltrazioni d’acqua, la nostra stanza era del tutto inservibile. Ci siamo messi al lavoro per riprendere a suonare al più presto. Siamo contenti del risultato. Il concerto di quest’anno sarà ancora più bello, più carico: le fiamme rosso-passione che abbiamo pitturato accanto ad alcuni dei nostri idoli la dicono lunga sulla voglia che abbiamo di impegnarci al massimo per regalare, a chi vorrà venire ad ascoltarci, il giusto groove. È il modo migliore che abbiamo per far capire agli altri quanto tutto questo, per noi, è importante”. “Quest’anno - spiega Dainelli - l’attività musicale si è allargata con la collaborazione di due nuovi docenti, Antonio Bartalozzi, insegnante di chitarra e musica d’insieme, e Lorenzo Bavoni, docente di batteria; entrambi, a titolo volontario e gratuito, hanno accettato con entusiasmo e passione di intraprendere questo percorso formativo molto impegnativo ma, a più livelli, estremamente stimolante. Per gli allievi come per i loro maestri. Oggi, questo nuovo traguardo è perfettamente sintetizzato dalla nostra nuova sala-prove. La stanza dove suoniamo dal 2006 versava in pessime condizioni a causa di pesanti infiltrazioni d’acqua che, mesi fa, l’avevano resa praticamente inservibile. A ripristinare la stanza ci hanno pensato, appunto, i nostri stessi allievi. Che, oltre a sistemare i danni provocati dalla pioggia, ne hanno anche decorato le pareti. Ora, questo importante luogo di socialità vive una seconda giovinezza. È una nuova partenza, sotto tutti i punti di vista. Il nostro ringraziamento va a loro, ai detenuti-musicisti che hanno frequentato e frequentano con impegno questi corsi, superando barriere etniche, religiose e caratteriali in nome del piacere di fare musica”. Roma: CO2 “Controllare l’odio”, a Rebibbia il progetto che porta la musica in carcere Redattore Sociale, 9 dicembre 2017 L’idea, nata dal CPM Music Institute di Franco Mussida, consiste nell’installazione di speciali audioteche, divise per “stati d’animo”, attualmente presenti in 12 carceri italiane. L’ex chitarrista della PFM e il leader dei Tiromancino Federico Zampaglione inaugureranno nella sezione femminile del carcere di Rebibbia la sonorizzazione di 357 metri di corridoi. Educare i detenuti, in questo caso donne, all’ascolto risvegliando la loro emotività e sfruttando l’effetto benefico che ha la musica sulla psiche. Prosegue a Roma il progetto CO2 “Controllare l’odio”, nato nel 2013 e organizzato dal CPM Music Institute presieduto da Franco Mussida. Sarà proprio l’ex chitarrista della PFM, insieme al frontman dei Tiromancino Federico Zampaglione, ad inaugurare il prossimo 14 dicembre presso la sezione femminile della Casa Circondariale di Rebibbia la sonorizzazione di 357 metri di corridoi, che separano gli spazi detentivi da quelli di colloquio e consultazione, con la musica strumentale tratta dalle audioteche del progetto CO2. L’iniziativa, che può contare sul sostegno della Siae, consiste nell’installazione di speciali audioteche, divise per “stati d’animo”, attualmente presenti in 12 carceri italiane (Milano, Monza, Opera, Torino, Venezia, Genova, Parma, Bologna, Firenze, Ancona, Roma e Napoli). Il percorso sonoro è selezionato dalle detenute e teso al coinvolgimento emotivo attraverso precisi climi musicali e composizioni scritte dallo stesso Mussida. Le donne della Casa Circondariale potranno creare delle playlist personalizzate individuando i brani che ritengono più adatti e conformi per il loro percorso emotivo fra quelli presenti nell’audioteca composta da circa 2.000 brani di musica strumentale, fra cui composizioni orchestrali, colonne sonore, musica classica, pop rock, elettronica e musica etnica. “La musica offerta in modo innovativo come elemento trattamentale nel periodo di detenzione, produce degli straordinari effetti collaterali - racconta Franco Mussida. Il cammino musicale permette alle detenute di creare una calda culla per i propri pensieri, creata dai climi emotivi che esalteranno il potenziale consolatorio e amorevole contenuto nelle composizioni che verranno diffuse, riscaldando emotivamente un luogo di per sé desolato. Inoltre, ci teniamo a sottolineare che questo progetto è nato dal suggerimento del Comandante della Polizia Penitenziaria subito ripreso dalla Direttrice del Carcere, a dimostrazione della sensibilità che questo corpo di sorveglianza ha verso la popolazione detenuta”. L’iniziativa ha ottenuto quest’anno la Medaglia di Rappresentanza del Presidente della Repubblica. Milano: coro dei detenuti canta in Duomo alla Messa dell’Immacolata La Repubblica, 9 dicembre 2017 Ci saranno anche 21 ergastolani del carcere di Opera oggi, a cantare assieme al coro del Duomo, durante la messa che l’arcivescovo Mario Delpini presiederà alle 11 in occasione della solennità dell’Immacolata Concezione. La celebrazione potrà contare sulla consueta animazione curata dalla Cappella musicale del Duomo diretta da don Claudio Burgio. Il canto finale “ Natività”, invece, sarà eseguito da un coro costituito da persone comuni, detenuti e immigrati, che canteranno insieme con l’accompagnamento di 14 musicisti tra violinisti, violoncellisti e clarinettisti. L’iniziativa nasce dal progetto di realizzare anche a Milano una “ Missione Possibile”, dal titolo della trasmissione di Tv2000 condotta da Max Laudadio e dedicata alle imprese compiute da missionari in alcuni dei luoghi più poveri del mondo: da un orfanotrofio di Haiti, dove vivono bambini abbandonati, a un ospedale isolato nel Benin in Africa, dove sono ricoverati 450 pazienti, fino all’Arsenale dell’incontro in Giordania, dove tre sorelle del Sermig di Torino accolgono 250 disabili musulmani. L’idea di cantare in Duomo è stata dello stesso Laudadio: “I 21 ergastolani hanno ottenuto il permesso per uscire dalla cella. Preparando questa iniziativa ho potuto sperimentare emozioni molto forti, la sofferenza dei carcerati, che non possono rimediare al male fatto, ma hanno compreso chiaramente il loro errore, dimostrano volontà di cambiamento e vogliono riscattarsi”. Lunedì, alle 21, invece sarà la cantante Arisa ad esibirsi a favore della Fondazione Rava e dei bambini del Messico in un concerto all’Auditorium di largo Mahler. A questo concerto di Natale parteciperanno un coro di migranti, il coro dei detenuti del reparto “ La Nave” di San Vittore e l’Orchestra dei popoli formata da rom e profughi. Siracusa: liberi di sorridere e volare alla Casa di reclusione di Augusta augustaonline.it, 9 dicembre 2017 08 dicembre 2017 - “Smile and Fly”, sorridi e vola, questo il titolo dello spettacolo che nei giorni scorsi è stato messo in scena nel teatro della Casa di reclusione di Augusta, diretta da Antonio Gelardi, che si conferma una autentica unicità nel panorama carcerario italiano. La notizia infatti è che quello andato in scena è il frutto di un laboratorio teatrale, ideato e diretto da Michela Italia, che ha coinvolto detenuti ristretti in regime di alta sicurezza e i ragazzi delle associazioni Progetto Icaro e ASD Nuova Augusta. Un lavoro di preparazione, lungo e complesso, circa dieci mesi di prove per confezionare un recital ambientato in Sicilia con musiche d’altri tempi. Soddisfatto il direttore Gelardi che nel ringraziare operatori e polizia penitenziaria “per lo sforzo profuso nel portare avanti questo progetto” ha sottolineato “l’unicità nazionale del laboratorio”. Quindi la casa di reclusione di Augusta si conferma laboratorio attivo per un carcere più umano, che offre occasione di riscatto anche per chi ha sbagliato. I detenuti che hanno partecipato, fianco a fianco ai meravigliosi ragazzi con disabilità, commossi a fine spettacolo hanno definito questa come “una delle esperienze piú toccanti della loro vita”. Perché anche i più duri a volte possono sciogliersi a contatto di chi la vita l’affronta quotidianamente a viso aperto, anche nella disabilità. Una lezione di sociologia, di rieducazione e partecipazione attiva che non può passare inosservata. Michela Italia è stata coadiuvata da Salvo Maglitto per le musiche,suonate rigorosamente dal vivo; dalla promessa canora Francesca Ortisi che ha interpretato alcuni brani. Lo spettacolo è stato un concentrato di miniminagghie (tradizionali indovinelli siciliani), cunti, poesie e scenette. “All’interno dello spettacolo - spiega Michela - sono state inserite delle musiche firmate dai Beddi”. Aiuto regia e direttore di scena il giovanissimo Marco Daniele, giá impegnato in spettacoli all’interno della casa di Reclusione per il progetto “Teatro e Legalitá”. Trucco e parrucco a cura di Rita Cocciolo, “fervente sostenitrice del progetto”. “Un ringraziamento speciale - conclude Michela Italia - per il sostegno alla Croce Rossa Italiana nella persona del suo presidente provinciale Francesco Messina e dell’instancabile volontario Biagio Tribulato. Lo spettacolo per la sua forte energia emotiva ha contagiato i presenti trasmettendo la magia che l’incontro tra questi due mondi ha fatto venir fuori. Affetto incondizionato, voglia di ripartire dai propri limiti per essere finalmente liberi. Liberi di sognare, liberi di essere se stessi”. “Manicomio addio”, di Guelfo Margherita di Sarantis Thanopulos Il Manifesto, 9 dicembre 2017 La settimana scorsa al Centro Napoletano di Psicoanalisi è stato presentato “Manicomio addio”, un libro di Guelfo Margherita, psicoanalista con una storia importante nel campo della cura psichica, ex primario dell’ospedale psichiatrico Bianchi. L’autore, protagonista del movimento che ha ridato dignità e diritto di cittadinanza ai reclusi nelle strutture manicomiali, descrive la propria esperienza esponendo i suoi presupposti teorici e clinici. Gli ampi resoconti del lavoro in gruppo, suo strumento privilegiato, ravvivano la memoria di un passato non remoto di passioni - che già appare preistorico nell’ambito della psichiatria attuale - rimettono in scena un patrimonio di curiosità, immaginazione, solidarietà colpevolmente disperso. Erving Goffman (1961) ha definito le grandi strutture manicomiali come “istituzioni totali”: luoghi di residenza e di lavoro di gruppi di persone che, allontanate dalla società per un periodo lungo di tempo, vivono insieme in un regime chiuso e inglobante che si amministra da sé secondo regole proprie. Storicamente la funzione dei manicomi è stata quella di eliminare dalla società il fastidio e l’inquietudine provocati dal disordine della sofferenza psichica più grave e destrutturante e dal suo effetto contaminante, destabilizzante. Un servizio di nettezza urbana del dolore che isolato nelle strutture di reclusione, veniva cloroformizzato, silenziato con tutti i mezzi a disposizione. La cura manicomiale era una pratica violenta, riconosciuta come repressiva, ma supposta necessaria, di uniformazione, spersonalizzazione dell’esperienza, inclusa quella dei suoi operatori, scissi, nell’esercizio della loro funzione, dalla loro identità di cittadini “normali” proprietari di uno spazio privato e di una vita propria. Coperta dalle sue motivazioni di contenimento repressivo, la cura manicomiale svolgeva, contemporaneamente, la funzione di dare forma concreta e legittimazione indiretta all’agire desoggettivante che sottende vaste aree della vita sociale. Le mura dei manicomi rendevano ammissibile la conformazione a un ordine impersonale tra le pratiche di educazione sociale e, al tempo stesso, le negavano un riconoscimento aperto, la nascondevano. Ci si può chiedere se a essere psicotici fossero i pazienti reclusi o piuttosto l’istituzione, come Margherita sostiene. L’affermazione non è eccessiva. I soggetti che impropriamente chiamiamo psicotici, confondendoli con la loro reazione difensiva a forze desoggettivanti che minano precocemente l’integrità della propria esperienza, cercano spontaneamente di riappropriarsi di un senso personale di esistenza, accettando di rompersi. I loro deliri, allucinazioni e comportamenti irregolari, bizzarri mirano a riparare la rottura senza negare le sue ragioni, sono una spinta soggettivante. La loro cura manicomiale, che annullava la loro soggettività, era, invece, psicotica, psicotizzante. Come è accaduto con altre domande di cambiamento sociale dell’ultima parte del secolo scorso, anche la riforma della cura psichiatrica è stata accolta formalmente e tradita nella sostanza. I grandi manicomi sono stati chiusi (anche se sopravvivono in dimensioni minori in varie forme), ma la reclusione, spersonalizzazione della sofferenza è stata introiettata dal corpo sociale. Vive in modo diffuso, più insidioso, in una nuova pratica di soffocamento del sintomo manifesto: l’uso massiccio, rigorosamente sedativo dei farmaci. La compressione pura dell’angoscia che in questo modo si realizza, è del tutto omogenea alla psicosi asintomatica, devitalizzante diventata la più temibile, invisibile, forma di alienazione sociale. I diritti non bastano mai di Emanuela Zuccalà La Repubblica, 9 dicembre 2017 Il 10 dicembre è la Giornata Mondiale per i diritti umani. Dalle nuove povertà alle libertà negate, dalla mancanza di lavoro ai populismi. Emergenze su cui riflettere. Per provare a cambiare. Il grande bilancio è atteso per il 2018, nel 70esimo anniversario della Dichiarazione Universale dei diritti umani. Ma già alla conferenza Onu di Parigi il prossimo 10 dicembre, nella Giornata mondiale dedicata a questo tema, emergeranno le minacce internazionali alla dignità degli individui. Dai soprusi sui migranti alle centinaia di omicidi di attivisti dei diritti umani denunciate da Amnesty International; dai governi dittatoriali alla condanna dell’omosessualità in oltre 70 Paesi, fino all’accesso a istruzione, cibo e cure mediche che per molti resta un miraggio. “Un quadro disastroso”, lo ha definito il Commissario Onu per i diritti umani, il giordano Zeid Ràad Al Hussein. Tra le libertà negate, ce n’è una che è esplosa con la crisi economica globale: la libertà dal bisogno. Quell’indigenza che, per il Relatore Speciale dell’Onu su estrema povertà e diritti umani, Philip Alston, espone a troppe violazioni: stupri, prevaricazioni della polizia, fino alla manipolazione da parte della politica. Se è vero che la miseria s’è più che dimezzata dal 1990, oggi però continua ad affliggere 836 milioni di persone, soprattutto in Asia e Africa. Ma anche l’Europa ne soffre, con oltre 117 milioni di abitanti a rischio d’esclusione sociale. E in Italia, se nel 2005 le famiglie povere erano il 3,6%, oggi raggiungono il 6,3%: 4,7 milioni di individui che non riescono a pagare affitto, cibo, spese per i figli e altri beni e servizi necessari per una vita dignitosa. Con un nuovo allarme tra i giovani: “Per gli under 35, in 12 anni la povertà è quasi triplicata, dal 3,2% al 10,4%”, spiega l’esperto dell’Istat Federico Polidoro. “E tra i minorenni è passata dal 3,9% al 12,5%”. Ci sono poi i working-poor la miseria non è più tipica dei disoccupati, ma ormai riguarda il 12,6% degli operai (contro il 3,9% del 2005) e dei lavoratori autonomi (dal 2,3% al 6,7%). Inedite angustie post-crisi che, inasprendo gli animi, innescano un circolo vizioso di derive liberticide: secondo il centro studi Epicenter, se prima in Europa i partiti neo-fascisti erano appena all’1%, oggi superano il 12% dei consensi, con picchi oltre il 60% in Polonia e Ungheria. Presagi non certo confortanti per la cultura generale dei diritti umani. Ragazzi a lezione di fake news di Federico Taddia La Stampa, 9 dicembre 2017 Un’associazione insegna a scuola gli anticorpi alle bufale del web usando ironia e spirito critico. “Disseminare gli anticorpi per proteggersi dalla cattiva informazione. Partendo dai giovanissimi, offrendo loro gli strumenti di analisi e difesa. Da diffondere poi in famiglia, tra gli adulti e nei contesti relazionali in cui sono immersi”. Non demonizzare la rete, prendere consapevolezza della complessità del fenomeno, capire come agire e reagire: ecco le parole d’ordine anti bufale di Gabriela Jacomella. La giornalista, ricercatrice presso l’Istituto Universitario Europeo di Fiesole e co-fondatrice di Factcheckers, associazione nata poco più di un anno fa per promuovere tra i banchi la cultura del fact-checking. “Non basta spiegare cosa sia una fake-news, bisogna spiegare come riconoscerla e non subirla: la scuola è uno degli ultimi momenti di formazione collettiva, dove si apprendono contenuti e dove si dovrebbe sviluppare senso critico. Ed è quello che ci chiedono i ragazzi: percepiscono la presenza delle fake, sanno che esistono, si stupiscono nel comprendere quando sia facile cadere nella trappole e quali siano le strategie e finalità sottostanti, quasi rimangono smarriti nel rendersi conto che anche davanti ai media tradizionali la guardia non vada mai abbassata. Noi tentiamo di dar loro le chiavi necessarie per smontare le bugie, poi sta a loro scegliere se usarle”. Controllare l’Url: questo è il primo comandamento dell’aspirante fact-checker, come ben spiega la Jacomella nel manuale Il falso e il vero edito da Feltrinelli. L’inganno spesso è nascosto dietro all’indirizzo Internet, simile a quello di testate più autorevoli ma che in verità gioca proprio su impercettibili variazioni. Altro campanello d’allarme è la data di pubblicazione del post: spesso sono articoli riproposti, scaduti e rimessi in giro dopo qualche anno, anche se smascherati, solo con l’intento di creare disordine. E poi occhio al clickbaiting: titoli urlati, allusivi, in maiuscolo, sono specchietti per allodole da tastiera che con un click cedono al richiamo della sirena. “I ragazzi sono molto sensibili al tema economico: quando prendono coscienza del valore di un “like” e del giro di soldi dietro alle fake news alzano notevolmente la loro percezione del pericolo. Non si spaventano però davanti all’ampiezza del problema, anzi preferiscono lo scontro con la realtà alla pacca edulcorata sulla spalla. Arrivano a chiedere “Ma allora non possiamo fidarci di nessuno?”, ed è lì che bisogna spiegare la differenza tra furbizia e autorevolezza, sottolineando che nulla va preso per oro colato”. Verificare le fonti prima di condividere un dubbio diventa quindi necessario e indispensabile. È prezioso il tempo speso per controllare i dati citati, verificare i link connessi, spostarsi anche su altri media e cercando appoggio sia sulle proprie testate di riferimento sia su quelle straniere. Oltre a chiedersi chi ci sia dietro a portali meno noti, cercando i nomi e i cognomi dei referenti. Insospettendosi, e non poco, in caso di assenza di responsabili identificabili. “Velocità, viralità, libertà: sono parole che tornano tantissimo nei nostri incontri e sono ancora la forza e la debolezza della rete. Un concetto su cui insistiamo molto con i ragazzi è quello di pensare oltre l’algoritmo. Prendono così cognizione che i social tendono a farti vivere in una bolla dove le persone che stanno attorno a te sono simili a te”. Di “Mi piace” in “Mi piace” ci si trova quindi linkati con chi ha gusti sintonizzati, con chi ha profili assonanti, con chi ha idee e frequentazioni non così differenti: viene quindi meno il confronto, la diversità di opinioni e si crede che il proprio mondo coincida con l’intero mondo. “Ecco perché va sollecitato lo sforzo di mettere il naso al di fuori della propria cerchia di amici virtuali”. L’attenzione ai Bot, ovvero alla presenza di finti profili gestiti da software e capaci di generare in maniera sospetta migliaia di like, cuoricini e condivisioni in pochi minuti, così come immagini esageratamente bizzarre o provocatorio, e comunque verificabili su appositi siti, sono un altro paio di dritte preziose. Che si chiude con l’invito a frequentare altri fact-checker, per scambiarsi informazioni e controllare che la notizia incriminata non sia già stata “sbufalata”. “Poi non bisogna dimenticare che i giovani vanno anche in cerca di leggerezza, un diritto che va tutelato. Così come la satira, che può essere un mezzo formidabile per contrastare le fake. La buona satira è quella che si fa riconoscere, non è ambigua gioca a carte scoperte. Non ha bisogno della truffa per acchiappare un sorriso e attivare la mente”. India. Un altro giornalista ucciso, il terzo in tre mesi di Alessandra Muglia La Repubblica, 9 dicembre 2017 Dopo l’ascesa al potere del partito dei nazionalisti indù guidato da Modi si sono moltiplicate le aggressioni verso i reporter. Cinque pallottole e Navin Gupta si è accasciato in una pozza di sangue. È l’ultimo reporter ucciso in India silenziato dai proiettili di centauri senza identità. È stato freddato tre ragazzi in motocicletta, poi svaniti nel nulla, mentre usciva dal negozio di famiglia, a Kanpur, cittadina dell’Uttar Pradesh. Lui, però, 35 anni, una moglie e un figlioletto di 4, al commercio aveva preferito il giornalismo: da 8 anni lavorava per il quotidiano Hindustan, scritto in hindi. Le altre vittime - Si allunga così la macabra lista dei giornalisti ammazzati in India. Almeno sette quest’anno, di cui tre brutalmente uccisi in strada negli ultimi tre mesi: Shantanu Bhowmick, massacrato a coltellate il 20 settembre mentre si stava occupando delle violenze tra polizia e fazioni politiche nel remoto stato nordorientale di Tripura; dove anche Sudip Datta Bhaunik è stato freddato a bruciapelo da un agente di sicurezza delle forze paramilitari. Il caso più eclatante è stato quello di Gauri Lankesh, assassinata il 5 settembre davanti a casa sua a Bangalore dopo essere stata ripetutamente minacciata per il suo lavoro sul nazionalismo indù e la condizione delle donne in India. Dirigeva un piccolo giornale locale che portava il suo nome - fondato dal padre, poeta, giornalista e intellettuale- schierato contro l’estremismo induista e le ingiustizie di casta e di genere. In fondo alla classifica - A maggio un rapporto di Reporters Sans Frontières ha classificato l’India 136esima su 180 paesi nella lista sulla libertà di stampa: una perdita di tre posizioni rispetto all’anno precedente. Gli analisti sottolineano che da quando al governo è salito il partito nazionalista indù Bjp guidato da Narendra Modi la vita per chiunque voglia esprimere una idea diversa da quella imposta è diventata difficile. Si sono moltiplicati gli attacchi, le pressioni, le aggressioni nei confronti dei giornalisti. E sta crescendo l’autocensura tra i media mainstream. Iran. Colpevole di aver fatto un film. Privato del passaporto, rischia sei anni di carcere di Angelica Ratti Italia Oggi, 9 dicembre 2017 Agli arresti domiciliari in Iran il regista Mohammad Rasoulof, autore di “Un uomo integro”. Il regista iraniano, indipendente, Mohammad Rasoulof, autore del film “Un uomo integro” premiato all’ultimo festival di Cannes, nella sezione “Un certain regard”, è finito vittima della censura del regime di Hassan Rouhani. E si trova agli arresti domiciliari nel suo paese con l’accusa di aver fatto un film che accusa di corruzione tutta la società della Repubblica islamica che nel film ne è invasa come avesse una cancrena. Il film è un thriller kafkiano: protagonista è Reza, un allevatore ittico che ha la sua attività lontano da Teheran e che finisce nelle mani dei corrotti. A settembre, quando Rasoulof è rientrato in Iran, a conclusione della sua tournée internazionale, non ha fatto in tempo a mettere piede nell’aeroporto del suo paese che immediatamente gli è arrivata addosso la polizia che gli ha subito confiscato il passaporto e lo ha interrogato per due ore. Due giorni più tardi, i guardiani della rivoluzione l’hanno convocato nell’ambito dell’inchiesta che è stata aperta su di lui. Rischia sei anni di carcere per i due reati che gli vengono imputati: attentato alla sicurezza nazionale e propaganda contro il regime. Le Figaro è riuscito ad intervistarlo. Mohammad Rasoulof ha raccontato di attendere di essere convocato per il prossimo interrogatorio. E che la sua situazione è abbastanza vaga. Il suo, ha detto, è un processo di logoramento. Le indagini sono in corso e appena il fascicolo sarà chiuso il regista dovrà comparire in tribunale. “In Iran sono come nel mirino di un cecchino”, ha dichiarato a Le Figaro. Non è la prima volta che il regista viene messo sotto inchiesta. La storia del film era stata sottoposta all’esame della censura che aveva dato l’autorizzazione a girare, ha raccontato. Una volta ultimato serviva una secondo ok per l’uscita del fi lm, cosa che non è mai arrivata. E questo perché, ha spiegato Rasoulof, non si ha a che fare con una dittatura monolitica coerente, ma con un sistema autoritario che utilizza e snatura gli strumenti della democrazia per imporre la propria volontà. Il fi lm, dunque non è stato girato in maniera clandestina, eppure il regista si è tirato addosso la scure dei guardiani della rivoluzione. Inoltre, nonostante il film sia stato presentato a Cannes, le autorità fanno di tutto per limitare la diffusione dei film di Rasoulof all’estero. Sul fronte interno, il boicottaggio è totale, ha raccontato il regista a Le Figaro. Il suo nome non può neppure essere pronunciato. Il sostegno che gli arriva dall’estero è la sua salvezza. Il protagonista del film, Reza, è emblematico: si capisce perché la gioia di vivere l’abbia abbandonato. Reza, secondo quanto ha raccontato il regista di Un uomo integro, ha deciso di isolarsi completamente e ha scelto di tenersi lontano da tutto per occuparsi del proprio allevamento di pesci e della sua famiglia. Ma il sistema lo riacciuffa. La corruzione è dovunque, a tutti i livelli, denuncia il film. Qualunque cosa si faccia, e Reza non può sfuggirle. Il protagonista insorge contro l’ipocrisia. Si rifugia in una grotta, dove beve alcolici che si distilla da solo. In Iran, ha raccontato il regista, una parte considerevole della popolazione, musulmana e non, non solo consuma alcol ma si produce da bere da sola, in maniera artigianale. Questa ipocrisia si ritrova a tutti i livelli della società. Reza rivela questa ipocrisia. La cultura musulmana non è fondamentalmente ipocrita, ha sostenuto il regista, che afferma trattarsi di una decadenza sociale. Oggi in Iran, ha dichiarato a Le Figaro, lo sprofondamento morale è totale. Così, Rasoulof ha messo in scena nel film una società dove tutti sorvegliano tutti. E il regista compara la situazione in Iran con quella della Romania di Ceausescu, dove ciascuno è oppresso e al tempo stesso oppressore. E il regime non ha gradito. Congo. Attacco ai caschi blu dell’Onu: 14 morti e 40 feriti La Repubblica, 9 dicembre 2017 Guterres: “È il peggiore della storia recente”. Almeno 14 uomini dei caschi blu dell’Onu sono rimasti uccisi in un attacco avvenuto ieri sera nella Provincia del Kivu Nord, nella Repubblica Democratica del Congo. Altri 40 uomini sarebbero rimasti feriti, 4 dei quali in modo grave. A riferirlo è stato un responsabile delle Nazioni Unite che ha preferito rimanere anonimo. Sulle milizie responsabili dell’aggressione non si hanno ancora notizie. Immediata la reazione del segretario generale dell’Onu Antonio Guterres: “Condanno questo attacco senza riserve e chiedo alle autorità del Congo di portare i colpevoli alla giustizia”. “È il peggiore attacco ai caschi blu della storia recente”, ha continuato il segretario. Su Twitter si è espresso anche il sottosegretario generale dell’Organizzazione Jean-Pierre Lacroix, che si è detto “indignato” dall’attacco ma non ha identificato gli autori. Nell’incursione sono rimasti uccisi anche cinque soldati dell’esercito congolese. La missione Onu di peacekeeping in Congo, conosciuta con l’acronimo di Monusco, è la più grande del mondo. Iniziata nel 2010 - come riportato sul sito della missione - per tentare di porre un argine ai conflitti tra i numerosi gruppi armati che si contendono il territorio nel grande paese centroafricano, ricco di risorse minerarie. Proprio ieri Human Right Watch aveva diffuso un comunicato in cui denunciava la situazione catastrofico del Paese, in particolare dell’alto livello di violenza presente in quella regione orientale. “Il conflitto nell’est del Congo”, dove si trova Kivu Nord, “è stato esacerbato dalla crisi politica generale del Paese”, si legge nel testo diffuso da Hrw. Il riferimento è alle forti tensioni politiche e di sicurezza che scuotono la Repubblica democratica del Congo (Rdc) in seguito al rifiuto del presidente Joseph Kabila di tenere elezioni quando il suo mandato terminò circa un anno fa. La Commissione elettorale in ottobre ha annunciato che non sarà possibile andare alle urne prima dell’aprile 2019, creando ulteriore tensione attorno al presidente che è salito al potere dopo l’uccisione del padre nel 2001. Il governo ha proibito manifestazioni dell’opposizione da quando, l’anno scorso, le forze di sicurezza uccisero decine di manifestanti che chiedevano la dimissioni di Kabila. La complessità del conflitto congolese è attestato dall’esistenza, secondo Hrw, di 120 gruppi armati in solo due delle 26 province del paese.