Ergastolo, perché va abolita la pena che “non esiste” di Maria Luisa Boccia Il Manifesto, 8 dicembre 2017 “Abbiamo un sogno: l’abolizione dell’ergastolo in Italia. Con l’ergastolo, la vita diventa una malattia, e gli ergastolani non vengono uccisi, peggio, sono lasciati morire. Molte persone pensano che la pena dell’ergastolo non esista, quindi è inutile toglierla. Ma se non esiste, perché c’è? Molti non sanno che con questa terribile condanna si raggiunge il confine dell’inesistenza perché la vita non vale più nulla e viene resa peggiore della morte”. Con queste parole si apre la Campagna “Digiuna per la vita”, di cui Il Manifesto ha dato notizia martedì 5 dicembre nella rubrica delle lettere. A me hanno ricordato la campagna “Mai dire mai”, promossa da ergastolani nell’autunno 2007. Consisteva in una lettera al Presidente della Repubblica, di poche righe. “Io - seguiva il nome - chiedo che la mia condanna sia tramutata in pena di morte, perché sono stanco di morire un poco ogni giorno”. Il presidente Napoletano rispose, rinviando al Parlamento di intervenire nel merito. Senza alcun seguito, non certo per la rapida fine della legislatura. Oggi come allora sono gli ergastolani a porre con forza ed intelligenza la questione dell’abolizione dell’ergastolo. Ed oggi, come allora, dobbiamo innanzitutto sconfiggere un fantasma: quello che l’ergastolo non esiste. Che il “fine pena mai” è soltanto una condanna simbolica, ma di fatto, non la patisce nessuno. È il principale argomento contro l’abolizione dell’ergastolo. Del tutto falso, serve ad alimentare l’allarme sociale: la richiesta di pene certe, sempre più alte e severe, necessarie per contrastare i crimini, per la sicurezza di tutti e tutte. Insomma le leggi devono prescrivere più reati e più carcere, anche più ergastolo; i giudici devono emettere sentenze più severe; le condanne devono essere applicate senza sconti. Come scrisse Patrizio Gonnella anni fa, su queste pagine, si vorrebbe trasformare tutti i detenuti in ergastolani. Oggi questo messaggio, di allarme è diventato martellante. Incapace di governare la crisi sociale, rimuovendone le cause, ricreando legami e convivenza e garantendo qualità della vita, la politica si aggrappa al nocciolo duro dello Stato minimo, quello del monopolio della forza. Riduce il patto tra governanti e governati allo scambio tra libertà e sicurezza. Si rinuncia alla prima, in porzione più o meno grande, in cambio della promessa di sicurezza. Non importa se la paura e l’insicurezza invece di ridursi si dilatano. Quello che conta è orientarle verso la minaccia rappresentata dall’altro. Da chi è “straniero”, il e la migrante, o da chi è “estraneo”, il diverso, l’ anormale. Da chi ha commesso un reato, e di conseguenza è portato al crimine. Non si tratta, ovviamente, di negare responsabilità e gravità dei reati, per i quali è adottata la pena dell’ergastolo. Ma di chiedersi se è la giusta pena. Se vi è reato, per quanto efferato, che possa motivare la reclusione a vita. Quel “mai” che annulla il corso del tempo, lo congela. E con esso, l’esistenza di uno - più raramente di una - di noi. È una domanda che a molti e molte appare astratta, per non dire priva di senso. Il primo ostacolo, per farne una domanda sociale, è l’isolamento del carcere. Per lo più, infatti, si ignora cosa avviene dentro il carcere, come si vive la pena. È sufficiente sapere che il colpevole è recluso, che quella porta non si aprirà. Semmai interessa la macabra contabilità dei costi e benefici. Quanto ci costano le carceri piene, e quanto spendiamo per ogni ergastolano. Quanti sono gli ergastolani e quanti di loro scontano per intero la pena. Né interessa ai più che l’ergastolo contrasta con il fine della pena, scritto nella Costituzione italiana, di riabilitazione e reinserimento sociale del condannato/a. Più in radice, la pena non dovrebbe mai essere lesiva della dignità della persona. Dovrebbe essere proporzionata, per quantità e qualità. Diversamente dal reato, che può essere disumano nella sua efferatezza, la pena non può essere né crudele né disumana. In quanto privazione illimitata di libertà l’ergastolo è una pena più crudele della pena di morte. È una condizione di vita disumana. Si può vivere per sempre reclusi, senza essere privati di umanità? Come si vive senza nessuna possibilità di ritrovare i rapporti, gli affetti, la comunicazione e gli scambi con gli altri esseri umani, non reclusi, e con il mondo? Le parole degli ergastolani, raccolte nell’appello per la Campagna digiuna per la vita, descrivono cos’è , nella quotidianità, la pena senza fine. Quanto sia privo di senso vivere, se non si può neppure immaginare un domani. Di questo dovremmo parlare, per porre, in concreto, il problema dell’abolizione dell’ergastolo. Dovremmo guardare alle singole vite deprivate per sempre di dignità umana. Se anche fossero poche, pochissime, sarebbe comunque un costo troppo alto. Se anche una sola vita patisce una pena disumana, questo è in contrasto ad ogni principio di giustizia e deve interessarci. Perché è colpito un bene indivisibile qual è la libertà personale. Dovremmo parlare all’amore per la libertà che è in ogni essere umano. Trovare il modo di parlare dell’ergastolo non con il linguaggio del diritto ma con quello della vita. Perché di vite concrete, di persone incarnate si tratta. Il digiuno dei detenuti contro la pena dell’ergastolo: domenica, 10 dicembre 2017 camerepenali.it, 8 dicembre 2017 L’Osservatorio Carcere dell’Unione delle Camere Penali Italiane aderisce al digiuno contro la pena dell’ergastolo in occasione dell’anniversario della dichiarazione dei diritti umani. Molti detenuti ed ergastolani, domenica prossima 10 dicembre, attueranno, in occasione dell’anniversario della Dichiarazione dei Diritti Umani, un digiuno contro la pena dell’ergastolo. L’iniziativa è organizzata dall’Associazione “Liberarsi Onlus” per ricordare alla classe politica e all’opinione pubblica che in Italia esiste la “Pena di morte nascosta”, come ha dichiarato, tra gli altri, anche Papa Francesco. L’abolizione dell’ergastolo ostativo è una delle tante battaglie dell’Unione delle Camere Penali Italiane e l’Osservatorio Carcere, nel partecipare all’iniziativa, invita tutti i penalisti ad aderire collegandosi al sito www.liberarsi.net. L’Osservatorio carcere Ucpi Presidi di solidarietà per l’abolizione dell’ergastolo Ristretti Orizzonti, 8 dicembre 2017 Domenica 10 dicembre, per l’anniversario della dichiarazione universale dei diritti umani, migliaia di detenuti e tutti gli uomini ombra, digiuneranno per affinché l’ergastolo, la pena di morte in vita, possa essere cancellato per sempre dal nostro ordinamento. Una barbarie giuridica e soprattutto una vergogna umana. Assieme agli ergastolani digiuneranno familiari, intellettuali, artisti, attivisti, semplici cittadini per dare voce e dignità ad una lotta che da troppi anni viene strumentalizzata dalla politica per alimentare la fabbrica penale nell’indifferenza di buona parte della società che, ancora oggi, è convinta che l’ergastolo equivale a 25 anni di carcere. L’ergastolo è la condanna più crudele che la mente umana possa aver concepito, più crudele dei delitti stessi che prevedono questa condanna. Una condanna senza tempo che rende vano qualsiasi tentativo di cambiamento o di rielaborazione critica della propria vita, dei propri crimini, delle ferite aperte in una società che non si ferma a riflettere sulle devastazioni sociali, prima ancora che ambientali, che sono state perpetrate al sud. Territori dove la presenza dello Stato si manifesta solo in divisa o con amministratori abbuffini che continuano a ricattare la gente e a speculare sui bisogni, creando miseria economica ed umana. Ed è proprio qua che anche le mafie e le c.d. criminalità organizzate trovano terreno fertile. Quelle riconosciute come tali e quelle dei colletti bianchi che pure all’ergastolo non ci finiranno mai. Alla retorica securitaria tripartisan fa troppo spesso da cornice un’antimafia di sola facciata che ha costruito l’ennesimo carrozzone che recita da oltre 25 sempre lo stesso copione funzionale alla gestione della paura e delle politiche penali. Le poche voci libere, che si “sporcano le mani” realmente (dentro e fuori le carceri) cercando di costruire alternative concrete, non hanno spazio. Quasi fosse un disegno preordinato, un circolo vizioso dove si rincorrono fatti e luoghi, dove si bruciano vite da vittime o da carnefici. Assassino o vittima del proprio fratello di strada. Fratelli di sangue che dovrebbero lottare assieme alla propria gente per un riscatto reale del sud. Lottare assieme per la giustizia sociale, sottraendosi aprioristicamente ai meccanismi perversi di un potere malato che porta morte e galere per la gente del sud. Domenica all’esterno dei penitenziari di Cosenza, Bari e Napoli si terranno dei presidi di solidarietà per rendere visibile lo sciopero della fame dei detenuti, per dare voce alle ragioni di questa lotta. A Cosenza l’appuntamento è per le 12 di domenica sotto il carcere di via Popilia, a Bari alle 11 e a Napoli dalle 10 sotto il carcere di Secondigliano. Non lasciamoli soli! Cosenza contro il Carcere Non Solo Marange - Collettivo di mutuo soccorso Bari Liberiamoci dal carcere - Napoli Più diritti ai figli dei detenuti, i piccoli invisibili delle carceri di Tania Careddu Left, 8 dicembre 2017 Fuori da un carcere italiano, alle otto di mattina, sembra una scuola. Una fila di bambini aspetta di incontrare la mamma o il papà detenuto. Sono circa centomila, preadolescenti e piccoli sopra i quattro anni. Perché fino a tre, se a essere reclusa è la mamma, possono stare in carcere con lei. Una norma che, però, è rimasta come un refuso nel varo della legge 62 del 2011, la quale, stabilendo, in maniera sacrosanta, che una mamma con un figlio di età che non superi i sei anni, non debba scontare la pena in carcere e se è reclusa debba essere scarcerata, contempla l’estrema ratio della detenzione in casi particolari e mantiene, di fatto, le cose invariate, nonostante la stessa legge preveda l’istituzione di case famiglia protette (solo due in Italia) per il soggiorno di mamme ree con figli e le Icam, istituti a custodia attenuata per madri (a Milano, Torino, Venezia, Senorbì e Lauro). E dei bambini che dai genitori, generalmente il papà, sono separati dalle mura carcerarie, vanno definiti i diritti. “Tutelare i figli dei genitori detenuti - dichiara a Left, la presidente di Bambinisenzasbarre, che da quindici anni si occupa di questo tema, Lia Sacerdote - non è una questione di buoni sentimenti. Per questo, nel 2014 rinnovata nel 2016, è nata la Carta dei figli di genitori detenuti, la prima in Europa, che la nostra associazione ha firmato con il ministro della Giustizia Orlando e la Garante nazionale dell’infanzia e dell’adolescenza”. Dopo che l’Europa ha condannato l’Italia, per ben tre volte, per il mancato rispetto dei diritti umani nelle carceri, negli ultimi tre anni, c’è stata un’accelerazione verso una definizione chiara dei diritti e in direzione di un cambiamento degli istituti di pena. “Dal canto nostro, è necessario sensibilizzare il carcere affinché accolga in modo adeguato questi bambini perché non rimangano invisibili e la società civile per contrastare l’emarginazione di questi minori, condizione che aumenta per il loro rischio di devianza”, spiega Lia Sacerdote. Altrimenti, il circolo vizioso diventa infrangibile: legato alla marginalizzazione, il carcere diventa un destino ineluttabile. Perciò, quello dei figli dei detenuti “è un tema sensibile, di prevenzione sociale - precisa la presidente di Bambinisenzasbarre - e tutelare il mantenimento del legame affettivo fra genitori reclusi e figli diventa un loro diritto da rispettare ma anche strumento di protezione”. Perché “è nella continuità del rapporto che i bambini riescono a elaborare la reale separazione necessaria per crescere”, aggiunge Lia Sacerdote. Per attenuare l’impatto con un ambiente potenzialmente traumatico e consentire ai piccoli di orientarsi dentro le carceri, l’associazione ha creato lo ‘Spazio Giallo’ che è “un sistema di accoglienza, attenzione e cura delle relazioni famigliari in detenzione con al centro l’interesse del bambino” e contribuisce al processo di trasformazione degli istituti penitenziari (sulla scia del quale e in applicazione della Carta italiana, il 13 dicembre prossimo, il Ministero di giustizia Dap, promuove in collaborazione con l’associazione un programma pilota di formazione destinato alla polizia penitenziaria per l’accoglienza dei bambini). Questi temi sono al centro della Campagna nazionale di sensibilizzazione di Bambinisenzasbarre “Dona un abbraccio” e dell’iniziativa “La partita con papà” che si svolge nelle carceri di tutto il territorio nazionale, con il sostegno del ministero della Giustizia-Dap: per i bambini, che si trovano a pagare per un crimine non commesso, è un momento per ritrovare una “normalità” e per la società potrebbe essere un modo di superare i pregiudizi e dare un calcio alle stigmatizzazioni. Dell’Utri resta in cella. “Mi vogliono morto, smetto di nutrirmi” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 8 dicembre 2017 Per il Tribunale di Sorveglianza è compatibile col carcere. L’ex senatore di Fi sta scontando una pena a 7 anni per concorso esterno nonostante sia cardiopatico e malato di tumore alla prostata. “Preso atto della sentenza di rigetto con cui il tribunale decide di lasciarmi morire in carcere, ho deciso di farlo di mia volontà adottando, da oggi, lo sciopero della terapia e del vitto”, così ieri ha annunciato Marcello Dell’Utri dal carcere di Rebibbia. Un duro annuncio dopo aver appreso che il tribunale di sorveglianza ha respinto la richiesta di riconoscere l’incompatibilità con il regime carcerario per motivi di salute, motivando che l’ex senatore può curarsi in carcere. L’avvocato difensore Alessandro de Federicis spiega a Il Dubbio che “Dell’Utri non ce la fa più, il suo è un segnale anche per gli altri detenuti per questa finta efficienza dove si dice che si può fare tutto in carcere, ma poi la gente non viene curata”. Sì, perché i magistrati di sorveglianza dicono che può fare in carcere perfino la radioterapia. “Eppure - spiega l’avvocato - in casi analoghi è stata esclusa una decisione del genere, visto che per fare la radioterapia, il carcere non è assolutamente l’ambiente adatto”. Questo è lo stato di diritto? L’avvocato de Federicis spiega che no, questa decisione è una follia: “Lo Stato vuole mostrare la sua faccia feroce”. La decisione è arrivata nel primo pomeriggio di ieri, dopo che nell’udienza del 5 dicembre il tribunale aveva preso tempo per deliberare. Ma il sentore di una scelta del genere era già nell’aria, quando, nel corso dell’udienza del 5, il Procuratore Generale di Roma, Pietro Giordano, aveva dato parere negativo alla scarcerazione di Dell’Utri sostenendo di credere alla perizia del tribunale, redatta dal medico legale Alessandro Fineschi e dal cardiologo Luciano De Biase, che avevano sostenuto la tesi secondo cui Dell’Utri dopo le cure mediche del caso sarebbe potuto tornare in carcere. Eppure parliamo degli stessi periti nominati dal sostituto procuratore che avevano comunque dato un parere scritto in cui si dichiarava l’incompatibilità tra lo stato di salute e la carcerazione dell’ex senatore. La stessa relazione dei periti, tra l’altro, indicava anche 5 strutture alternative al carcere: 3 a Roma e 2 a Milano. Ma niente da fare, per il tribunale di sorveglianza, Dell’Utri può rimanere in carcere, esattamente nel reparto G14 di Rebibbia, proprio il luogo che il garante nazionale dei detenuti Mauro Palma visitò a giugno scorso. Fu lì che il Garante ebbe modo di incontrare Dell’Utri e riscontrare la sue evidenti precarie condizioni fisiche. Proprio per quel motivo, Mauro Palma, espresse “seria preoccupazione per le condizioni evidenziate in atti documentali” auspicando che ogni decisione da parte della Magistratura di sorveglianza, “non andasse al di là di tempi ragionevoli, al fine di tutelare, qualunque sia la forma che verrà decisa, la sua salute, che referti medici riportano come particolarmente critica”. Da tempo si era parlato di incompatibilità con il carcere per le sue precarie condizioni fisiche. Per questo motivo, più di un anno fa, i legali dell’ex senatore avevano depositato in tribunale una dettagliata istanza per chiedere l’incompatibilità del loro assistito con la detenzione carceraria. Solo che il tribunale di sorveglianza si era riunito per la prima volta a settembre del 2016 e, tra un’udienza rinviata e l’altra, la decisione è arrivata ieri. Una decisione che però non fa i conti con la realtà, perché oltre alle gravi patologie come la cardiopatia, nell’ultimo periodo a Dell’Utri è stato anche diagnosticato un tumore alla prostata. Ricordiamo che Marcello Dell’Utri sta scontando una condanna per il delitto di concorso esterno in associazione mafiosa arrivata dopo un procedimento interminabile, cominciato nel 1994 e concluso nel 2014. La sua carcerazione era stata criticata perché considerata una forzatura per le stesse ragioni per cui la giustizia europea ritenne forzata quelle di Bruno Contrada, il quale non andava condannato per concorso esterno perché all’epoca dei fatti il reato non esisteva. Un reato, tra l’altro, che non esiste nel diritto penale ed è stato ricavato dal combinato disposto dell’art. 110 e 416- bis del codice penale. A maggio del 2016, l’ex senatore, dal carcere duro di Parma fu trasferito a quello romano di Rebibbia. Dopo l’arrivo nella capitale, Dell’Utri era stato aggredito da una violenta setticemia, causata da un’infezione alle vie urinarie, e la sua salute era precipitata. Si era temuto per la sua vita e così si era reso necessario il ricovero in ospedale, al Sandro Pertini. Qui Dell’Utri è rimasto per quasi un mese finché non si è ripreso. Poi è tornato a Rebibbia, nel reparto di infermeria. Il quadro clinico non è sempre stato dei migliori. Ha 75 anni, soffre di diabete, ha problemi al cuore e, come già detto, ha un tumore alla prostata. Quando era a Parma, la situazione clinica era già precaria. Per via della sua condanna, viveva in regime di alta sicurezza che prevede che si possano fare solo due ore d’ aria al giorno durante le quali lui poteva camminare, sempre in isolamento, in una vasca di cemento di sette metri per sette con mura alte sei metri. Un regime poco più tenue del 41 bis, dove, tra le altre cose, gli veniva illegittimamente censurata la corrispondenza: proprio cinque giorni fa la Cassazione ha accolto un ricorso di Marcello Dell’Utri nel quale contestava tale censura. Ora da più di un anno è a Rebibbia e secondo i magistrati è lì che deve rimanere. Dell’Utri rifiuta il cibo e le terapie: “voglio lasciarmi morire in cella” di Felice Cavallaro Corriere della Sera, 8 dicembre 2017 La protesta dopo il no dei giudici del Tribunale del Riesame alla scarcerazione per motivi di salute. “Mi vogliono morto. E allora decido di farlo di mia volontà, adottando lo sciopero della terapia e del vitto”. Né medicine né cibo. Pronto a lasciarsi morire in cella. È l’ultima frontiera della vita di Marcello Dell’Utri che, dopo il rifiuto opposto dal procuratore generale e dal Tribunale del riesame alla scarcerazione per motivi di salute, ieri ha fatto echeggiare la sua sfida dalle mura di Rebibbia: “Mi vogliono morto. E allora decido di farlo di mia volontà, adottando lo sciopero della terapia e del vitto”. “Non ce la faccio più” - Rabbia e amarezza rimbalzano attraverso gli avvocati: “Non ce la faccio più, sono provato, stanco. Basta, non mangio e non mi curo più...”. È l’ultima prova di “un uomo vecchio e malato”, come lo descrivono i suoi amici, costretto a girare in continuazione da un ospedale all’altro per il cuore che non va con i suoi quattro stent e soprattutto per un tumore alla prostata. Ultima prova di un uomo di 76 anni condannato definitivamente a 7 anni di carcere nel 2014, estradato dopo una breve fuga in un ospedale di Beirut, recluso con questa somma di patologie che per familiari, avvocati e periti di parte sono incompatibili con la detenzione. Guerra di periti - Ma sembra essersi scatenata anche una guerra di periti sul destino del manager che Silvio Berlusconi scelse come braccio destro nelle avventure imprenditoriali e nella nascita di Forza Italia segnata, secondo le sentenze emesse a Palermo, da un peccato originale. Quello di una trattativa Stato-mafia che 25 anni dopo le grandi stragi è materia di un discusso processo senza fine. Con Dell’Utri alla sbarra con uno stuolo di mafiosi, politici e perfino ufficiali dei carabinieri come il generale Mario Mori. Il pg e il tribunale - Ad opporsi in modo deciso alla “richiesta di differimento dell’esecuzione della pena per grave infermità fisica” è stato il procuratore generale Pietro Giordano. Ma contro il parere degli stessi consulenti del suo ufficio, che si erano espressi per la incompatibilità tra le condizioni cliniche e lo stato detentivo, affidandosi piuttosto ai rilievi dei periti del tribunale, certi che Dell’Utri possa continuare a essere curato in cella. Non solo, il collegio ha anche bacchettato i consulenti della Procura perché si sarebbero limitati a valutare telefonicamente le conclusioni dei periti del tribunale. I familiari - Deduzioni che lasciano sgomenti la moglie Miranda Ratti, il figlio Marco, il fratello gemello Alberto, gli stessi legali: “Non vorremmo che il provvedimento del tribunale avesse ripercussioni psicologiche gravi sul detenuto”. Ma non convincono anche una schiera di amici che non ha mai creduto alle gravi accuse dei pentiti e alle ricostruzioni dei pm, compresi molti parlamentari che evocano il senso di umanità. Anche con un appello al ministro della Giustizia, al presidente della Commissione diritti umani Luigi Manconi e al capo dello Stato, come fa il coordinatore nazionale del Nuovo Psi Antonio Fasolino. Si levano proteste e appelli dall’avvocato Niccolò Ghedini, da Daniele Capezzone, da deputati come Elio Vito o Michaela Biancofiore, che sottolinea “accanimento politico-giudiziario e fumus persecutionis”. Contrariamente al verdetto di giudici che concludono “per la compatibilità con il carcere non emergendo criticità o urgenze tali da rendere necessario il ricorso a cure o trattamenti non attuabili in regime di detenzione”. Nonostante la Corte europea dei diritti umani avesse chiesto a Roma di valutare il caso per escludere rischi di “trattamenti inumani e degradanti”. Patrizio Gonnella: “Italia malata d’odio, nessuno deve morire in carcere” di Giulia Merlo Il Dubbio, 8 dicembre 2017 “La pena nei confronti di chiunque, non solo nei confronti dell’ex parlamentare, deve essere mite, umana, ragionevole. e mai vendicativa”. “Il principio vale per tutti: nessuno deve morire in carcere”. Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone, una Ong che si occupa della tutela dei diritti e delle garanzie del sistema penale e delle carceri, commenta il rigetto dell’istanza di sospensione della pena per Dell’Utri e descrive la parabola in atto in Italia: “La nostra società si sta ammalando dell’idea che tutti debbano pagarla, senza guardare alle storie e nemmeno alle malattie”. Presidente, l’ha sorpresa la decisione del Tribunale di Sorveglianza? Guardi, se le dicessi di sì questo significherebbe un pregiudizio da parte mia nei confronti del giudici. Invece, quando una decisione si muove sul terreno delicato della vita e della salute, io spero che le scelte di giustizia siano prese senza risentire del clima circostante. Ma secondo lei una influenza c’è stata? Mi limito a dire che ci sono tantissimi casi - e la nostra associazione ne segue molti - di persone anche meno note di Dell’Utri, in cui si respira un’aria di pressione dell’opinione pubblica esterna sui tribunale. Bisogna vedere se anche nel caso di Dell’Utri si è verificato questo. Il caso di Dell’Utri è particolare perché le perizie di parte e del tribunale erano concordi nel ritenere il suo stato di salute incompatibile con la vita carceraria. Io credo che nessuno debba essere trattato meglio degli altri, ma nessuno debba nemmeno essere trattato peggio. La giustizia deve essere uguale per tutti: se, come hanno detto medici e periti della procura, la malattia cardiaca determinava l’incompatibilità, ci si aspettava che questa venisse riconosciuta. Io immagino, infatti, che i medici abbiano certificato il vero nelle loro perizie e il fatto che i loro pareri siano stati concordi è un elemento oggettivo. Eppure così non è stato. La pena nei confronti di chiunque, non solo di Dell’Utri, deve essere mite, umana, ragionevole e mai vendicativa. Invece, si sente un sapore di vendetta. La posizione di Antigone è chiara: nessuno deve morire in carcere, lo abbiamo detto anche per Totò Riina e lo ripetiamo in questo caso. E ora che cosa succederà? Immagino che la partita giudiziaria non finisca qui e che gli avvocati di Dell’Utri chiedano il differimento della pena, usando tutte le vie del diritto interno per far riconoscere il diritto alla salute del detenuto. Parallelamente, esiste il percorso davanti alla Corte europea. Sul piano teorico, ritorna la questione del bilanciamento del diritto alla salute con il potere dello stato all’esecuzione della pena. Sono state scritte moltissime sentenze, sia delle corti interne che di quelle europee, che stabiliscono che prima del potere di punire viene il rispetto della dignità umana. Cassazione, Corte Costituzionale e Corte Europea hanno chiarito che non si può punire quando la punizione può mettere a repentaglio la vita della persona. È un dato inequivocabile, sancito dall’articolo 32 della Costituzione e dall’articolo 3 della Convenzione europea. Questa è la modernità, piaccia o non piaccia a chi facilmente prende posizione. Il caso di Dell’Utri è diventato un po’ un tabù, almeno per la politica? Questa è una questione che non dovrebbe riguardare la politica. È evidente che in campagna elettorale tutto si enfatizzi, ma la politica è debole quando dimostra di usare singole persone come incarnazione del male assoluto. Politica e giustizia non dovrebbero mai incontrarsi, tuttavia oggi è in atto un circolo vizioso enfatizzato dai media e dal web. Forse a influenzare la decisione è stato il reato per cui Dell’Utri ha subito la condanna a 7 anni di carcere: concorso esterno in associazione mafiosa? Non so dire se questo abbia influito, ma non è il punto. Uno Stato forte non deve aver paura nemmeno del più pericoloso dei terroristi ed è in grado di controllare chiunque, in strutture ospedaliere o ai domiciliari. La questione è un’altra: la nostra società si sta ammalando dell’idea che tutti debbano pagarla, e la debbano pagare tutta fino in fondo, senza guardare in faccia le storie e le malattie dei singoli. Una sorta di giustizialismo introiettato? Peggio, una sindrome d’odio in cui ci si divide in amici e nemici. E non c’è giustizia in questo. Il dramma di M.G., in cella per un reato commesso 30 anni fa di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 8 dicembre 2017 Il reato era caduto in prescrizione. l’uomo si era rifatto una vita onesta e una famiglia. ora è rinchiuso nel carcere di Mammagialla, a Viterbo, per scontare 12 anni e otto mesi. Finisce in carcere a distanza di decenni dal momento in cui, appena maggiorenne, aveva commesso il reato. Nel frattempo aveva trovato un lavoro onesto e formato una famiglia. Come se non bastasse, l’uomo ha appreso, durante il colloquio con il pm, che il suo reato, in realtà, era andato in prescrizione dopo 21 anni. Gli avvocati precedenti, probabilmente, avrebbero dovuto farlo presente nel momento in cui il reato è caduto in prescrizione, perché, si sa, i magistrati non sono obbligati a ricordarlo. Ha scelto lui di essere trasferito in questo carcere, in maniera tale da essere vicino alla famiglia. “Poco più che adolescente e abbandonato dai genitori - racconta la figlia a Il Dubbio, ha affidato nel capoluogo sardo la sua esistenza a scelte di vita sbagliate”. Perché l’ha fatto? “Per andare avanti - spiega la figlia, e come lui stesso mi ha spiegato, perché è arrivato un giorno in cui dei ragazzi di strada, proprio come lui, gli hanno offerto un lavoro. Un lavoro illegale, certo, perché a Cagliari a dei ragazzi di strada un lavoro legale chi l’avrebbe mai offerto? Lui preso dal bisogno lo ha accettato, racimolando così quei quattro soldi necessari ad andare avanti”. Parliamo di M. G., condannato per un reato che ha commesso in Sardegna dal 1987 al 1990. Poi cambia, decide di lavorare onestamente e si trasferisce a Roma. Ed è lì che, nel 1994, incontra la futura moglie e formerà una famiglia con la nascita di due figlie nate nel 1997 e nel 1998. “Una vita fatta di grandi sacrifici, ma serena”, racconta la figlia. Arriviamo al 2010 quando viene condannato dal tribunale di Cagliari in 1° grado a 14 anni e 8 mesi. Fa ricorso. Nel 2012, dopo ben 22 anni dal reato, arriva la condanna in appello a 12 anni e 8 mesi. Assieme agli avvocati attende che i magistrati depositino la sentenza di condanna, perché per fare ricorso in Cassazione serve leggere le motivazioni. Dopo tre anni, finalmente il tribunale di Cagliari tira fuori la sentenza e quindi gli avvocati difensori fanno ricorso alla Corte suprema sottolineando che il reato, in realtà, risulta prescritto. Ma la Cassazione ha dichiarato l’inammissibilità. Quindi niente da fare, una persona che da decenni risulta estraneo alle logiche delinquenziali e da solo si è reinserito nella società, si trova costretto a subire la carcerazione. Sia dal punto di vista legale (formalmente il reato risulta prescritto) che da quello morale, risulta drammatico pensare che una persona che ha commesso l’ultimo reato nel 1990, debba subire la carcerazione con un animo e una vita completamente diversi rispetto a più di 26 anni fa. Ora l’avvocato di fiducia tenta di utilizzare le ultime carte chiedendo l’incidente di esecuzione nei confronti della Corte d’appello. L’imputato infatti non ha partecipato al processo d’appello, visto che non era stato ufficialmente convocato. Parliamo di lesione al diritto di difesa. La Corte d’appello di Cagliari se ne lava però le mani e respinge il ricorso. Come ultima istanza non rimane che un nuovo ricorso alla Cassazione, ma anche alla Corte europea, sottolineando che si parla di un reato prescritto da tempo. Il detenuto ristretto in una cella inferiore ai 3 mq dev’essere risarcito sportellodeidiritti.org, 8 dicembre 2017 Per la determinazione dello spazio minimo individuale va detratto non solo lo spazio destinato a servizi igienici e arredi ma anche l’ingombro del letto a castello. Va applicata la sentenza della Corte Edu che ha condannato l’Italia. Il detenuto ha diritto all’indennizzo da parte del Ministero della Giustizia se lo spazio minimo vitale in cella è inferiore ai tre metri quadri. E per determinarlo in cella detentiva collettiva occorre far riferimento alla superficie della camera detentiva fruibile dal singolo detenuto ed idonea al movimento e, pertanto, occorre detrarre dalla complessiva superficie della cella non solo lo spazio destinato ai servizi igienici e quello occupato dagli arredi fissi ma anche lo spazio occupato dal letto a castello, costituendo quest’ultimo una struttura tendenzialmente fissa e comunque non facilmente amovibile. A stabilire questi principi, la significativa ordinanza 29323/17 della Cassazione civile pubblicata il 7 dicembre. Nella fattispecie, i giudici della dalla terza sezione civile hanno accolto il ricorso di un detenuto avverso il decreto del tribunale di Torino, che aveva agito per chiedere la condanna del ministero della Giustizia ad oltre 23 mila euro per essere stato ristretto in un più istituti di detenzione piemontesi in celle comuni dalle minuscole dimensioni. Con il primo motivo il ricorrente aveva lamentato che il Tribunale di Torino non avesse scomputato dalla superficie complessiva della cella l’ingombro del letto e ha sostenuto che ciò avrebbe determinato una notevole riduzione del computo dei giorni trascorsi negli istituti di pena di Torino e Asti in condizioni inumane e degradanti. La Suprema Corte ha ritenuto valida tale doglianza e ha ricordato che lo stesso collegio, in sede penale, ha più volte affermato che, “ai fini della determinazione dello spazio individuale minimo inframurario, pari o superiore a tre metri quadrati, da assicurare a ogni detenuto affinché lo Stato non incorra nella violazione del divieto di trattamenti inumani o degradanti, in base all’articolo 3 della Convenzione dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, così come interpretato dalla conforme giurisprudenza della Corte Edu in data 8 gennaio 2013 nel caso Torreggiani”, il giudice deve detrarre dalla superficie lorda della cella l’area occupata dagli arredi. Ora, in tale prospettiva, si considera un ingombro anche il letto a castello, struttura “dal peso ordinariamente consistente, non amovibile, né fruibile per l’estrinsecazione della libertà di movimento nel corso della permanenza nella camera detentiva e, quindi, idonea a restringere, per la sua quota di incidenza, lo spazio vitale minimo all’interno della cella”. Per Giovanni D’Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti”, si tratta di una decisione che rende giustizia in materia di condizioni di detenzioni, che in Italia continuano ad essere purtroppo permanentemente inumane e degradanti in molteplici istituti carcerari sul territorio nazionale, così non garantendo il rispetto della funzione della pena che non è solo quella della sanzione, ma nel suo requisito costituzionalmente essenziale e primario è quella della rieducazione e riabilitazione del condannato. Per tali ragioni, continueremo ancora più convintamente ad agire per la tutela di tutti i detenuti che lamentano situazioni analoghe. Alle Sezioni unite il rinvio al Pm per la valutazione sulla tenuità del fatto di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 8 dicembre 2017 Saranno le Sezioni unite a dovere valutare la natura del provvedimento con il quale il Gip dispone la restituzione degli atti al Pm per la valutazione della causa di non punibilità per tenuità del fatto. Lo ha deciso la Corte di cassazione con l’ordinanza n. 55020 della Quarta sezione penale depositata ieri. All’interno della Cassazione si è venuto infatti delineando un contrasto di orientamenti sull’abnormità della scelta del Gip. Contrasto non privo di conseguenze, in realtà, perché se l’abnormità venisse riconosciuta, allora il provvedimento del giudice delle indagini preliminari diventerebbe ricorribile in Cassazione. L’ordinanza sposa la linea della non abnormità, mettendo in evidenza, per confutare, le tesi della posizione opposta. Innanzitutto, osserva, in questo caso non si tratta dell’esercizio di un potere, da parte del Gip, che non gli sarebbe attribuito dall’ordinamento, visto che a stabilirlo è l’articolo 459 comma 3 del Codice di procedura penale (poteri di rinvio al Pm in caso di impossibilità di accoglimento delle sue richieste). E ancora, non sembra possa profilarsi un’abnormità nel senso di un’imposizione al Pm di un adempimento tale da concretizzare un atto nullo nel corso del procedimento. “non è dato infatti ravvisare profili di nullità in alcuna delle determinazioni che l’organo requirente potrebbe adottare in conseguenza della sollecitazione del Gip ad esaminare l’eventuale configurabilità della particolare tenuità del fatto”. Chi ritiene colpita da abnormità la decisione del Gip mette in luce invece come questa sarebbe presa sulla base di semplici considerazioni di opportunità, cosa che non sarebbe possibile proprio nel rispetto della disposizione del Codice di procedura. Ma così non è, afferma l’ordinanza, perché, una volta esclusa l’ipotesi della restituzione degli atti quando non è possibile il proscioglimento, il Gip ha a disposizione un’area nella quale, ritenendo di non dovere accogliere la richiesta del Pm per un decreto di condanna, gli restituisce gli atti. Tuttavia, anche su questo aspetto l’ordinanza prende posizione per contestare l’esistenza di una sovrapposizione della valutazione del Gip rispetto a quella del Pm. C’è invece solo un invito al pubblico ministero perché valuti l’esistenza o meno della nuova causa di non punibilità e, in caso affermativo, proceda all’archiviazione. La valutazione del giudice delle indagini preliminari si limita cioè a un esame dell’astratta applicabilità al caso concreto dell’istituto. Traffico di clandestini, scatta l’aggravante per il trasporto sul traghetto di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 8 dicembre 2017 Corte di cassazione - Sentenza 7 dicembre 2017 n. 55029. Scatta l’aggravante dell’utilizzo di “servizi internazionali di trasporto” per chi faccia entrare illegalmente degli stranieri in Italia trasportandoli a bordo di un’auto caricata su di una nave di linea che collega due divere nazioni. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, sentenza 55029 di giovedì 7 dicembre, rigettando l’appello dell’imputato. La Corte di appello di Ancona aveva confermato la condanna a quattro anni e sei mesi di reclusione (oltre a 50mila euro di multa) per un uomo di origine serba che aveva fatto entrare clandestinamente in Italia, col fine di trarne profitto, tre cittadini extracomunitari di nazionalità kosovara “trasportandoli a bordo dell’autovettura di sua proprietà proveniente dalla Grecia sulla Motonave Cruise Olimpya ed esibendo per la loro identificazione tre passaporti serbi appartenenti ad altri soggetti”. Per la Corte territoriale dunque ricorreva l’ipotesi aggravata (art. 12, co. 3, lett. d), Dlgs 286/1998) poiché il trasporto era stato effettuato “da una motonave nella tratta di navigazione internazionale” e l’imputato era stato trovato in possesso di un unico biglietto “rilasciato a nome suo e dei cittadini kosovari e con la menzione dell’autovettura”. Inoltre, sussisteva anche una seconda aggravante (art. 12, comma 3 ter, lett. b), poiché uno dei clandestini aveva riferito di avere pagato 2mila euro per il trasporto. Dati per assodati i fatti, l’imputato ha proposto ricorso contro le aggravanti sostenendo che non vi era stata da parte sua alcuna “significativa partecipazione attiva nell’organizzazione di un vero e proprio servizio di trasporto internazionale”, essendosi limitato a trasportare gli extracomunitari nella propria autovettura. Mentre la somma che gli era stata consegnata era servita unicamente per fronteggiare le “spese vive” del viaggio. Una tesi che non ha convinto i giudici di legittimità secondo cui “l’aggravante dell’utilizzo di “servizi internazionali di trasporto” non è configurabile solo nei confronti del vettore professionale autorizzato al trasporto internazionale, ma anche di chiunque tale vettore utilizza”. Con riguardo alla seconda aggravante, poi, la Cassazione ha giudicato “niente affatto convincente” la difesa del ricorrente, dal momento che, come “correttamente” argomentato dalla Corte di merito, il fatto di non aver trovato l’imputato in possesso dell’intero compenso si spiega alla luce dell’esperienza che dimostra come “solitamente, esso viene corrisposto all’esito positivo del viaggio”. Espulsione da Ue cauta per i cittadini non europei di lungo soggiorno di Matteo Rizzi Italia Oggi, 8 dicembre 2017 La Corte di giustizia richiede di valutare gli effetti della decisione. L’espulsione di un cittadino non europeo che soggiorna per un periodo di lunga durata non può avvenire unicamente ed automaticamente in conseguenza di una pena detentiva superiore a un anno. Questo è quanto emerge dalla sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea in merito all’interpretazione della direttiva 2003/109/Ce del Consiglio, relativa allo status dei cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo. La direttiva, infatti, dispone che i cittadini extracomunitari, intenzionati a stabilirsi per un lungo periodo nel territorio Ue, necessitino di una tutela rafforzata contro l’espulsione. Gli stati membri, quindi, possono decidere di allontanare un soggetto esclusivamente se costituisce una minaccia effettiva e sufficientemente grave per l’ordine pubblico o la pubblica sicurezza. Prima di emanare un provvedimento di allontanamento, è necessario pertanto che gli Stati membri considerino più elementi riguardanti il soggetto in considerazione: la durata del soggiorno, l’età, le conseguenze dell’espulsione per l’interessato e i suoi familiari, nonché i legami con il paese di soggiorno o con il paese d’origine. La Corte, inoltre, vuole sottolineare che l’obiettivo principale della direttiva è dare un supporto concreto all’integrazione dei cittadini di paesi non Ue trasferiti a titolo duraturo negli Stati membri. Quindi, risulta indifferente se la misura di espulsione sia stata pronunciata come conseguenza di una sanzione amministrativa o di una condanna penale. Infatti, proprio questo era l’oggetto del quesito posto dal giudice spagnolo che ha rinviato alla Corte europea l’interpretazione dell’articolo 12 della direttiva sopraccitata. Dubbia, infatti, era se “la tutela rafforzata” dovesse essere applicata per l’espulsione decisa a seguito di riti penali o amministrativi. Il caso riguardava un cittadino colombiano, che nel 2013 aveva ottenuto un permesso di soggiorno di lungo periodo in Spagna e successivamente condannato a due pene detentive, rispettivamente di dodici e tre mesi. A tali sanzioni seguiva un procedimento amministrativo di allontanamento nei suoi confronti, concluso con un procedimento di espulsione e il divieto di ingresso nel territorio spagnolo per cinque anni. Firenze: “Oltre le sbarre per la vita”, Sollicciano contro la pena di morte met.provincia.fi.it, 8 dicembre 2017 Incontro con i detenuti per presentare un volume che racconta le iniziative condotte in questi anni per fermare il male estremo. Si è svolto mercoledì 6 dicembre, nel pomeriggio, l’incontro con i detenuti del penitenziario di Sollicciano per presentare “Oltre le sbarre per la vita”, un volume che nasce dalla collaborazione tra la Comunità di Sant’Egidio, la Presidenza del Consiglio regionale della Toscana e i responsabili dell’Amministrazione penitenziaria, e che raccoglie come in un album le iniziative, le testimonianze, gli incontri condotti in questi anni con i detenuti per dire no alla pena di morte. All’incontro hanno partecipato il Presidente del Consiglio Regionale Eugenio Giani, il Provveditore dell’Amministrazione penitenziaria toscana Antonio Fullone, la direttrice dell’Ufficio Detenuti e Trattamento Angela Venezia, il direttore di Sollicciano Carlo Berdini, il Comandante Massimo Mencaroni, con don Roberto Falorsi, co-cappellano del penitenziario, Michele Brancale (per Sant’Egidio), Ionut Coman (parroco della Chiesa romena ortodossa), Hamdan El-Zeqri (Comunità Islamica) e Daniele Santi (Soka Gakkai). Dal 2012, nella campagna “Città per la vita”, che ogni 30 novembre, in occasione della Festa della Toscana vede città, istituzioni e associazioni aderire con diverse iniziative alla campagna mondiale contro la pena di morte, Sollicciano è un testimonial di Firenze. Anche per questo Sollicciano è stato “gemellato” a un’iniziativa che, grazie alle corrispondenze e ai contatti avviati dalla Comunità di Sant’Egidio di Firenze, ha portat la “Festa della Toscana” anche in Ohio, a Cincinnati, dove l’arcivescovo, con l’Intercommunity Justice and Peace Center, ha promosso il 30 novembre una preghiera interreligiosa nella cattedrale di San Pietro in vincoli per la fine della pena di morte in Ohio e ovunque. L’arcivescovo Mons. Dennis M. Schnurr ha scritto: “Illuminando la Cattedrale di San Pietro in Carcere, l’Arcidiocesi si unisce alle comunità in tutto il globo nel chiedere un termine all’uso della pena di morte. Ci riuniremo in preghiera con altri gruppi comunitari e confessionali concordi nel ritenere che non esista alcuna ragione morale o pratica per il nostro governo nel portare via un’altra vita umana al fine di stabilire giustizia e sicurezza. Inoltre confermiamo il nostro impegno accanto alle famiglie ed amici delle vittime che hanno patito per le azioni terribili di chi ha commesso reato. Insieme, possiamo risplendere come un faro di speranza e guarigione contro ogni violenza”. Non è solo un sogno, quello di un mondo liberato dalla pena di morte, ma un impegno concreto che negli ultimi anni ha visto soggetti della società civile, dialogare con gli Stati per riconoscere pienamente il diritto che vale più di tutti: quello alla vita. Perché un organismo statale non può usare la vendetta per ottenere giustizia e perché ormai è anche statisticamente dimostrato che la pena capitale non funziona come deterrente per i reati. La Giornata mondiale delle “Cities for life - Città contro la pena di morte?” si celebra nel mondo il 30 novembre in ricordo della prima abolizione della pena capitale ad opera di uno Stato, che fu il Granducato di Toscana, il 30 novembre 1786 per volontà del Granduca Pietro Leopoldo di Toscana. Insieme all’iniziativa condotta a Sollicciano, hanno aderito in particolare i Comuni di Tavarnelle Val di Pesa, Vinci e Certaldo. Monza: “MinoreUguale”, le borse più fashion del Natale 2017 sono prodotte in carcere quibrianzanews.com, 8 dicembre 2017 Borse fashion e solidali realizzate dietro le sbarre di Sanquirico. Borse prodotte con tessuti donati da aziende della moda del territorio e realizzate dalla cooperativa sociale Alice che opera all’interno del carcere di Monza. Borse fashion quelle della neonata linea “MinoreUguale” presentate nei giorni scorsi all’Oasi di San Gerardo, non solo per lanciare la nuova iniziativa ma anche per far conoscere i progetti di riabilitazione e di formazione organizzati all’interno del carcere con l’obiettivo di offrire una formazione professionale, e quindi una possibilità da vendere sul mercato del lavoro, una volta che il detenuto avrà pagato il suo debito con la giustizia. Apprendere un mestiere, quello dell’artigiano, che oggi è sempre più raro anche sul territorio. I cinque detenuti (Aziz, Adrian, Ersin, Alessandro e Hassan) - grazie al sostegno economico della Fondazione della Comunità di Monza e Brianza che ha sostenuto il progetto - hanno imparato le tecniche di lavorazione della pelle e della stoffa. Le borse, totalmente impermeabili e realizzate in cavans cerato e pelle, possono essere utilizzate come semplici shopper o come vere e proprie borse da indossare per andare al lavoro o all’università. Borse realizzate in edizione limitata (solo cento pezzi) disponibili al prezzo di 50 euro. I fondi raccolti serviranno a finanziare le altre iniziative di formazione professionale promosse dalla cooperativa Alice all’interno del carcere di Monza. Per acquistare le borse è possibile collegarsi al link sociallymadeinitaly.com/prodotto/minore-uguale Alba (Cn): il 16 dicembre convegno sul lavoro all’interno e all’esterno delle carceri Ristretti Orizzonti, 8 dicembre 2017 Si terrà ad Alba il prossimo 16 dicembre 2017, a partire dalle ore 9.30, presso la Sala Vittorio Riolfo nel Cortile della Maddalena, il convegno “Il lavoro dentro… Dentro al lavoro”. Obiettivo primario dell’iniziativa è quello di creare un momento di discussione e confronto tra le istituzioni politiche nazionali, quelle locali, gli enti del Terzo settore le realtà ed esperti che operano nel settore, sul tema del recupero sociale e professionale dei detenuti attraverso il lavoro e sul ruolo che l’agricoltura può svolgere in questo processo riabilitativo, grazie alla legge sull’Agricoltura Sociale promossa dal Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali. La convinzione è che investire nell’economia penitenziaria e nell’agricoltura sociale significa investire anche in sviluppo e sicurezza. Al convegno interverranno tra gli altri il Vice Ministro alle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali, Andrea Olivero e il Sottosegretario di Stato al Ministero della Giustizia, Federica Chiavaroli. Tra i casi di maggiore rilievo in ambito di Agricoltura sociale verrà discusso Valelapena, ambizioso progetto nato nel 2006 che vede la collaborazione tra Syngenta, il Ministero della Giustizia, la Casa Circondariale d’Alba, l’Istituto Enologico d’Alba e il Comune di Alba per sostenere il recupero dei detenuti della casa circondariale di Alba attraverso una formazione specifica e l’impiego diretto e concreto in un vigneto situato all’interno del carcere stesso. Ogni anno il progetto coinvolge 15 detenuti che, all’interno dell’istituto penitenziario, seguono un corso per ottenere la qualifica di operatore agricolo e coltivano vitigni di nebbiolo, barbera, dolcetto e cortese. Alla vinificazione, imbottigliamento ed etichettatura provvede l’Istituto Enologico Umberto I di Alba per una produzione annua di 1.400 bottiglie. Attraverso la qualifica professionale e l’attività svolta nel vigneto, gli ospiti della Casa di Reclusione hanno la possibilità di maturare le competenze e l’esperienza necessarie per trovare impiego presso le aziende vitivinicole della zona una volta scontata la pena. Syngenta mette a disposizione i prodotti, le competenze e le risorse necessarie per una corretta e completa protezione del vigneto. Il convegno fa parte del programma di Vale La Pena, una serie di attività che tradizionalmente durante l’autunno mette al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica della capitale delle Langhe i temi legati alla detenzione e alla realtà penitenziaria. Capofila dell’edizione 2017 è il consorzio di cooperative sociali CIS - Compagnia di Iniziative Sociali; partner dell’iniziativa sono la Città di Alba, i Garanti regionale e comunale delle persone private della libertà personale, Syngenta, azienda leader in agricoltura a livello globale, la Casa di Reclusione “Giuseppe Montalto” di Alba, l’Associazione Arcobaleno, l’Ente Fiera Internazionale del Tartufo Bianco d’Alba, il Mercato della Terra “Italo Seletto Onlus” di Alba e la Consulta comunale del Volontariato. Roma: la vita di Giorgiana a Rebibbia “in carcere studio, io resto qui” di Enrico Bellavia La Repubblica, 8 dicembre 2017 La sua casa è una cella, l’ennesima, ormai da più di due anni. Potrebbe già darsi da fare per accorciare i tempi e lasciarsi alle spalle Rebibbia. Potrebbe ma non vuole. Perché per Giorgiana tutto ciò di cui ha bisogno, almeno per il momento, è qui. E lo racconta con estremo candore, stupendosi dello stupore di chi ha davanti, allontanando con un gesto della mano, quasi a cacciarlo via, il modulo con la domandina, il foglio che scandisce la vita e i bisogni, anche quelli più elementari, del carcere. C’è una domandina per tutto, anche per i benefici della legge Gozzini. Tra buona condotta e abbuoni potrebbe avviarsi a chiudere i conti in sospeso con la legge, ma su quella domandina al giudice di sorveglianza, la firma di Giorgiana non ci sarà. “Non voglio uscire, voglio continuare quello che sto facendo qui”, ripete con ostinazione a chi prova a convincerla del contrario. Qui è il femminile di Rebibbia, non l’eden ma quanto nel disastrato universo carcerario italiano, prova ad essere ciò che più si avvicina al concetto di rieducazione della pena. Giorgiana ha 45 anni, le esperienze terribili, il tempo e il carcere non hanno lasciato molti segni se appare come appare: una bella donna mora con lo sguardo fiero in due occhi neri. Padre turco, mamma romena, cresce a Bucarest e poi vola in Spagna. Ci resta per lavoro e per amore. O almeno per quello che credeva fosse amore. Violenza, botte e umiliazioni. Oggi ne parla poco e malvolentieri. Però si è gettata a capofitto nell’impresa di un cortometraggio contro la violenza di genere prodotto con il sostegno della direzione, degli educatori e dell’ufficio del Garante per i detenuti di Roma Capitale. E il suo passato è nella dedizione che ha messo in quel docufilm nel quale, tuttavia, non compare se non nei titoli di coda. Un nuovo compagno in Spagna, qualche tempo in prigione, poi l’Italia e un nuovo arresto. Roba di droga, dicono le altre. Rimedia poco più di quattro anni. “Ho conosciuto altre carceri - dice lei - ma qui è diverso”. Appena arrivata a Rebibbia si è iscritta a scuola. Licenza media l’anno scorso e per quest’anno l’istituto agrario. Con l’obiettivo dichiarato di mettere su un giorno una piccola azienda agricola. Sarà per la terra che qui coltivano anche le irriducibili delle Br alle quali hanno assegnato un orto, sottoposto però alle regole dell’alta sorveglianza. Per le comuni, come Giorgiana ci sono le piante da curare insieme con le altre e spazi meno angusti per respirare e godere di uno spicchio di sole. Ma il pomeriggio per Giorgiana sono soprattutto libri: quelli di scuola e quelli della biblioteca. Che è diventata ora anche il suo posto di lavoro. Catalogare, prestare, controllare e sfogliare. “Io tanti libri non li avevo mai visti”, ha confidato agli operatori il primo giorno in cui è entrata lì. Un colpo di fulmine per la lettura e non solo: il corso di scrittura creativa e una paga mensile per le spese vive. Trecento euro che sono un piccolo tesoro per chi fuori da qui ha solo un flebile legame con il passato e tanta voglia di ricominciare un’altra vita. “Fuori da qui, non ho questo e per ora me lo tengo stretto”. Santa Maria Capua Vetere (Ce): “Educazione alla Legalità”, gli studenti dal Papa lavocesammaritana.com, 8 dicembre 2017 La partecipazione di circa 600 studenti sammaritani, accompagnati a Roma dalla consigliera Edda De Iasio e dall’avvocato Giuseppe Simeone, all’udienza generale che Papa Francesco ha tenuto mercoledì mattina presso l’Aula Paolo VI a Città del Vaticano ha rappresentato l’epilogo di un intenso ed emozionante ciclo di eventi inseriti nell’ambito del protocollo di intesa “Educazione alla Legalità” stipulato, nel mese di luglio, su iniziativa dell’amministrazione comunale di Santa Maria Capua Vetere e che ha fatto registrare l’adesione di quindici partner: Tribunale di Santa Maria Capua, Procura della Repubblica, Curia Arcivescovile di Capua, Questura di Caserta con il locale commissariato di Polizia di Stato, Università degli Studi della Campania Dipartimento di Giurisprudenza, Consiglio dell’Ordine degli Avvocati, Associazione Nazionale Magistrati sezione di Santa Maria Capua Vetere e le dirigenze scolastiche degli istituti comprensivi della nostra città. Gli incontri si sono aperti lo scorso 25 novembre, in occasione della Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne, presso la fondazione FEST dove, in presenza di centinaia di studenti delle scuole cittadine, la Magistratura e l’avvocatura sammaritana insieme all’Università “Luigi Vanvitelli” e all’amministrazione Mirra hanno dato vita ad un importante momento di confronto e di formazione. Gli eventi sono proseguiti venerdì 1 dicembre quando, presso l’aulario del Dipartimento di Giurisprudenza in via Raffaele Perla, si è tenuto in sinergia con il Comando Provinciale dei Carabinieri di Napoli il convegno “La tutela dei minori sul web 3.0” al quale hanno partecipato, con grande entusiasmo, circa 300 docenti degli istituti sammaritani. Sabato 2 dicembre, invece, una serata di grandissima emozioni in un Teatro Garibaldi gremito in ogni di posto per la prima rappresentazione cittadina di “Epoché”; il progetto ha permesso di portare in scena, insieme, i Magistrati di sorveglianza e i detenuti della casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere al fine di coltivare e trasmettere la conoscenza sul principio costituzionale della finalità rieducativa della pena. Un evento di straordinario valore sociale che ha generato un’atmosfera magica all’interno del luogo simbolo della cultura cittadina raggiungendo il suo apice sulle note di “Imagine” quando tutti i presenti, tra cui il vescovo di Capua Salvatore Visco, i vertici della Magistratura non solo sammaritana e le cariche istituzionali cittadine ma anche i parenti dei detenuti e gli studenti delle scuole sammaritane, hanno intonato il famoso brano di John Lennon con un evidente trasporto emotivo. “L’idea ispiratrice del protocollo per l’educazione alla legalità sta prendendo corpo in un’azione congiunta dei sottoscrittori che già ha dato vita ad eventi di rilevante significato sociale ed a momenti di intensa emozione, anche con la diretta partecipazione di studenti degli istituti scolastici e dell’Università. Il successo dell’impegno profuso, dimostrando la validità del percorso intrapreso - hanno dichiarato il sindaco Antonio Mirra e il Vicesindaco Oscar Bobbio con delega alla Legalità - induce a proseguire nello stesso, nella speranza di contribuire ad una sana formazione civile dei giovani in una società attraversata da devianze di vario genere, grazie alla valorizzazione delle migliori risorse del nostro territorio”. Milano: lo spettacolo tra le sbarre accende San Vittore. L’addio della direttrice di Elena Gaiardoni Il Giornale, 8 dicembre 2017 L’appuntamento nell’ultimo giorno di incarico di Gloria Manzelli: “Grazie a magistrati e volontari”. Ferruccio De Bortoli, presidente della Fondazione Vidas, con la moglie Elisabetta. Sorridendo commenta: “Molto suggestivo”. Poi Arnoldo Mondadori Mosca, consigliere della Fondazione Cariplo. “Ascolto musica, senza il cellulare in tasca. Finalmente qui dentro mi sento libero”. Poi ci sono gli storici ospiti, come la giornalista Lina Sotis, Philippe Daverio con la moglie Elena. “Pensavo che è carino il fatto - dice Daverio - che un autore pugliese abbia fatto un’opera per la Scala al passo con i tempi di allora, scritta nel momento della nascita della classe operaia, per cui gli perdoni che trasformi il melodismo in declamazione e tutti i limiti della musica. Interessante la messa in scena, che rende molto bene in tv”. Ieri sera al centro della rotonda della casa circondariale, tra una trentina di detenuti e cinque detenute, c’era Gloria Manzelli, stavolta autrice di un saluto particolare. “Ringrazio per l’ultima volta tutti coloro che ogni anno creano un’atmosfera particolare in questa Prima. Questo per me è l’ultimo giorno di lavoro. Ora passo il testimone al mio successore, Giacinto Siciliano. Un tributo a tutta la magistratura, in particolare quella di sorveglianza, e a tutti i volontari”. Siciliano e Giovanna Di Rosa, presidente del tribunale di sorveglianza di Milano, e Luigi Pagano hanno ringraziato Gloria Manzelli per quanto fatto in questi anni nel carcere più rappresentativo di Milano. Altri ospiti che ritornano l’assessore Cristina Tajani, come l’assessore Pierfrancesco Majorino, anche loro affezionati a questo spettacolo scaligero tra le sbarre. Tra le file di poltroncine nere Gennaro Migliore, sottosegretario alla Giustizia, Giovanni Canzio, presidente della corte di Cassazione, Gaetano Brusca, presidente del tribunale di sorveglianza di Genova, Giovanna Ichino, presidente della corte d’Assise di Milano, Monica Gambirasio della camera penale, e don Colmegna. Come di consuetudine il risotto alla milanese, preparato dallo chef Stefano Isella, dai ragazzi dell’istituto Vespucci, dalle detenute e dalle mamme dell’Icam, l’istituto a custodia attenuata per le madri detenute. Cagliari: il progetto “Giornate solidali” all’Ipm, ragazzi in campo con Daniele Conti Ansa, 8 dicembre 2017 Presentato all’Istituto penale per minorenni di Quartucciu il progetto “Giornate solidali-Volontariato aziendale”, iniziativa nata dalla collaborazione tra la struttura detentiva e la Fondazione “Carlo Enrico Giulini Onlus”, con il contributo del Cagliari Calcio e altri soggetti pubblici e privati. In occasione delle “Giornate solidali”, aziende e associazioni esterne al carcere incontrano i ragazzi ospiti della struttura svolgendo con loro una serie di attività lavorative e ricreative. La prima azienda a sperimentare il progetto è stata proprio il Cagliari che ha partecipato oggi alla presentazione dell’iniziativa con il suo “ambasciatore” Daniele Conti e i tecnici del Settore giovanile. La delegazione rossoblù ha giocato inizialmente una partita di calcetto con i ragazzi detenuti: una sorta di inaugurazione del campo di calcio a 5 che, assieme ad altri spazi sportivi all’aperto del carcere, è stato oggetto di migliorie effettuate con il contributo della Fondazione “Carlo Enrico Giulini”, del Centro Giustizia Minorile della Sardegna, della Facoltà di Architettura dell’Università di Cagliari. Al termine della gara, terzo tempo a base di pizza e dolci realizzati dai ragazzi, che hanno così potuto mettere in pratica quanto imparato nei corsi di cucina. “I ragazzi conosciuti oggi sono coetanei di quelli che alleno ogni giorno. A quell’età sbagliare, e non capire le conseguenze, è davvero un attimo”, ha dichiarato il mister della Primavera, Max Canzi. “Attraverso lo sport e i laboratori didattici, le Giornate solidali vogliono creare dei momenti d’incontro e confronto tra i ragazzi dell’Istituto Penale e tutte quelle aziende, associazioni che arriveranno dall’esterno - ha detto la presidente della Fondazione, Ilaria Nardi. L’obiettivo finale è offrire ai ragazzi occasioni e competenze utili anche per un futuro reinserimento nella comunità. Il coinvolgimento di persone e organizzazioni esterne offrirà, inoltre, un contributo importante di esperienza lavorativa e di rapporto umano”. Padova: il trombettista Fresu suona in carcere per “Palla al Piede” di Alberta Pierobon Il Mattino di Padova, 8 dicembre 2017 È arrivato a Padova ieri mattina, Paolo Fresu, magico trombettista sardo, per il concerto della sera al Pollini. E come primissima tappa, è andato al carcere Due Palazzi ad incontrare la squadra di calcio, interamente composta da giocatori detenuti, Palla al Piede. È arrivato alle 14 ed è stato accompagnato direttamente in campo dove (come ogni giovedì e martedì dalle 14.30 alle 16.30) era previsto l’allenamento. Un’ora di incontro semplice e diretto con le 28 persone tra giocatori, riserve e collaboratori vari, della squadra. Paolo Fresu, 56 anni, artista dall’anima sociale, pochi fronzoli e un fare concreto, è avvezzo alle visite nei carceri, soprattutto nella sua Sardegna. Ieri ad accompagnarlo c’erano Paolo Piva, presidente di Palla al Piede nonché insegnante in carcere nella sezione staccata, e rinchiusa, dell’Einaudi; la fondatrice della squadra di calcio, Lara Mottarlini; il mister Fernando Badon che è amico di Fresu e ne ha organizzato la presenza; Lorena Orazi, responsabile dell’Ufficio educatori; il vice comandante degli agenti di polizia penitenziaria che ha spianato la strada all’ingresso in carcere dell’ospite speciale, oltre a Andrea Zangirolami, dirigente di Pallalpiede e al musicista Maurizio Camardi che poi hanno accompagnato Paolo Fresu al Pollini per le prove. Ha chiacchierato un po’ con i giocatori (molti sono stranieri) solo due dei quali lo conoscevano già. Gli altri lo hanno conosciuto ieri, e non lo dimenticheranno più: quando Fresu ha preso in mano la tromba e lì, a bordo campo, in una limpida giornata, ha suonato “Il silenzio” tenendo una nota all’inverosimile, l’ondata di emozione è volata potente ad unire quel gruppo di persone e dare a ciascuno uno scossone all’anima. È stato Giovannino, 40 anni, il capitano della squadra dei detenuti, a parlare a nome di tutti: per ringraziare Fresu di essere andato in carcere, per spiegare quanto importante sia l’esperienza del calcio per tutti loro e per raccontare un sogno, quello di giocare anche fuori. Poi qualche piccola chiacchiera, qualche domanda e poi i saluti, che l’allenamento deve cominciare. Milano: migranti e detenuti di San Vittore insieme per un concerto benefico di Ferruccio Coratti Corriere della Sera, 8 dicembre 2017 Arisa per il Messico con il coro di San Vittore. L’altro ieri è entrata in carcere a San Vittore, accompagnata dal suo pianista Beppe Barbera venuto apposta dall’Umbria, per provare con loro. Del resto era l’unico modo. Migranti, detenuti, musicisti di strada provenienti da tutto il mondo. Tutti insieme alla fine saranno sullo stesso palco con Arisa. Lei più la sua band più tre cori fusi per questa occasione in uno solo: le Voci dell’Orchestra dei Popoli “Vittorio Baldoni”, il Coro dei Migranti, il Coro dei detenuti della “Nave” di San Vittore. Per un concerto il cui ricavato contribuirà a ricostruire due orfanotrofi del Messico - nelle città di Miacatlan e Cuernavaca - che fino al terremoto del settembre scorso erano (cioè lo sono tuttora, solo che hanno i muri da ricostruire) la casa di 700 ragazzi e bambini. Il concerto sarà alle 21 di lunedì all’Auditorium di Milano Fondazione Cariplo e le case in questione sono quelle gestite dalla Fondazione Francesca Rava - Nph Italia: conosciuta qui da molti anni soprattutto per il suo impegno in Haiti ma che proprio al Messico, in realtà, deve le radici della sua storia. Iniziata nel 1954, vedi a volte come tutto si tiene, con un ragazzo arrestato. Per furto in una chiesa, oltretutto. La chiesa era giusto a Cuernavaca. Il parroco si chiamava padre William Wasson. Domandò al giudice che il ragazzo anziché essere lasciato in galera venisse affidato a lui. Il giudice la trovò una tale buona idea che una settimana dopo gliene mandò altri otto. Alla fine dell’anno erano trentadue. Oggi i bambini di Nph (“Nuestros Pequeños Hermanos”) sono migliaia in diversi Paesi e il motto dell’associazione è semplice: “Un bambino per volta, dalla strada alla laurea”. L’impegno di Arisa accanto alla Fondazione Rava non nasce ora: nelle case di Nph in Messico ha lavorato come volontaria nell’orto e in cucina, con il coro dei bambini dell’orfanotrofio di Kenskoff ha realizzato lo scorso anno “Voce per Haiti”. Ora la sua strada si è incrociata altre tre: quella dell’Orchestra dei Popoli, figlia di quell’altra fondazione che è la Casa dello Spirito e delle Arti, i cui componenti - ragazzi che suonavano in metrò e ora studiano anche in Conservatorio - per l’occasione non suoneranno ma canteranno; quella del Coro dei Migranti, appena nato accanto all’orchestra medesima, e che riunisce uomini e donne approdati ai centri di accoglienza milanesi dopo viaggi di cui è qui superfluo ripercorrere l’incubo; e quella del Coro dei detenuti della Nave, unico reparto carcerario in Italia specializzato nel trattamento avanzato delle dipendenze. “Quando Ad Arisa è stato proposto di condividere il suo concerto con loro - dice Maria Vittoria Rava, presidente della Fondazione - non ci ha pensato un secondo e ha detto sì”. “Vi ringrazio - ha detto lei ai coristi al termine della prova - per l’emozione profonda che mi avete trasmesso: oggi avevo soprattutto bisogno di ascoltarvi e sono rimasta senza fiato. Sono commossa per essere stata invitata, onorata di poter cantare con voi, e felice che insieme possiamo restituire una casa a chi l’ha persa”. Salerno: magistrati-attori in scena per i detenuti di Fuorni Il Mattino, 8 dicembre 2017 La magia del teatro per sognare un futuro di libertà. Erano tanti i detenuti che ieri si sono ritrovati, nella sala teatro della casa Circondariale, da semplici spettatori. Sul palco c’era tutto il brio della commedia napoletana inscenata da magistrati della Corte d’appello di Milano che, per un giorno, hanno voluto togliere i panni dei severi giudici per indossare quelli di attori e “regalare” ai reclusi la libertà che solo l’immaginazione può far volare, anche dietro le sbarre di una fredda cella. Giunto alla sua quarta edizione il progetto, patrocinato e finanziato dall’assessorato alle politiche sociali del Comune di Salerno, è stato voluto dal direttore Stefano Martone che fa della rieducazione dei detenuti, attraverso svariate attività formative, il suo punto di forza. “Non ti pago”, realizzata dalla compagnia amatoriale “Luna Nuova”, composta da 13 magistrati “campani d’origine e milanesi d’adozione” come loro stessi si sono definiti, ha strappato non pochi sorrisi e tanti applausi ai detenuti, tra loro anche l’ex braccio destro del boss Giuseppe D’Agostino, Ciro Marigliano. “Con questa iniziativa - ha affermato il direttore Martone - abbiamo voluto lanciare un messaggio alla popolazione detenuta esprimendo il senso di vicinanza della società civile verso l’istituzione carceraria e verso i reclusi”. Regista dello spettacolo e fondatore della compagnia, Oscar Magi, attuale presidente di una sezione della Corte d’Appello di Milano. All’evento hanno partecipato anche il procuratore generale Leonida Primicerio e il questore Pasquale Errico. Il fascismo sta tornando? Uno sdoganamento che viene da lontano di Guido Caldiron Il Manifesto, 8 dicembre 2017 Il fascismo sta tornando? E se in realtà non se ne fosse per certi versi mai andato? Se si vuole dare un significato concreto alle riflessioni che stanno facendo seguito alle azioni squadristiche compiute dai “naziskin” a Como e da Forza Nuova davanti la redazione di Repubblica, solo gli ultimi di una lunga serie di atti intimidatori, provocazioni e violenze riconducibili all’estrema destra, si dovrà cercare di rispondere in modo articolato all’interrogativo che da giorni attraversa il dibattito pubblico. Questo perché l’”onda nera”, lungi dal rappresentare una sorta di eccedenza, per quanto violenta e minacciosa, costituisce un fenomeno strettamente legato alle trasformazioni vissute dalla società italiana negli ultimi decenni. Trasformazioni di cui è allo stesso tempo un esito e un sintomo. In un paese dove la lunga crisi economica ha prodotto, come ricordato dal recente rapporto del Censis, un sentimento dominante contrassegnato da un “rancore” che non si trasforma in conflitto sociale e spinge invece gli individui a cercare facili capri espiatori per il proprio malessere, alimentato concretamente per i più giovani da percentuali di disoccupazione che sfiorano il 40% - uno scenario sociale che ricorda in modo sinistro proprio il programma di un movimento di estrema destra -, non basta più allarmarsi per quanto sta avvenendo, ma vanno costruiti antidoti solidi e di lungo corso. E, da questo punto di vista, non si può evitare di interrogarsi innanzitutto su quanto abbia contribuito o meno ad isolare e ostacolare questo “ritorno” dell’estrema destra l’adozione anche da parte del campo del centrosinistra di un vocabolario dell’emergenza e della repressione, ad esempio su rom e migranti, lungo un asse temporale che va dalle campagne sui nomadi dell’allora sindaco di Roma Veltroni, fino al pacchetto Minniti, passando per l’”aiutiamoli a casa loro” di Renzi. Riflettere su quanto detto e fatto fin qui da tutti è tanto più necessario nel momento in cui si intende valutare il contesto complessivo nel quale questi fenomeni sono prosperati. Contesto che è quello nel quale si è andata affermando fin dai primi anni Novanta una sorta di egemonia politica, culturale e simbolica della destra. Infatti, non ci si può dimenticare di come il moltiplicarsi di segnali che rimandano apertamente all’eredità politica e simbolica del fascismo faccia seguito al processo di “normalizzazione” della vicenda storica del Ventennio che si è lungamente operata nel nostro paese, anche tramite il rassicurante mito degli “italiani brava gente”, e che ha trovato la sua espressione politica più visibile nella strategia del cosiddetto “centrodestra”. Tra le eredità più sottovalutate, ma non per questo meno perniciose, del berlusconismo vi è non solo lo “sdoganamento” degli eredi politici del fascismo sconfitto, in particolare dell’Msi, ma l’annuncio che anche per quella via lo spazio politico “a destra della destra” potesse essere pienamente legittimato, fino ad assumere una qualche connotazione pop, come indica l’emergere di ogni sorta di “fascisti del terzo millennio” o di riferimenti allo “squadrismo mediatico”. Il secondo elemento da considerare riguarda il fatto che questi ambienti estremisti, portatori però di un inquietante radicalizzazione di un senso comune segnato, per quanto detto, dal risentimento e dall’intolleranza verso l’”altro”, hanno spesso rappresentato una specie di sponda giovanile dello stesso blocco guidato dal Cavaliere. Dalla denuncia “dell’invasione” dei migranti, fino all’idea che per questa via si attui una “sostituzione di popolo”, fino all’evocazione del “prima gli italiani” per la gestione di ciò che resta del welfare, il lessico del rigetto che mescola allegramente razzismo, paranoia e teorie del complotto, che si è imposto nel nostro paese indica evidenti assonanze tra le parole d’ordine adottate da formazioni quali Forza Nuova, Casa Pound, Lealtà e Azione e Veneto Fronte Skinheads, solo per citare le più note, e la “destra ufficiale”. A ciò si devono aggiungere alleanze e collaborazioni, locali o nazionali, politiche o elettorali, di cui l’apertura della Lega di Salvini all’estrema destra non rappresenta che l’ultimo episodio, nella prospettiva della costruzione di una sorta di destra plurale cui non sono stati estranei perfino gli ambienti degli stessi skinheads visti in azione a Como. La conseguenza più drammatica di questa situazione è stata la sistematica rimozione del tema della violenza dell’estrema destra, tornata invece in auge proprio grazie a questo clima. Eppure, dagli omicidi di Davide Cesare, “Dax”, Renato Biagetti, Nicola Tommasoli, uccisi tra il 2003 e il 2008, fino alla caccia all’uomo contro i migranti avvenuta nel centro di Firenze nel 2011, e conclusasi con l’assassinio di due ambulanti senegalesi e alla morte del cittadino nigeriano Emmanuel Chidi Namdi, morto in conseguenza dell’aggressione razzista subita lo scorso anno a Fermo, fino alle decine di aggressioni subite da antifascisti e migranti, la recente storia italiana testimonia di come militanti e simpatizzanti neofascisti o giovani cresciuti in quella sottocultura razzista sempre più diffusa nel paese, abbiano tradotto tragicamente in pratica le parole d’ordine dell’odio e della sopraffazione cui è stato consentito di affermarsi. Se il fascismo sta “tornando”, qualcuno gli avrà pure aperto, e da tempo, la porta. Le ronde notturne di CasaPound. Caccia agli stranieri schedati in chat di Andrea Palladino La Stampa, 8 dicembre 2017 Viaggio nei paesi del Sud Pontino: “Troppi furti, dobbiamo difenderci”. C’è una sorta di doppio livello. Gruppi allargati di duecento attivisti - spesso semplici cittadini - e “nuclei” operativi di 30 o 40 unità. Si organizzano con chat su WhatsApp, girano nelle strade del Sud Pontino, tra Formia e Minturno, al confine tra il Lazio e la Campania. Fermano persone, annotano targhe, fotografano i “sospettati”, facendo girare le immagini sugli smartphone. Non amano usare pubblicamente la parola ronde, preferiscono parlare di “passeggiate per contrastare i furti”. Ma tutto finisce per diventare una caccia agli stranieri. Tra i promotori ci sono gli attivisti dell’estrema destra, da CasaPound - con un ruolo da protagonisti nella città di Minturno - fino a Forza Nuova, che ha annunciato, senza mezze parole, “ronde cittadine, non armate ma organizzate” a Fondi. “Non c’entra la politica, siamo cittadini”, assicura Marco Moccia, dal 2008 esponente di punta di CasaPound della provincia di Latina. Barba curata, praticante in uno studio legale, è stato il promotore di uno dei gruppi più numerosi di cittadini che da un mese pattugliano le strade, chiamato “Difendi Minturno”. “Da una settimana dormo appena tre, quattro ora a notte - spiega - guarda il mio cellulare, è un continuo”. Mostra la sua chat WhatsApp dove gli arrivano i messaggi con le richieste di intervento. L’appuntamento, come ogni sera, è alle 23: “Non abbiamo problemi con le forze di polizia, anzi, passiamo l’elenco delle targhe, mi hanno solo consigliato di mettere delle pettorine, così ci possono riconoscere”, assicura. Eppure, la preoccupazione per le ronde è altissima, soprattutto dopo la denuncia fatta dai carabinieri di due persone, trovate con un bastone e un coltello, legate ai gruppi organizzati. I furti - Il 28 novembre il prefetto Maria Rosa Trio, arrivata a Latina pochi giorni fa, ha convocato il tavolo per la sicurezza e l’ordine pubblico, invitando i sindaci della zona del Sud Pontino. Di ronde o gruppi organizzati non vuol neanche sentire parlare: “Devono essere evitate iniziative che possano costituire fonte di pericolo per l’incolumità generale e che, tra l’altro, ostacolano l’attività, istituzionalmente svolta dalle Forze di Polizia”, si legge nel comunicato ufficiale. Le ronde, in altre parole, sono illegali e pericolose. I dati sui furti, poi, parlano chiaro: meno 21 per cento negli ultimi due anni per i reati contro il patrimonio, fanno sapere dalla Prefettura. Ci sono stati alcuni casi isolati, “ma non esiste una vera emergenza”, spiegano fonti investigative. Isteria collettiva, dunque. Oppure una mobilitazione creata ad arte. Le chat segrete - Ossessione per la sicurezza e caccia allo straniero, sono le parole d’ordine che si leggono tra le righe dei messaggi che corrono nelle chat del gruppo di Formia “Occhi aperti”. “Ragazzo romeno che vive a Gaeta”, scrive A., postando la foto di un giovane. “I ladri sono stati rilasciati, comunque sono due romeni che abitano a Minturno”, commenta una donna, postando la foto scattata in una caserma dei carabinieri di quattro ragazzi. E ancora, “Questa ragazza straniera, di origini sicuramente rumene per la parlata, sono tre giorni che si aggira per Maranola”, spiega un altro utente diffondendo la foto di una giovane seduta tranquillamente in un bar. Girano poi frasi pesanti: “Fino a quando qualcuno non gli spara alle gambe e li getta nel fosso”, scrive M., ricevendo come risposta: “Senza far sapere niente a nessuno altrimenti ci si rovina la vita”. Un gruppo, quello di Formia, dove girano nomi di avvocati, ex consiglieri comunali, imprenditori e semplici cittadini. Le forze dell’ordine - La tensione nel sud del Lazio è alta. Alcuni video diffusi sulle chat mostrano quanto fragile sia il limite tra ronde e linciaggi. In alcune immagini si vedono due ragazzi appena fermati dalla polizia. Fanno parte di un gruppo che una ronda ha consegnato alle forze dell’ordine giusto qualche giorno fa. Le Volanti erano intervenute in forze per bloccare la folla, scesa in strada: “Ti fa male la testa? E poi ti passa… Che fai, piangi?”, è il commento che si sente nell’audio, rivolto ai due giovani doloranti. In un altro video - diffuso dalla testata locale H25 - si vede una persona a terra, bloccata. Alla fine, delle tante segnalazioni partite dalle ronde, poco rimane nei verbali delle forze di polizia. Falsi allarmi, isteria e una estrema destra che soffia sul fuoco. Le urne sono vicine. Il paradosso: diminuisce la violenza ma aumenta il rischio femminicidi di Linda Laura Sabbadini La Stampa, 8 dicembre 2017 I dati dell’Istat: le giuste rivendicazioni possono portare a reati più efferati. La violenza contro le donne è molto estesa, non denunciata e soprattutto impunita. Da noi e in tutti i Paesi del mondo. Ma le donne rompono il silenzio e, non solo come documenta il Time. È in crescita la ricerca di aiuto che si esprime nel nostro Paese presso le strutture sanitarie, i centri anti-violenza, gli sportelli, il numero verde 1522, gli avvocati e la polizia. Le donne reagiscono. E raddoppiano quelle che riconoscono che la violenza subita è un reato. La ricerca Istat - A dirlo sono i dati delle indagini Istat condotte nel 2006 e 2014 che tengono conto di tutta la violenza, sia quella denunciata che non denunciata. Ha contribuito a questa crescita di consapevolezza la rottura del silenzio anche nei media che da anni, grazie anche al ruolo delle donne al loro interno, ne parlano, informano, contribuendo a creare un clima di condanna sociale che fa sentire le donne meno sole. Hanno contribuito le donne che si sono impegnate nella lotta contro la violenza nell’associazionismo e nelle istituzioni. Ebbene questo sommovimento femminile è alla base della diminuzione della violenza che è avvenuta dal 2006 al 2014. Sì, diminuzione, vi sembrerà strano, perché la percezione è che la violenza sia in aumento. E non solo ora. Sembrava così anche l’anno scorso, e due o tre anni fa. E invece la violenza è diminuita, sia quella fisica, che sessuale, che psicologica; quella da partner, da ex, da altre persone. Cala inesorabilmente per tutte le fasce di età, ma più tra le giovani studentesse. Ma attenzione, la violenza diminuisce perché è la parte meno grave a calare. Per esempio, quella psicologica che ancora non si è associata a violenza fisica e sessuale. Oppure le molestie fisiche sessuali e non gli stupri. Potrebbe essere che le giovani, per esempio, proprio per questa crescita di consapevolezza femminile, interrompano la violenza quando ancora non si è trasformata in grave, ai primi controlli del fidanzato sul vestirsi, ai tentativi di limitarne la libertà, prevenendo così l’escalation della violenza che arriva subito dopo. E non solo le giovani. Anche le altre, richiedendo più frequentemente l’aiuto dei servizi, riescono ad interrompere la relazione alle prime avvisaglie, prima che diventi più gravemente violenta. Ma i dati ci dicono anche un’altra cosa. I nuovi pericoli - Da un lato stupri e femminicidi, le forme più gravi di violenza contro le donne, non riescono ad essere intaccati. Dall’altro tutta la parte restante di violenza si aggrava, anzi diventa più efferata. Perché? Perché a fronte della crescita di consapevolezza e di ricerca di libertà femminile, a fronte della rottura del silenzio, per gli uomini legati a una visione di possesso e dominio sulla donna, è a rischio la loro impunità. Non deve quindi meravigliare se reagiscono lasciandosi andare a una violenza ancora più efferata. Hanno paura di dover rendere conto a qualcuno di ciò che prima potevano fare tranquillamente nella loro casa. Ma questo provoca un grande pericolo per le donne. Aumentano le donne con ferite, raddoppiano quelle che dichiarano di aver avuto paura per la loro vita nell’ultimo episodio di violenza. Queste donne potrebbero essere a rischio di femminicidio. È così che la ricerca di libertà femminile agisce in positivo, facendo diminuire la violenza nel complesso. I nuovi rischi - Ma la più grave reazione maschile agisce in negativo ed è alla base della maggiore gravità della violenza, su cui attentamente dobbiamo vigilare, perché potrebbe arrivare a tradursi anche in aumento di femminicidi. Attenzione, non sta succedendo, né voglio essere allarmista. Ma sono anche realista, se aumentano le donne a rischio di femminicidio, prima o poi potrebbero aumentare anche i femminicidi. Cosa fare? - Serve massima vigilanza, massimo impegno, di tutti gli attori in campo, delle donne in primis. Bisogna continuare a parlarne sui media e meglio, bisogna adottare politiche permanenti al di là dei governi. Bisogna eliminare gli ostacoli che impediscono alle donne di denunciare, e accompagnarle nel percorso di uscita dalla violenza. Bisogna eliminare la vittimizzazione secondaria che avviene nelle aule dei tribunali. Mi direte e dal 2014 al 2017? Non ci sono dati per poter affermare se questa dinamica sta continuando, ci saranno nel 2019. Ma intanto i femminicidi continuano a essere inchiodati. Rifugiati, sui Paesi dell’Est deciderà la Corte di giustizia di Carlo Lania Il Manifesto, 8 dicembre 2017 La Commissione Ue deferisce Ungheria, Polonia e Cechia ai giudici di Lussemburgo. “Mi auguro che negli ultimi minuti che rimangono questi tre Paesi cambino posizione. Se sarà così ne terremo conto”, dice Dimitri Avramopoulos al termine del Consiglio Affari interni di ieri. Le speranze del commissario europeo per l’immigrazione sembrano però destinate a rimanere tali. Le reazioni che arrivano da Polonia, Repubblica ceca e Ungheria alla decisione della Commissione Ue di deferire i tre Paesi dell’Est alla Corte di giustizia europea perché si rifiutano di accogliere richiedenti asilo da Italia e Grecia, non lasciano infatti pensare a un possibile passo indietro. “Per noi la migrazione illegale è una minaccia e nessuna pressione ci farà cambiare idea” ha subito fatto sapere il ministro degli Esteri di Budapest, Peter Szijjarto. Appena più conciliante il neo premier ceco Andrej Babis, che ha annunciato di voler proporre al Consiglio europeo del 14 dicembre soluzioni alternative per risolvere la crisi dei migranti. La sostanza, però, non cambia. La decisione di ricorrere alla Corte di Lussemburgo è l’ultimo passo della procedura di infrazione avviata dalla Commissione europea contro Ungheria, Polonia e Cechia per la chiusura dimostrata al piano di ricollocamenti deciso nel 2015 dal Consiglio europeo. Un meccanismo che prevede la distribuzione automatica dei rifugiati tra gli Stati membri e la cui validità è stata confermata il 6 settembre scorso proprio dalla Corte di giustizia europea. A Bruxelles si sperava in una cambio di passo da parte dei tre Paesi che con la Slovacchia formano il blocco di Visegrad. Invece niente. “Mentre gli altri Stati membri hanno ricollocato e preso impegni nei mesi passati - spiegava ieri una nota della Commissione - l’Ungheria non ha intrapreso nessuna azione”, “la Polonia non ha ricollocato nessuno e non ha preso impegni dal dicembre 2015” e “la Repubblica ceca non ha redistribuito nessuno dall’agosto 2016 e non ha preso alcun impegno per oltre un anno”. Insomma chiusura totale, è la conclusione amara. Adesso il deferimento alla Corte di Lussemburgo è destinato a complicare ulteriormente i già difficili rapporti tra le istituzioni europee e i paesi dell’Est. Per quanto riguarda l’Ungheria, in particolare, ieri la Commissione ha anche deciso di ricorrere al parere della Corte di giustizia per quanto riguarda la legge anti-Ong approvata da Budapest, ma anche di procedere con la procedura di infrazione in relazione alla sua legislazione in materia di diritto d’asilo. “Una cosa deve essere molto chiara: non possono esserci soluzioni alla free-rider” ha spiegato il vicepresidente della Commissione Frans Timmermans, lasciando intendere che nessun Paese può decidere da solo come agire. “Se uno Stato membro si trova ad affrontare una crisi, deve poter contare sulla solidarietà di ciascun altro Stato membro. Non ci si può sfilare dalla solidarietà perché non ci si sente a proprio agio”. Seppure indirettamente, la risposta a Timmermans è arrivata da Varsavia. Le quote - spiega una nota del ministero degli Esteri polacco - non solo non hanno contribuito a migliorare la situazione della migrazione né la sicurezza europea”, ma “hanno approfondito in modo significativo le divisioni tra gli Stati membri”. Una situazione a quanto pare destinata a proseguire. Il capo dei servizi segreti italiani: “così difendiamo tutti, pedinando algoritmi” di Marco Galluzzo Corriere della Sera, 8 dicembre 2017 Il nuovo ruolo dei Servizi e la minaccia digitale: “Siamo usciti dalla cultura della segretezza, oggi difendiamo tutti”. George Smiley, la più celebre spia della letteratura, è solo un vago ricordo. Il capo del governo, Paolo Gentiloni, pochi giorni fa, lo ha detto davanti ad un’anomala platea fatta di 007 nostrani: “Non è più il tempo del “Ponte delle Spie”. Ha concluso la riflessione il capo del nostri servizi segreti, l’ex super poliziotto Alessandro Pansa, oggi alla guida del Dis, il Dipartimento per le Informazioni e la Sicurezza: “Ieri eravamo gestori di segreti, oggi siamo professionisti della sicurezza, domani, e più che mai, dovremo essere cittadini del mondo. Esiste una fisionomia nuova dell’intelligence”. La metamorfosi - La metamorfosi dei nostri apparati di sicurezza, raccontata dagli stessi protagonisti, è andata in scena all’Auditorium di Roma, per celebrare i dieci anni della riforma della struttura e dell’organizzazione dei nostri servizi. Davanti al capo dello Stato e alle più alte cariche delle nostre istituzioni, il Dis ha celebrato con un evento pubblico, il primo della sua storia, ancorché ad inviti, la trasformazione che sta vivendo. Un passaggio di non poco conto se i nostri servizi hanno ingaggiato Fiorello per il video di una campagna che farà capolino fra scuole, università e imprese, sulla consapevolezza digitale. E se hanno chiamato uno scienziato come Mario Rasetti, fisico di fama mondiale dell’Isi di Torino, per descrivere l’evoluzione, anche digitale, di un mestiere che ha sempre coniugato fascino a mistero. Si pedina un algoritmo - Alcune centinaia di 007, in sala Petrassi, hanno ascoltato Rasetti delineare i contorni dei Big data, un’occasione ma anche minaccia globale, come sappiamo: “Entro meno di 10 anni avremo 150 miliardi di dispositivi e sensori, 20 volte più numerosi degli uomini sulla Terra, connessi fra loro e con le persone, in un’immensa rete globale. Nel 2016 abbiamo generato tanti dati quanti ne sono stati prodotti nell’intera storia dell’umanità fino al 2015. Fra dieci anni la quantità di dati raddoppierà ogni 12 ore”. Insomma una volta gli appostamenti erano dietro un palazzo, oggi sono digitali. Un tempo si pedinavano persone, oggi si inseguono algoritmi. Le nuove spie, i giovani talenti - E se Pansa ha chiamato Rasetti a tenere la prolusione più lunga, davanti a Sergio Mattarella, ha voluto anche dare il senso di quanto e come stanno cambiando i nostri apparati di sicurezza. E in questo senso, ha scritto Pansa, “la cyber security sta evolvendo a concetto geopolitico strategico, perché gli attacchi minacciano tutti: governi, imprese, singoli cittadini”. Le spie del futuro non sono più ex agenti in divisa, magari sono ingegneri, biochimici, informatici. Per questo i nostri servizi, ha aggiunto Pansa, stanno facendo “una politica di selezione del personale rivolta non solo ai quadri della Pubblica amministrazione ma anche ai giovani talenti, bacino indispensabile per la contaminazione dei saperi e, al contempo, per mettere in campo le professionalità migliori”. Un quadro che si completa con gli effetti della globalizzazione sul nostro sistema di sicurezza: “Non siamo più solo difensori dell’integrità, indipendenza e sicurezza istituzioni dello Stato, della sicurezza interna ed esterna della Repubblica, ma anche degli interessi economici, industriali e scientifici del Paese. La difesa non è più dello Stato ordinamento, ma dello Stato comunità, uno spazio in ci si muovono soggetti pubblici e privati”. La scelta culturale - Ed è anche per questo che il nostro Dis, che coordina i due bracci dei servizi, ha un ruolo ben più ampio che nel passato: sempre più spesso ha mezzi e risorse che esercitano anche una supplenza rispetto alle procedure delle alte amministrazioni dello Stato, da quella per la legge del Golden power (a difesa delle nostre imprese strategiche) all’affiancamento in alcuni obiettivi degli investimenti esteri, o di alcune politiche aziendali. Scrive ancora Pansa: “La riforma del 2007 è stata una scelta culturale, prima ancora che legislativa, quella di emancipare i Servizi segreti dall’alveo angusto della cultura della segretezza, per consentire loro di operare in un mondo che non si esaurisce più nel planisfero delle frontiere fisiche e che richiede una cultura nuova della sicurezza diffusa, e partecipata a tutti i livelli, dal circuito istituzionale al tessuto produttivo e imprenditoriale, dalla comunità scientifica e accademica alla società civile”. C’era una volta l’agente segreto che proteggeva le cariche dello Stato, oggi contribuisce a proteggere anche la ricerca accademica o di un’azienda, se strategica per il Paese. Medio Oriente. A Gerusalemme Hamas chiama all’Intifada: scontri e feriti di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 8 dicembre 2017 Sale la tensione dopo l’annuncio di Trump. Razzi da Gaza contro il Negev, l’esercito israeliano risponde al fuoco, invia i rinforzi e spara sui manifestanti. Cosa capiterà nelle prossime ore? È possibile una “terza Intifada”, dopo quella “delle pietre” nel 1987 e quella “delle bombe” agli inizi dello scorso decennio? Tante volte negli ultimi anni israeliani e palestinesi si sono posti queste domande. E ora, come nel passato, le risposte restano estremamente variegate. Certamente le piazze di Cisgiordania e Gaza sono in subbuglio. Il discorso di Donald Trump sul riconoscimento di Gerusalemme “capitale di Israele” ha riacceso rabbia, passioni e ostilità. E non manca chi soffia sul fuoco. In tutte le zone palestinesi è stato indetto lo sciopero generale. I leader dei gruppi islamici estremisti legati alla galassia di Hamas incitano senza mezze parole alla “terza Intifada”, a cominciare dalle mobilitazioni popolari per le preghiere del venerdì oggi a mezzogiorno. “Domani sarà il giorno della rabbia”, proclamavano in serata. Il presidente dell’Autorità Palestinese, Mahmoud Abbas, ha intanto lanciato un appello al Consiglio di Sicurezza dell’Onu affinché condanni la mossa di Trump. Ieri persino la relativamente pacifica Betlemme è ripiombata nel clima delle manifestazioni violente tanto comune nei decenni passati. L’accesso all’alto muro di cemento che divide Gerusalemme da Betlemme è stato inaccessibile per alcune ore. “Potrebbero essere pregiudicate le feste del Natale”, paventano i negozianti cristiani. Nella parte palestinese le strade maggiori erano bloccate da copertoni in fiamme e occasionali sassaiole. L’esercito israeliano aveva mandato rinforzi, con truppe munite di proiettili di gomma e lacrimogeni. Scene simili si sono ripetute a Ramallah, la capitale dell’Autonomia palestinese in Cisgiordania. Nella striscia di Gaza gli scontri sono stati più violenti. La guerriglia islamica pro Hamas ha anche sparato tre razzi verso le cittadine israeliane del Negev, che però sono caduti ben lontano dalle abitazioni. L’esercito israeliano ha risposto sparando questa volta proiettili d’ordinanza contro i manifestanti e ricorrendo anche alle artiglierie dei carri armati verso le postazioni di Hamas nella parte centrale della Striscia. Nella zona della città vecchia di Gerusalemme si sono registrati tafferugli presso la porta di Damasco. Ieri sera era registrato un bilancio di dozzine di feriti in tutta la regione, per lo più civili arabi affetti dai lacrimogeni. Pare vi sia un solo caso estremamente grave. Difficile capire se davvero la “terza Intifada” sia decollata. “Non abbiamo leader carismatici. I palestinesi sono scoraggiati”, minimizzava ieri sera Imad Muna, noto libraio di Gerusalemme Est. Nel quartiere ebraico della città vecchia era invece festa grande. Diceva un cambia valute: “Finalmente Trump riconosce l’ovvio. Per noi è una vittoria. Speriamo però che non ci sia una nuova ondata di violenza”. Turchia. Si apre processo a Demirtas, l’oppositore resta in carcere euronews.it, 8 dicembre 2017 I giudici hanno deciso che il leader del partito filo-curdo deve restare in prigione fino a febbraio, data della prossima udienza. All’apertura del processo centinaia di persone hanno manifestato sostegno all’oppositore, accusato di attività terroristiche. Il partito denuncia un “processo politico”. Resterà in carcere fino alla prossima udienza a febbraio il leader del partito filo-curdo turco Hdp Selahattin Demirtas. Lo hanno deciso i giudici riuniti nel penitenziario di Sincan, vicino Ankara. A Demirtas è stato vietato di partecipare fisicamente all’apertura del processo, per motivi di sicurezza. L’oppositore si è rifiutato di intervenire in videoconferenza dal carcere di Edirne dove si trova da 13 mesi. Centinaia di persone gli hanno manifestato sostegno. Il partito parla di “processo politico”. “Non sarà un processo giusto, lo sappiamo” dice Huseyin Korkmaz, membro dell’Hdp. “Questo caso è stato portato in cinque o sei tribunali. È stato spostato dall’uno all’altro. Hanno creato un caso eccezionale attraverso un decreto governativo. Stanno cercando di promulgare una legge su misura. Stanno cercando di trovare il modo per processarlo e tenerlo in prigione”. Demirtas è accusato di guidare un’organizzazione terroristica e di collaborare con il PKK. Rischia fino a 142 anni di carcere. Assieme a lui l’anno scorso sono stati arrestati una decina di membri del suo partito. Afghanistan. Un vademecum per aiutare le donne vittime di violenza Redattore Sociale, 8 dicembre 2017 Si chiama “Exit from violence. You are not alone” ed è stato realizzato in 10mila copie da Cospe e Caamst. Sarà distribuito nei centri donne e nelle case protette. Si chiama “Exit from violence. You are not alone” ed è un vademecum illustrato per riconoscere e denunciare la violenza quotidiana in Afghanistan. A realizzarlo il Cospe e Caamst, azienda di ristorazione italiana, in collaborazione con Cisda e la Casa delle donne di Milano. Si tratta di una vera e propria guida per conoscere i propri diritti, le leggi vigenti e, soprattutto, per riconoscere la violenza (sia essa domestica o istituzionale, psicologica, fisica o verbale) fin dal suo insorgere e, infine, come fare per denunciarla e combatterla. Contiene informazioni pratiche su cosa fare in caso di violenza, a chi rivolgersi, cosa si può fare dal punto di vista legale per allontanare il partner violento. Il vademecum verrà distribuito in 10mila copie nei centri donne e nelle case protette gestite dalle associazioni afghane con cui collabora il Cospe, oltre che nei quartieri in cui si trovano queste strutture. “L’entità della discriminazione e il divario di genere in Afghanistan- dice Anna Meli di Cospe - si presentano con ferocia in tutti i settori sociali, politici e personali: nell’accesso alla salute e all’istruzione, nell’accesso e nel controllo sulle risorse, nelle opportunità economiche, nell’accesso alla giustizia e nella rappresentanza politica. Questa iniziativa ci aiuta a dare un aiuto concreto alle donne che beneficiano dei nostri progetti e a portare alla luce anche in Italia questa situazione”. L’Afghanistan è infatti uno dei paesi peggiori dove nascere donna: quasi 40 anni di guerra, fondamentalismo, insicurezza, impunità e illegalità hanno creato un contesto in cui la violenza contro le donne è profondamente radicata nella società. La legge del 2009 sull’eliminazione della violenza contro le donne non viene applicata. Alcune statistiche sono scioccanti: l’80% dei matrimoni sono forzati e, in gran parte, precoci; l’82% dei casi di violenza fisica, psicologica e sessuale avviene all’interno della famiglia; nella maggior parte dei casi di stupro è la donna che viene incolpata; l’analfabetismo tra le donne oggi è all’84%, un miglioramento di soli 4 punti rispetto all’88% del 2002. Ci sono 25.000 morti materne ogni anno; la maggior parte dei detenuti sono donne, in gran parte in prigione per “crimini di offesa alla morale”, secondo un’interpretazione radicale della Sharìa. Nel 2016 sono stati 5000 i casi di violenza registrati al Ministero per le pari opportunità e la Commissione per i diritti delle donne, ma molti, moltissimi, di più sono quelli non pervenuti. Somalia. Strage in una fattoria di agricoltori scambiata per un campo di al-Shabaab di Marco Cochi* La Repubblica, 8 dicembre 2017 Un nuovo reportage svela i retroscena dell’attacco somalo-statunitense. Un errore che potrebbe essere stato provocato volutamente, nell’ambito di una lotta tra clan che ha causato la morte di dieci civili e l’avanzata del movimento jihadista sul territorio. In un comunicato ufficiale rilasciato lo scorso 29 novembre - si apprende su Nigrizia - il Comando militare americano in Africa (Africom) ha smentito l’uccisione a sangue freddo di dieci civili, tra cui tre bambini, avvenuta lo scorso 25 agosto nel corso di un blitz mirato nel villaggio di Bariire, nella provincia del Basso Shabelle, nel sud della Somalia. L’operazione congiunta dei corpi speciali statunitensi e delle truppe dell’esercito nazionale somalo, era diretta verso quello che era stato segnalato come un campo di addestramento di al-Shabaab, ma che in realtà era una fattoria, dove vivevano e lavorano degli agricoltori. La strage ha suscitato l’indignazione della popolazione locale, tanto che il giorno dopo centinaia di persone sono scese in piazza nella vicina città di Afgoi, chiedendo giustizia per le vittime, mentre sui social media si scatenava l’indignazione dei somali. La ricostruzione del Daily Beast. Ora, una lunga e dettagliata inchiesta pubblicata sul giornale online Daily Beast, smentisce in pieno la dichiarazione dell’Africom, proponendo una ricostruzione del tutto diversa di quanto accaduto, basata sulla testimonianza diretta di tre agricoltori scampati al massacro: Abdullah Elmi, Goomey Hassan e Alì Osman Diblawe. Per approfondire quanto accaduto a Bariire, la fotoreporter statunitense Christina Goldbaum, autrice del reportage, ha interpellato anche 25 ufficiali dell’intelligence somala, analisti politici, leader locali e funzionari governativi, che hanno avuto accesso a informazioni riservate. Secondo quanto emerso dalla ricostruzione del Daily Beast, i soldati americani e somali hanno attaccato una fattoria a sud di Bariire, dove erano presenti alcuni membri del clan Habar Gidir, scambiandoli per un gruppo di miliziani. La dinamica dell’attacco non è ancora chiara. Il giornale online riporta che i proiettili esplosi durante l’operazione appartenevano ad armi americane, elemento che induce alla logica conclusione che a sparare contro i civili siano stati i soldati dell’Africom. Le false notizie dell’interprete, l’ex Shabaab e i clan. Bashir, Sheegow e il clan Biyomal. I sopravvissuti all’attacco sospettano che un interprete, noto come Bashir, possa aver manipolato le informazioni fornite ai militari statunitensi, per spingerli ad attaccare la fattoria. Bashir era già sospettato di aver dato le indicazioni sbagliate che, nel settembre 2016, indussero gli americani a sferrare un attacco aereo contro una postazione jihadista nei pressi della città di Galkayo, nella regione centrale di Galmudug. Nell’attacco però non fu colpito nessun miliziano di al-Shabaab, bensì furono uccisi 22 soldati somali che perlustravano il territorio per garantire la sicurezza ai pastori nomadi. Allo stesso modo, le testimonianze raccolte portano a credere che l’interprete abbia indotto gli americani a credere che gli occupanti della fattoria fossero dei terroristi, perché sua moglie fa parte del clan Biyomal, rivale del clan Habar Gidir, cui appartenevano i civili uccisi. Fra le altre possibili cause dell’attacco, il reportage cita anche le scarse capacità di un alto ufficiale dell’esercito somalo, il generale Sheegow Ahmed Ali, comandante di al-Shabaab fino al 2011, quando passò alle forze governative con cinquanta suoi fedelissimi. Sheegow ha anche collaborato a lungo con le milizie del clan Biyomal, guidate da Abdullahi Ali Ahmed, meglio noto come Wafo, che sarebbe stato denunciato per aver attaccato ripetutamente civili del clan Habar Gidir, approfittando della protezione dell’Amisom. L’intervista a uno dei superstiti. Le testimonianze raccolte nell’inchiesta rivelano pure che Sheegow aveva lavorato alla fase preparatoria dell’operazione militare a Bariire. Inoltre, Alì Osman Diblawe, uno dei tre superstiti intervistati da Christina Goldbaum, ha raccontato di aver incontrato il generale somalo prima dell’attacco e di avergli chiesto di lasciarlo parlare direttamente con gli americani, per spiegargli che non esisteva alcun legame tra gli abitanti del villaggio e al-Shabaab. Sheegow, però, ignorò la richiesta di Diblawe. Intervistato dal Daily Beast, il generale somalo ha negato di aver incontrato Diblawe prima dell’operazione, anche se immediatamente dopo il blitz ha riferito ai media locali di aver “parlato con i contadini della zona ordinandogli di riporre le loro armi nelle case per evitare di confonderli con i miliziani di al-Shabaab”. L’errore fatale. Secondo le testimonianze raccolte da un funzionario governativo e da un ex agente dell’intelligence locale, un’indagine dell’esercito somalo avrebbe confermato che i morti erano civili e che gli americani hanno esercitato pressioni per insabbiare il caso. Il presidente somalo ha però rifiutato di coprire le responsabilità dei soldati statunitensi, consapevole delle conseguenze politiche che avrebbe prodotto un simile diniego. Sembra inoltre che il governo somalo abbia pagato fra i 60mila e i 70mila dollari alle famiglie delle persone uccise e secondo entrambe le fonti, i dollari sono arrivati dal governo americano. È invece evidente che poco più di un mese dopo il massacro della fattoria, i quattro avamposti che gli americani avevano organizzato con l’esercito somalo intorno a Bariire sono stati spazzati via dalle forze di al-Shabaab. Oggi il villaggio è nuovamente controllato da loro, mentre Diblawe, Abdullahi e Goomey, che hanno perso dieci persone a loro care, sono ancora una volta sotto il dominio degli jihadisti. *Marco Cochi scrive per Nigrizia