Carceri, diamo il via a un piano Marshall degli istituti di pena di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 6 dicembre 2017 Sembrerebbe che nei prossimi mesi, finalmente, ci saranno nuove assunzioni nell’Amministrazione Penitenziaria. Sarà vero? Speriamo proprio di sì. L’operatore penitenziario ricopre un ruolo di enorme rilievo e prestigio sociale. Nelle sue mani la collettività affida persone che dovranno essere custodite, intrattenute, sostenute, aiutate. È un lavoro che, insieme a pochi altri, ha una sua mission ben delineata dalla nostra Carta Costituzionale, che agli articoli 13 e 27 afferma che “la libertà personale è inviolabile” e “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Sono trascorsi più di vent’anni da quando è stato assunto l’ultimo direttore penitenziario. Dieci anni o forse più dall’ultimo concorso per educatore penitenziario. E ancora a quella graduatoria si attinge oggi. Non vi sono al momento mediatori culturali alle dipendenze dell’Amministrazione Penitenziaria. Quei pochi che operano negli Istituti di pena sono alle dipendenze di Enti Locali o di Cooperative sociali. Anche la situazione degli assistenti sociali non è troppo diversa, nonostante debbano adesso farsi carico di seguire le migliaia di persone che richiedono la messa alla prova, l’istituto giuridico che nel 2014 è stato introdotto anche per gli adulti e che permette all’imputato di vedersi estinto un reato minore se segue con profitto un programma di prescrizioni sotto il controllo, appunto, dei servizi sociali e dopo una loro preliminare indagine. Dura è la situazione degli psicologi, operativi in base all’articolo 80 dell’Ordinamento Penitenziario, costretti in un limbo amministrativo e la cui professionalità di lunga data sarebbe assurdo e autolesionista perdere. Va fatto di tutto per tenerli dentro l’Amministrazione, a supporto dei tanti detenuti che ne hanno bisogno. I detenuti sono oggi circa 58.000. Un buon regalo di Natale per il nostro sistema penitenziario sarebbe quello di porre, al fianco di una riforma coraggiosa - e non minimale - delle norme che regolamentano le nostre carceri, datate al 1975, un piano Marshall del mondo carcerario con centinaia di nuove assunzioni nelle professioni direttive, educative, sociali, sanitarie. Ci sono sicuramente migliaia di giovani neo-laureati motivati e pronti a partecipare a concorsi per lavorare negli istituti di pena. Tutte le riforme richiedono una rivoluzione organizzativa a proprio supporto. Nuove assunzioni aiuterebbero il sistema a rigenerarsi. Tutti coloro che lavorano in un carcere - direttori, poliziotti, educatori, assistenti sociali, psicologi e funzionari amministrativi - svolgono un lavoro fortemente usurante e a serio rischio di burn out. Sarebbe stato giusto inserirli fra i titolari del diritto ad andare in pensione prima dei 67 anni. Quanto meno andrebbe garantita a tutti gli operatori penitenziari una mobilità volontaria dopo anni di impiego. Oggi siamo alle soglie di una riforma che ci auspichiamo sia epocale. A giorni il Ministero della Giustizia renderà pubblici i decreti attuativi della legge con la quale il Parlamento nel giugno scorso ha delegato il governo a ripensare l’esecuzione della pena. Ci auguriamo che ci sia spazio anche per ripensare il lavoro di chi svolge un compito tanto prezioso per la società. *Coordinatrice associazione Antigone Notti a secco: in carcere da gennaio niente più acqua dalle 23 alle 5,30 del mattino di Giovanni Maria Jacobazzi Il Dubbio, 6 dicembre 2017 Lo prevede una Circolare del Dap che sarà operativa dal prossimo mese di gennaio. La rete idrica delle prigioni italiane è un colabrodo. Impianti vetusti e contatori inefficienti stanno generando consumi “ben superiori ai normali parametri riferibili all’edilizia civile residenziale e comunitaria”. Per evitare, quindi, “ulteriori dispersioni e contenere i consumi”, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha ritenuto che la soluzione migliore sia quella di “chiudere in via sperimentale l’erogazione idrica dalle ore 23.00 alle ore 5.30 del mattino” nelle celle dove il consumo giornaliero sia superiore a 0,5 mc per detenuto. La chiusura dei rubinetti scatterà dal prossimo mese di gennaio, come disposto nel provvedimento dello scorso 28 novembre a firma del direttore del Dap Santi Consolo ed indirizzato a tutti i direttori delle carceri. La rete idrica delle prigioni italiane è un colabrodo. Impianti vetusti e contatori inefficienti stanno generando consumi “ben superiori ai normali parametri riferibili all’edilizia civile residenziale e comunitaria” Per evitare, quindi, “ulteriori dispersioni e contenere i consumi”, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha ritenuto che la soluzione migliore sia quella di “chiudere in via sperimentale l’erogazione idrica dalle ore 23.00 alle ore 5.30 del mattino” nelle celle dove il consumo giornaliero sia superiore a 0,5 mc per detenuto. La chiusura dei rubinetti scatterà dal prossimo mese di gennaio, come disposto nel provvedimento dello scorso 28 novembre a firma del direttore del Dap Santi Consolo ed indirizzato a tutti i direttori delle carceri. Nella nota con cui vengono assetati dal contrappello alla sveglia i detenuti italiani si legge che è stato acquisito il preventivo parere del garante dei detenuti e che la disposizione risponde alle “direttive del ministro della Giustizia finalizzate all’efficientamento energetico del patrimonio immobiliare demaniale in uso all’amministrazione penitenziaria”. Per le esigenze durante la notte, ad ogni detenuto sarà data una brocca dalla capienza massima di “20/ 25 litri da utilizzare come riserva idrica”. Oltre al ritorno delle brocche, come nelle prigioni del Regno delle Due Sicilie, nella nota del Dap si invitano i direttori delle carceri italiane a una verifica del corretto funzionamento dei contatori cercando nel contempo di ottenere dai gestori dei servizi idrici “condizioni contrattuali a tariffe agevolate”. Sono esclusi dall’utilizzo delle brocche i “reparti sanitari con degenze, articolazioni per la salute mentale e reparti lavorazione con particolare consumo d’acqua”. Eventuali casi particolari ove non utilizzare i catini nell’orario notturno saranno “valutati dai provveditorati e segnalati al Dap” per la prevista autorizzazione. La chiusura dei rubinetti nell’orario notturno e il conseguente utilizzo delle brocche, nelle intenzioni del Dap permetterà di raggiungere “rilevanti economie di risorse finanziarie da destinare al rifacimento delle reti idriche interne avviando un circuito virtuoso di ulteriore abbattimento dei costi e dei consumi idrici”. Inoltre, sempre per ottimizzare i costi, è prevista l’istallazione di impianti di raccolta dell’acqua piovana e di quelle reflue da utilizzare per i “servizi di pulizia e l’irrigazione colturale”. Rubinetti aperti e nessuna brocca per il personale della polizia penitenziaria accasermato che viene escluso dalla partecipazione a questo percorso virtuoso finalizzato al risparmio idrico. In base agli ultimi dati disponibili sul sito del ministero della Giustizia, riferiti al 2014, per il pagamento di tutte le utenze delle carceri sono stati spesi 140 milioni di euro. Per fare un raffronto, nello stesso anno, le Procure hanno speso solo di intercettazioni telefoniche 250 milioni di euro. Sfondato il muro dei 58mila detenuti, sono 7.604 in più rispetto ai posti disponibili di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 6 dicembre 2017 Superati i 58mila ristretti nelle patrie galere. Il trend del sovraffollamento è in esponenziale crescita. Al 30 novembre, infatti, secondo i dati messi a disposizione dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e pubblicati sul sito del ministero della Giustizia -, siamo giunti a ben 58.115 detenuti per un totale di 50.511 posti disponibili secondo i dati ufficiali della capienza regolamentare. Questo vuol dire che risultano 7.604 detenuti in più. Basti pensare che il mese precedente risultavano 7.450 reclusi in più, mentre due mesi fa - ovvero al 30 settembre - erano 7.153 i detenuti che sforavano il numero dei posti regolamentari. Sono dati che non fanno altro che confermare il trend in crescita per quanto riguarda il sovraffollamento. I numeri risulterebbero addirittura maggiori se venissero prese in considerazione l’esistenza di celle ancora inagibili. Situazione ben documentata dal rapporto annuale dell’ufficio del Garante dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale: ovvero l’alto numero di camere o sezioni fuori uso, per inagibilità o per lavori in corso, che alla data del 23 febbraio scorso erano pari al 9,5 per cento. Cioè parliamo di circa 4.700 posti ancora non disponibili. Per quanto riguarda i bambini dietro le sbarre, il numero non è sostanzialmente cambiato: al 30 novembre risultano 58 presenze, mentre il mese scorso erano 60. Maglia nera per quanto riguarda la prevenzione dei suicidi in carcere: con il suicidio avvenuto il 2 dicembre avvenuto nel carcere sardo di Uta, siamo giunti a 48 suicidi dall’inizio dell’anno. Sono dati - soprattutto quelli relativi al sovraffollamento che attestano la necessità di puntare sulla decarcerizzazione e il sostegno delle misure alternative. Misure già esistenti, ma che verranno rafforzate dalla riforma dell’ordinamento penitenziario. I decreti attuativi della riforma, però, ancora devono passare al vaglio del Consiglio dei ministri e la legislatura è agli sgoccioli. Proprio per questo, Rita Bernardini, Antonella Casu, Sergio d’Elia e Maurizio Turco, coordinatori della Presidenza del Partito Radicale hanno dichiarato: “Il Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito dà atto al ministro della Giustizia Andrea Orlando di aver trasmesso al Presidente del Consiglio Paolo Gentiloni i decreti attuativi (i primi da almeno un mese) della riforma dell’ordinamento penitenziario che però sono ancora in attesa dell’approvazione da parte del Consiglio dei ministri. A Paolo Gentiloni - spiegano gli esponenti radicali - il Partito Radicale ha inoltre chiesto da venti giorni un incontro urgente che resta ancora in attesa di una risposta. L’ultima volta che Paolo Gentiloni ha condiviso il suo tempo con il Partito Radicale è stato più di due anni fa, quando ricopriva la carica di Ministro degli Esteri e Marco Pannella era ancora in vita, in occasione della “Seconda Conferenza Internazionale- Universalità dei Diritti Umani per la transizione verso lo Stato di Diritto e l’affermazione del Diritto umano alla Conoscenza”. Per noi - concludono, coordinatori della Presidenza del Partito Radicale, l’urgenza è quella di discutere di questa vera e consistente eredità che ci ha lasciato Marco Pannella così come dell’attuazione della riforma dell’ordinamento penitenziario sempre più necessaria rispetto alle condizioni in cui versano le carceri del nostro Paese”. Un nuovo tool informatico per favorire l’emersione di HCV nei pazienti detenuti sanitapenitenziaria.org, 6 dicembre 2017 Nelle oltre 100.000 persone detenute annualmente nei 190 Istituti del Sistema Penitenziario Italiano, le Malattie Infettive ad evoluzione cronica con le loro relative forme cliniche, appaiono largamente rappresentate. In particolare, le infezioni da virus a trasmissione ematica e sessuale (Blood Borne Viruses - BBV), quali HIV, HBV e HCV presentano una elevata concentrazione in questo ambito e, fra queste, l’epatite cronica HCV-relata appare interessare dal 20 al 30% dei presenti. Una sottostima nella diagnosi di tali patologie in questo setting è ampiamente riportata dalla Letteratura scientifica internazionale. Inoltre, le infezioni croniche da virus BBV presentano generalmente una lunga fase clinicamente asintomatica, durante la quale il paziente può non rendersi conto di esserne portatore, ma può trasmettere la malattia ad altri con le stesse probabilità di una persona che presenta sintomi conclamati. Ne consegue che un’importante aliquota delle persone detenute portatrici di un’infezione cronica, risulta inconsapevole della propria condizione, con probabilità di trasmissione della stessa stimate tra le 5 e le 6 volte superiori rispetto ai pazienti consapevoli ed in terapia. Un ritardo nella diagnosi di una malattia infettiva cronica in carcere è spesso riconosciuto come concausa della sottostima, anche in relazione ai talvolta brevi tempi di detenzione di molte persone solo occasionalmente detenute. È sicuramente raro che i medici in turno di servizio presso un istituto penitenziario italiano, cioè coloro che abitualmente eseguono la visita d’ingresso di un nuovo giunto in carcere sia dalla libertà che da altro istituto, siano specialisti in Malattie Infettive. Questa evidenza sottintende come il medico che esegue la prima visita al momento dell’ingresso di una persona in carcere, possa spesso non possedere una preparazione specifica per stabilire un percorso diagnostico corretto e rapido di malattia infettiva. Nella realtà quotidiana, è sicuramente frequente che solo una ridotta aliquota di pazienti con sospetto clinico di malattia infettiva arrivi all’osservazione dello specialista Infettivologo e spesso dopo diverse settimane dall’ingresso e senza esami ematochimici e/o strumentali disponibili in cartella. Per favorire l’emersione dei tanti casi di infezione inconsapevole, segnatamente da HCV, presenti nelle persone detenute, Simspe-onlus con il contributo non condizionato di Gilead Sciences Italia, annuncia la creazione e lo sviluppo di uno strumento informatico che possa orientare sia i Medici Penitenziari non specialisti in infettivologia, come anche gli Infermieri Professionali operanti in tale ambito. Lo strumento con acronimo ADRHIP - Assisted Diagnostic Routes for HCV Inmates Patients, prevederà: percorsi di aggiornamento specifici sulle infezioni croniche maggiormente rilevate tra le persone detenute dagli studi clinici internazionali e dalle maggiori organizzazioni sanitarie internazionali, quali O.M.S e European C.D.C.; una flow-chart in grado di guidare in percorsi diagnostici semplici, corretti e sequenziali coloro che effettuano la prima visita d’ingresso in carcere, finalizzati ad ottenere una documentazione completa per ogni persona ristretta, che possa escludere tali patologie ovvero, in caso di positività risulti propedeutica alla visita specialistica infettivologica, ottenendo in tal modo almeno due vantaggi: 1) implementazione degli esami di screening ed impostazione degli esami di secondo livello nei pazienti risultati positivi; 2) riduzione dei tempi per il raggiungimento della diagnosi di certezza, della stadiazione clinica della malattia e dell’acceso alle terapie; un database per la raccolta omogenea fra tutti gli utilizzatori dello strumento, dei dati clinici e laboratoristici dei pazienti valutati, eventualmente disponibili per gli organismi locali e nazionali di Tutela della Salute in carcere. Non appena terminati i test attualmente in corso sullo strumento informatico atti a verificarne la funzionalità, Adrhip sarà gratuitamente disponibile per tutte le aree sanitarie penitenziarie che ne faranno richiesta. Violenze di genere, più tempo per le denunce: ha ragione il ministro Orlando di Andrea Catizone* Il Dubbio, 6 dicembre 2017 Nella ricerca di un continuo equilibrio nell’individuazione di risposte che contrastino la violenza di genere, tra una posizione che non vuole rinunciare all’affermazione di autodeterminazione della donna e l’altra che invece ritiene necessario imporre il potere autoritativo dello Stato nella repressione di questi reati, è importante osservare il contesto storico normativo di riferimento. Posto che non esiste, in via definitiva, una risposta immodificabile a questa legittima contrapposizione di vedute, la soluzione va individuata nella regola che meglio risponde alle esigenze del momento. Il numero sempre più elevato di violenze contro le donne associato alle poco numerose denunce esprimono l’evidenza di modificare l’ordine di priorità. A questa situazione si aggiunge un quadro normativo internazionale che, sia a livello legislativo sia giurisprudenziale, richiede un mutamento di prospettiva domandando sempre di più allo Stato e sempre meno alla vittima (non ci si scandalizzi di usare la parola vittima) di assumersi la responsabilità della protezione di diritti fondamentali che, in quanto tali, sono irrinunciabili. Davanti a fatti di violenza non occasionali è lo Stato che deve farsi promotore della tutela di quell’interesse specifico, ma anche di quello più diffuso dell’intera collettività mediante un iter che abbia come fine quello di “togliere la responsabilità della violenza dalle spalle delle donne, responsabilizzando, invece, gli autori di quella violenza”. L’accertamento della volontà della vittima della violenza di perseguire quel reato è solo uno degli aspetti che uno Stato deve considerare per contrastare la violenza di genere, dovendo continuare il suo corso anche laddove questa volontà dovesse venire meno, successivamente. È questa la filosofia sottostante la Convenzione di Istanbul che, all’art. 55, impone di “continuare il procedimento anche se la vittima dovesse ritrattare l’accusa o ritrattare la denuncia” ed è questa anche l’argomentazione giuridica che hanno seguito le supreme giurisdizioni di Strasburgo e di Lussemburgo quando hanno dovuto decidere sulle violenze consumate dentro rapporti affettivi e familiari affermando che tale violenza contrastava, evidentemente, con la Cedu come pure con interessi più generali della collettività. La situazione storica e il piano normativo devono dunque rispondere ad un cambio di passo rispetto anche alle modifiche che sono state recentemente introdotte e che sono insufficienti a contrastare pratiche violente sempre più ripetute. Le strade perseguibili sono solo due: prevedere la irrevocabilità della querela, come richiesto dalla Convenzione di Istanbul, da noi ratificata e dalle pronunce delle due Corti europee e prevedere, come accade in altri Paesi, l’estensione dei termini di presentazione della denuncia querela che possa permettere di evitare l’improcedibilità dell’azione penale a fronte di una oggettiva sussistenza del reato. Sono misure entrambe ragionevoli e che non pregiudicano il diritto della difesa le cui garanzie si devono esplicare all’interno di un giusto processo di previsione costituzionale, art. 111, e che darebbero un segnale di volontà dello Stato di esercizio della sua imprescindibile funzione anche educativa, non repressiva tout court, in un contesto storico in cui il tema della violenza di genere è diventato di quotidiana trattazione. *Avvocato dei diritti delle relazioni familiari e dei minori Intercettazioni, l’attacco di Casson: “Il governo ha aggirato la Costituzione” di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 6 dicembre 2017 Il Senatore non salva nulla del decreto di Orlando. Dal generale al particolare il relatore Felice Casson, di Liberi e Uguali, ieri non ha salvato nulla del decreto legislativo sulle intercettazioni firmato dal ministro della Giustizia Andrea Orlando e approdato in commissione Giustizia del Senato per un parere obbligatorio, non vincolante ma politicamente imbarazzante. Prima di tutto Casson ha voluto fare una considerazione generale che chiama in causa la Costituzione: quando l’anno scorso fu votato il maxi-emendamento con la delega al ministro in materia di intercettazioni, spiega, “il governo ha posto la fiducia due volte. L’esecutivo, che dovrebbe essere il legislatore delegato, in sostanza si è fatto la delega, aggirando così la Costituzione, per di più in materia di diritti inviolabili”. Veniamo ai particolari: il decreto legislativo prevede una cernita delle intercettazioni da parte della polizia giudiziaria che può trascrivere per il pm solo quelle ritenute rilevanti per l’indagine in corso. Delle altre segna data e ora e gli audio saranno custoditi in un archivio segreto sotto la responsabilità del pm. Ma in questo modo, osserva Casson, d’accordo con molti procuratori, si carica la pg di una responsabilità enorme, senza contare i rischi di abusi. Inoltre, senza i brogliacci (un riassunto delle intercettazioni) per i pm diventa quasi impossibile rivedere il materiale acquisito e valutarlo più volte alla luce degli sviluppi di indagine. Questi paletti limitano anche l’esercizio di difesa: solo i grandi avvocati, e con fatica, possono mandare collaboratori ad ascoltare ore di audio. Casson si è soffermato pure sulla libertà di stampa legata al diritto dei cittadini di sapere. La delega conteneva un’indicazione “disattesa da Orlando”: prevedere norme a tutela dei giornalisti che pubblicano anche materiale riservato ma di indubbio interesse pubblico. Dunque, “il rischio carcere” per i cronisti “continua a permanere” e l’Italia potrebbe subire una condanna della Cedu di Strasburgo. Dopo Casson, passato ad Mdp, oggi parlerà l’altro relatore, Giuseppe Cucca, rimasto nel Pd e si potrebbe anche votare. I Dem devono approvare il provvedimento senza se e senza ma, essendo del governo, anche se qualcuno vorrebbe recepire i suggerimenti dei procuratori, il centrodestra vorrebbe una normativa più stringente contro i giornalisti ma non butta aria di barricate. Gli unici del tutto critici sono M5S e i neo Liberi e Uguali. Intercettazioni con rilievo penale? È ancora più importante non pubblicarle di Iuri Maria Prado Il Dubbio, 6 dicembre 2017 A chi reclama che bisognerebbe smetterla di pubblicare le intercettazioni si oppone generalmente che invece bisogna pubblicarle perché i cittadini hanno il diritto di sapere. E si spiega che quel diritto è tanto più urgente nel caso in cui le intercettazioni abbiano “rilievo penale”. Di modo che semmai, a tutto concedere, si potrebbe pensare a qualche limitazione quando dai discorsi intercettati non emergono profili di illecito, ma certamente non quando c’è di mezzo un delitto: in questo caso bisognerebbe pubblicare per forza, e il divieto di farlo rappresenterebbe, da un lato, una negazione inammissibile del diritto dei cittadini di avere notizie in argomento e, dall’altro lato, una compressione inaccettabile del dovere dei giornalisti di fare quel lavoro di informazione. Ma è, o almeno dovrebbe essere, esattamente il contrario. La pubblicazione di intercettazioni che rivelino l’esistenza di questioni illecite, infatti, lede in modo molto più grave - e non necessario - i diritti degli intercettati, pur in ipotesi responsabili di un delitto. Se io infatti pubblico il contenuto di una conversazione in cui Tizio fa un uso disinvolto dei congiuntivi o si abbandona al turpiloquio, o pure si dimostra persona ridicola o perfino ignobile, allora certamente comprometto il suo diritto a che queste sue caratteristiche non proprio eccellenti non siano conosciute da tutti contro la sua volontà. Così, anche, se pubblico il contenuto di una conversazione durante la quale quello discute di cose personalissime per quanto banali, che è ingiusto siano rese pubbliche proprio perché personalissime. Ma dopotutto in questi casi io, pubblicando, comprometto solo (“solo” si fa per dire, chiaramente) il quadro di privatezza che l’intercettato avrebbe il diritto di veder mantenuto e rispettato. Ma faccio poco male rispetto a ciò che commetto se, invece, pubblico il contenuto di intercettazioni che svelino ipotesi di responsabilità per fatti illeciti. Perché se non c’è nessun diritto dei cittadini a saper che Tizio cicca un congiuntivo o fa le corna alla moglie, tanto meno diritto c’è a che essi sappiano che quello potrebbe aver commesso un reato. Se c’è il reato, infatti, o anche solo l’ipotesi, quello è, o sarà, destinatario delle attenzioni inquirenti e sanzionatorie dello Stato. C’è, o ci sarà, un’indagine. C’è, o ci sarà, un processo. E quando si attiva la pretesa inquirente e sanzionatoria dello Stato, il destinatario di queste attenzioni (ricordiamolo: attenzioni molto spesso ingiustificate perché molto spesso si tratta di innocenti) avrebbe il diritto superiore di vedere trattate le sue faccende nel processo, opportunamente assistito, davanti a un giudice sperabilmente equanime. E questo diritto superiore è inevitabilmente conculcato se i fatti che raccontano le sue ipotetiche responsabilità sono pubblicati sui giornali. Dico diritto “superiore” perché ad esso facilmente si oppone quello dei cittadini a sapere, a conoscere; e il dovere dei giornalisti di soddisfarlo. Ma è questo, dei giornalisti, un dovere a dir poco discutibile; come è quello, dei cittadini, un diritto tutto da dimostrare. Io non ho infatti nessun diritto di sapere tramite i giornali che Tizio, forse, ha commesso un delitto. Ho semmai il diritto di assistere all’applicazione della legge, e cioè che Tizio sia giudicato in un processo di diritto. E che delle sue responsabilità penali si faccia conoscenza e dibattito lì, nel processo: non sui giornali. Salvo credere che ai giornali competa il compito di fare una giustizia supplementare e più “vera”, che è una teoria abbastanza di moda ma non per questo da premiare. Ai giornalisti competerebbe in realtà un dovere diverso: difendere il diritto di tutti a una giustizia ben regolata, che risiede innanzitutto nel diritto degli indagati e degli imputati di avere a che fare solo con chi gli contesta, spesso infondatamente, comportamenti illeciti: e cioè lo Stato. È un avversario sufficientemente temibile. E associarvisi pubblicando le intercettazioni sui giornali non significa assolvere a nessun dovere: significa offrire al pubblico un’alternativa al processo. E si chiama linciaggio. Cosa si muove dietro le prossime nomine del Csm di Annalisa Chirico Il Foglio, 6 dicembre 2017 Gli alti magistrati Pasquale Ciccolo e Giovanni Canzio lasceranno i rispettivi incarichi di procuratore generale e primo presidente della Corte di Cassazione. A Palazzo dei marescialli è sempre tempo di nomine. Nella tornata prenatalizia, tra spartizioni correntizie e alleanze mutevoli, si decidono tasselli rilevanti nel mosaico delle gerarchie togate. Gli alti magistrati Pasquale Ciccolo e Giovanni Canzio lasceranno i rispettivi incarichi di procuratore generale e primo presidente della Corte di Cassazione. Il supremo giudice di legittimità, depositario di una fondamentale funzione nomofilattica volta ad assicurare l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione delle norme di diritto, si appresta al cambio di vertice. Primo presidente e procuratore generale sono membri di diritto del Csm, il secondo è pure titolare, insieme al ministro della Giustizia, dell’azione disciplinare. Non sono nomine banali, e il tempo corre giacché la votazione in plenum non potrà slittare oltre il 12 dicembre in modo da procedere alla cerimonia ufficiale, alla presenza del capo dello Stato, entro il 21 dello stesso mese. Il clima è teso, raccontano i bene informati. La prova è che un magistrato di nome Piercamillo Davigo ha presentato la domanda per entrambi i posti in lizza. “Tenta così di metterci in difficoltà”, commenta un membro togato del Csm. Tuttavia, a sentire i consiglieri che partecipano ai lavori della quinta commissione (quella deputata al conferimento di incarichi direttivi e semi direttivi), Davigo è fuori dai giochi: surclassato da altri candidati con valutazioni migliori, la toga simbolo di Mani pulite potrà al più candidarsi il prossimo anno per il rinnovo del Csm, ammesso che con la sua corrente, Autonomia e indipendenza, guadagni il consenso necessario per essere eletto. Per il posto di procuratore generale si prefigura un testa a testa, tutto pugliese, tra l’andriese Riccardo Fuzio e il leccese Giovanni Salvi. Il primo, toga di Unicost, già consigliere del Csm, è attualmente avvocato generale presso la Corte di Cassazione. Salvi, esponente di spicco di Md e fratello dell’ex ministro Cesare, dopo aver guidato la procura di Catania, dal 2015 riveste il ruolo di procuratore generale presso la Corte d’appello di Roma. Quanto al ruolo di primo presidente, che fu già di esimi giuristi del calibro di Ernesto Lupo e Giorgio Santacroce, rimpiazzare Canzio non sarà impresa facile. Canzio, in quota Area, fu eletto dal plenum del Csm con 23 voti favorevoli e 3 astenuti (inclusi due membri togati, Piergiorgio Morosini e Lucio Aschettino, della medesima corrente). In buona sintonia con il Quirinale di Giorgio Napolitano e di Sergio Mattarella, a Canzio tutti riconoscono la statura dell’accademico e uomo di dottrina, autore erudito di ponderose opere giuridiche, professore di procedura penale, membro di comitati scientifici e commissioni ministeriali. Come ogni nomina che si rispetti, l’appartenenza correntizia avrà un peso. I super favoriti nel rush finale sono l’avellinese Giovanni Mammone, il tranese Domenico Carcano e la milanese Marina Tavassi. Mammone, iscritto a Magistratura indipendente, con un passato da giudice del tribunale di Pistoia e pretore del lavoro di Roma, è addetto alla Corte di Cassazione come magistrato di appello all’ufficio del massimario ed è applicato alla sezione lavoro. Carcano, al pari di Canzio, è ascrivibile ai moderati di Area ed è specializzato nel penale, dal 2001 è stato destinato alla Suprema corte in qualità di consigliere della sezione penale che presiede dallo scorso anno. Il suo curriculum menziona anche l’esperienza di capo dell’ufficio legislativo in via Arenula con il Guardasigilli Andrea Orlando. L’unica donna in questa rosa di nomi è Marina Tavassi, iscritta a Unicost, attualmente presidente della Corte d’appello di Milano. Nei ranghi dell’ordine giudiziario le esponenti del gentil sesso rappresentano già oggi la maggioranza ma faticano a occupare i posti apicali (Livia Pomodoro, prima presidente ‘rosà del tribunale meneghino, è andata in pensione nel 2014). Tavassi, che proviene dalla sezione del tribunale specializzata in diritto d’impresa, ha raccolto l’eredità di Canzio che proprio dalla presidenza di quella Corte ha compiuto il grande balzo ai vertici di piazza Cavour. Chissà che questa coincidenza non porti fortuna pure a lei. Dell’Utri, la Procura insiste: “Resti in carcere”. E il Tribunale prende altro tempo di Gigliola Bardi Il Secolo d’Italia, 6 dicembre 2017 Il Tribunale di sorveglianza di Roma prende tempo e sul caso di Marcello Dell’Utri deciderà nei prossimi giorni. La difesa dell’ex parlamentare di Forza Italia è tornata a chiederne la scarcerazione, alla luce del continuo aggravarsi del suo stato di salute. Secondo i periti del tribunale e i consulenti della procura generale, però, le condizioni di Dell’Utri sarebbero compatibili con il carcere. E negativo è stato anche il parere del procuratore generale di Roma, Pietro Giordano. Sulla richiesta di Marcello Dell’Utri, che sta scontando a Rebibbia la condanna a 7 anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa, i giudici del Tribunale di sorveglianza, dopo aver esaminato i pareri dei consulenti della parti, hanno discusso in un’udienza a porte chiuse per oltre due ore, riservandosi poi la decisione ai prossimi giorni. Attraverso i suoi difensori, gli avvocati Alessandro De Federicis e Simona Filippi, l’ex senatore ha rafforzato la sua richiesta dicendo tra l’altro che “non ce la faccio più, mi sento provato e stanco”. A sostegno della richiesta di scarcerazione si sono spesi anche i radicali, per i quali “lo stato di salute di un detenuto costituisce un accanimento ulteriore rispetto alla detenzione così come prevista dai canoni costituzionali, legali nazionali e internazionali”. “Marcello Dell’Utri, il cui stato di salute è oggettivo, come tutti i detenuti noti, rischia di pagare anche il sovrapprezzo della sua notorietà, che rischia di rendere difficile riconoscergli quanto gli è dovuto proprio in quanto detenuto malato”, hanno sottolineato in una nota Irene Testa, segretaria dell’associazione “Il Detenuto Ignoto”, e Maurizio Turco del Partito radicale. “È un obbligo trattare Marcello Dell’Utri e tutti i detenuti malati secondo quelle che sono le leggi. Detenuti malati - hanno sottolineato Testa e Turco - che in maggioranza si sono ammalati in carcere, cioè nelle mani di chi perlomeno non avrebbe dovuto creare le condizioni ambientali per lo sviluppo dell’insorgenza e lo sviluppo della malattia”. La Corte europea: “Sulla prescrizione decidono gli Stati” di Errico Novi Il Dubbio, 6 dicembre 2017 Ribaltata la “Sentenza Taricco” del 2015, che aveva anteposto gli “interessi finanziari” dell’Unione al principio di irretroattività delle norme penali. Manes (Ucpi): “ricomposta una grave rottura”. Principi cardine dell’ordinamento nazionale come la prevedibilità e la tassatività delle norme penali non possono cedere il passo alla tutela degli interessi comunitari. È quanto affermato, nella sostanza, dalla pronuncia emessa ieri dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea, che ha corretto in particolare la precedente sentenza Taricco in materia di disapplicabilità delle norme sulla prescrizione. “Si deve dare atto alla Corte di Lussemburgo di aver saputo invertire la rotta, dietro l’illuminato impulso della Corte costituzionale italiana che le aveva rimesso la questione per un nuovo e più meditato esame”, si legge in una nota diffusa dall’Unione Camere penali italiane. Secondo l’associazione presieduta da Beniamino Migliucci, infatti, la sentenza Taricco, del settembre 2015, aveva determinato “uno sfregio al principio di legalità”, una lesione che “da due anni tutta l’avvocatura italiana ha combattuto”. Di fatto, se la giurisprudenza europea fosse rimasta ferma alla contestata decisione di due anni fa, si sarebbe consolidato il principio secondo cui persino su un istituto come la prescrizione possa prevalere la tutela degli interessi finanziari dell’Ue, nello specifico la repressione di “gravi frodi” in materia di Iva. Nello specifico, infatti, i due casi discussi ieri a Lussemburgo riguardavano proprio un dubbio applicativo della sentenza Taricco: i procedimenti che vedevano imputati due imprenditori italiani, uno davanti alla Cassazione, l’altro alla Corte d’appello di Milano, si erano fermati con la remissione degli atti alla Consulta proprio sulla possibilità di dare seguito alla pronuncia del 2015. In quest’ultima la Corte di Lussemburgo aveva stabilito che le norme nazionali sulla prescrizione potessero essere disapplicate dal giudice nazionale, in modo retroattivo, qualora queste dovessero impedire l’efficace attuazione dell’articolo 325 del Trattato di funzionamento dell’Ue, che impegna gli Stati ad assicurare la “efficace riscossione delle risorse dell’Unione”. “Con la pronuncia Taricco si era introdotta una indeterminatezza, una non prevedibilità della norma penale a causa d/ ella efficacia retroattiva di una norma che prevede un trattamento penale più severo”, osserva il professor Vittorio Manes, responsabile dell’Ucpi per i Rapporti con l’Avvocatura e le Istituzioni internazionali. Manes ha fatto parte del collegio difensivo di una delle parti dinanzi alla Grande Sezione della Corte di Giustizia, nel quadro di un impegno che ha visto le Camere penali rappresentate a Lussemburgo dai professori Gaetano Insolera e Vincenzo Zeno-Zencovich. “La Taricco è stata aspramente criticata, innanzitutto dall’avvocatura italiana, in quanto portatrice di una rottura improvvisa e traumatica rispetto al cosiddetto diritto penale europeo. Con quest’ultima sentenza”, nota Manes, “quella rottura si ricompone in una dinamica più corretta, grazie alla sollecitazione attivata dalla Corte costituzionale italiana, che aveva chiesto ai giudici di Lussemburgo una interpretazione della sentenza Taricco. Mi pare si possa parlare di un’esperienza di dialogo virtuosa”, aggiunge l’avvocato che rappresenta l’Ucpi, “e di un ritorno a una dinamica fisiologica dei rapporti tra diritto dell’Ue e diritto penale interno”. E in effetti quella che il professor Manes definisce una “parziale retromarcia” della Corte Ue è dovuta “alle istanze che la Corte costituzionale aveva così efficacemente e coriacemente manifestato con l’ordinanza 24 del 2017: si tratta di una svolta da salutare con favore perché riconosce che le garanzie di legalità sono un ambito rimesso alla valutazione dei Tribunali costituzionali nazionali e del legislatore domestico, e che non possono cedere di fronte alla pretesa di efficacia e di effettività del diritto dell’Unione europea”. Furto solo tentato se l’imputato non riesce ad allontanarsi dal guardiano di Silvia Marzialetti Il Sole 24 Ore, 6 dicembre 2017 Furto di champagne. Aveva un che di suggestivo il maldestro tentativo messo in atto da un giovanotto romano in un supermercato della stazione Termini. Approfittando del caos all’interno del punto vendita, il ragazzo aveva trafugato alcune bottiglie dagli scaffali ed aggirato, senza troppe difficoltà, gli insidiosissimi dispositivi antitaccheggio. Colpo quasi riuscito, se non fosse che - una volta superate le casse - era scattato l’altolà di un vigilante. Niente da fare per l’Arsenio Lupin nostrano: sia il Tribunale capitolino che la Corte di appello di Roma hanno riconosciuto il reato di furto aggravato, condannandolo alla pena di 4 mesi di reclusione, più 200 euro di multa. Non è dello stesso orientamento la Cassazione che, con la sentenza 54311 del 1° dicembre, ha rimodulato la pena a un mese e 10 giorni di reclusione. L’orientamento della Corte si gioca tutto, in punta di diritto, sulla “linea Maginot” costituita dalle casse preposte al pagamento. Secondo l’Appello la consumazione del delitto si realizza nel momento in cui l’agente le abbia varcate ma, per la Suprema Corte, questo orientamento giurisprudenziale è superato, come sancito anche da una Sezione Unite che, nel 2014, ha fatto scuola. In quel caso i ladri del supermercato avevano trafugato merci di ogni sorta ed erano usciti dopo aver pagato solo alcuni prodotti. Solo una volta fuori dal negozio era arrivato l’altolà dei vigilantes. Evento che, ieri come oggi, induce la Cassazione a ribadire che il furto non può mai considerarsi consumato quando la “cosa mobile” non sia uscita definitivamente dalla sfera di vigilanza del soggetto passivo, ovvero le forze dell’ordine. Esse infatti impediscono la consumazione del delitto, che resta allo stadio di tentativo, non avendo i potenziali ladri conseguito l’autonoma ed effettiva disponibilità della refurtiva. Nessun dubbio, dunque, da parte della Suprema Corte, che il caso affrontato configuri un “tentato furto”. Salerno: “Domus misericordiae”, una Casa-famiglia per reinserire i detenuti di Giuseppe Pecorelli Il Mattino, 6 dicembre 2017 Il progetto di don Petrone: abbandonati da tutti vinciamo il pregiudizio. “Liberare la pena. Detenzione, misure alternative, integrazione” è il titolo di un convegno sul carcere come luogo possibile di riscatto e di reinserimento sociale. Si terrà alla Colonia San Giuseppe alle 18 di venerdì 15 dicembre e avrà come relatori Samuele Ciambriello, garante dei detenuti della Regione Campania; don Marco Russo, direttore della Caritas diocesana di Salerno-Campagna-Acerno; Carlo Sica, segretario dell’associazione “Migranti senza frontiere”; don Rosario Petrone, cappellano della casa circondariale “Antonio Caputo” di Salerno. Nel 2016 la Caritas italiana ha lanciato un progetto dal nome “Liberare la pena”, una proposta per agevolare il reinserimento sociale dei detenuti e per rendere più efficace l’attuazione di misure come la detenzione domiciliare, le pene alternative al carcere, l’affidamento. Ora quell’iniziativa si concretizzerà anche per i detenuti della casa circondariale di Salerno, grazie al progetto “Labbraccio misericordioso”, attuato dall’associazione “Migranti senza frontiere”. Il referente del progetto, sostenuto dall’ufficio distrettuale di esecuzione penale esterna di Salerno (Uepe), diretto da Rita Romano, è don Rosario Petrone, cappellano del carcere di Fuorni. “Con questa iniziativa - spiega il sacerdote - vogliamo realizzare tre azioni. La prima è la sensibilizzazione di tutta la comunità: singoli cittadini, istituzioni pubbliche e private, scuole, parrocchie. Vogliamo che si vinca il pregiudizio nei confronti dei detenuti. Non dimentichiamo mai che la detenzione ha la funzione di rieducare. Il primo ad entrare in Paradiso è un detenuto pentito, cui lo preannuncia Gesù Cristo sulla croce”. Don Petrone è parroco di Sant’Eustachio a Brignano, il quartiere dove, l’8 novembre 2016, è stata inaugurata la “Domus misericordiae”, una struttura di accoglienza e ospitalità per detenuti soggetti a misure a pene alternative alla detenzione. “Quella - continua il cappellano - è una grande opera di housing sociale, che ha coinvolto e coinvolge la comunità parrocchiale, l’ufficio diocesano Migrantes, la Caritas, l’Uepe e la Casa circondariale di Salerno. L’housing sociale è la seconda finalità del progetto che stiamo portando avanti. Vogliamo creare strutture che abbiano lo scopo di ospitare detenuti beneficiari di misure alternative al carcere. È una specie di casa famiglia, in cui queste persone sono seguite in tutto: se ne cura l’inserimento sociale e l’avviamento al lavoro e si garantisce il supporto di psicologi ed educatori”. Il terzo obiettivo del progetto è accompagnare i detenuti domiciliari. “A volte ci troviamo di fronte a situazioni complesse - dice ancora don Petrone - uno degli esempi è quello di chi è in detenzione nella propria abitazione, non può uscire di casa, ma magari è solo. Non può fare nemmeno la spesa. Chi lo accudisce? L’Uepe, che svolge un lavoro fondamentale, riferisce che sono 143 i detenuti domiciliari nella sola città di Salerno. Alcuni sono abbandonati da tutti. Ora, grazie alla Caritas e alla disponibilità di don Marco Russo, l’Uepe ha formato un’equipe di volontarie che si occuperanno dei primi dieci detenuti segnalatici. Cercheremo prima di capire i loro bisogni e poi di aiutarli”. Pescara: convenzione con il tribunale per il recupero dei detenuti cityrumors.it, 6 dicembre 2017 “Ogni persona che ha commesso un reato, che riusciamo a reindirizzare verso la via della legalità, è un delinquente in meno in circolazione e quindi la nostra società è più sicura”. Così il sottosegretario alla Giustizia, Federica Chiavaroli, ha presentato la convenzione sottoscritta questa mattina, nel tribunale di Pescara, per la realizzazione di un progetto di recupero e di reinserimento sociale di persone detenute o sottoposte a misure alternative e di messa alla prova. L’intesa, siglata tra Tribunale di Pescara, Ufficio di sorveglianza, Casa circondariale e ministero della Giustizia, nella fase iniziale prevede il coinvolgimento di dieci persone che, “sulla base della selezione compiuta dal Tribunale di sorveglianza, parteciperanno a questo progetto pilota, operando in materia di risistemazione degli archivi del tribunale e di scannerizzazione degli atti - spiega il presidente del Tribunale di Pescara, Angelo Bozza. Poiché la pena, come prevede la Costituzione, ha un fine principalmente rieducativo, riteniamo importante che questa rieducazione avvenga anche ad opera del sistema della Giustizia”. “Questo è un bel progetto di giustizia riparativa - ha aggiunto il sottosegretario Chiavaroli - con il quale i detenuti mettono a disposizione gratuitamente la loro attività lavorativa per riparare lo strappo che hanno causato alla società commettendo il reato. In un certo qual modo cercano di riparare e contemporaneamente, facendo un lavoro, iniziano il percorso di risocializzazione - ha concluso Chiavaroli. Sono convinta che questi progetti favoriscano il reinserimento dei soggetti detenuti e contribuiscano a creare una società più sicura”. Bologna: il laboratorio in carcere dove le detenute scrivono della libertà di Caterina Giusberti La Repubblica, 6 dicembre 2017 Come si fa a stare chiuse dentro un carcere per anni e poi scrivere della libertà? Le detenute della Dozza l’hanno fatto ieri durante uno dei laboratori del progetto “Non solo Mimosa”, che da tre anni entra ed esce dalla sezione femminile importando corsi di yoga, danza, scrittura e arteterapia grazie a un nutrito gruppo di volontarie. Così Daniela, testa rasata, reclusa da dieci anni con altri quindici ancora da scontare, ha preso il suo foglio a righe scritto a penna blu (i computer ci sono, ma solo per fare corsi di informatica, stanno lavorando a un regolamento che consenta di utilizzarli anche per altro) si è alzata in piedi e ha scandito: “Ho fatto follie e ti ho perso. A pugni stretti e a testa alta cammino, ti aspetto, respiro e sopravvivo per te. Mia amata, mia unica e adorata libertà”. Ieri alla Dozza, insieme alle volontarie, c’erano anche l’assessore alle pari opportunità Susanna Zaccaria, l’ex garante Elisabetta Laganà, il cappellano padre Marcello e la consigliera comunale Maria Raffaella Ferri che si è inventata il progetto. Genova: padri detenuti e bambini, un pomeriggio speciale al cinema di Licia Casali Il Secolo XIX, 6 dicembre 2017 Un cartone animato al cinema, seduti tra mamma e papà e con i popcorn tra le mani: un pomeriggio di ordinaria normalità può diventare straordinario per tutti quei bambini che il papà non lo vedono praticamente mai perché sta scontando la sua pena in carcere. È un dono di Natale speciale, quello organizzato dalla casa circondariale di Marassi nel teatro dell’Arca: un pomeriggio davanti a un film, come una famiglia normale. Il carcere genovese ha aderito in questo modo alla campagna “Dona un abbraccio” organizzata dall’Associazione Bambinisenzasbarre per sensibilizzare le istituzioni, i media e l’opinione pubblica sulla situazione dei 100 mila bambini che in Italia vivono la separazione dal proprio genitore detenuto. Troppo spesso infatti i minori si trovano a pagare per un crimine commesso dai loro genitori, diventando a loro volta vittime di pregiudizi ed emarginazione. In realtà l’iniziativa prevedeva “La partita con papà”, una partita calcio giocata dai papà detenuti coi loro figli nei cortili degli istituti penitenziari: a Genova però, a causa del freddo e del vento, si è deciso di organizzare un pomeriggio al coperto. Anche se i papà non si sono lasciati sfuggire l’occasione di calciare un pallone all’aria aperta e hanno comunque disputato la loro partita a porte chiuse. La campagna “Dona un abbraccio” nasce per sottolineare l’importanza di preservare il legame affettivo dei bambini con il genitore, anche detenuto, che resta fondamentale per la crescita e per la stabilità emotiva dei minori. Del resto l’associazione Bambinisenzasbarre lavora per trasformare gli istituti penitenziari realizzando in ognuno uno “Spazio Giallo”, un ambiente protette per attenuare l’impatto del bambino con il carcere e garantendo però la continuità del rapporto con il genitore: attualmente queste aree sono presenti negli istituti penitenziari di Lombardia, Piemonte, Toscana e Campania ma l’obiettivo è crearle in tutta Italia. Caltagirone (Ct): i detenuti restaurano le statue della chiesa di Maria Gabriella Leonardi Avvenire, 6 dicembre 2017 I detenuti della Casa circondariale di contrada Noce a Caltagirone, insieme ai loro insegnanti, hanno restaurato una statua della Madonna, appartenente alla parrocchia Gesù adolescente di Grammichele, nel Catanese. Non è la prima volta che avviene questa forma di collaborazione tra la casa circondariale, l’istituzione scolastica e la parrocchia e il trait d’union è un docente che lavora dentro il carcere, il professor Raffaele Adamo, che è parrocchiano della comunità Gesù adolescente. All’interno della casa circondariale, infatti, è attiva una sezione dell’istituto d’istruzione superiore “Bonaventura Secusio”. “L’anno scorso - spiega il parroco della comunità, don Tino Zappulla - abbiamo fatto restaurare due bambinelli e il prossimo mese di marzo faremo restaurare una statua di San Giuseppe. Domenica, alla riconsegna del simulacro della Madonna era presente un detenuto, che è stato debitamente autorizzato e che ha spiegato alla comunità i lavori che sono stati eseguiti”. L’evento è stato particolarmente seguito dalla comunità e la chiesa era gremita. “Durante l’avvento, inoltre - continua don Tino - effettuiamo una raccolta di offerte per aiutare i detenuti che hanno difficoltà economiche ad acquistare degli indumenti. L’anno scorso un detenuto ha ottenuto un permesso per partecipare a un nostro pellegrinaggio. La comunità - conclude - si è dimostrata capace di comprendere come certi errori possono essere recuperati, anche attraverso queste forme di aiuto”. “Il legno storto della giustizia”. Un appassionante dialogo sui vizi della nostra democrazia informazioneindipendente.com, 6 dicembre 2017 “Il legno storto della giustizia” (Garzanti) di Gherardo Colombo e Gustavo Zagrebelsky è un appassionante dialogo sui vizi della nostra democrazia. La corruzione è una piaga che infetta gran parte della vita sociale e politica del nostro Paese, in misura non solo eticamente inaccettabile ma anche economicamente insostenibile. Proprio all’Italia sembra infatti spettare un non onorevole posto tra le nazioni più corrotte al mondo: ovunque si formino aggregati di potere, lì alligna il rischio del malaffare. Prendendo le mosse da questi presupposti drammatici che troppo spesso consideriamo immutabili e ai quali sembriamo quasi assuefatti, Gherardo Colombo e Gustavo Zagrebelsky si confrontano con schiettezza e reciproco rispetto discutendo da punti di vista diversi e complementari il senso ultimo del nostro vivere in comunità. Con la consapevolezza che la democrazia può rappresentare un ambiente favorevole alla diffusione della corruzione e scavando nella nostra natura e nel desiderio tipicamente umano di raggiungere fama, potere e ricchezza anche a costo di sopraffare il prossimo, i due autori discutono di letteratura e filosofia del diritto, spaziano dalla storia all’attualità più recente, in un dialogo che sarà motivo di riflessione per quanti ancora credono nell’onestà, nella correttezza e nei principi della nostra Costituzione. Gherardo Colombo ha condotto e collaborato da magistrato a inchieste divenute celebri, tra cui la scoperta della Loggia P2 e Mani pulite. Nel 2007 si è dimesso dalla magistratura per dedicarsi a incontri formativi nelle scuole, dialogando negli anni con migliaia di ragazzi sui temi della giustizia e del rispetto delle regole. Gustavo Zagrebelsky, professore emerito all’Università di Torino, insegna attualmente all’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. Presidente emerito della Corte Costituzionale, è membro dell’Accademia di Scienze di Torino e dell’Accademia Nazionale dei Lincei. Ius soli, una scelta sciagurata di Luigi Manconi Il Manifesto, 6 dicembre 2017 Come uno scolaro povero e un po’ scostumato, il provvedimento sullo ius soli è stato cacciato all’ultimo banco. E all’ultimo posto e all’ultimo giorno del calendario parlamentare. Così la legge sulla cittadinanza è destinata a essere rinviata a chissà quando. Temo sinceramente che non se ne parlerà più per i prossimi dieci anni. Questo è il risultato di una linea di condotta fondata sull’opportunismo e sulla codardia e su una intelligenza politica, per così dire, non troppo brillante. Questa scelta sciagurata costituisce una vera offesa per centinaia di migliaia di minori stranieri che chiedono da anni parità di doveri e di diritti. Intanto, dal momento che il mondo provvidenzialmente non si esaurisce nella conferenza dei capigruppo del Senato, centinaia e centinaia di donne e uomini di buona volontà continuano nello sciopero della fame a staffetta a favore della riforma della cittadinanza. E domani alle 15 davanti a Montecitorio, si terrà la maratona-Pinocchio, la lettura collettiva (da Nicola Piovani a Max Giusti) del libro che ricorda “il bambino che voleva essere uguale a tutti gli altri bambini”. Uccisioni e sparizioni: così gli stati hanno tradito i difensori dei diritti umani di Riccardo Noury Corriere della Sera, 6 dicembre 2017 Quando, nel 1998, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite adottò la Dichiarazione sui difensori e sulle difensore dei diritti umani, la comunità internazionale s’impegnò a proteggere e riconoscere l’importanza del lavoro di queste persone. Un rapporto di Amnesty International pubblicato oggi dimostra invece come occuparsi di diritti umani continui a essere un’attività estremamente pericolosa: nei due decenni trascorsi dal 1998, almeno 3500 difensori e difensore dei diritti umani sono stati uccisi o fatti sparire da attori statali e non statali. Secondo l’organizzazione non governativa Frontline defenders, solo nel 2016 sono stati uccisi nel mondo almeno 281 difensori e difensore dei diritti umani, quasi il doppio rispetto all’anno precedente. Il numero reale è probabilmente assai più elevato, dato che molte delle vittime possono non essere state identificate come tali. I motivi alla base dell’accanimento contro i difensori e le difensore dei diritti umani sono molteplici. Alcuni sono presi di mira a causa della loro occupazione (come nel caso di avvocati, giornalisti o sindacalisti), altri per opporsi a potenti attori che violano i diritti umani, altri ancora per aver condiviso informazioni o per aver aumentato la sensibilità sulle questioni relative ai diritti umani. Molti rischiano di essere attaccati per quello che fanno e per ciò che sono: ad esempio, coloro che difendono i diritti delle donne, o delle lavoratrici del sesso o ancora delle persone Lgbtiq; oppure coloro che difendono i diritti dei popoli nativi e di altre minoranze; o infine coloro che operano durante i conflitti o all’interno di comunità che sono nella morsa della criminalità organizzata o di repressioni violente. Se i motivi di questi attacchi possono variare, l’obiettivo comune è ridurre al silenzio coloro che si ergono contro l’ingiustizia o che sfidano interessi potenti. Questo silenzio, insieme all’impunità di cui beneficiano i responsabili, produce un effetto raggelante all’interno di comunità più grandi, erode lo stato di diritto e diffonde il messaggio che i difensori e le difensore dei diritti umani possono essere attaccati senza conseguenze. Invece di difendere chi difende i diritti umani, molti leader nel mondo li mettono in pericolo attraverso campagne diffamatorie e la manipolazione del sistema giudiziario o etichettandoli come soggetti contrari agli interessi nazionali. Per questo, nell’ambito della sua campagna “Coraggio”, Amnesty International sta sollecitando tutti gli stati a dare priorità a riconoscimento e alla protezione dei difensori e delle difensore dei diritti umani. Le autorità statali devono appoggiare pubblicamente il loro lavoro e riconoscere il loro contributo all’avanzamento dei diritti umani. Inoltre, devono prendere tutte le misure necessarie per impedire ulteriori attacchi nei loro confronti e portare alla giustizia i responsabili attraverso indagini e procedimenti giudiziari efficaci. Ma, soprattutto, i governi devono affermare pubblicamente che le violazioni dei diritti umani nei confronti dei difensori e delle difensore dei diritti umani non saranno tollerate. Chi volesse conoscere da vicino chi sono e cosa fanno i difensori e le difensore dei diritti umani in un paese come l’Honduras potrà incontrare Martin Gomez Vasquez e Margarita Pineda Rodriguez, dell’associazione Milpah - Movimento indipendente degli indigeni Lenca di Lapaz, in Italia fino al 10 dicembre. Stati Uniti. La Corte suprema ripristina il “TravelBan” di Marina Catucci Il Manifesto, 6 dicembre 2017 Washington adesso può rifiutare il rilascio dei visti a cittadini di Ciad, Iran, Libia, Somalia, Siria, Yemen, Corea del Nord e Venezuela. E sui parchi il presidente apre a nuove attività estrattive di gas e petrolio. La Corte Suprema ha consentito alla terza versione del MuslimBan, detta TravelBan perché non riguarda solo cittadini musulmani, di entrare in vigore; la decisione è una vittoria per Trump dopo il fallimento di questa estate, quando i giudici avevano respinto la seconda versione del bando. Per ora, secondo l’editto di Trump, alla maggior parte dei cittadini di Iran, Libia, Siria, Yemen, Somalia, Ciad e Corea del Nord verrebbe impedito di entrare negli Stati uniti, insieme ad alcuni gruppi di persone provenienti dal Venezuela. Questa è la prima volta che i giudici permettono a una versione del divieto di andare avanti ed è il segno che alcuni di loro segnalano una differenza tra l’ultima versione del bando (il TravelBan o Ban 3.0) e le versioni precedenti, rendendo più probabile, in futuro, esprimersi a favore del divieto. La differenza nasce dal fatto che questo Ban coinvolge anche paesi non di religione musulmana; non si profila quindi un’esclusione su base islamofoba, ma per “ragioni di sicurezza nazionale”. Resta sempre un dato bizzarro, quello per cui l’Arabia Saudita è esclusa dal bando, nonostante sia il paese coinvolto nell’attacco del 9/11. La decisione della Corte significa inoltre che l’amministrazione Trump ora può applicare le sue nuove restrizioni che variano nei dettagli, ma che per la maggior parte dei casi impediscono ai cittadini dei paesi coinvolti di emigrare negli Usa in modo permanente: a molti verrà impedito di lavorare, studiare o semplicemente andare in vacanza negli Usa. I distinguo sull’applicazione del Ban stato per stato, rende - se possibile - la situazione ancora più complessa e confusa: l’Iran, ad esempio, sarà ancora in grado di inviare i suoi cittadini per scambi di studenti ma solo dopo controlli più rigidi rispetto a quelli a cui vengono sottoposti gli studenti di altri paesi; ai somali, invece, non sarà più permesso emigrare negli Stati uniti, ma potranno visitarli dopo controlli supplementari. A causa del caos che sicuramente questo bando genererà, l’account Twitter @NoBanJFK è stato riattivato, così come il contatto email jfkneedalawier@gmail.com e il numero di telefono di emergenza per chi, giunto all’aeroporto newyorchese Jfk, dovesse avere problemi. Gli ordini della Corte suprema hanno rimescolato le carte ma non è chiaro quando e come il bando entrerà in vigore. Un giudice delle Hawaii, la corte minore più rigida contro il bando in ogni sua versione, ha bloccato l’entrata in vigore del divieto ma non per il Venezuela e la Corea del Nord; una giuria composta da tre giudici della nona Corte d’appello del circuito degli Stati uniti, però, ha parzialmente revocato l’ordine; la corte d’appello ha permesso l’entrata in vigore del divieto, facendo però eccezione per i cittadini stranieri che hanno rapporti di “buona fede” con persone o entità negli Stati uniti. In un’altra sfida portata avanti in Maryland per il progetto di assistenza internazionale per i rifugiati, il giudice distrettuale Theodore D. Chuang ha emesso un ordine simile riguardo i rapporti con le entità Usa, che serve a tutelare i richiedenti asilo indipendentemente dalla loro provenienza. Chi salverà i parchi nazionali americani dalle avide grinfie trivellatorie di questa amministrazione invece non è chiaro. Trump in Utah ha firmato proclami per ridurre drasticamente le dimensioni di due parchi nazionali: Bears Ears, e Grand Staircase-Escalante. Questa mossa è funzionale all’aprire milioni di acri di terra protetta, all’estrazione di petrolio e gas, ad attività minerarie, disboscamento e altre attività commerciali. La decisione di ridurre i parchi è stata presa a cuor leggero proprio mentre la California continua - da mesi - a bruciare. Gruppi di nativi americani e ambientalisti hanno promesso di combattere la mossa in tribunale e la battaglia legale potrebbe alterare il corso della conservazione della terra negli Stati uniti, mettendo a rischio dozzine di altri parchi e aprendo all’estrazione di petrolio e gas, all’estrazione mineraria, al disboscamento, quelli che sono considerati monumenti nazionali. “Alcune persone pensano che le risorse naturali dello Utah dovrebbero essere controllate da una manciata di burocrati molto distanti situati a Washington”, ha detto Trump, parlando al Campidoglio dello Utah, mostrando tutta la sua retorica liberista. Il problema è che al momento, nonostante la sua Casa bianca sia sotto pressante attacco da parte di Mueller, il congresso repubblicano, malgrado le altisonanti dichiarazioni indignate che esprime di volta in volta, pur di non perdere il potere riacquistato, alla fine, torna sempre a denti più o meno stretti a capo chino intorno al leader. Lo dimostra la sospensione della messa al bando delle bombe a grappolo posticipata dal Pentagono a tempo indeterminato senza che nessuno al Congresso dicesse nulla, e lo dimostra clamorosamente la giravolta del partito che, dopo aver attaccato Roy Moore, candidato repubblicano al senato dell’Alabama e accusato in modo circostanziato di pedofilia, quando questo ha ricevuto l’endorsement di Trump, ci ha ripensato, decidendo di sostenerlo. Filippine. La sanguinosa “guerra alla droga” del presidente Rodrigo Duterte La Repubblica, 6 dicembre 2017 La richiesta di Amnesty International al Tribunale penale internazionale dell’Aja di aprire urgentemente un’indagine preliminare sui crimini contro l’umanità, comprese le uccisioni di decine di minorenni, commessi dalla polizia filippina in linea con la dissennata (e sospetta) linea dura del governo. Da quando, nel giugno 2016, Rodrigo Duterte ha assunto la presidenza delle Filippine - l’unico stato del Sud Est asiatico senza confini territoriali, formato da un arcipelago di 7.107 isole - migliaia di persone sono state uccise dalle forze di polizia, ma non un solo agente è stato chiamato a rispondere di tali crimini. “Ora - dice James Gomez, direttore di Amnesty International per l’Asia sudorientale e il Pacifico - i meccanismi della giustizia internazionale devono attivarsi per porre fine alla carneficina in corso sulle strade delle Filippine e portare i responsabili a processo. Il sistema giudiziario e le forze di polizia del Paese, sia per incapacità che per mancanza di volontà, non sono in grado di chiamare gli autori delle uccisioni della guerra alla droga a risponderne. Il Tribunale penale internazionale - ha aggiunto Gomez - deve aprire un’indagine preliminare e ad ampio raggio: le responsabilità non ricadono solo su chi preme il grilletto ma anche su chi ordina o incoraggia uccisioni e altri crimini contro l’umanità. Il presidente Duterte e altri rappresentanti di primi piano del governo hanno apertamente invocato le uccisioni: e questo, secondo il diritto internazionale, equivale a una precisa responsabilità penale”. Crimini contro i minorenni. Dal giugno 2016 i minorenni uccisi nel corso della “guerra alla droga” sono almeno 60. Secondo le testimonianze dei familiari, molti di loro sono stati uccisi a sangue freddo con colpi esplosi da breve distanza mentre erano in ginocchio a supplicare di risparmiargli la vita. “Mi hanno puntato una pistola alla testa e mi hanno detto di andarmene. Ho sentito delle urla, poi una serie di tre colpi e dopo un’altra serie sempre di tre colpi”, ha raccontato O., la fidanzata di un ragazzo di 17 anni, svegliato e ucciso nel cuor della notte. Un team di ricercatori di Amnesty International ha visitato i centri di detenzione per minorenni nella capitale Manila, riscontrando sovraffollamento e mancanza d’igiene. Alcuni di loro hanno raccontato di essere stati picchiati e torturati dagli agenti di polizia al momento dell’arresto e che sono stati costretti a essere fotografati con della droga in loro possesso. Il Tribunale dell’Aja indagherà. Ad agosto, l’uccisione del 17enne Kian delos Santos ha provocato uno scandalo nazionale. La polizia ha dichiarato di aver ucciso il ragazzo per autodifesa ma le immagini a circuito chiuso e alcune testimonianze hanno rivelato che agenti in borghese avevano trascinato il ragazzo dopo averlo arrestato in strada, privo di armi, e l’avevano ucciso in un vicolo. Oltre 12 agenti sono stati posti sotto inchiesta ma ancora nessuno di loro è stato chiamato a rispondere. Il Tribunale penale internazionale ha recentemente fatto sapere che indagherà e porrà speciale attenzione sui crimini contro i minori. “Dal 2016 la polizia delle Filippine ha ucciso decine di minorenni. Altri sono stati torturati e chiusi in celle in condizioni terribili. Famiglie intere sono state divise”, ha sottolineato Gomez. “L’uccisione di Kian delos Santos ha giustamente suscitato indignazione. Le clamorose bugie con cui gli agenti di polizia hanno cercato di nascondere il loro ruolo in questo omicidio a sangue freddo di un minorenne dimostrano che la polizia non può credibilmente indagare su sé stessa”, ha aggiunto Gomez. Le domande senza risposta del governo di Manila. Nel gennaio 2017 Amnesty International aveva suggerito che, se le autorità filippine non avessero preso misure decisive per fermare le uccisioni della “guerra alla droga”, il Tribunale penale internazionale avrebbe dovuto aprire un’indagine preliminare. In quell’occasione, Amnesty International aveva chiesto l’immediata fine delle esecuzioni extragiudiziali e del loro incoraggiamento da parte di alti funzionari del governo, compreso lo stesso presidente. L’organizzazione per i diritti umani aveva anche chiesto l’apertura di un’inchiesta efficace e imparziale su tutti i casi sospetti di uccisione illegale. Le autorità filippine hanno completamente evitato di rispondere a queste richieste. “Quanti altri corpi crivellati di colpi dovranno essere trovati ai margini delle strade prima che la comunità internazionale deciderà di agire?”, ha chiesto Gomez.