Onu: la legge sulla tortura e il 41bis sono da rivedere di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 7 dicembre 2017 Il Comitato Onu contro la tortura ha presentato a Ginevra le conclusioni e le raccomandazioni. Rivedere la legge che introduce il reato di tortura, perché incompleta e modificare il 41bis per allinearlo agli standard internazionali sui diritti umani. Sono i principali rilievi mossi all’Italia dal Comitato Onu contro la tortura (Cat) che ha presentato, ieri, a Ginevra, le conclusioni e le raccomandazioni sul rispetto della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura. A proposito della recente adozione della legge che introduce il reato di tortura, pur prendendo atto che stabilisce un reato ben specifico, il Comitato ha ritenuto che la definizione contenuta nella legge “sia incompleta in quanto non menziona lo scopo dell’atto in questione”. Inoltre, ha osservato ancora il Comitato, il reato non include le specifiche relative all’autore, con un riferimento a pubblici ufficiali. Non solo: la legge contiene anche una “definizione significativamente più ridotta di quella contenuta nella Convenzione e stabilisce una soglia più elevata per il reato”. Il Comitato, quindi, ha suggerito all’Italia di “portare il contenuto dell’articolo 613bis (reato di tortura, ndr) del Codice Penale in linea con l’articolo 1 della Convenzione, eliminando tutti gli elementi superflui e identificando l’autore e i fattori motivanti o le ragioni per l’uso della tortura”. Per gli esperti dell’Onu, dunque, le “discrepanze tra la definizione della Convenzione e quella incorporata nel diritto interno creano spazi reali o potenziali per l’impunità”. A sollevare al Comitato dell’Onu contro la tortura il problema della difformità del reato di tortura, oltre all’associazione Antigone, è stato il Partito Radicale. Elisabetta Zamparutti, della presidenza del Partito Radicale e tesoriera di Nessuno tocchi Caino che con Marco Accorroni ha curato il ricorso, ha dichiarato: “Di tutta evidenza, l’Italia continua a violare l’obbligo di introdurre quel reato di tortura che si era impegnata a far proprio oltre 26 anni fa. In questo modo lo Stato manifesta debolezza e non forza, autoritarismo e non autorevolezza. Ci auguriamo che lo Stato italiano assicuri, come chiesto dal Cat, la conoscenza delle sue raccomandazione in modo che cresca la consapevolezza dei cittadini sui principi dello Stato di Diritto”. Tra le raccomandazioni espresse dal Comitato, c’è anche quella di garantire che le denunce per tortura, maltrattamenti e uso eccessivo della forza siano esaminate in maniera imparziale e fare in modo di assicurare che tutte le vittime di tortura e maltrattamenti ottengano riparazione. Infatti, Il Cat, a novembre, ha chiesto spiegazioni sui casi delle violenze nei confronti di detenuti ad Asti dove c’è stata la recente condanna dal parte della Cedu e anche il caso riguardante l’ex detenuto Giuseppe Rotundo, colui che aveva denunciato di essere stato denudato e picchiato in cella d’isolamento nel carcere foggiano di Lucera. Mentre in Italia ancora non si affievoliscono le polemiche sulla nuova circolare sul 41bis che ha semplicemente uniformato le regole preesistenti per tutte le carceri che ospitano la detenzione speciale, il Comitato dell’Onu, nella relazione di ieri, conferma invece la sua critica al regime speciale e invita il governo italiano ad allineare il 41bis alle regole minime standard delle Nazioni Unite per il trattamento dei prigionieri (regole Nelson Mandela). Sempre sul fronte della detenzione, gli esperti esprimono apprezzamento per l’istituzione del Garante Nazionale dei detenuti e delle persone private della libertà, ma chiedono all’Italia di “continuare i suoi sforzi per migliorare le condizioni di detenzione e alleviare il sovraffollamento”. Gli esperti del Cat hanno anche confermato le critiche sul memorandum tra Italia e Libia, l’accordo sottoscritto lo scorso febbraio che punta a risolvere “alcune questioni che influiscono negativamente sulle Parti, tra cui il fenomeno dell’immigrazione clandestina e il suo impatto, la lotta contro il terrorismo, la tratta degli esseri umani e il contrabbando di carburante”. Il Comitato, su questo punto ha espresso “profonda preoccupazione” per la mancanza di garanzie che permetterebbero di riconsiderare la cooperazione alla luce di possibili gravi violazioni dei diritti umani. L’Onu ha comunque apprezzato gli sforzi compiuti dall’Italia per rispondere al grande flusso di richiedenti asilo, persone bisognose di protezione e migranti irregolari, ma ha esortato il paese a garantire che le procedure accelerate previste dagli accordi di riammissione e dalla legge siano soggette a “una valutazione approfondita caso e per caso dei rischi di violazione del principio di non respingimento”. Innocenti in cella, risarcimenti per 21 milioni di euro in soli cinque mesi di Francesco Lo Dico Il Mattino, 7 dicembre 2017 Ventuno milioni di euro in soli cinque mesi. È questa la cifra che racconta i guasti del sistema giudiziario. Da gennaio a fine maggio lo Stato italiano è stato condannato a pagare secondo i dati del ministero dell’Economia 21 milioni di danni a 475 cittadini che hanno subito un’ingiusta detenzione. Uomini comuni, professionisti, malcapitati di ogni estrazione sociale, che si sono trovati chiusi in cella da un momento all’altro prima dello svolgimento di un regolare processo, o che hanno passato mesi o addirittura anni in carcere in seguito a una condanna definitiva, per poi essere scarcerati perché innocenti con tante scuse e pochi spiccioli di indennizzo per l’errore giudiziario. Il primato delle ingiustizie, com’è ormai tradizione consolidata, appartiene al Sud. E in particolare alla Calabria, dove sono stati versati 4 milioni e mezzo di euro per un errore giudiziario e 74 ingiuste detenzioni nella corte d’Appello di Catanzaro. Ma la Campania segue a ruota: Napoli, con 63 risarcimenti registrati fino al 31 maggio di quest’anno e risarcimenti per 1,9 milioni di euro complessivi, è la seconda città italiana per casi di ingiusta detenzione. La città si avvia a celebrare quindi un’altra annata nera, in perfetta sintonia con un 2016 da incubo che ha visto la Corte di Appello di Napoli liquidare 350 indennizzi per ingiusta detenzione ad altrettanti cittadini arrestati ingiustamente, per un totale di 4 milioni e duecentomila euro di risarcimenti. Nella bolgia dell’ingiustizia napoletana, fatta di tempi biblici, di abusi della custodia cautelare, di carceri campane sovraffollate dove 7.219 detenuti devono sgomitare in spazi previsti per 6.120 persone, le storie di malagiustizia sono varie e drammatiche. E riguardano protagonisti involontari come Vittorio U., operaio quarantenne in un’officina di Frosinone, che ha trascorso quattro anni della sua vita tra Poggioreale Santa Maria Capua Vetere perché gli inquirenti napoletani lo avevano scambiato per un pericoloso boss della camorra attivo nel narcotraffico. L’uomo era stato arrestato in un blitz che aveva portato all’arresto di altre 47 persone, e subito rinchiuso in carcere in regime di custodia cautelare. In dibattimento, il suo avvocato Francesco Galella grida a gran voce all’errore giudiziario, ma il pm è inflessibile: per il meccanico-boss accusato di spacciare droga direttamente dall’Olanda e dall’Inghilterra chiede 24 anni di carcere. Intanto il processo continua. Va avanti per quasi quattro anni. Poi la sentenza: Vittorio U. è innocente. Non è il Pablo Escobar del frusinate, ma solo un semplice meccanico che lavora in officina dalla mattina alla sera. Un comune lavoratore che però ha trascorso 1.460 giorni dietro le sbarre, in attesa di giudizio. Sposato e padre di tre figli, Vittorio è innocente ma appena uscito di galera paga il marchio dell’infamia. Trova soltanto piccoli lavoretti che fanno vivere di stenti lui e i suoi bambini. Infine, dopo una lunga trafila, la boccata d’ossigeno a novembre di quest’anno: dalla Corte d’Appello di Napoli un risarcimento di 352mila euro per ingiusta detenzione, ma anche la difficile sfida di reinventarsi una vita daccapo. In questo Paese l’ingiusta galera è come la livella di Totò: come la morte non risparmia nessuno. Napoli è stata salomonica: non ha risparmiato l’operaio, ma neanche l’ingegnere. La storia è quella di Claudio Tomada, ingegnere friulano di 58 anni che viene arrestato dai carabinieri di Udine in esecuzione di un’ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip del Tribunale di Napoli. Il 3 dicembre 2013 Tomada viene prelevato a casa e portato in caserma con l’accusa di riciclaggio e associazione a delinquere di stampo mafioso. In questo caso i magistrati napoletani si sono fatti persuasi che il professionista abbia usato fior di denari riconducibili al clan camorristico La Torre-Boccolato per realizzare un impianto per la panificazione in Costa d’Avorio, del cui progetto sarebbe l’architetto e il redattore materiale. Intanto l’uomo trascorre venti giorni agli arresti domiciliari. Poi il tribunale della Libertà di Napoli si accorge che dei soldi illeciti usati da Tomada si sa ben poco, e che l’accusa dà per scontato che questi vengano da camorristi di cui le attitudini criminali sono tutt’altro che certe. Infine, la pietra tombale sull’inchiesta: dopo tanto rumore si scopre che il famoso panificio in Costa d’Avorio non esiste neppure. “Siamo in presenza di un progetto che ha visto impegnato l’indagato in vista della sua possibile realizzazione - scrivono i giudici del Tribunale della Libertà - ma che è rimasto tale, in quanto privo di un significativo principio di esecuzione e che si è arenato quasi sul nascere, non si sa neppure per quale motivo”. Nonostante la fragilità dell’impianto accusatorio, l’ingegnere friulano si vede riconosciuta l’innocenza più di due anni dopo. Il Gip lo scagiona il 12 febbraio del 2015 da ogni reato contestato. In manette per nulla nel 2013, Tomada ottiene il risarcimento per l’ingiusta detenzione soltanto il 26 luglio di quest’anno. Ma a quattro anni dall’arresto, mentre la sua carriera da professionista è stata azzerata dalle accuse, riceve di obolo di 10mila euro per il “conseguente discredito sociale e danno all’immagine”. Avrebbero potuto essere molti di più, dato che era del tutto innocente. Ma anche se il gip lo ha assolto, la Corte d’Appello insiste: a Tomada tocca un risarcimento ridotto per questioni morali L’uomo ha avuto “una condotta di ambigua frequentazione, non sorretta da idonea giustificazione”, scrivono i giudici. Nella catena di deduzioni e controdeduzioni, che in fondo è il cardine di un giusto processo, si insinuano però a Napoli, più che altrove, troppi granelli che inceppano il meccanismo. Disfunzioni, da tempo irrisolte, come quelle che denunciano gli avvocati penalisti della Campania che si asterranno dalle udienze in tutti i tribunali della regione dall’11 al 15 dicembre. I legali denunciano la presenza di un solo cancelliere allo sportello per le relazioni con il pubblico, e attese che arrivano a un’ora e mezzo per accedere a informazioni vitali. Segnalano che le misure alternative, che pure potrebbero alleggerire le carceri campane, registrano ritardi per i continui rinvii delle udienze. E infine la circostanza più beffarda di tutte: le istanze di liberazione anticipata, spiegano gli avvocati delle Camere penali campane, non di rado vengono decise a Napoli dopo che il fine pena è già maturato. Progetto “#RipartoDaMe”. Fondazione Adecco, per i carcerati il ritorno al lavoro di Stefano Pasta Famiglia Cristiana, 7 dicembre 2017 Alcune aziende hanno già aderito al nuovo progetto con il carcere di Bollate di Milano, per aiutare i detenuti a rientrare nel mondo del lavoro “Fare del bene fa bene. Anche alle aziende”. Parola di Giovanni Rossi, segretario generale della Fondazione Adecco per le pari opportunità. Continua: “Quando si svolge attività d’impresa, si ha una responsabilità economica ma anche sociale. Se una società si impegna in programmi solidali, migliora la reputazione e il proprio prestigio presso i clienti”. Lo confermano diverse ricerche americane e della Bocconi. Proprio agli Usa si è ispirata la Fondazione Adecco per ideare #RipartoDaMe, il progetto pilota con cui 14 detenuti di Bollate (Mi) saranno avviati al lavoro nelle prossime settimane. “È una prassi comune negli Stati Uniti” spiega Rossi, “perché, quando il fine pena si avvicina, un impiego è decisivo per il reinserimento e per abbattere la recidiva”. È il tasso di chi torna a delinquere una volta uscito dal carcere la spia del fallimento del sistema giustizia italiano a cui la Costituzione affida la funzione rieducativa della reclusione. Tutte le statistiche confermano che abbatte la recidiva compiere attività non dietro le sbarre: eppure soltanto il 27% dei detenuti svolge un’esperienza di lavoro durante la permanenza in carcere e di questi un’esigua minoranza (il 19%) fuori dalla prigione. Il progetto di Adecco è promosso in collaborazione con la Fondazione Alberto e Franca Riva e l’Università Cattolica: “Per chi, magari da un decennio, non lavora o non ha avuto contatti con l’esterno”, dice Rossi, “occorre acquisire gli strumenti per reinserirsi sul mercato”. Le attività prevedono colloqui individuali, redazione di un progetto professionale, orientamento e monitoraggio durante il percorso. Nonostante lo stigma che talvolta colpisce i carcerati, alcune aziende hanno espresso la loro disponibilità. Si tratta di imprese grandi e piccole, di diversi settori, dalla ristorazione all’ingegneristica. Uno dei 14 detenuti è già stato inserito come metalmeccanico. Spiega ancora Rossi: “Vogliamo allargare la rete, attività complessa poiché significa affrontare gli stereotipi e sconfiggere i pregiudizi”. Associazione Bambinisenzasbarre. Papà, esci dalla cella e fai gol con me di Eugenio Arcidiacono Famiglia Cristiana, 7 dicembre 2017 Si è svolta l’altro ieri nelle carceri milanesi e in altri istituti di pena italiani La partita con papà, iniziativa dell’associazione Bambini senza sbarre per aiutare i figli di genitori detenuti a migliorare i rapporti con loro. Sono 100 mila i bambini figli di detenuti in Italia e per aiutarli a incontrare i loro papà fuori dalle celle l’associazione Bambinisenzasbarre ha organizzato ieri, per il terzo anno consecutivo “La partita con papà”. In contemporanea nelle tre carceri milanesi di Opera, San Vittore e Bollate, e altre sul territorio nazionale i piccoli hanno potuto giocare con i loro papà, un po’ come possono fare tutti i giorni al parco i loro amici più fortunati. Questa giornata è stata organizzata con il sostegno del Ministero di Giustizia-Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, un’iniziativa unica in Europa, per sensibilizzare le istituzioni, i media e l’opinione pubblica sulla situazione di questi bambini che vivono la separazione dal proprio genitore detenuto. Testimonial dell’evento è stata Regina Baresi, figlia dell’ex difensore dell’inter Beppe e capitano dell’Ad Inter femminile, che ha arbitrato la partita nel carcere di Bollate. “La partita con papà” si inserisce nella Campagna “Dona un abbraccio”, che si concentra propio sulla necessità di mantenere il legame con il genitore, fondamentale per la crescita del bambino. “Un legame che si fonda sugli aspetti affettivi della relazione che vengono salvaguardati. Il padre in carcere continua ad amare il figlio e viceversa - afferma Lia Sacerdote, presidente dell’associazione - Il mantenimento del legame tra il genitore e il figlio, durante la detenzione, svolge un’importante funzione preventiva rispetto a fenomeni di devianza giovanile, abbandono scolastico, illegalità, più frequenti in presenza di un’interruzione del rapporto genitori figli”. Questa giornata speciale punta anche a porre l’accento sui pregiudizi di cui sono spesso vittime questi bambini, “che si trovano a dover pagare per un crimine che non hanno commesso, perché troppo spesso stigmatizzati ed emarginati, e per ricordare che il figlio di genitori detenuti è innanzitutto un bambino con i suoi bisogni e i suoi diritti”. L’associazione Bambinisenzasbarre, attiva da 15 anni ha firmato il protocollo Carta dei diritti dei figli dei detenuti, prima in Europa nel suo genere, con il Ministero della Giustizia e con il Garante dell’Infanzia e dell’Adolescenza e ha realizzato lo Spazio Giallo all’interno delle carceri: ambiente protetto dove far incontrare genitori e figli. I fondi raccolti dalla campagna “Dona un abbraccio” verranno utilizzati per creare nuovi Spazi Gialli negli istituti di detenzione italiani. “Celle negli stadi”. L’Antimafia ha avuto un’idea... un po’ cilena di Errico Novi Il Dubbio, 7 dicembre 2017 La proposta della bicamerale: creare micro-carceri negli impianti sportivi. E non è solo un’idea vagheggiata. È una proposta normativa, messa per iscritto e inserita nella relazione finale che sarà approvata oggi dal comitato Mafia e Manifestazioni sportive, sotto-organismo della commissione Bicamerale Antimafia. Il documento arriva tardi. “Peccato che non ci sia tempo di tradurre le misure ipotizzate in integrazioni alla disciplina vigente”, si lamenta con grande rammarico un altro componente del gruppo specializzato istituito all’interno dell’Antimafia, il Cinque Stelle Luigi Gaetti. Il quale peraltro condivide con Di Lello anche lo “status” di vicepresidente della Bicamerale guidata da Rosy Bindi. Mai però ci si sarebbe potuti aspettare che lui e Di Lello condividessero un’idea estrema, per usare un eufemismo, quale l’allestimento di carceri dentro gli stadi. Rischiamo di sentirci dire che “così le famiglie torneranno a vedere le partite”. Ahia: argomento ricorrente. Più si militarizzano i campi di gioco più dovrebbero tornare gli spettatori tranquilli. Non è così e la storia di questi ultimi anni lo insegna. La Tessera del tifoso è stata così micidiale come deterrente per il pubblico civile che da quest’anno lo stesso ministero dell’Interno ha dato il via libera per attenuarne i mortiferi effetti, e limitare solo a casi particolari il divieto di trasferta per le tifoserie. “Fungerà come deterrente psicologico”, dice gongolante sempre il Cinque Stelle Gaetti a proposito degli stadi- penitenziari. Sì, sarà proprio interessante incamminarsi con la sciarpetta al collo verso una galera. Nessuno dei commissari Antimafia, evidentemente, si è fatto venire il sospetto che l’idea potesse evocare un passato da incubo, quello del regime di Pinochet, che aveva ottimizzato gli spazi e trasformato gli stadi interi in capienti luoghi di detenzione. A proposito del dittatore cileno, c’è anche una pur casuale sovrapposizione di date: la proposta delle prigioni di Serie A è stata annunciata per la prima volta, dai parlamentari Antimafia, l’ 11 settembre scorso; data in cui, seppure quarantaquattro anni prima, Pinochet prese il potere. Oggi a San Macuto si tireranno le somme: il comitato Di Lello approverà la relazione, con un voto che si preannuncia unanime. Di qui a una settimana la ratifica da parte del “plenum” della Bicamerale. Nella relazione in realtà vi sono anche utili approfondimenti su quella che doveva essere l’effettiva mission del comitato presieduto dal deputato Pd: uno studio sulle commistioni tra tifoserie e criminalità organizzata. Una delle conclusioni più interessanti a cui si è pervenuti è che sarebbe davvero temerario considerare lo Juventus stadium un covo di ‘ndranghetisti: “Si è appurato”, anticipa sempre Gaetti all’agenzia Ansa, “che l’impianto dei bianconeri ha uno dei migliori sistemi di videoriprese a circuito chiuso”. Bene. Viene meno anche l’idea di chiamare i club sportivi a una responsabilità oggettiva per cori demenziali o eventuali intrecci tra curve e mafia: “Sarebbe inappropriato”, osserva il senatore grillino, “perché consentirebbe ai gruppi criminali di tenere in scacco, sotto ricatto, proprio le società sportive”. Vero, altra conclusione assennata. Forse rischia di esserlo meno un’ulteriore proposta che sarà formulata nella relazione: il “super- Daspo”. Una specie di interdizione perpetua dal tifo per i malavitosi-ultrà. Come se le misure di prevenzione già previste per chi è anche solo indagato per associazione mafiosa non fossero sufficienti a impedire che soggetti simili stiano lontano dalle curve. Ma il Daspo, si sa, è ormai una parolina magica, che sfugge al Codice penale ma fa diventare seduttive le proposte di legge. Chi non ricorda il Daspo urbano di Marco Minniti, concepito per accattoni, barboni, disturbatori notturni? Peccato non sia servito a granché, a parte conquistare qualche titolo di giornale. Con le celle negli stadi si fa un salto di qualità. Anche rispetto alle antiche, ormai, proposte di arricchire gli impianti sportivi con attrattive diversificate, dai cinema agli ipermercati, in modo da farli vivere tutta la settimana. “Non ha importanza”, dice il Cinque Stelle Gaetti, “che la relazione e le relative proposte di modifica della normativa in materia di sicurezza negli stadi, arrivino a legislatura quasi conclusa. Si tratta di idee che restano valide e che costituiscono un’importante eredità per il Parlamento che verrà a insediarsi”. Come no. Un’eredità imperdibile. Un colpo di fortuna. Peccato che questo campionato ce lo lascino vivere senza il brivido delle manette. La messa alla prova coi randagi, firmato accordo tra Ministero della Giustizia ed Enpa Italia Oggi, 7 dicembre 2017 Imputati messi alla prova anche in attività connesse al randagismo. Lo prevede la convenzione per lo svolgimento di lavori di pubblica utilità, in favore della collettività, da parte di imputati che ne facciano richiesta siglata ieri dal ministro della Giustizia Andrea Orlando e dalla presidente dell’Ente nazionale protezione animali, Carla Rocchi. Sono 300 i posti messi a disposizione di soggetti imputati, che rientrino nelle previsioni del primo comma dell’articolo 168 bis del codice penale e che chiedano al giudice la sospensione del processo con messa alla prova. L’attività, non retribuita e volta all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato commesso e al ristoro della società, potrà essere prestata nelle sedi locali dell’ente, complessivamente 45 e con il compito di aggiornare costantemente gli uffici dell’esecuzione penale esterna (Uepe) e i Tribunali circa il numero di posti disponibili. Le prestazioni di lavoro potranno riguardare la tutela del patrimonio ambientale nel suo complesso, la prevenzione degli incendi, la protezione della flora e della fauna, comprese le attività connesse al randagismo degli animali; la manutenzione e la fruizione di immobili e servizi pubblici, come ospedali, case di cura, beni del demanio e del patrimonio pubblico, ad esclusione di quelli utilizzati da forze armate e polizia. Le modalità dello svolgimento dell’attività saranno dettagliate nel programma di trattamento e nell’ordinanza di ammissione alla prova; all’Enpa l’obbligo di comunicare all’Uepe il nominativo dei referenti, incaricati di coordinare le prestazioni lavorative e di fornire al termine del periodo previsto, informazioni circa l’assolvimento degli obblighi dell’imputato; l’Uepe potrà, a sua volta, operare controlli presso le sedi dell’ente stipulante. La convenzione ha la durata di 5 anni e potrà essere rinnovata d’intesa tra i contraenti. Confisca, alle Sezioni Unite l’obbligo dell’avviso ai creditori di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 7 dicembre 2017 Corte cassazione - Sentenza 6 dicembre 2017 n. 54794. Saranno le Sezioni unite a stabilire se la mancata comunicazione da parte della Agenzia per i beni confiscati, ai creditori titolari di ipoteca, del termine di 180 giorni per proporre la domanda di ammissione alla procedura di liquidazione operi anche nel caso in cui l’Agenzia ometta di comunicare la confisca stessa. Lo ha stabilito la Prima Sezione penale della Cassazione, con l’ordinanza 54794 di oggi, rinviando la questione al massimo consesso di legittimità. La Banca Nazionale del Lavoro chiese che il proprio credito relativo ad un mutuo su di un immobile fosse ammesso alla procedura di liquidazione dopo che il bene era stato oggetto di confisca di prevenzione con decreto divenuto irrevocabile il 10 gennaio 2012. Il Tribunale di Palermo, con ordinanza del dicembre 2014, dichiarò inammissibile la domanda. L’articolo 1, comma 199, della legge n. 228 del 2012 prevede infatti che le domande di ammissione debbano, a pena di decadenza, essere proposte entro 180 giorni dall’entrata in vigore della stessa legge, avvenuta il 10 gennaio 2013. L’Istituto dunque avrebbe dunque dovuto presentarla entro il 30 giugno 2013 e non il 28 gennaio 2014. L’ordinanza ricorda che, come chiarito dalle S.U. Civili (n. 10532/2013), per effetto della confisca lo Stato “acquista un bene non più a titolo derivativo, ma libero dai pesi e dagli oneri, pur iscritti o trascritti anteriormente alla misura di prevenzione”. Il legislatore dunque ha ricompreso la confisca “nel solco delle cause di estinzione dell’ipoteca disciplinate dall’art. 2878 c.c.”. L’Agenzia però entro dieci giorni dall’entrata in vigore della legge, o comunque dal momento in cui la confisca diviene definitiva, deve comunicare ai creditori per Pec o mediante il proprio sito internet entro quale termine possono proporre domanda di ammissione. Ebbene in questo caso la comunicazione è mancata. La banca dunque ritiene “giustificato” il proprio ritardo con la “conseguente mancata verificazione della decadenza”. La norma nulla dice riguardo a questa ipotesi. Mentre la Consulta ha ripetutamente affermato che nel caso di un termine prescritto per l’esercizio di un’azione a tutela di diritti soggettivi, “la cui omissione si risolva in pregiudizio della situazione tutelata”, deve essere assicurata all’interessato la conoscibilità del momento di iniziale di decorrenza del termine stesso. Per cui, considerato anche un precedente favorevole alla decadenza, la Cassazione ha rimesso alle S.U. la questione. E l’ha così riassunta: “Se il termine di centottanta giorni dall’entrata in vigore, il 1° gennaio 2013, della legge n. 228 del 2012, previsto dall’art. 1, comma 199, della stessa legge a pena di decadenza dal diritto di proporre domanda di ammissione del credito, da parte dei titolari dì cui al precedente comma 198 (creditori titolari di ipoteca iscritta sui beni confiscati in esito a procedimento di prevenzione, ai quali non è applicabile la disciplina contenuta nel libro I del Dlgs n. 159 del 2011), operi, o meno, anche nel caso di omessa comunicazione agli stessi creditori, a cura dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei ben sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata, delle informazioni indicate nel comma 206, lett. a), b) e c), dello stesso art. 1, entro dieci giorni dal 1° gennaio 2013, ovvero dal momento successivo in cui la confisca (non soggetta alla disciplina contenuta nel libro I del Dlgs n. 159 del 2011) è divenuta definitiva”. La confisca del mezzo per traffico di rifiuti non tocca il leasing di Paola Ficco Il Sole 24 Ore, 7 dicembre 2017 Il proprietario che dimostri di essere in buona fede può evitare la confisca di un veicolo utilizzato per un traffico illecito di rifiuti. Così le società di leasing e di noleggio vengono di fatto messe al riparo da un pesante rischio cui il Codice ambientale le aveva esposte. Lo ha eliminato la Cassazione, con un orientamento che si sta consolidando. Il problema nasce dal fatto che l’articolo 260-bis, comma 4, del Dlgs 152/2006 prevede la confisca del “veicolo e di qualunque altro mezzo utilizzato” per il trasporto di rifiuti pericolosi, a meno che questi appartengano “non fittiziamente” a persona estranea al reato. Tale clausola di salvezza, però, non è prevista negli altri articoli del Codice che prevedono la confisca (259, comma 2, per la violazione degli articoli 256 e 258, comma 4, e 259, comma 1). Un disallineamento importante che danneggia tutti i proprietari terzi incolpevoli. Il disallineamento è stato a più riprese colmato dalla Cassazione penale. E recentemente la Terza sezione (sentenza 25 luglio 2017, n. 36819), in tema di trasporto illecito di rifiuti, ha ricordato il principio di diritto secondo cui il terzo estraneo al reato che, qualificandosi proprietario o titolare di altro diritto reale sul mezzo sottoposto a sequestro preventivo finalizzato alla confisca obbligatoria, ne invochi la restituzione in suo favore, ha l’onere di provare la propria buona fede. Cioè che non era a conoscenza dell’uso illecito del mezzo e che il reato non è collegabile ad un suo comportamento colpevole o negligente. Il principio, già affermato dalla Cassazione con sentenza 11 gennaio 2013, n. 1475, comporta che: ai fini della sussistenza dell’estraneità al reato, il proprietario incolpevole non deve aver avuto alcun collegamento, diretto o indiretto, con la due consumazione e l’impiego dei relativi profitti; non deve aver posto in essere alcun contributo di partecipazione, anche se non punibile. Salvaguardie importanti, data la severità del regime delle confische connesse ai traffici di rifiuti. Con la sentenza 18774/2012, la Cassazione definiva la confisca come “una rappresaglia legale nei confronti dell’autore del reato e mira a colpirlo nei suoi beni con una sanzione aggiuntiva molto più pesante della sanzione penale principale”. La confisca è prevista anche in altre norme del Codice (si veda la scheda sotto). Il trasporto non autorizzato di rifiuti e il trasporto di rifiuti senza formulario o con formulario recante dati incompleti o inesatti nonché con uso di certificato falso sono puniti anche così. Il trasporto non autorizzato è quello effettuato da un soggetto non iscritto all’Albo nazionale gestori ambientali. La sopravvenuta iscrizione del titolare del mezzo non ne esclude la confisca (sentenza 42140/2013) Pensare che la perdita della disponibilità del bene si possa rinviare fino alla sentenza di condanna o di patteggiamento è sbagliato: l’impresa può essere colpita da subito, con sequestro preventivo. Questo accade perché l’articolo 321, comma 2, del Codice di procedura penale consente al giudice il sequestro preventivo delle cose di cui è consentita la confisca. Pertanto, il provvedimento di sequestro può anche prescindere dalla prognosi di pericolosità connessa alla libera disponibilità del bene. Il sequestro preventivo dei mezzi utilizzati, con finalizzazione al provvedimento di confisca è legittimo ma (sentenza 16990/2012) non può estendersi agli ulteriori strumenti di lavoro (pale meccaniche ed escavatori) che non abbiano la qualità di mezzi di trasporto: non è consentita una interpretazione in malam partem dell’obbligatorietà della confisca dei mezzi in caso di condanna per trasporto illecito di rifiuti. I mezzi vengono colpiti così duramente non solo perché sono lo strumento contingentemente utilizzato per commettere il reato, ma anche perché sono lo strumento essenziale che integra gli estremi della fattispecie astratta di reato (sentenza 35879/2008). Salerno: morte in cella, due sanitari a giudizio di Viviana De Vita Il Mattino, 7 dicembre 2017 Accolta la tesi dell’accusa: il detenuto non sarebbe stato ben curato. Si trasforma in processo la tragedia nella quale perse la vita il 36enne salernitano Alessandro Landi deceduto la notte di Santo Stefano dietro le sbarre del penitenziario cittadino. A deciderlo, ieri, è stato il Gup del tribunale di Salerno Piero Indinnimeo che, all’esito dell’udienza preliminare, ha rinviato a giudizio i due medici di guardia del penitenziario cittadino che, assistiti dagli avvocati Tullio Toriello e Alfonso Maiese, rispondono entrambi dell’ipotesi di reato di omicidio colposo. Si è già costituita parte civile la moglie del giovane detenuto, madre di un bambino di 11 anni, rappresentata in giudizio dall’avvocato Agostino Allegro. Sarà quindi un processo a fare luce su quelle che il pubblico ministero Elena Cosentino definisce “gravi condotte omissive” dei due medici di guardia a Fuorni che, “pur in presenza di una sintomatologia anche pregressa, quale dolore toracico intenso e persistente e costrizione mandibolare, indicativa di una possibile cardiopatia”, omisero di disporre il ricovero del giovane benzinaio di Matierno in ospedale, rimandandolo, invece, in cella. Alessandro Landi stava male, aveva un dolore fortissimo al petto e doveva essere ricoverato nel reparto di cardiologia dove “attraverso un monitoraggio continuo ed effettuazione di più accurati accertamenti, con specifico riguardo alla ricerca di enzimi cardiaci” si sarebbe potuta formulare una corretta diagnosi di sospetta sindrome coronaria acuta. A parere del magistrato furono proprio quelle gravi condotte omissive “a precludere definitivamente” al 36enne di Matierno, finito in cella nel settembre dello scorso anno nell’ambito del blitz dell’antimafia denominato “Italo”, “la possibilità di ricevere adeguate cure” e, quindi, di salvarsi. La tragedia si consumò nella notte tra il 25 e il 26 dicembre scorso quando il giovane padre, che già il giorno prima aveva accusato un malore “sottovalutato” dal personale medico di guardia a Fuorni, morì da solo senza che nessuno potesse fare nulla per aiutarlo. A rendersi conto della tragedia, poco prima delle 3 del mattino, fu un agente della polizia penitenziaria in servizio all’interno della sezione lavoranti dove si trovava recluso il 36enne. Fu lui ad accorgersi che il giovane detenuto non dava segni di vita; ormai, però, era troppo tardi: Alessandro era già morto. Milano: muore per “arresto cardiaco” dopo essere stato bloccato a terra da 5 agenti di Sandro De Riccardis La Repubblica, 7 dicembre 2017 Aldo Laci, cittadino albanese di 44 anni in vacanza in Italia, è al Terminal 1 di Malpensa in attesa della moglie. È sotto l’effetto della cocaina. Nel video si vede mentre corre tra i passeggeri dell’aeroporto, mentre i poliziotti cercano di fermarlo. Alla fine sono in cinque gli agenti che lo bloccano a terra. È in questo momento che l’uomo si sente male e muore per arresto cardiaco. I suoi familiari, tramite l’avvocato Enzo Lepre, hanno sporto denuncia perché sono convinti che nonostante “lo stato di alterazione” dell’uomo, la morte “sia stata causata direttamente, o abbia avuto come concausa, l’aggressione subita dalle forze dell’ordine che hanno partecipato al fermo”. Dai video delle telecamere, “si evince in modo irrefutabile - scrive il legale - come Aldo Laci sia stato colpito prima alla testa, poi al collo, scaraventato a terra, e poi ripetutamente colpito con pugni al corpo e al costato”. La procura di Busto Arsizio ha chiesto l’archiviazione dell’inchiesta al gip, perché “non sono emerse lesività imputabili a condotte violente di terzi”, mentre “le indagini tossicologiche hanno evidenziato che il decesso è da ricondursi ad un auto-avvelenamento acuto da cocaina”. La famiglia però non si arrende e ha presentato opposizione, lamentando lacune nell’indagine. Napoli: l’Ucpi protesta davanti a Poggioreale per il mancato rispetto dei diritti umani cronachedellacampania.it, 7 dicembre 2017 “Il delitto di tortura in Italia c’è, ma la fattispecie è ben lontana da quella prevista dalle convenzioni internazionali firmate dall’Italia da oltre 30 anni”. È quanto afferma in una nota l’Ucpi, Unione delle camere penali italiane, commentando la richiesta del Comitato Onu e ricordando la sua “denuncia durante l’iter parlamentare e immediatamente dopo l’entrata in vigore della legge”, continuando a “manifestare disapprovazione per quanto legiferato”. L’Ucpi aveva segnalato che “il testo qualifica il reato come comune e non come proprio, slegandolo quindi dall’operato dei pubblici ufficiali; era stato cancellato, nel corso dell’iter parlamentare, il termine “reiterate” sostituito con “più condotte”; il reato non sussiste “nel caso di sofferenze risultanti unicamente dall’esecuzione di legittime misure privative o limitative di diritti” dove la parola “sofferenze” unitamente a “legittime misure” appare palesemente in contrasto; la fattispecie di reato così come descritta è di difficile applicazione, poiché le condizioni poste per la punibilità sono di complessa se non impossibile verifica”. L’Unione Camere Penali si rivolge “ancora una volta al Governo perché emani immediatamente i decreti sulla riforma dell’ordinamento penitenziario: un’urgenza ancora più necessaria dopo le raccomandazioni dell’Onu. Per la modifica del delitto di tortura, continueremo le nostre battaglie, nella consapevolezza di portare avanti una lotta giusta, per evitare che l’Italia non sia continuamente censurata sul mancato rispetto dei diritti umani”. Il dissenso sarà manifestato l’11 dicembre in tutte le Camere Penali e con la marcia di Napoli fino al carcere di Poggioreale, per protestare contro “l’inefficienza del Tribunale di Sorveglianza, il trattamento disumano e degradante dei detenuti, il sovraffollamento delle carceri e l’uso eccessivo della custodia cautelare”. Bologna: la Camera penale “casi di tubercolosi e di scabbia alla Dozza” Corriere di Bologna, 7 dicembre 2017 Aumentano i detenuti e peggiorano le loro condizioni. Lo racconta l’ottavo rapporto dell’associazione Antigone, dal titolo “Torna il carcere”, e lo sottolinea la Camera penale di Bologna che ieri mattina con una delegazione è entrata all’interno delle celle di via del Gomito e dell’infermeria dove ci sono state le segnalazioni più gravi: “Tra i detenuti ci sono stati alcuni casi di scabbia e di tubercolosi. In quegli spazi si crea una mescolanza tra i detenuti che hanno bisogno dell’infermeria e i “nuovi giunti” che dovrebbero stare al massimo una settimana per gli screening sanitari” e invece, come riferito dalla Camera penale, vengono allestite vere e proprie celle. A questo si aggiunge che “gli agenti della penitenziaria hanno lamentato criticità sotto il profilo igienico-sanitario: hanno riferito che devono autonomamente dotarsi dei vaccini e delle precauzioni mediche, per esempio delle mascherine, necessari per svolgere il lavoro”. Arriveranno le segnalazioni al ministero della Giustizia e all’Amministrazione regionale. Il sovraffollamento è una realtà che tocca tutti gli istituti penitenziari della Regione: la Dozza al momento ospita 780 detenuti, ma la sua capienza è di 500. “Il problema del sovraffollamento - spiega l’avvocato Elia de Caro, per Antigone - è la punta di un iceberg. Mancano offerte di lavoro, tirocini formativi, educatori e pedagogisti” Pescara: dieci detenuti nel personale del tribunale, firmata l’intesa con il carcere Il Centro, 7 dicembre 2017 “Ogni persona che ha commesso un reato, che riusciamo a reindirizzare verso la via della legalità, è un delinquente in meno in circolazione e quindi la nostra società è più sicura”. Così il sottosegretario alla Giustizia, Federica Chiavaroli, ha presentato la convenzione che è stata sottoscritta ieri mattina, nel tribunale di Pescara, per la realizzazione di un progetto di recupero e di reinserimento sociale di persone detenute o sottoposte a misure alternative e di messa alla prova. L’intesa, siglata tra tribunale di Pescara, ufficio di sorveglianza, casa circondariale e ministero della Giustizia, nella fase iniziale prevede il coinvolgimento di dieci persone che, “sulla base della selezione compiuta dal tribunale di sorveglianza, parteciperanno a questo progetto pilota, operando in materia di risistemazione degli archivi del tribunale e di scannerizzazione degli atti”, spiega il presidente del tribunale Angelo Mariano Bozza, “Poiché la pena, come prevede la Costituzione, ha un fine principalmente rieducativo, riteniamo importante che questa rieducazione avvenga anche a opera del sistema della Giustizia”. “Questo è un bel progetto di giustizia riparativa”, ha aggiunto il sottosegretario alla Giustizia Chiavaroli, “con il quale i detenuti mettono a disposizione gratuitamente la loro attività lavorativa per riparare lo strappo che hanno causato alla società commettendo il reato. In un certo qual modo cercano di riparare e contemporaneamente, facendo un lavoro, iniziano il percorso di risocializzazione. Sono convinta che questi progetti favoriscano il reinserimento dei soggetti detenuti e contribuiscano a creare una società più sicura”. Spoleto (Pg): il carcere diventa Polo Interistituzionale, favorirà integrazione dei detenuti umbriadomani.it, 7 dicembre 2017 È stato firmato mercoledì, nella sede del Palazzo Comunale di Spoleto, il primo Accordo per la Costituzione dei “Poli interistituzionali come centri di innovazione e monitoraggio delle azioni programmate a livello nazionale” ai sensi del Protocollo d’intesa MIUR- Ministero della Giustizia del 23 maggio 2016 (Art 2, lettera- n). Due gli accordi firmati, uno di Livello Regionale e uno di Livello Territoriale per Spoleto, finalizzati al coordinamento delle iniziative a favore dell’integrazione della popolazione detenuta, al diritto ad un percorso scolastico adeguato alle capacità effettive di ognuno, alla condivisione, scambio e circolazione delle esperienze in atto, della documentazione, dei materiali, delle ricerche di settore, all’istituzione di un canale diretto tra supporto scolastico, progetti per il ricongiungimento familiare e inserimento lavorativo dei detenuti. Erano presenti per il Comune di Spoleto il vicesindaco Maria Elena Bececco, per l’accordo di livello regionale la presidente del Centro Studi Scuola Pubblica Anna Grazia Stammati, il Provveditore Amministrazione Penitenziaria Toscana Umbria Antonio Fullone, il Presidente del Tribunale di Sorveglianza Roberto Ferrando, il Direttore generale dell’ufficio scolastico Regionale Antonella Iunti, il Dirigente dell’ufficio interdistrettuale di esecuzione penale esterna Toscana Umbria Salvatore Nasca, dirigente istruzione e formazione Regione Umbria Adriano Bei. Per l’accordo territoriale il Direttore Casa di Reclusione di Maiano Luca Sardella e il Comandante Marco Piersigilli, l’ufficio di sorveglianza di Spoleto Grazia Manganaro, ufficio esecuzione penale esterna Maria Biondo, il direttore della Rocca Albornoziana di Spoleto Paola Mercurelli Salari e i dirigenti scolastici IIS Sansi Leonardi Volta Roberta Galassi IPSEOASC “De Carolis” Fiorella Sagrestani e Centro Provinciale Istruzione Adulti di Perugia Angela Maria Piccionne, per la rete delle scuole ristrette Giorgio Flamini e Alessandro Togoli. La scelta del territorio, come prima sede di un Polo Interistituzionale, è stata determinata da vari fattori: la presenza del CESP e la rete delle scuole ristrette, che da anni sperimentano un metodo operativo, mirato alla definizione di interventi adeguati alla condizione dei “ristretti”; la comprovata disponibilità dell’amministrazione penitenziaria che ha partecipato ai lavori anche a livello regionale, con la presenza delle figure apicali del Provveditorato regionale Toscana e Umbria; l’apertura dimostrata dagli enti territoriali, in particolare dal Polo museale dell’Umbria e dalla Rocca Albornoziana di Spoleto per i percorsi di reinserimento dei detenuti; la consapevolezza e l’attenzione con la quale la dirigente scolastica dell’llS “Sansi-Leonardi-Volta” ha condiviso il modello laboratoriale di istruzione e formazione all’interno dell’istituto penitenziario; la presenza di una magistratura di sorveglianza accorta e partecipe ai percorsi dei detenuti; l’interesse al progetto evidenziato già nell’ambito del seminario svolto a luglio a Spoleto, dal Garante dei Detenuti del Lazio e dell’Umbria. Sede del Polo Regionale sarà la Casa di reclusione di Maiano che negli incontri svolti ha ufficialmente confermato la disponibilità ad ospitare la sede del Polo Interistituzionale Umbro, destinando a tale scopo i locali posti al terzo piano della torre progettata dall’architetto Lenci, predisponendone ristrutturazione e arredo, in modo da renderla operativa in tempi brevi. Milano: “La povertà non è reato”, il tribunale assolve rom sgomberati dal campo abusivo di Zita Dazzi La Repubblica, 7 dicembre 2017 Erano accusati di “invasione di edifici”, la difesa legale rappresentata dalla Comunità di Sant’Egidio. La povertà non è un reato: lo dice il Tribunale di Milano che ha assolto i sette rom romeni per l’occupazione della piccola baraccopoli di via Cima a Milano, sgomberata il 15 marzo 2015, con la contestazione ai nomadi del reato di “invasione di terreni ed edifici” compiuto “insediandosi all’interno di baracche fatiscenti utilizzate come dimora abituale”. Gli imputati sono stati assolti perché “il fatto non costituisce reato”. Maura Sianesi, il legale della Comunità di Sant’Egidio, che ha difeso i sette rom durante il processo, ha infatti invocato lo “stato di necessità, per salvaguardare il diritto fondamentale all’abitazione e per poter così riparare se stessi e le famiglie con bambini, in assenza di effettive alternative possibili e senza causare danni a nessuno”. Il terreno su cui sorgevano le baracche era - ed è tuttora - inutilizzato. La baraccopoli di via Cima, seguita dai volontari di Sant’Egidio da quattro anni ed era abitata da otto famiglie che, nonostante le difficili condizioni di vita, avevano iscritto tutti i bambini presenti regolarmente dall’asilo nido alle superiori. Il loro percorso era accompagnato da Sant’Egidio con un doposcuola svolto presso la biblioteca di zona e le docce presso la vicina parrocchia. Inoltre erano stati avviati dei percorsi di inserimento lavorativo per gli adulti. La denuncia era stata avviata il giorno dello sgombero e aveva riguardato solo sette cittadini romeni, tra cui un disabile certificato con invalidità al 100 per cento, poiché gli altri si trovavano, anche il giorno dello sgombero, al lavoro o ad accompagnare i figli a scuola. “La sentenza - dichiara la Comunità di Sant’Egidio - è importante perché è un forte “stop” alla criminalizzazione della povertà. Le otto famiglie vivevano nelle baracche non per scelta ma per la povertà e l’assenza di alternative”. La prova è data dal fatto che oggi, grazie al sostegno di Sant’Egidio, tutte le otto famiglie vivono in casa, continuano la scolarizzazione dei figli e in ciascuna almeno un componente lavora: “La povertà non si sconfigge con le ruspe o denunce che intasano i tribunali, ma con seri progetti di accompagnamento sociale”. La sentenza è l’occasione per ribadire due urgenze, secondo il presidente milanese della comunità cattolica: “Serve attuare la Strategia Nazionale di Inclusione per Rom, Sinti e Caminanti, approvata nel 2012 e di fatto sostanzialmente inapplicata da allora; occorre garantire i diritti dei baraccati e dei poveri, con particolare attenzione a quelli dei minori”. Milano: delizie del carcere in Viale dei Mille di Nadia Toppino storiedicibo.it, 7 dicembre 2017 Ci sono storie di cibo che lasciano a bocca aperta, e non perché hanno stelle Michelin o ricette da Gambero Rosso, piuttosto per quello che racchiudono, tra una cella di un carcere e il desiderio di lavorare. Sono le storie che accompagnano i prodotti realizzati in carcere, prodotti buoni, come il “pane buono” del carcere di Opera, i panettoni del carcere di Bergamo o la cioccolata di quello di Busto Arsizio. Si, perché da tempo nelle case di reclusione italiane si fanno attività lavorative di diverso genere, per dare un futuro (e anche un presente) a chi ha sbagliato e si trova a pagare una pena. E molte di queste attività lavorative sono proprio incentrate sul cibo. E lo sappiamo bene noi, che abbiamo dato il via al progetto Storie di cibo dietro le sbarre. A Milano, il consorzio Vialedeimille, in Viale dei Mille 1, raccoglie una buona parte di queste produzioni e le vende per promuovere l’economia carceraria e, come da manuale, “ridurre notevolmente la recidiva e la delinquenza conseguente”. È stato fondato da cooperative sociali che lavorano nelle carceri lombarde di San Vittore, Milano-Opera, Bollate, Monza e nasce da un’intuizione del Comune di Milano, nello specifico dell’Assessorato alle politiche del Lavoro. 200 mq e 5 vetrine su strada messi a disposizione dal Comune di Milano dal lontano 2013. Ma non parte da quella data il progetto, perché ancora prima esisteva un “negozio” in via Bottego, zona Crescenzago, dove però l’area troppo periferica e l’assenza di vetrine su strada rendeva difficoltoso il far conoscere sia alla cittadinanza che alle imprese quanto prodotto dai carcerati. Ogni prodotto racchiude una storia, e Carlo, milanese classe ‘54, che lavora al Consorzio seguendo le vendite e la cassa, di storie ne ha da raccontare: arriva da Bollate lui, che proprio in carcere ha scoperto cosa sia il lavoro e cosa sia la passione per il teatro, lui che non vedeva l’ora di uscire per mettersi all’opera! Dopo 24 anni di detenzione ora lavora al Consorzio Vialedeimille con regolare contratto e ogni giorno racconta l’inusuale filiera dei prodotti in vendita con una tale passione che molti clienti ritornano anche solo per salutarlo. Ci sono anche casi come Sebastiano, che ogni mattina esce dal carcere di Milano-Opera e va al Consorzio a lavorare nel nuovo reparto panetteria grazie all’articolo 21, una sorta di beneficio concesso dal direttore dell’Istituto di pena, che consiste nella possibilità di uscire dal carcere per svolgere un’attività lavorativa, e poi rientrare per la notte. Sugli scaffali prodotti di ogni genere, dall’artigianato alle stoffe, dalle borse in pelle alle cartoline stampate, ma i prodotti “enogastronomici” la fanno da padrone. All’ingresso un banco panetteria accoglie i clienti con pane fresco tutti i giorni, il pane buono che nasce nel carcere di Opera e che viene venduto in varie realtà milanesi tra cui questa: la scelta non manca, dal filone rustico al pane al cocco, dai bocconcini al “milanese doc” Pan Tramvai. E poi sugli scaffali prendono posto altre delizie: il vino, la grappa e le marmellate della Cooperativa il Gabbiano che lavora con i detenuti del carcere di Sondrio. Le praline di cioccolato, i tartufi, e le tavolette di cacao e frutta secca prodotte nel carcere di Busto Arsizio (Va) che ha ottenuto la Certificazione Ministeriale per le produzioni senza glutine e la certificazione per produzioni biologiche. I panettoni e i dolcetti del laboratorio di pasticceria della cooperativa Calimero che lavora nel carcere di Bergamo con persone che stanno scontando la pena. Prodotti buoni, buoni e che fanno bene, come piace ricordare a chi lavora qui dentro: “Buoni perché realizzati con impegno e passione da persone detenute che con il lavoro si stanno guadagnando una vita migliore e un futuro più degno. Fanno bene perché rimettono in moto l’economia carceraria, creando percorsi virtuosi inaspettati ma sostenibili, con nuovo lavoro che previene la delinquenza e la recidiva. Un gesto di responsabilità sociale per aziende e privati, semplice ma di grande impatto”. L’obiettivo del Consorzio è in questo periodo quello di diffondere questi prodotti come regali natalizi. Anche per questo sono stati ideati “i mercoledì al Consorzio con il panettone per tutti”, nei due mercoledì precedenti il Natale (13 e 20 dicembre): un pomeriggio durante il quale viene offerta una fetta di panettone alla cittadinanza, invitando anche anziani del quartiere, persone svantaggiate e tutti gli amici. E allora perché no, quest’anno si può pensare di sorprendere amici e parenti con qualche regalo che arriva da “dietro le sbarre” e che addolcisce palato e cuore. Pistoia: due progetti di agricoltura sociale per ex detenuti di Luca Castellani controradio.it, 7 dicembre 2017 I progetti voluti dalla Diocesi per reinserire nel mondo del lavoro persone ad alto rischio di marginalità. Saranno 30 i soggetti coinvolti. Reinserire nel modo del lavoro le persone ad alto rischio di marginalità. È l’obiettivo dei progetti “Agricoltura sociale” e “Traghetto” voluti dalla neonata Fondazione “Sant’Atto” della Diocesi di Pistoia e presentati stamani nel corso di una conferenza stampa nel Seminario vescovile della città toscana. Nei due progetti, finanziati dalla Fondazione Cassa di risparmio di Pistoia e Pescia, ai quali collaborano cooperative sociali, Ceis e Caritas, saranno coinvolti 30 utenti svantaggiati: ex carcerati, tossicodipendenti, disabili, giovani non occupati in situazione di disagio sociale ed economico. L’obiettivo - è stato spiegato - è dare loro la possibilità di effettuare attività agricola e innescare processi produttivi che riescano a creare forme di fattorie sociali disseminate sul territorio provinciale, tra Pistoia, Masotti e Larciano, coordinate tra loro e strutturate in modo da poter effettuare produzione agricola da commercializzare sotto un unico marchio. Le strutture saranno anche adibite a luoghi di promozione delle attività di agricoltura sociale, ospitando periodicamente associazioni o gruppi scolastici. La Fondazione Sant’Atto è nata nel settembre 2016 in seno alla comunità diocesana di Pistoia con lo scopo di organizzare e gestire attività ed opere di assistenza sociale e socio-sanitaria, di beneficenza, istruzione e formazione. Asti: “La Piuma... e il suo viaggio tra carcere e città”, ieri il convegno e lo spettacolo comune.asti.it, 7 dicembre 2017 Ieri dalle ore 9,00, nel teatro della Casa di Reclusione di Asti, si è svolto il Convegno “La Piuma… e il suo viaggio tra carcere e città”, un momento di riflessione sull’importanza dell’arte nella rieducazione dei detenuti, a margine di un percorso avviato lo scorso anno con la compagnia teatrale “In volo” e con l’associazione di volontariato “La Brezza”, nell’ambito del progetto “Una piuma bianca sulla città di Asti”, ispirato dal libro “La piuma” di Giorgio Faletti. Il Progetto si è articolato in una serie di attività che hanno coinvolto un nutrito numero di detenuti, che hanno aderito con impegno ed entusiasmo. La compagnia “In volo” ha prima messo in scena nel teatro di questo Istituto lo spettacolo “La Piuma…e il suo viaggio” - per la cui realizzazione ha coinvolto i detenuti della Casa Circondariale “Lorusso e Cutugno” di Torino, comunità di recupero per utenti con disagio psichico, case di riposo e scuole primarie dell’astigiano; poi, ha realizzato due marionette giganti insieme ai detenuti, ai bambini della scuola di burattini e marionette di Monale e della scuola primaria di Montafia, agli ospiti delle case di riposo coinvolte nel progetto. L’Associazione “La Brezza” ha condotto settimanalmente un laboratorio artistico che ha ispirato i partecipanti nella creazione di diverse opere artistiche su creta, tela e rame che saranno oggetto di una mostra fotografica che sarà allestita in istituto ed offerta al Comune di Asti, giornalini e puzzle destinati ai bambini del reparto pediatrico dell’ospedale di Asti e ai bambini dell’ufficio colloqui dell’istituto. Inoltre, le persone detenute partecipanti al laboratorio hanno avuto modo di realizzare trenta lampade parte del progetto “Scambi in luce - V edizione”. La realizzazione di questo progetto, che ha dimostrato il valore altamente educativo dell’arte in carcere, è stata peraltro volano per la nascita di un’altra iniziativa che vedrà i detenuti che frequentano i laboratori artistici impegnati nell’allestimento di un’area sperimentale dell’Istituto Magistrale “A. Monti” di Asti. Accanto a queste iniziative, realizzate all’interno dell’Istituto, è prevista la rappresentazione dello spettacolo “La Piuma…e il suo viaggio” nell’ambito della rassegna Teatro Scuola 2017/2018 oltre ad un flash mob nella città di Asti con le marionette giganti costruite dai detenuti e dai bambini coinvolti nel progetto. Su queste e sulle altre iniziative in ambito artistico - realizzate e in fase di realizzazione, sull’arte come strumento educativo s’intende organizzare un momento di riflessione e di condivisione nel teatro dell’Istituto, al quale parteciperanno artisti, esperti di arte-terapia, associazioni di volontariato impegnate nelle carceri di Asti e Torino, operatori penitenziari di entrambi gli Istituti. All’incontro parteciperanno anche tre classi quinte dell’Istituto “A. Monti” di Asti, nell’ambito di un consolidato percorso di educazione alla legalità che da anni coinvolge entrambe le istituzioni. Roma: i detenuti di Rebibbia a lezione di scrittura creativa da Dacia Maraini di Francesco Sellari Corriere della Sera, 7 dicembre 2017 Nell’ambito del premio Goliarda Sapienza per detenuti-scrittori, quest’anno l’università eCampus organizza dei laboratori a distanza con grandi scrittori e giornalisti italiani. Maraini: “Raccontarsi è un modo di capire e di prendere le distanze. Scrivere serve a riacquisire uno sguardo meno disperato, a guardare a sé stessi senza rabbia e odio”. C’è il “fine pena mai” che dopo 28 anni in cella è divenuto un esperto di letteratura russa. C’è la ex tossicodipendente che dimostra una naturale, istintiva, propensione al racconto e prova a rivivere nella scrittura la normalità di una giornata al di là delle sbarre. C’è il ragazzo dalla cui penna è nata la prima web serie girata in un istituto minorile (si chiama La scuola della notte, prodotta da RaiFiction e diretta da Alessandro D’Alatri). Sono alcuni dei talenti a cui ha dato voce il premio Goliarda Sapienza ideato dalla giornalista Antonella Bolelli Ferrera: un concorso letterario rivolto alla popolazione detenuta e dedicato alla poliedrica autrice di origini siciliane, nota soprattutto per L’arte della gioia ma che ne L’università di Rebibbia raccontò la sua esperienza di reclusione agli inizi degli anni 80. I laboratori di scrittura creativa dietro le sbarre - Per la prima volta, il premio è preceduto dal laboratorio settimanale di scrittura creativa “eWriting”, condotto dalla scrittrice e docente Cinzia Tani: 15 incontri in cui vengono presentate tecniche e strumenti narrativi necessari a dare forma e stile alle proprie storie. Storie in cui, necessariamente, il carcere e la componente autobiografica sono predominanti. Non mancano tuttavia le sorprese: come chi si cimenta con la fantascienza o la narrativa per l’infanzia. eWriting è promosso dalla onlus InVerso, dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ed è sostenuto dalla Siae. Fondamentale è la collaborazione con l’Università eCampus che mette a disposizione professori-tutor nelle carceri ed una specifica piattaforma telematica, grazie alla quale le lezioni si svolgono in teleconferenza, coinvolgendo contemporaneamente i quattro istituti di pena che partecipano al progetto: Rebibbia “Casa di Reclusione”, Rebibbia Femminile, Santa Maria Capua Vetere e Saluzzo. In tutto 60 potenziali nuovi autori, fra i quali 15 donne e alcuni detenuti nelle sezioni dell’Alta Sicurezza. In dono per loro un pc portatile e libri da leggere e da analizzare insieme per carpire qualche trucco del mestiere. Maraini: “La scrittura aiuta la riabilitazione” - Ogni incontro è suddiviso tra una parte di vera e propria formazione sugli elementi che costituiscono un buon racconto (la caratterizzazione dei personaggi, l’incipit, il colpo di scena, il finale ecc.) e una parte di confronto con alcuni grandi nomi della letteratura italiana. Madrina del premio, dalla prima edizione, è Dacia Maraini. La Maraini ha dimostrato negli anni interesse e sensibilità per il mondo di coloro che sono privati della libertà: già nel 1973, scriveva Memorie di un ladra, nato dal rapporto instaurato con una ladra recidiva conosciuta nel corso di una inchiesta giornalistica sulle condizioni delle carceri femminili: “Le persone che finiscono in carcere - dice a margine dell’incontro-lezione del 5 dicembre - continuano a subire il dramma vissuto. Raccontarsi è un modo di capire e di prendere le distanze. Scrivere serve ad avere un respiro diverso, a riacquisire uno sguardo meno disperato, a guardare a sé stessi senza rabbia e odio. La scrittura dà serenità”. Uno strumento di liberazione e riabilitazione: “Credo molto nella possibilità della rieducazione, ma deve essere una rieducazione che parte da sé stessi non da qualcuno che ti addossa delle responsabilità. In questo senso, la cultura è di grande aiuto”. Scrittori in campo per i detenuti - Insieme alla Maraini sono tanti altri gli scrittori e i giornalisti che quest’anno hanno incontrato o incontreranno, seppure in videoconferenza, le persone recluse: tra gli altri, Serena Dandini, Antonio Pascale, Erri De Luca, Pino Corrias, Andrea Purgatori, Federico Moccia, Gianrico Carofiglio, Nicola Lagioia, Giulio Perrone. Anche per loro “l’avvicinarsi a persone che hanno avuto un vissuto così diverso è un arricchimento” sottolinea Antonella Bolelli Ferrera. “Molti mi hanno ringraziato per averli coinvolti e alcuni, come Erri De Luca, hanno mantenuto contatti con la persona a cui hanno fatto da tutor per la stesura del racconto”. In sei anni, il premio Goliarda Sapienza ha raccolto quasi tremila racconti ed ogni anno porta alla pubblicazione di una collettanea con i migliori 20. Nel 2018 uscirà per i tipi della Giulio Perrone Editore. Il vincitore sarà annunciato e premiato durante il prossimo Salone del Libro di Torino. Lanciano (Ch): alberi di Natale realizzati dai detenuti per i negozianti del centro di Leda D’Alonzo tgmax.it, 7 dicembre 2017 Corso Trento e Trieste di Lanciano illuminato da 42 alberi realizzati dai detenuti del supercarcere di Villa Stanazzo. Alti 2 metri, sono realizzati in ferro verde e hanno forma conica; ciascun alberello è alimentato da batterie per illuminare le 1.200 luci a led di colore bianco caldo. È il progetto “Natale Luci e Vita” voluto dalla direttrice della Casa circondariale Lucia Avvantaggiato, dal consorzio Le Vie del Commercio, presieduto da Fausto La Morgia, e dall’associazione commercianti Ascom Abruzzo, presidente locale Fausto Memmo. “È stato un successo. Molti altri commercianti soci hanno chiesto di avere l’albero di Natale davanti ai loro negozi - ha detto in conferenza stampa La Morgia - ma per i detenuti è stato già un gran lavoro realizzarne 42”. Del valore sociale del progetto ha parlato Gino Di Nella, comandante della Polizia Penitenziaria: “Alla realizzazione degli alberi, oltre ai detenuti comuni, hanno partecipato quelli di alta sicurezza. Un lavoro da hobbisti realizzato nei ritagli di tempo, dal momento che i detenuti sono impegnati anche in attività lavorative”. Il consorzio Le Vie del Commercio era tra i partecipanti del concorso per la realizzazione dell’albero ecosostenibile in piazza Plebiscito ma, una volta conosciuto l’esito negativo, ha deciso di rimodulare il progetto e, nonostante il poco tempo a disposizione, portare avanti una nuova idea in cui la bellezza delle luci del Natale andasse a braccetto con il sociale. “Da sempre il nostro consorzio - sottolinea Monica Bono - ha cercato di portare avanti iniziative che potessero regalare qualcosa di bello alla città e con “Natale - luce e vita” abbiamo messo un ulteriore tassello nel nostro puzzle, a mio parere, il più bello”. I commercianti, che hanno deciso di aderire all’iniziativa, hanno acquistato l’alberello. Il consorzio Le Vie del Commercio, insieme ai 42 alberelli, ha offerto alla città di Lanciano anche la filodiffusione di musiche natalizie in corso Trento e Trieste. Ravenna: in Casa circondariale inaugurata la sala polivalente “GabbiaNo” ravenna24ore.it, 7 dicembre 2017 Nell’ottica del miglioramento delle condizioni di vita dei detenuti è stato inaugurato questa mattina, alle 11, all’interno della Casa Circondariale di Ravenna il Refettorio/Sala Polivalente “GabbiaNo”. Il progetto è stato realizzato, spiega una nota, con finanziamento della Cassa delle Ammende; è nato dalla necessità di trovare, all’interno di una struttura di piccole dimensioni ma fortemente dinamica in tema di attività trattamentali, nuovi spazi comuni da destinare ai detenuti, cercando di ottimizzare le poche aree inutilizzate o sottoutilizzate. Il progetto consistito nel collegamento di due ambienti è stato realizzato interamente con la manodopera dei detenuti e reso fruibile grazie anche al sostegno degli imprenditori locali Bambini e Ceccolini, Mistral, la Dirigente Scolastica Lacchini del Cpia di Ravenna Lugo e della Dott.ssa Durante che hanno donato arredi e attrezzature necessarie. All’inaugurazione sono intervenuti, oltre alla direttrice della Casa Circondariale, Carmela De Lorenzo, il Prefetto, il Sindaco, le altre massime cariche istituzionali cittadine, nonché il Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Bologna, il Garante Regionale dei diritti delle persone detenute, il Provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria dell’Emilia Romagna e Marche e rappresentanti della varie associazioni ravennati che ancora una volta hanno espresso un importante segnale di vicinanza e sostegno. La cerimonia ha visto la partecipazione dei musicisti dell’Istituto Superiore di Studi Musicali Verdi di Ravenna. I locali sono stati poi benedetti da S.E. Arcivescovo di Ravenna e Cervia Mons. Ghizzoni. Agli ospiti è stato poi offerto un rinfresco preparato dai detenuti cuochi dell’Istituto e dai partecipanti al laboratorio di pizzeria condotto dall’Associazione “Il Paese Sant’Antonio per la Solidarietà” e finanziato dai Clubs Lions di Ravenna. Cagliari: dalle celle alle stelle, musica e arte per il carcere minorile di Francesca Mulas sardiniapost.it, 7 dicembre 2017 Alzare gli occhi e guardare solo il cielo: un’operazione semplice per chiunque, ma non per i detenuti di un carcere. Da questa constatazione è nata ‘Da le celle alle stellè, ricerca del Dipartimento di Ingegneria Civile, Ambientale e Architettura di Cagliari che verrà realizzata nelle prossime settimane dentro il carcere minorile di Quartucciu con un lavoro di progettazione partecipata. L’obiettivo è creare uno spazio condiviso, racchiuso tra le mura del carcere, da cui si veda il cielo: nessuna recinzione, niente sbarre in questo piccolo angolo che sarà creato grazie al lavoro di progettisti, artigiani e artisti volontari e degli stessi giovani reclusi. Il progetto è firmato da Alice Salimbeni, cagliaritana di 24 anni laureanda in architettura, sotto la supervisione della docente Barbara Cadeddu. “Dopo aver seguito un lavoro di progettazione di sei mesi nel carcere insieme ad altri studenti - ci ha raccontato - mi sono resa conto che manca, nella struttura, uno spazio aperto per i ragazzi detenuti, spazio dove possano incontrare i familiari o semplicemente stare in silenzio, con lo sguardo rivolto verso il cielo”. In un mese l’idea ha raccolto l’adesione di artisti e musicisti cagliaritani e di una decina di volontari. L’iniziativa ha portato in città diversi house concert ospitati in case private e librerie con Chiara Effe, il Duo Faber, Mark A. Grace, il trio In te under de Faber, Zamu e la presenza di circa 200 spettatori. A questo si è aggiunta la donazione volontaria, e così fino a oggi il progetto ha radunato 1850 euro che saranno usati, insieme ai fondi raccolti nelle prossime settimane, per comprare materiali e strumenti. La Fille Bertha e Alessio Errante hanno già dato la disponibilità per abbellire il carcere con dei murales. La raccolta fondi andrà avanti domenica 10 dicembre un concerto dal titolo “Dai diamanti non nasce niente” dalle 19 all’ex Manifattura Tabacchi; seguirà poi un galà natalizio con esibizioni di ginnastica, balli e arti marziali organizzato dall’associazione Msp Sardegna il 17 dicembre alle 9.30 al Palazzetto comunale di Cagliari. Il carcere di Quartucciu è stato progettato negli anni Ottanta come struttura per detenuti di particolare pericolosità ma negli anni ha cambiato destinazione; oggi accoglie ragazzi tra i 14 e i 18 anni, o giovani adulti fino ai 25 che hanno compiuto delitti da minorenni. È organizzato con due padiglioni e un corpo centrale per attività lavorative ed educative. C’è un cortile all’aperto ma con tavoli e sedie fissi: nei colloqui le persone stanno una di fronte all’altra, a stretto contatto, in una situazione che può creare disagio e non favorisce il raccoglimento e la riflessione. “Con questo progetto creeremo insieme ai detenuti delle sedute inclinate in modo da favorire l’osservazione del cielo o permettere, quando serve, di stare da soli. Non isolati, ma in raccoglimento, senza avere di fronte in continuazione mura e sbarre”. Modena: dal carcere al palcoscenico, detenuti-attori per “Ubu Re” di Emanuele Carrafa Gazzetta di Modena, 7 dicembre 2017 Al Teatro dei Segni da questa sera lo spettacolo creato col Teatro dei Venti. Il regista Stefano Tè: “Un progetto coinvolgente, che va oltre i pregiudizi”. Debutta oggi alle 21 al Teatro dei Segni, in via San Giovanni Bosco 150, lo spettacolo “Ubu Re”, ultimo capitolo della ricerca artistica della compagnia Teatro dei Venti in Carcere, che sarà in replica anche domani e il 9 dicembre, sempre alle 21, e il 10 dicembre alle 18. “Per tre giorni a settimana attiviamo i nostri laboratori permanenti di teatro nel carcere di Castelfranco e in quello di Modena” dice Stefano Tè, regista dello spettacolo. “Il lavoro con questi attori-detenuti va avanti da anni e prescinde da un progetto specifico e da qualunque finanziamento. Per noi è un’occasione di crescita artistica”. Questo spettacolo è realizzato in collaborazione col Coordinamento Teatro Carcere dell’Emilia Romagna. Di cosa si tratta? “Il Coordinamento tiene insieme tutte le realtà regionali che si occupano di teatro in carcere. Ad unirci c’è la volontà di condividere quest’esperienza dal punto di vista artistico, senza alcuna velleità terapeutica o volontaristica. Ogni tre anni il coordinamento sceglie un tema. In questo triennio si è deciso di lavorare sull’“Ubu Re” di Alfred Jarry, testo d’avanguardia di fine ‘800 anticipatore del surrealismo e del teatro dell’assurdo. Qui noi abbiamo scelto un’ambientazione contemporanea, riducendo all’osso il testo originario e spostando l’attenzione sul piano fisico del corpo e dello sguardo”. In che modo questo spettacolo si inserisce nella rassegna “Trasparenze”? “Quest’anno abbiamo scelto di lavorare in residenza, permettendo a varie realtà di occupare artisticamente gli spazi del Teatro dei Segni. Così è stato per i detenuti, che sono venuti tutti i giorni a teatro per le prove. La rassegna si prefigge di esaltare la qualità artistica delle produzioni, oltre al loro valore etico e politico”. Come è stato scelto il cast che andrà in scena? “Per tutelare il valore artistico del lavoro svolto, abbiamo scelto persone capaci di lavorare in coralità insieme a quattro attori professionisti della compagnia Teatro dei Venti. Con alcuni detenuti si è consolidata una collaborazione tale da portare ad una consapevolezza quasi professionale. Solitamente lavoriamo con chi è all’inizio di un percorso di riavvicinamento alla vita esterna dopo una lunga detenzione. Il teatro “sblocca” le emozioni. Sono persone fragili, l’impatto col mondo esterno non è semplice: alcuni non uscivano da sette anni. Abbiamo scelto di inquadrarli come allievi attori, con un contratto di lavoro e una retribuzione. È un forte segnale politico e sociale: molti di loro hanno un contratto di lavoro per la prima volta nella vita”. Che cosa rappresenta per un regista come te quest’esperienza? “Per chi vive di teatro è un’inesauribile fonte di ispirazione. Sicuramente mi ha dato la possibilità di riflettere sui concetti di colpa e di destino e mi ha insegnato ad essere radicalmente libero da pregiudizi. L’arte costringe le persone a stare a contatto, a guardare, a condividere la bellezza”. Info e prenotazioni: biglietteria@trasparenzefestival.it - 345 6018277 - trasparenzefestival.it. Istat. Italiani sempre più poveri: 18 milioni a rischio di Antonio Sciotto Il Manifesto, 7 dicembre 2017 Un cittadino su tre vive gravi privazioni materiali o è esposto al pericolo di esclusione sociale. Camusso (Cgil): “Invertire subito la rotta su occupazione e aumento dei salari”. In Italia aumentano le disuguaglianze e le persone povere o a rischio povertà: nel 2016, ha comunicato ieri l’Istat, erano 18.136.663, in crescita rispetto al 2015. Si tratta di un nostro concittadino su tre: il 30% circa, superiore al 28,7% registrato l’anno precedente. Scorporando, risultano in incremento sia gli italiani a rischio povertà (dal 19,9% al 20,6%), sia quelli che si trovano “in condizioni di grave deprivazione materiale”: ben il 12,1%, a fronte dell’11,5% del 2015. Un “successone” degli ultimi governi a guida Pd, insomma. In aumento anche le persone che vivono in famiglie a bassa intensità lavorativa: sono passate dall’11,7% al 12,8%. Specchio di fenomeni come la precarietà, il lavoro nero, il caporalato: l’impiego è saltuario, breve, spesso una chimera. Mancata del tutto la road map comunitaria, indicata da Strategia Europa 2020 - segnala l’Istat: l’Italia sfonda il target previsto di ben 5,255 milioni di individui a rischio povertà. Se si fa riferimento alla distribuzione dei redditi individuali equivalenti - spiega Istat riferendosi all’anno 2015 - si nota che il 20% più povero della popolazione dispone soltanto del 6,3% delle risorse totali, mentre all’opposto il quinto più ricco possiede quasi il 40% del reddito totale; in altri termini, il reddito totale dei più benestanti è pari a 6,3 volte quello degli individui appartenenti al primo quinto. L’Istat evidenzia inoltre un marcato incremento dei redditi da lavoro autonomo per il quinto più elevato (+11,2%), dei più ricchi dunque. Il peso della componente del reddito da lavoro autonomo nel quinto più ricco cresce dal 21,4% del 2014 al 23,1% del 2015. La crescita del reddito medio nei due quinti centrali è invece trainata dalla dinamica dei redditi da lavoro dipendente, cresciuti in media rispettivamente del 7,7% e soltanto del 2,6% per il terzo e il quarto quinto della popolazione. Il reddito complessivo è salito dell’1,8%, ma come si vede con grandi differenze tra ricchi e più poveri. Il reddito medio annuo per famiglia è pari a 29.988 euro, più o meno 2.500 euro al mese, ma è appunto solo una media. Metà dei nuclei familiari possono contare su un reddito netto che non supera i 24.522 euro (circa 2.016 euro al mese, con un +1,4% rispetto al 2014). Quanto all’intensità del fenomeno sul territorio, nota l’Istat che “quasi la metà dei residenti nel Sud e nelle Isole (46,9%) sia a rischio di povertà o esclusione sociale, contro il 25,1% del Centro, 21% del Nord-ovest e il 17,1% del Nord-est”. E ancora, “tra coloro che vivono in famiglie con almeno un cittadino non italiano il rischio di povertà o esclusione sociale è quasi il doppio (51%) rispetto a chi vive in famiglie di soli italiani (27,5%)”. Le opposizioni naturalmente vanno all’attacco: i Cinque Stelle accusano i governi Renzi e Gentiloni, che “invece di occuparsi del problema hanno guardato altrove”, e affermano che “la situazione sarebbe completamente diversa se la proposta del Movimento 5 Stelle sul reddito di cittadinanza fosse stata approvata”. Giulio Marcon, della neonata formazione “Liberi e uguali”, spiega che “i dati drammatici sono frutto delle politiche sbagliate dei governi Renzi e Gentiloni”. Una “bomba sociale” che non si può evitare che esploda solo “a forza di bonus, una tantum e misure al limite del compassionevole”. “Fallimento di Renzi” anche la diagnosi del centrodestra, mentre la Cgil chiede una decisa inversione nelle politiche del lavoro e del contrasto alle povertà. La segretaria generale Susanna Camusso segnala soprattutto la difficile condizione dei giovani, schiacciati tra la disoccupazione e il precariato oggi, e la quasi certezza di basse pensioni domani. “Il governo dice che questa è una legge di Bilancio a fini sociali - afferma la leader Cgil - ma in realtà non lo è: perché non affronta il tema della creazione del lavoro, della certezza di occupazione per i giovani, delle regole che permettano di avere elementi di certezza sull’aumento del salario”. Chi sono i veri traditori dell’Italia? di Mario Calabresi La Repubblica, 7 dicembre 2017 Le persone che credono sia giusto considerare italiano un bambino nato e cresciuto in questo Paese o quelli che dichiarano guerra alle opinioni che non condividono? La domanda non sarebbe nemmeno da porre se non ci fosse chi si sente legittimato a presentarsi mascherato di fronte a un giornale per lanciarne il boicottaggio, promettere calci e pugni, una guerra senza tregua e definire i giornalisti “infami, terroristi e traditori”. Sentono di poterselo permettere perché da tempo è venuto meno l’argine, da troppo tempo ormai c’è chi nella politica e nell’informazione sottovaluta i segnali, vezzeggia gli estremisti; coltiva i discorsi d’odio e soffia sulle paure. Questa gente si permette di fare blitz e proclami deliranti perché è cambiato il clima, perché il discorso pubblico è inquinato e franato a livelli allarmanti. Per troppo tempo è stato tollerato uno scivolamento prima verbale ora fattuale. Prima nelle curve degli stadi, poi nelle periferie, infine nelle scuole. Per molto tempo è stato imputato, giustamente, a una parte della sinistra un uso disinvolto dei “ma” e dei “però”, dei distinguo di fronte ai discorsi violenti. E ora di correre ai ripari, per difendere uno spazio vitale e indispensabile di confronto sano e genuino. Il coraggio oggi non sta nella capacità di gridare più degli altri e nemmeno nel dare sfogo alla pancia del Paese, ma nel saper prendere le distanze da chi predica estremismo e divisioni. Coraggio significa essere capaci di non lucrare miseramente su quattro voti, quattro copie o quattro clic. Non lanciamo questo allarme oggi, perché la minaccia è arrivata sotto casa nostra e si è rivolta contro i giornalisti di Repubblica ed Espresso, ma lo stiamo scendo da tempo, da quando i segnali si sono moltiplicati. Lo abbiamo fatto a Ostia, prima che i riflettori si accendessero per illuminare quella testata sferrata contro chi aveva l’impudenza di fare domande, quando sono emersi chiari i legami tra gruppi neofascisti e criminalità. Lo abbiamo fatto quando il disagio e la crisi delle periferie sono diventati carburante per costruire risposte che parlano di muri, di razza e di intolleranza. Lo abbiamo fatto per denunciare l’assuefazione a una propaganda che riabilita il fascismo, gioca con i suoi cimeli e ripropone i suoi metodi di azione. Continueremo a farlo con le inchieste sistematiche sui nuovi fascismi, sui metodi di azione, di reclutamento, di propaganda, e sui finanziamenti e gli interessi economici. Ad aver scatenato il blitz di Forza Nuova è stato tutto questo ma soprattutto la campagna di questo giornale in favore della legge sul cosiddetto Ius soli, la nostra convinzione che la cittadinanza e l’integrazione siano la strada maestra per una convivenza pacifica e per combattere terrorismo e integralismo. Nel delirio dei proclami si parla di invasione e si mescolano - come al solito e come fanno in troppi - cose che non c’entrano nulla tra loro: la legge riconoscerebbe come italiani quel bambini e quei ragazzi che vivono e studiano qui, cui genitori hanno da almeno cinque anni un lavoro e un regolare permesso di soggiorno. Sono i figli di chi contribuisce a mandare avanti le aziende di questo Paese, si prende cura dei nostri anziani e dei malati e di chi ha trovato in. Italia la possibilità di una nuova vita. Non si tratta di consegnare passaporti a chi sbarca sulle nostre coste da imbarcazioni di fortuna. È ora che le parole tornino, al loro significato e i gesti sotto controllo. Non c’è più tempo, siamo tutti vittime di una deriva che coinvolge l’intero Occidente, di fronte alla rottura della tenuta sociale esistono solo prese di posizioni chiare, soprattutto alla vigilia di una campagna elettorale che sarà ancora più complicata e divisi’ a del solito. Repubblica ha le spalle larghe, continuerà a fare il suo lavoro e a portare avanti le battaglie in cui crede, a partire da quelle sui diritti e per la protezione di chi è più debole e in difficoltà. A preoccuparci, lo ripeto, non sono le minacce a questo giornale ma la minaccia di chi vuole spezzare il Paese. Sono loro veri traditori. Libertà di stampa e antifascismo coincidono, oggi ancora di più di Marco Damilano L’Espresso, 7 dicembre 2017 Ci vogliono mettere sotto assedio per le nostre idee e per le nostre inchieste. Per questo non è possibile nessuna timidezza: bisogna schierarsi. Abbiamo il senso delle proporzioni e in prima battuta volevamo evitare di ricorrere alla terminologia anni Settanta, tipo “vile attacco fascista contro la stampa democratica”. Perché noi giornalisti dell’Espresso e di Repubblica siamo contemporanei, viviamo e raccontiamo questa mondo, condividiamo le speranze e le inquietudini dei nostri lettori, lanciamo domande più che offrire risposte preconfezionate. E invece Forza Nuova, Casa Pound e i loro camerati vivono in un’altra epoca, fatta di chiusure, confini, muri, difesa della sacra razza e del sacro suolo, intolleranza verso le critiche, le inchieste. Neppure una riga di pubblicità per chi sbandiera lugubri simbologie del passato, avevamo pensato in un primo momento. Ma poi scorrono quelle immagini di uomini con il volto coperto che urlano in un luogo di lavoro, nel cortile di ingresso di una redazione. Quel post su Facebook di Forza Nuova, partito che fu rappresentato in Parlamento europeo, il cui leader Roberto Fiore provò a candidarsi nel 2006 con quel Berlusconi che oggi definiscono “falsa opposizione”, quelle parole che esaltano apertamente la violenza (“Roma e l’Italia si difendono con l’azione, spalla a spalla, a calci e pugni...”). E allora no, non si può accettare di banalizzare anche questo episodio, come accade con le parole in libertà degli squadristi da tastiera. Quando lo squadrismo supera il virtuale e non si vergogna di toccare materia incandescente, tipo intimidire l’uscita di un giornale, è un livello che si alza, un confine che viene abbattuto. Ci vogliono mettere sotto assedio, come hanno impunemente scritto, perché siamo giornalisti. Ci attaccano per le nostre idee, sullo ius soli, e per le nostre inchieste, quella firmata da Giovanni Tizian, Stefano Vergine e Andrea Palladino sui finanziamenti e sulle origini delle fortune economiche dell’estrema destra. Provano a intercettare un clima di intolleranza e di odio più ampio nei confronti di chi fa il nostro lavoro, il mestiere di informare. In un paese in cui la stampa e i giornalisti sono stati sotto il tiro, e spesso vittime, di terroristi rossi e neri, logge occulte, mafia e camorra. Ce lo siamo dimenticati, in questa Italia immersa nel presente, senza memoria. Eppure i nemici della libertà intuiscono istintivamente dove devono colpire, sanno che ogni attacco alla stampa è un anticorpo che viene meno, una parte di convivenza civile che viene eliminata, un pezzo di democrazia ferita. Per questo non è possibile nessuna timidezza, nessuna esitazione, bisogna schierarsi. Libertà di stampa e antifascismo coincidono, oggi ancora di più. A Pescara una classe monoetnica per soli rom, la denuncia inascoltata di un professore di Riccardo Noury Corriere della Sera, 7 dicembre 2017 In Italia le “classi speciali” per soli rom sono state ufficialmente abolite nel 1982. A quanto pare, non è così a Pescara, dove è stato denunciato un caso di segregazione didattica che richiama da vicino il modello in vigore in Slovacchia e Repubblica Ceca. Nella città abruzzese, alla Scuola secondaria di I grado “Foscolo” lo scorso anno scolastico erano iscritti 236 alunni di cui 51 rom (poco più del 20 per cento). Una delle classi, la I E, era composta da 12 rom su 13. Il tredicesimo alunno era uno straniero. Al confronto, la I B aveva 24 alunni di cui tre rom: la IC quattro rom (tutti bocciati), la ID 18 alunni di cui sette rom. Sempre nella I E si è verificato il maggior numero di bocciature, quattro su 13. La storia si ripete anche quest’anno. La I E è una classe monoetnica. Sebbene la composizione delle classi non risulti affissa in bacheca, risultano iscritti 12 o 13 alunni di cui due bulgari, un cinese e 9 o 10 rom (due dei quali ripetenti, provenienti dall’ex I E dell’anno scolastico passato). La dirigente scolastica ha difeso, persino rivendicato questa decisione definendola una “sperimentazione innovativa finalizzata a contrastare l’evasione scolastica degli alunni rom, e avallata dai loro stessi genitori”. Nell’anno scolastico 2016-17 il professor Andrea D’Emilio aveva denunciato questa segregazione didattica al Miur, all’Unar, all’Usp di Pescara e agli assessori comunale e regionale alla pubblica istruzione: inutilmente. Quest’anno ha rinnovato la denuncia al Miur e ha deciso, in assenza di risposte, di promuovere una petizione pubblica. Un boia è un boia, ma processare i vinti è immorale di Massimo Fini Il Fatto Quotidiano, 7 dicembre 2017 Non capisco, o lo capisco troppo bene, perché svilire a “spettacolare pacchianata”, a “ridicolo”, a “parodia del passato” il gesto del generale croato- bosniaco Slobodan Praljak, ingegnere e regista nella vita civile, che ha ingerito una fiala di veleno, suicidandosi, proprio mentre il Tribunale penale internazionale dell’Aia per “i crimini di guerra nella ex Jugoslavia” lo condannava a vent’anni. Quando un uomo paga con la vita la coerenza a se stesso, ai suoi princìpi, alle sue azioni, quali che siano state, merita rispetto. Lasciamo pur perdere che fra le accuse principali mosse a Praljak c’è quella, risibile, di aver distrutto l’antico ponte di Mostar (solo i nazisti, forse più attenti all’arte che agli esseri umani, rinunciarono a far saltare il Ponte Vecchio di Firenze perdendo, con ciò, diecimila soldati, mentre degli americani è stato trovato un progetto per spazzar via la Torre di Pisa perché non riuscivano ad aver ragione di quattro - quattro - mitraglieri tedeschi che vi si erano appollaiati). Non si tratta di questo. Perché il plateale gesto di Praljak ha un alto valore, oltre che etico, politico: è il rifiuto spettacolare della giustizia dei vincitori. Il premier croato Andrej Plenkovic ha così commentato: “L’atto di Praljak parla in modo chiaro dell’ingiustizia morale nei confronti di sei croati condannati oggi dal Tpi”. E ha proseguito contestando la decisione di una “corte politica”. Ma lo stesso discorso, suicidio a parte, si può fare per il generale serbo-bosniaco Ratko Mladic condannato una settimana prima all’ergastolo, per gli stessi motivi, dal Tpi. Tutto ha inizio con i processi di Norimberga e di Tokyo quando, per la prima volta nella Storia, i vincitori non si accontentarono di essere più forti dei vinti ma si sentirono anche moralmente migliori così da avere il diritto di giudicarli. In tal modo si finiva per far coincidere il diritto con la forza, la forza del vincitore. I processi di Norimberga e di Tokyo suscitarono forti perplessità proprio negli ambienti liberali internazionali. Scriveva l’americano Rustem Vambery, docente di Diritto penale, sul settimanale The Nation del 1° dicembre 1945: “Che i capi nazisti e fascisti debbano essere impiccati e fucilati dal potere politico e militare, non c’è bisogno di dirlo; ma questo non ha niente a che vedere con la legge… Giudici guidati da ‘sano sentimento popolarè, introduzione del principio di retroattività, presunzione di reato futuro… ripristino della vendetta tribale, tutti questi erano i punti salienti di quella che la Germania di Hitler considerava legge. Chiunque conosca la storia del diritto penale sa quanti secoli, quanti millenni, ci sono voluti perché esattamente il contrario di questa storia e di questa prassi nazista fosse universalmente riconosciuto co- me parte integrante del diritto e della giustizia”. E Benedetto Croce, in un discorso tenuto all’Assemblea Costituente il 24 luglio 1947, affermava: “Segno inquietante di turbamento spirituale sono ai giorni nostri (bisogna pure avere il coraggio di confessarlo) i tribunali senza alcun fondamento di legge, che il vincitore ha istituito per giudicare, condannare e impiccare, sotto nome di criminali di guerra, uomini politici e generali dei popoli vinti, abbandonando la diversa pratica, esente da ipocrisia, onde un tempo non si dava quartiere ai vinti o ad alcuni di loro e se ne richiedeva la consegna per metterli a morte, proseguendo e concludendo con ciò la guerra”. E The Guardian ammoniva nel 1946: “Il processo di Norimberga apparirà giusto o sbagliato nella storia a seconda del futuro comportamento delle nazioni che ne sono responsabili”. Ciò che hanno combinato sovietici e americani dopo la fine della Seconda guerra mondiale dà la risposta a questa domanda. Anche se vi manca l’applicazione del principio di retroattività io non ho mai avuto fiducia nel Tribunale Internazionale dell’Aia alla cui giurisdizione, tra l’altro, sono sottratti, chissà in nome di che, i politici e i militari americani. Come ribadii qualche anno fa, in una conferenza che si tenne a Lugano, a Carla Del Ponte che di quel Tribunale dell’Aia è stata Pubblico ministero. Ma se si vuol credere al Tribunale dell’Aia per i crimini commessi nella guerra di Bosnia ben altri dovrebbero essere coloro da trascinare sul banco degli imputati. Sono i principali esponenti di quella imprecisata entità che si chiama Comunità internazionale. Il collasso dell’Urss aveva provocato il disfacimento della Jugoslavia. Slovenia e Croazia ottennero facilmente il riconoscimento di Stati dalla Comunità internazionale, sotto la spinta, in particolare per la Croazia cattolica, della Germania e del Vaticano. Allora anche i serbi di Bosnia chiesero un’altrettale riconoscimento o la possibilità di unirsi alla madrepatria serba. Una Bosnia multietnica, a guida musulmana, si giustificava solo all’interno di una Jugoslavia multietnica (era stato un capolavoro di Tito, e prima ancora dell’Impero austroungarico, tenere insieme tre comunità, croata, serba, musulmana, che si sono sempre detestate). Ma quello che era stato facilmente concesso dalla Comunità internazionale a croati e sloveni venne negato ai serbi di Bosnia. E questi scesero in guerra. E la stavano vincendo, sia perché, come i croati, potevano contare sulla confinante madrepatria, mentre i musulmani bosniaci non avevano un retroterra e ricevevano solo uno sporadico sostegno dall’Iran, sia perché sono ritenuti, sul terreno, almeno fino all’avvento dei guerriglieri dell’Isis, i migliori combattenti del mondo - si deve alla resistenza serba quel ritardo nell’attacco all’Unione Sovietica che, complice il Generale Inverno, fu fatale a Hitler. Ma la Comunità internazionale, europei in testa seguiti dagli americani, decise che quella guerra i serbi non la dovevano vincere e i vincitori furono trasformati in vinti. È stato così creato uno Stato, la Bosnia, che non era mai esistito e che viene tenuto in piedi con lo sputo ed è pronto a esplodere in ogni momento. Come dimostrano le grandi manifestazioni popolari di questi giorni in Croazia e in Serbia che fanno emergere un odio che le sentenze del Tribunale dell’Aia non fanno che rinfocolare. Sarebbe bastato che la cosiddetta Comunità internazionale avesse riconosciuto ai serbi quello che loro spettava e la guerra di Bosnia, con i suoi crimini e i suoi misfatti, non ci sarebbe mai stata. E nemmeno le sentenze, di assai dubbia legittimità, del Tribunale dei vincitori. Google crea un’intelligenza artificiale capace di creare nuove intelligenze artificiali di Federico Cella Corriere della Sera, 7 dicembre 2017 La rete neurale “madre” AutoML ha generato la prima “figlia”, NASNet, che è capace di riconoscere oggetti nei video con risultati migliori dei software scritti dall’essere umano. Diversi i campi d’applicazione, ma anche i timori per macchine che prendono decisioni in autonomia. Volendola vedere con occhi e schemi a noi più familiari, è come il padre che insegna il mestiere al figlio per portarlo in bottega e dare vita a una piccola azienda familiare che può migliorare gli affari perché non è più basata sulle sole forze del genitore. Questo è quanto di fatto accade, diciamo che è sullo sfondo della notizia che ha un po’ scosso la Rete, e cioè quella che una particolare intelligenza artificiale creata da Google è in grado di generare in autonomia altre intelligenze artificiali. E che queste ultime hanno performance migliori rispetto a quelle programmate dall’essere umano. Se sei figlio di un calzolaio, per la formazione continua e controllata, sarai più bravo a lavorare sulle scarpe di chi apprende il mestiere da zero. Il calzolaio di silicio - Una prima conseguenza pratica, quella che nasce con il progetto di Google Brain chiamato AutoML (Automatic Machine Learning) lo scorso maggio, ha dell’esaltante ed è per motivi legati all’analogia di cui sopra. Se il figlio del calzolaio sa già di suo lavorare sulle scarpe, significa che chiunque pur non competente nel settore può sfruttare le sue capacità per lavorare nel calzaturiero, e magari passare da una bottega a una media impresa. Allo stesso modo, per così dire, le intelligenze artificiali figlie di AutoML non richiedono particolari competenze tecniche per essere programmate perché è l’Ai genitore stessa a farlo. E dunque lasciano spazio a quasi chiunque di sfruttarle per le proprie attività - software, app ed ecosistemi/servizi vari -, semplicemente adattandole al lavoro richiesto, compito tra virgolette non complesso proprio perché parliamo di software capaci di apprendere da soli, cioè di machine learning e dunque di strumenti che applicati a un compito, imparano a farlo sempre meglio e più velocemente. Le performance del figlio - È il caso per esempio di NASNet, il primo bimbo nato da AutoML, un figlio istruito dal genitore digitale a riconoscere gli oggetti che compaiono all’interno di video. E che pare svolga questo compito appunto meglio di altre Ai dedicate: i test eseguiti con due dei maggiori set di dati di immagini al mondo - ImageNet e Coco - la prestazione ha raggiunto l’82,7% di precisione nel riconoscimento degli oggetti, cioè l’1,2% superiore a tutte le prestazioni precedenti. Questo peraltro dimezzando i costi computazionali del procedimento, così come si legge sul blog di Google dedicato al tema. E questo grazie al sistema padre-figlio creato che si può riassumere, semplificandolo, così: mentre la rete neurale generata, NASNet, cerca di riconoscere gli oggetti, la rete generatrice - AutoML - controlla le performance, facendo ripetere le stesse sequenze di elaborazione fin quando la precisione di riconoscimento non ha raggiunto i livelli desiderati. Le opportunità - Come auspicato dai ricercatori di Google, che hanno creato NASNet con un’impostazione open-source (cioè di libero utilizzo, anche a livello di codice), “la community potrà essere in grado di costruire (nuovi schemi) su questi modelli per affrontare una moltitudine di problematiche che finora non abbiamo neanche immaginato”. Come racconta Dday.it, i campi di applicazione sono infiniti, dalla guida autonoma alla produzione industriale a, letteralmente, ridare la vista ai non vedenti. Siamo dunque di fronte a un passo ben oltre AlphaGo Zero, l’intelligenza artificiale sempre creata da Google e che ha imparato da sola a giocare a Go, e alla notizia più di colore dello scorso agosto che riguardava i bot di Facebook bloccati perché avevano sviluppato un linguaggio comune senza che ci fosse stato un input umano dietro. I timori - Inevitabilmente questa notizia ha creato dei timori, perché si parla di una macchina in grado di prendere decisioni in assenza dell’intervento umano. Oppure, al momento più realisticamente, in base a un intervento umano (ancora) non regolamentato dalle leggi. Come potrebbe essere l’idea di applicare le potenzialità di riconoscimento di NASNet su una rete per la sorveglianza di massa. Niente di così troppo lontano dalla realtà, come invece lo è al momento immaginare una macchina capace di prendere decisioni indipendenti ad ampio spettro. Le Ai al momento sono software e reti dedicate a compiti molto specifici, e nessuno di questi al momento parrebbe essere il controllo del Pianeta o altre occorrenze da film distopico di fantascienza. Certo è che sia i governi sia le aziende stesse (con per esempio la Partnership on Ai) si stanno muovendo, perché l’etica dei robot, dai romanzi di Asimov si sta muovendo sempre più velocemente verso campi d’applicazione reali. Così per esempio, dopo le regole di Robo-etica impostate dal British Standards Institute lo scorso anno, l’Unione Europea a inizio del 2017 ha stilato un documento che chiede la creazione di un ente preposto e leggi dedicate al controllo di automi intelligenti. Che siano essi fisici oppure no, come nel nostro caso.