Carceri, la lunga attesa di una riforma promessa di Patrizio Gonnella Il Manifesto, 5 dicembre 2017 In uno dei momenti più bui della storia italiana associazioni, operatori, avvocati, magistrati, giuristi, detenuti sono tutti in attesa della riforma dell’ordinamento penitenziario. Sono passati quasi cinque anni da quando l’Italia fu condannata dalla Corte europea dei diritti umani nel caso Torreggiani con una sentenza che ci ha fatto vergognare davanti all’Europa intera. Il sovraffollamento da un lato e l’assenza di tutele per i detenuti dall’altro hanno determinato la condanna. Lo scorso giugno, esito di un lungo percorso di riforme iniziato all’indomani della condanna da parte dei giudici di Strasburgo, tra le mille cose negative e liberticide di un 2017 nero per i diritti umani, è stata approvata la legge delega per la riforma dell’ordinamento penitenziario, a quarantadue anni dall’entrata in vigore della prima legge sugli istituti penali del nostro paese, che, a sua volta, aveva sostituito il regolamento carcerario fascista del 1931. Immediatamente a seguire il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha messo in piedi tre commissioni per dare vita a nuove regole carcerarie per gli adulti e per i minori, per modificare e ampliare il sistema delle misure alternative, per ridurre le asprezze delle misure di sicurezza, per introdurre embrioni di giustizia riparativa. A disposizione dei commissari c’era il lavoro articolato, approfondito, e per molti versi garantista, dei tavoli di lavoro messi in piedi dal Ministero in occasione degli Stati generali sull’esecuzione della pena che hanno costituito un’innovativa e ricca occasione di partecipazione diffusa alle decisioni pubbliche in materia di pena. Gli Stati generali hanno mostrato una massa di operatori ed esperti che ha una cultura della pena mediamente più avanzata rispetto alla classe politica e all’opinione pubblica. Il lavoro delle Commissioni è terminato e tutte le loro proposte, dopo essere state vagliate e a tratti criticate dal garante nazionale delle persone private della libertà, sono al momento nelle mani del Ministro della Giustizia e del Governo che dovrà approvarle in via definitiva e trasmetterle alle Camere per il nulla osta finale. Un percorso che rischia di essere accidentato. Di fronte alle paure di chi afferma che in piena campagna elettorale occuparsi di prigioni e prigionieri farebbe perdere consenso e voti mi sento immediatamente di replicare che i decreti sulla sicurezza e sull’immigrazione dello scorso febbraio, la campagna contro le ong, gli accordi con la Libia non hanno prodotto neanche un voto in più per i partiti della maggioranza, anzi. L’elettorato progressista e democratico si è sentito abbandonato, sperduto. C’è dunque in zona Cesarini la possibilità di lasciare un segno prima che questa legislatura muoia. Le aspettative del ricco mondo penitenziario non vanno tradite. Ciò che ci attendiamo senza troppi freni, remore, cautele è quanto meno: un nuovo ordinamento penitenziario per i minori ispirato a principi pedagogici e non punitivi con grande apertura all’esterno e senza vincoli nel rapporto carcere-territorio; eliminazione dei limiti normativi all’accesso alle misure alternative, ampliamento di queste ultime e superamento dell’ergastolo ostativo; riconoscimento del diritto alla sessualità dei detenuti e delle detenute; attenuazione del modello disciplinare e riduzione dell’uso dell’isolamento punitivo e giudiziario; previsione di diritti ad hoc per gli stranieri e libertà di culto per tutti; abolizione di tutte le misure di sicurezza detentive. E ovviamente tanto altro in termini di qualità della vita interna, di ore trascorse fuori dalla cella, di diritti per le donne detenute. Speriamo anche che, nel nome di una fantomatica efficienza, non si tolgano garanzie giurisdizionali conquistate con fatica, anzi che tali tutele si estendano. E che la giustizia riparativa non si riduca a lavorare gratis o a chiedere perdono alle vittime quale condizione (ipocrita) per avere una chance di libertà. Dunque, che riforma sia, piena, coraggiosa, alta. Se così non fosse sarebbe un’enorme occasione buttata al vento. Riccardo Polidoro (Ucpi): “facciamo del carcere una grande impresa di Giacomo Di Stefano prometeolibero.com, 5 dicembre 2017 Intervista a Riccardo Polidoro, responsabile dell’Osservatorio Carcere Ucpi. L’Osservatorio Carceri dell’Unione Camere Penali Italiane è lo strumento con il quale i penalisti monitorano lo stato dei penitenziari del nostro Paese. Un lavoro delicato e prezioso con il quale si visitano le carceri e si denunciano le situazioni più degradanti per la dignità dei detenuti. Il responsabile è Riccardo Polidoro, noto penalista campano, che nel 2003 ha fondato “il Carcere Possibile”, Onlus della Camera Penale di Napoli, con l’obiettivo di avvicinare l’opinione pubblica alle problematiche della detenzione. A Prometeo Libero racconta i problemi delle carceri italiane e alcune soluzioni per risolverli. Le visite nelle carceri sona tra le attività più importanti dell’Osservatorio. A parte il sovraffollamento, quali sono le problematiche urgenti e particolarmente gravi che non riescono a trovare spazio sui giornali? “I problemi sono innumerevoli, dai pochissimi educatori, psicologi, agenti di polizia penitenziaria, alle questioni sanitarie. La magistratura di sorveglianza non effettua tutti i controlli che dovrebbe fare perché oberata di lavoro. In pochissimi casi abbiamo riscontrato visite costanti dei Magistrati. Importantissima la presenza del volontariato. Se non ci fossero i volontari in carcere non si farebbe nessun tipo di attività”. La sentenza Torreggiani che cosa ha comportato nella pratica? “L’obbligo per il nostro Paese d’intervenire sul sovraffollamento. Ma ciò è avvenuto con provvedimenti tampone e non strutturali. Il sovraffollamento è stato risolto solo parzialmente e ormai da tempo abbiamo un trend di crescita delle presenze. L’Europa ha già espresso nuove critiche. Tra le varie censure della Torreggiani vi era anche quella dei metri quadri insufficienti delle stanze di pernottamento, le c.d. celle e l’amministrazione penitenziaria è stata costretta, ove possibile, a tenere aperte le stanze durante parte della giornata. Ciò avrebbe dovuto consentire ai detenuti di svolgere attività di lavoro, di studio e di socializzazione, ma, nella maggior parte dei casi, tale apertura ha dato solo la possibilità di passeggiare lungo il corridoio del reparto e incontrare gli altri detenuti”. Quali sono le possibili soluzioni? “L’amministrazione penitenziaria potrebbe essere la più grande impresa italiana. Ha l’amministrazione centrale a Roma, il Dap, che potrebbe essere la sede legale, ci sono 11 provveditorati regionali che potrebbero essere le filiali e oltre 200 istituti su tutto il territorio che potrebbero rappresentare gli stabilimenti. E soprattutto oltre 50mila detenuti che sarebbero i dipendenti ed enormi spazi all’aperto inutilizzati”. La detenzione basata sulla produzione potrebbe dare grandi risultati? “Esatto, se l’amministrazione penitenziaria basasse tutto sul lavoro vi sarebbero grandi risultati, sia dal punto di vista delle risorse, sia per la formazione professionale dei detenuti e sarebbe rispettato il dettato costituzionale dell’articolo 27, che prevede il trattamento dei detenuti. Questa è la strada da perseguire e alcune piccole realtà dimostrano di saper produrre cose di qualità. Penso a Milano Bollate e ad altre strutture in cui si producono prodotti dolciari di altissimo livello. Ma l’opinione pubblica fa fatica a superare i pregiudizi”. Come si fa a far capire all’opinione pubblica che i detenuti non sono mostri? “Lo dico sempre, prima di rieducare i detenuti dovremmo educare l’opinione pubblica. Purtroppo la gente pensa che buttando la chiave si risolvano tutti i problemi. Ma non è così. Come Camere Penali abbiamo proposto al Ministero della Giustizia una pubblicità progresso sul senso della pena, perché è importante entrare nelle case e spiegare le ragioni per destinare maggiori risorse alla detenzione. Risorse finanziare, di uomini e mezzi, ma anche nuove idee per un’esecuzione della pena conforme alla legge”. Per un detenuto finire in un carcere piuttosto che in un altro può essere determinante. Quali sono tra i penitenziari nazionali quelli più problematici? “Sono molte le strutture problematiche. Poggioreale dopo la Sentenza Torreggiani aveva 1.500 detenuti, ora ne ha oltre 2100 e giorno dopo giorno le presenze crescono. Non ha spazi per consentire a tutti lo studio, il lavoro e manca il personale. Ma questi problemi riguardano la maggior parte degli istituti. Vi sono poi gravissimi problemi strutturali. Penso a Sollicciano, a Firenze, un istituto relativamente nuovo, dove vi sono infiltrazioni dal tetto ed è crollata parte del muro di cinta”. L’indulto o l’amnistia possono rappresentare una soluzione? “Sono la soluzione necessaria quando il sovraffollamento non consente il rispetto delle norme. In Italia dovrebbero essere costantemente emanati. Se dopo la Torreggiani ci fosse stato l’indulto, probabilmente si poteva intervenire con modalità più concrete ed efficienti. In linea di principio, invece, sono contrario, nel senso che sono istituti emergenziali che allontanano ancora di più l’opinione pubblica dalle vere soluzioni per risolvere le problematiche legate alla detenzione. La verità però è che il nostro Paese è in continua emergenza ed allora ha l’obbligo morale di concedere l’indulto”. Violenza sessuale, legge da cambiare di Dacia Maraini Corriere della Sera, 5 dicembre 2017 Una legge che stabilisce un limite di sei mesi per denunciare una violenza sessuale è una legge ingiusta. Basta studiare la cronaca per capire che si tratta di un regolamento da rifare. Da cosa nasce questo limite? Probabilmente dal timore che qualcuno possa approfittare di una memoria lontana, non provabile, per eseguire una vendetta. Capisco la preoccupazione ma qualsiasi legge può essere utilizzata per fini impropri. Il fatto è che la memoria di un abuso sessuale è talmente dolorosa e umiliante, che ferma spesso le vittime. La cronaca ci dice che la violenza contro i più deboli può diventare un trauma. Certo bisogna distinguere fra molestia e violenza sessuale. Uno stupro ha ben altro peso di una mano sul sedere, eppure le due cose sono legate da una abitudine culturale all’abuso. Ma perché le donne non reagiscono correndo a denunciare l’abusatore? Qui entra in gioco la strategia del predatore che è più sottile di quanto si pensi. Chi vuole dominare e approfittare sviluppa un’abilità a volte prestigiosa, fatta di raggiri, di recite teatrali, di dolcezze inattese per ottenere ciò che lo salverà da ogni denuncia: trasformare l’abusato in complice. E di solito ci riesce, utilizzando un’astuta strategia: convincere l’abusato che in fondo è stato lui a volere la violenza. Penso a quei ragazzi dei collegi religiosi che si sono tenuti dentro l’esperienza della prepotenza traumatica per quindici, venti anni, finché non sono riusciti a capire che la vittima, anche quando non denuncia ma subisce passivamente la violenza e accetta la regola del silenzio, non ha colpe. È solo una persona chiusa dentro una trappola, come una mosca nella rete di un ragno sapiente che lo uccide lentamente. Ho fatto l’esempio degli abusati maschi perché la gente è più pronta a capire, mentre contro le giovani donne che non denunciano subito si alzano le grida degli untori. Eppure, pensateci, nessuno, di fronte a una rapina, chiede alla vittima se è stata complice, se ha provato piacere. Invece, di fronte a uno stupro, l’argomento principe è proprio questo: hai goduto? sei stato partecipe? Insomma siamo ancora di fronte al vecchio brutale detto romano “Vis cara puellae”, ovvero “la forza piace alle vergini”. Comunque il molestatore di solito è un uomo narcisista, ma anche fragile e bisognoso di ribadire e rafforzare la propria autorità umiliando il più debole. Il sesso c’entra poco o niente. Non è l’eros che guida questi uomini, ma il bisogno di ferire, assoggettare l’altro, che li rende sicuri di fronte a se stessi. I bambini mantenuti dagli zii (senza diritti). Quello che resta dopo un femminicidio di Emanuela Valente Corriere della Sera, 5 dicembre 2017 Si chiamano Giovanni, Carmelo, Paolo, Giuseppe, Umberto: sono anche loro vittime di femminicidio. Sono i padri, i fratelli, i figli o i compagni delle donne uccise dal proprio marito, dall’ex o da un pretendente respinto. Di loro si parla poco, come se il femminicidio fosse un dolore solo da donne. Anche nell’Aula della Camera, lo scorso 25 novembre, erano presenti 1400 donne. Nemmeno un uomo. Come se gli uomini fossero tutti dall’altra parte, tutti colpevoli, tutti estranei. Come se le donne debbano essere costrette a cavarsela da sole, tra di loro, contro l’altra metà del cielo. Mancavano, in quell’aula, soprattutto quegli uomini che il femminicidio travolge, come Lorenzo Ballerini, fratello di Beatrice, la sua “Cice”. Era il 13 dicembre di cinque anni fa quando Beatrice è stata massacrata e uccisa da Massimo Parlanti, suo marito e padre dei loro due bambini, di 7 e 10 anni. E mentre per l’uxoricida il rito è stato abbreviato (18 anni confermati in appello, respinto il ricorso in Cassazione), le vicende legali che coinvolgono Lorenzo e i suoi nipotini, i figli orfani di Beatrice, sono tutt’altro che brevi. A cinque anni di distanza dall’uccisione di sua sorella, Lorenzo è ancora intrappolato tra tribunale ordinario, tribunale dei minori, giudice tutelare e burocrazia varia. Ad oggi, la famiglia Ballerini ha già speso oltre 80mila euro tra spese legali, sanitarie ed amministrative, ma nessuno dei familiari di Beatrice ha ottenuto neanche un euro dei risarcimenti dovuti. Intanto, Massimo Parlanti continua a non provvedere al mantenimento dei figli, ma ha mantenuto il diritto al 60% della pensione di reversibilità della moglie che ha ucciso, fino a quando la sentenza non è diventata definitiva. La tragedia del femminicidio non riguarda solo la donna che viene uccisa: insieme a lei, viene devastata la vita di intere famiglie. Ben poco può fare un “risarcimento” come quello, più che altro simbolico (circa 8mila euro), che oggi si pensa di stanziare in favore degli orfani: è la carenza di servizi, la mancanza di un effettivo sostegno alle famiglie, la freddezza del sistema giudiziario e la lungaggine della burocrazia a rendere ancora più ingiusta la tragedia. “La notte si dorme poco” racconta Lorenzo, che insieme a sua moglie Tiziana aveva già un’altra bambina. Non si può capire, e nemmeno immaginare, la vita dei sopravvissuti. “Dal giorno successivo all’uccisione di mia sorella - racconta - ci siamo interfacciati con i Servizi Sociali, li abbiamo cercati noi stessi, pensando ad un supporto per i bambini. Invece di trovare sostegno, però, ci siamo sentiti messi sotto esame”. Secondo i servizi sociali, ad esempio, la situazione abitativa della famiglia Ballerini non era adeguata ad accogliere i due nipotini, e minacciavano di trovare un’altra sistemazione. Per evitare che i bambini venissero strappati anche dal loro contesto familiare, Lorenzo e Tiziana hanno dovuto accelerare l’acquisto della casa in costruzione, provvedendo anche a riadattarla alle nuove esigenze: i servizi si mostravano insofferenti per l’attesa e opponevano che la casa precedente non potesse accogliere 2 adulti e 3 bambini, nonostante il Giudice del Tribunale dei Minori ritenesse la cosa irrilevante. “La Asl, poi - aggiunge Lorenzo - nonostante gli sforzi, non è stata in grado di garantire un adeguato supporto psicologico per i bambini, così abbiamo dovuto provvedere privatamente. Ma almeno ora possiamo farlo” precisa. Già, perché fino a maggio 2016, Lorenzo e sua moglie non potevano scegliere nulla per i bambini, che, dopo essere rimasti in balia della burocrazia per oltre un anno, il tribunale dei minori aveva solo collocato presso gli zii, ma affidato ai servizi sociali. Qualsiasi decisione, anche quelle dettate dalla necessità o da semplice buon senso, doveva passare attraverso i servizi. Gli zii provvedevano a tutto, ma senza alcun diritto. Le spese che Lorenzo e Tiziana sostenevano per i ragazzi, non potevano essere detratte in alcun modo, non essendo loro gli assegnatari; se i bambini stavano male né lui né sua moglie avevano diritto al congedo familiare, e dovevano utilizzare i giorni di ferie, riducendo di conseguenza i periodi di vacanza. Preclusa ai bambini la possibilità di vacanze all’estero, difficili anche quelle in cui era necessario prendere un aereo o un traghetto: dai documenti non risultava relazione tra zii e minori, il cui cognome è tutt’oggi quello del padre. Il momento più offensivo è stato raggiunto quando la scuola si è rifiutata di consegnare la pagella dei bambini: ufficialmente la zia, con cui i bambini vivono da cinque anni, è “un’estranea”. Dal 13 dicembre 2012, Lorenzo è un uomo vittima di femminicidio: combatte con la burocrazia, con le istituzioni, con i servizi, con la Asl, con la scuola, con le leggi. Per la sua Cice e per i suoi figli conduce da anni battaglie di informazione, di azione, di cambiamento. Insieme a Giovanni, Paolo, Umberto e tutti gli altri, piange e lotta contro la violenza alle donne. Però lui non c’era, in quanto uomo, tra gli invitati alla Camera il 25 novembre. “Purtroppo, in effetti, noi uomini siamo effettivamente poco presenti, probabilmente per colpa nostra, ma forse anche perché le donne sentono il femminicidio e la violenza come “una cosa loro”. Io però non credo sia una strada proficua: finché ci si contrappone, temo non si capisca che riguarda tutti, uomini e donne, privati cittadini e istituzioni. E così non se verrà a capo. Sinceramente non mi è chiaro - conclude Lorenzo Ballerini - cosa impedisca di avere seriamente la volontà di affrontare la cosa in modo organico ed efficace. Si tratta della credibilità di un Paese, che sembra incapace di reagire, pur avendone la potenzialità”. “Ecco perché i giudici non vedono la mafia del mondo di mezzo” di Errico Novi Il Dubbio, 5 dicembre 2017 L’appello della procura di Roma su Mafia Capitale è un atto d’accusa ai colleghi che hanno negato il 416 bis. Ci sarebbe a Roma una mafia strisciante, serpentesca, capace di intimidire pur senza usare i vecchi metodi, “quelli della mafia coppola e lupara”. Ne sono certi i pm della Procura di Roma. Che mostrano notevole severità, persino durezza nel ricorso in appello contro la sentenza con cui il Tribunale ha escluso l’associazione mafiosa per gli imputati del “Mondo di mezzo”. Severi perché accusano i giudici del collegio presieduto da Rosanna Ianniello, di “pregiudizio”. Di fatto, ritengono che la decima sezione del Tribunale non abbia visto quello che invece sarebbe evidente. È la versione on line del Corriere della Sera ad anticipare i contenuti dell’atto con cui la Procura ha impugnato la sentenza dello scorso 20 luglio. Vi si legge un completo dissenso dalla lettura che i giudici hanno dato delle gesta di Massimo Carminati e Salvatore Buzzi. Vi sarebbe un’incapacità di fondo di scorgere le sembianze di un nuovo modello di criminalità organizzata, che invece sa ottenere complicità da pubblici amministratori corrotti in capo a “minacce insidiose”, veicolate con “modalità” che diverse da quelle delle vecchie cosche siciliane. È il paradigma di una mafia che capace di insediarsi anche in territori diversi da quelli tradizionali. La contestazione è formulata in un ricorso assai più agile rispetto alla sentenza della scorsa estate, di ben tremila pagine. A firmarla sono il capo dell’ufficio Giuseppe Pignatone, i procuratori aggiunti Michele Prestipino, Paolo Ielo e Giuseppe Cascini, e il sostituto Luca Tescaroli. La pronuncia impugnata ha inflitto pene tutt’altro che lievi agli stessi vertici dell’organizzazione: 20 anni a Carminati, 19 a Buzzi. Ma in gioco non c’è appunto un’interpretazione del fenomeno mafioso. Se il collegio presieduto da Ianniello ne ha avuta una diversa da quella dei pm, è anche perché, secondo questi ultimi, avrebbe ceduto a una “visione atomistica dei singoli fatti ricostruiti, omettendo di rilevare anche i più ovvi collegamenti e cercando di decostruire quelli evidenti”. Ma questo sarebbe avvenuto a partire da un pregiudizio, cioè in virtù, appunto, di un cedimento ai ““più diffusi stereotipi in materia di mafia, secondo i quali la mafia è solo quella con la coppola e la lupara, quella che spara e uccide ovvero è quella che parla calabrese o siciliano”. Non si sarebbe tenuta in alcuna considerazione la “evoluzione della giurisprudenza in materia, che invece è da tempo attenta ad individuare le trasformazioni socio-criminali delle mafie, sia quelle tradizionali che quelle nuove, capaci di insediarsi in territori diversi da quelli tradizionali con metodi nuovi e diversi, ma con le identiche finalità di acquisizione di potere economico, mediante l’assoggettamento e l’omertà”. Il ricorso contiene una contestazione frontale: la X sezione del Tribunale di Roma avrebbe travisato le argomentazioni dell’accusa attraverso una particolare “tecnica argomentativa”, con si sarebbe attribuita ai pm “una tesi diversa da quella sostenuta, per poi confrontarsi solo con quella e non con quanto effettivamente sostenuto”. In alcuni casi il ricorso in appello ritiene vi siano errori di fatto. Come quello di aver “smentito” che la natura mafiosa della vecchia banda della Magliana, di cui Carminati fece parte, sia “rimasta controversa negli esiti giudiziari”. Ci furono due sentenze di segno opposto: “Il Tribunale, seguendo sul punto quanto affermato dalla difesa di Carminati nella discussione, prende in considerazione solo la seconda decisione e non la prima, che evidentemente mostra di non conoscere”. Ma il passaggio decisivo, in cui secondo i pm, il Tribunale sarebbe venuto meno rispetto a una corretta definizione della complessa struttura del “Mondo di mezzo”, sarebbe nella segmentazione dell’associazione a delinquere. Secondo la Procura si trattava di un’unica struttura, dal carattere decisamente mafioso, mentre i giudici hanno individuato due “associazioni semplici”: una “specializzata” nell’usura e nelle violenze, l’altra dedita alla corruzione, entrambe guidate dal “Cecato”. Ma per la Procura di Roma “Carminati è sempre Carminati e non può essere un delinquente da strada a capo di una banda di delinquenti da strada quando staziona al benzinaio per poi trasformarsi in un abile faccendiere dedito solo alla corruzione quando fa affari con Buzzi, per poi ritornare, ma solo per un momento e solo uti singulus, delinquente di strada quando si tratta di risolvere, per Buzzi, una controversia con soggetti di elevato spessore criminale”. Tale “operazione di segmentazione dei fatti provati, e financo della personalità del capo e promotore della organizzazione” sarebbe, scrivono i pm, “del tutto artificiosa e scollegata dalla realtà, funzionale solo a giustificare la esclusione del carattere mafioso della associazione”. Ma perché quest’ultimo potesse esservi avrebbe dovuto rintracciarsi quella “forza di intimidazione”, del “vincolo associativo” e della “condizione di assoggettamento e di omertà” richiesti dall’articolo 416 bis del Codice penale. Ebbene, si tratterebbe di tratti visibili, secondo la Procura, incomprensibilmente sfuggiti al giudizio di primo grado. Il Tribunale, secondo i pm guidati da Pignatone, “non riesce a liberarsi da quel modello oleografico di associazione mafiosa stigmatizzato dalla giurisprudenza di Cassazione, confonde la forza di intimidazione con le modalità attraverso le quali sono veicolate le minacce da parte del sodalizio”. Minacce che non devono essere per forza “violente”, secondo l’accusa, che conclude con una citazione in cui Sciascia segnala quanto “pericolose e insidiose siano le minacce oblique e implicite, queste sì tipicamente mafiose”. Mafia garganica. Omertà e vendette, una faida che viene da lontano di Tatiana Bellizzi La Repubblica, 5 dicembre 2017 Spremitura di un atlante geografico. Cime aspre che salgono e che scendono a valle, fino ad addolcirsi delineando il profilo del volto di un Cristo dormiente che sconfina nel mare. Siamo qui, sul Gargano, dove si ammazza anche in nome di quel Cristo. Dove si uccide per difendere pochi centimetri di pascoli puntellati, qua e là, di bunker agresti. Benvenuti sulla vetta più alta della Montagna Sacra, terra di devozioni e di omertà. Terra di impunità e di mafia. Proprio quella mafia che oggi viene definita tra le più violente e brutali dell’intero panorama nazionale. Quella che un tempo veniva stretta, come un corsetto, nell’espressione “faida tra pastori”. La mafia Garganica ha una data di nascita: 13 ottobre 1999. Il giorno del disvelamento. Vincenzo e Angelo Fania, padre e figlio, imprenditori, vennero uccisi nella loro proprietà sul Monte Delio, vicino San Nicandro, perché non volevano che i loro terreni fossero luogo di transito dei traffici illeciti e in particolare del contrabbando di sigarette. Ma per raccontare la mafia garganica bisogna perdersi nel tempo e descrivere di quella storica rivalità tra famiglie di allevatori. La più nota e spietata è quella di Monte Sant’Angelo tra i Libergolis e Primosa-Alfieri, che dal 1978 ad oggi ha messo uno dietro l’altro trentacinque morti ammazzati e decine di agguati. Il valzer di sangue si apre il 30 dicembre 1978. Durante un litigio viene ucciso l’allevatore Lorenzo Ricucci, accusato di abigeato dai Libergolis. Un anno dopo Raffaele Primosa rimase paralizzato in seguito ad uno scontro a fuoco e indicò Francesco Ciccillo Libergolis come responsabile. Generazioni di carnefici, giovani rampolli del crimine armati ‘solò di kalashnikov. Tutti personaggi senza vita, come il baby killer Michele Alfieri, figlio di Peppino, morto ammazzato il primo marzo 1989, che a sua volta, tre anni dopo quella data, uccise in una piazza di Monte Sant’Angelo il boss Matteo Libergolis. Poi si costituì ai carabinieri. Diciotto anni più tardi il suo corpo è stato martoriato da una sventagliata di proiettili mentre usciva da un bar. Ma si sa come funziona su Gargano: il sangue va lavato con altro sangue. Ed ecco allora un susseguirsi di vendette, di ‘sgarrì. Da quel marzo del ‘92 per circa due anni andò in scena il macabro spettacolo di una lunga stagione stragista. Solo nella città dell’Arcangelo Michele si contarono circa 40 morti ammazzati. Una vera e propria carneficina che decimò il clan Alfieri Primosa. E intanto nel corso degli anni il potere criminale dei Libergolis si estese su tutto il Gargano scendendo giù a valle, lungo le coste manfredoniane e trovando nella famiglia Romito i propri ‘comparì. La sentenza del maxi processo alla mafia del Gargano del marzo 2009 sancì una frattura di sangue tra i due clan. Il dibattimento mise in luce il ruolo di “infami di questura” dei Romito, confidenti dei carabinieri tanto da consentire a questi ultimi di piazzare microspie in una masseria per registrare nel dicembre 2003 un summit mafioso, a cui presero parte tre esponenti dei Libergolis. Nel 2010 l’egemonia dei Libergolis si appanna fino a celebrare il proprio crepuscolo: viene decapitato il capostipite Ciccillo Libergolis, morto ammazzato nella sua masseria. Catturati platealmente i due latitanti inseriti tra i trenta più pericolosi d’Italia: Franco Libergolis l’ergastolano e Giuseppe Pacilli, detto “Peppin U Montanar” condannato, in via definitiva, ad 11 anni di reclusione con una sentenza che ne riconosce la mafiosità. Ed ora in paese chi comanda? Chi terrorizza Monte Sant’Angelo? Da anni, ormai, non tuonano più quei colpi di kalashnikov che squarciavano il silenzio delle pigri notti invernali. Ma il terrore, la paura, il sangue versato non hanno smesso di essere i protagonisti in una terra tanto meravigliosa quanto, purtroppo, maledetta. Caso Dell’Utri. Strasburgo chiede all’Italia chiarimenti sulla detenzione Corriere della Sera, 5 dicembre 2017 La Corte europea dei diritti umani ha chiesto al governo italiano di valutare se continuare a tenere Marcello Dell’Utri in carcere, viste le sue condizioni di salute. La Corte europea dei diritti umani ha chiesto al governo italiano di valutare se continuare a tenere Marcello Dell’Utri in carcere, viste le sue condizioni di salute, violi o meno il suo diritto a non essere sottoposto a trattamenti inumani e degradanti. La richiesta è stata formulata in occasione della trasmissione a Roma degli atti relativi al ricorso presentato a Strasburgo il 20 dicembre del 2014 dallo stesso Dell’Utri contro la condanna per concorso esterno in associazione di stampo mafioso. Nel rivolgersi alla Corte di Strasburgo Dell’Utri ha sostenuto di essere stato condannato in base a una legge entrata in vigore dopo che lui aveva commesso i fatti imputatigli. Inoltre, secondo il ricorrente le accuse che gli sono state rivolte erano vaghe e imprecise. A ottobre la Corte di Cassazione ha respinto la richiesta di scarcerazione anticipata di Dell’Utri vista la gravità del reato commesso: il concorso esterno in associazione mafiosa. Compravendita: mancata restituzione della caparra non è appropriazione indebita di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 5 dicembre 2017 Corte di cassazione - Sezione II - Sentenza 4 dicembre 2017 n. 54521. Esclusa l’appropriazione indebita per la mancata restituzione degli acconti ricevuti dal titolare dell’agenzia immobiliare per un immobile mai trasferito a chi aveva versato la caparra. Perché scatti il reato, previsto dall’articolo 646 del Codice penale, serve il presupposto dell’impossessamento della cosa altrui, che manca nel caso di acconto o caparra, perché le somme passano nel patrimonio di chi le riceve. Colui che “intasca” il denaro ne diventa il proprietario, dunque se adempie al suo incarico può trattenere la somma a titolo di corrispettivo per il servizio prestato, nel caso l’affare non vada a buon fine, come nello specifico, deve restituire i soldi, ma se non lo fa incorre solo in un adempimento di natura civilistica. La Cassazione, con la sentenza 54521, chiarisce che l’appropriazione indebita scatta solo quando il denaro viene consegnato per un fine ben preciso, ad esempio per l’estinzione di ipoteche, e il possessore - che in tal caso è un mero detentore - lo usa per un diverso scopo. Diversa l’ipotesi in cui il denaro è erogato a titolo di prezzo parziale o totale di una normale compravendita, che impone la sola obbligazione oggetto del contratto: la consegna del bene. La Suprema corte ricorda che, malgrado sotto il profilo civilistico l’acconto sia diverso dalla caparra, ai fini penalistici il risultato non cambia perché in nessuno dei due casi c’è un impiego vincolato del denaro. E la querelle si sposta in sede civile Il posto auto non è privata dimora di Paolo Accoti Il Sole 24 Ore, 5 dicembre 2017 Corte di cassazione - Sentenza 53438/2017. Nessuna violazione di domicilio sull’area destinata a sosta e parcheggio per i condòmini. I concetti di “privata dimora” e di “proprietà privata” non sono affatto sovrapponibili: il primo risulta molto più circoscritto del secondo, ed è qualificabile come il luogo in cui una persona si trattiene per compiere gli atti della sua vita privata. La proprietà privata, al contrario, definita dall’articolo 832 del Codice civile, si estrinseca nel diritto di godimento di un bene e nel potere di disporre dello stesso. Sulla scorta di questi princìpi la Cassazione (sentenza 53438/2017) ha annullato il provvedimento del Tribunale del riesame di Catanzaro che aveva applicato gli arresti domiciliari, in relazione al reato di violazione di domicilio aggravato da violenza alla persona, a un estraneo che aveva aggredito un condomino per motivi privati. Ritenuto, dice la Cassazione, che “l’area destinata a sosta e parcheggio delle auto riservata ai soli proprietari degli immobili, come si evince dalla documentazione fotografica prodotta dall’indagato, che indica la natura di “proprietà privata” della zona in questione”, non è qualificabile come pertinenza dell’abitazione della parte offesa ed è quindi sganciata “dalla nozione di privata di dimora come delineata dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione” (sentenza 31345/2017). Ne consegue la mancanza degli elementi costitutivi del reato di violazione di domicilio. Questa la conclusione cui è giunta la Corte, evidenziando che “l’aggressione è avvenuta in un tratto di strada, che conduce all’abitazione della persona offesa, avente le caratteristiche di spazio aperto al pubblico non delimitato da alcuna recinzione” e, in particolare, in una “area destinata a sosta e parcheggio delle auto riservata ai soli proprietari degli immobili, come si evince dalla documentazione fotografica, prodotta dall’indagato, che indica la natura di “proprietà privata” della zona in questione”, non qualificabile come pertinenza dell’abitazione principale di proprietà della parte offeso. Pertanto, La Cassazione sottolinea come le motivazioni addotte nel provvedimento impugnato risultano, per un verso, giuridicamente sbagliate e, dall’altro, sganciate dalla nozione di privata di dimora come delineata dalle Sezioni Unite (sentenza 31345/2017): “rientrano nella nozione di privata dimora esclusivamente i luoghi nei quali si svolgono non occasionalmente atti della vita privata, e che non siano aperti al pubblico né accessibili a terzi senza il consenso del titolare, compresi quelli destinati ad attività lavorativa o professionale”. Sono considerati tali, ad esempio, la casa, il garage, il terrazzo, lo studio professionale; la camera d’albergo; le aziende commerciali e industriali, le sedi dei partiti politici o delle associazioni culturali. False attestazioni all’Inps, la crisi di liquidità fa venir meno il reato di truffa di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 5 dicembre 2017 Tribunale di Campobasso - Sezione penale - Sentenza 6 giugno 2017 n. 273. Non commette il reato di truffa il datore di lavoro che attesti falsamente nei moduli Emens di aver erogato al lavoratore l’indennità di malattia, in realtà mai avvenuta, senza voler conseguire un vantaggio patrimoniale ai danni dell’Inps. Difatti, il delitto di cui all’articolo 640 c.p. non è configurabile se il soggetto agisce senza l’intenzione di trarre profitto dalla sua condotta. Ad affermarlo è il Tribunale di Campobasso nella sentenza 273/2017 che ha così assolto un datore di lavoro che, per via di una oggettiva crisi di liquidità dell’impresa da lui diretta non aveva provveduto tempestivamente al pagamento. I fatti - Il datore di lavoro veniva tratto a giudizio per rispondere del reato di cui all’articolo 640 c.p., con l’aggravante di aver commesso il fatto in danno di un ente pubblico, dopo gli accertamenti effettuati dall’Inps in seguito alla segnalazione fatta all’Ispettorato del lavoro da una dipendente dello stesso datore. In sostanza, dai controlli era emerso che quest’ultimo, per un periodo di 4 mesi, aveva dichiarato di aver corrisposto alla lavoratrice la somma di circa 4 mila euro a titolo di indennità di malattia, intascandosi la somma poi versata dall’Inps senza corrispondere alcunché alla propria dipendente. Per l’accusa, il datore di lavoro aveva, dunque, indotto in errore l’ente previdenziale sulla effettiva avvenuta corresponsione dell’indennità di malattia, conseguendo l’ingiusto profitto. Il datore si difendeva, invece, invocando, a sua discolpa, la scarsa liquidità che lo aveva costretto ad adottare un simile comportamento, nonché a dichiarare fallimento qualche anno più tardi. Manca l’elemento soggettivo - Il Tribunale all’esito dell’istruttoria dibattimentale ritiene di assolvere l’imputato per mancanza della piena prova della presenza dell’elemento soggettivo doloso, richiesto dall’articolo 640 c.p. ai fini della configurazione del reato di truffa. Il giudice ricorda, in primo luogo, il meccanismo di funzionamento dell’indennità di malattia: il datore di lavoro corrisponde l’importo previsto per conto dell’Inps, con obbligo di comunicazione all’ente nella denuncia contributiva dei dati relativi alle prestazioni economiche di malattia; in caso di mancata corresponsione dell’indennità al lavoratore, scatta la sanzione amministrativa pecuniaria ex articolo 12 del Dl 633/79. La fattispecie delittuosa della truffa, invece, richiede “che il soggetto attivo abbia realizzato la condotta descritta dalla norma intenzionalmente, al fine di trarre profitto”. Di conseguenza, per poter ipotizzare la penale responsabilità dell’imputato si dovrebbe ritenere che la falsa attestazione contenuta nei moduli Emens, “sia stata posta in essere dall’imputato con l’intenzione di indurre in errore l’Inps e poter così conseguire un vantaggio patrimoniale rappresentato dalla evasione contributiva ottenuta”. Tuttavia, spiega il giudice molisano, nella fattispecie ciò non è avvenuto in quanto la condotta non è stata posta in essere con l’intento di frodare l’ente pubblico, ma imposta dallo stato di decozione in cui versava la società dell’imputato. In effetti, l’imputato “proprio in conseguenza di tale difficoltà economica non era riuscito nemmeno a provvedere alla corresponsione di alcune mensilità di lavoro alla dipendente”, che aveva poi deciso di dimettersi. In definitiva, chiosa il Tribunale, “la mera falsa esposizione di una avvenuta elargizione non effettivamente corrisposta, priva dell’elemento soggettivo doloso, è tipizzata come causa di applicazione al datore di lavoro di una mera sanzione amministrativa pecuniaria ex art. 12 D.L. 633/79 e niente più”. Condizioni di applicabilità concreta del sequestro preventivo di beni confiscabili Il Sole 24 Ore, 5 dicembre 2017 Misure cautelari reali - Sequestro preventivo - Beni confiscabili - Condizioni di applicabilità - Fumus commissi delicti e periculum in mora. Ai fini del sequestro preventivo di beni confiscabili ex articolo 12-sexies, L. 356/1992, è necessario accertare unicamente l’astratta configurabilità, nel fatto storico contestato all’indagato, di uno dei reati indicati dalla norma e, quanto al periculum in mora, la sussistenza di seri indizi di esistenza delle medesime condizioni legittimanti la confisca (sia quanto alla sproporzione del valore dei beni rispetto al reddito o attività economica svolta dal soggetto, sia per ciò che attiene alla mancata giustificazione della liceità della provenienza del medesimi beni). Pertanto, per l’applicazione concreta del sequestro preventivo, la valutazione di insussistenza del presupposto del fumus commissi delicti può legittimamente essere desunta dal provvedimento di annullamento dell’ordinanza dispositiva di una misura cautelare personale, purché l’esclusione dei gravi indizi di colpevolezza sia fondata su di una motivazione incompatibile con la astratta configurabilità del reato requisito essenziale per l’applicabilità del sequestro preventivo stesso. • Corte di cassazione, sezione VI, sentenza 28 novembre 2017 n. 53657. Misure di sicurezza patrimoniali - Reati transnazionali - Sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente - Applicabilità - Presupposti - Individuazione. Ai fini della applicazione del sequestro funzionale alla confisca per equivalente, previsto dall’articolo 11, Legge 16 marzo 2006, n. 146, è sufficiente che sia contestata e configurabile la condizione di transnazionalità del delitto per cui si procede - come definita dall’articolo 3 della medesima legge - senza che sia, invece, necessario che sia contestata e ricorra la speciale aggravante della transnazionalità, di cui all’articolo 4, comma primo, della predetta Legge n. 146, costituendo tale circostanza soltanto uno degli eventuali sintomi del carattere transnazionale del delitto. • Corte di cassazione, sezione III, sentenza 22 giugno 2016 n. 25821. Misure cautelari - Confisca - Sequestro preventivo - Illegittimo. È illegittimo il sequestro preventivo finalizzato alla confisca su un bene intestato a soggetto diverso dall’indagato se non è provata l’intestazione fittizia. In tal caso, infatti, non è applicabile, alcuna presunzione, nemmeno quando il sospetto riguarda i prossimi congiunti dell’indagato. È onere del Pm fornire elementi sull’esistenza di una discrasia tra intestazione formale e disponibilità effettiva. Nel caso di specie, la Cassazione ha accolto il ricorso dell’indagato in quanto i giudici di merito non avevano spiegato la relazione tra la formale intestazione a un terzo e la presunta disponibilità in capo al contribuente. • Corte di cassazione, sezione III, sentenza 15 giugno 2016 n. 24816. Misure cautelari reali - Sequestro preventivo - Condizioni di applicabilità - Sequestro preventivo finalizzato alla confisca - Sequestro disposto successivamente al decreto che dispone il giudizio immediato - “Fumus commissi delicti” - Contenuto. Nel caso in cui il sequestro preventivo finalizzato alla confisca sia stato emesso successivamente al decreto con cui si è disposto il giudizio immediato, il “fumus commissi delicti” - che non deve investire la concreta fondatezza della pretesa punitiva, ma limitarsi all’astratta possibilità di sussumere il fatto attribuito ad un soggetto in una specifica ipotesi di reato - è già contenuto nella valutazione in ordine alla consistenza della fondatezza dell’ipotesi d’accusa alla base del rito speciale. La Corte, in motivazione, ha rilevato che la valutazione del “fumus” era stata comunque operata tenendo conto delle concrete risultanze processuali e degli elementi, documentali e testimoniali, ritenuti idonei a legittimare il giudizio immediato. • Corte di cassazione, sezione II, sentenza 14 dicembre 2015 n. 49188. Salerno: al via progetto-pilota per l’assistenza ai detenuti domiciliari di Mariapia Mercurio La Città di Salerno, 5 dicembre 2017 Previsto sostegno morale e materiale per chi vive nel disagio. La direttrice dell’Ufficio esecuzione: ecco l’intesa con la Caritas. Si svolgerà oggi alle 10.30, nella sede dell’Ufficio distrettuale di esecuzione penale esterna (Uedpe), a via Irno, la presentazione del progetto “L’Abbraccio Misericordioso”, finanziato nell’ambito del “Progetto Nazionale Carcere 2017 - Liberare la pena”, promosso dalla Caritas Italiana e attuato nell’area della provincia di Salerno dall’associazione “Migranti senza frontiere”. Tra le finalità dell’iniziativa è previsto il sostegno morale e materiale dei detenuti domiciliari che versano in particolari condizioni di disagio. A presentare il progetto saranno don Rosario Petrone, rappresentante legale dell’associazione “Migranti senza frontiere” e referente del progetto, insieme alla dottoressa Rita Romano, direttrice dell’Uedpe Salerno. Direttrice, si tratta di un progetto che estende l’abbraccio ai detenuti anche fuori dalle mura del carcere? Come Ufficio distrettuale di esecuzione penale esterna ci occupiamo delle misure alternative alla detenzione, di coloro che sono in affidamento in prova ai servizi sociali e che scontano una pena all’esterno del carcere. Siamo partner di questo progetto ed abbiamo individuato sette utenti in detenzione domiciliare che saranno seguiti dai volontari sia sotto il profilo morale che materiale. Il periodo natalizio è alle porte, e fa sentire ancora di più la povertà e la solitudine e, dunque, il bisogno di aiuto e sostegno. Come si articolerà il progetto? Ci sarà una fase iniziale di formazione teorica del personale che si svolgerà presso il nostro ufficio e che vedrà impegnati anche gli assistenti sociali che si occupano dei singoli utenti individuati, allo scopo di favorire una più attenta e scrupolosa conoscenza della situazione e del contesto che vive ciascun detenuto da parte dei volontari che si occuperanno della presa in carico. Sotto la nostra supervisione, si svolgeranno una serie di incontri tra detenuti domiciliari e i volontari, per guidarli lungo il percorso della conoscenza reciproca. I volontari impegnati nel progetto sono abituati a portare la loro opera all’interno degli istituti penitenziari, ma è la prima volta che si avvicinano al mondo dell’esecuzione penale esterna. È questa una realtà in espansione? Sì, anche gli Stati generali dell’Esecuzione penale esterna stanno dando molto risalto alle misure alternative alla detenzione, e non solo come misure di contrasto al fenomeno del sovraffollamento delle carceri, ma soprattutto nell’ottica di una visione diversa della pena; non a caso si parla sempre più spesso di misure e sanzioni di comunità, che vengono, appunto, scontante nella comunità esterna. Quanto durerà questa forma di sostegno? Sei mesi, con la prospettiva di ulteriori sviluppi. Nell’immediato si tratta di un aiuto diretto, che però intende fare in modo che, nel tempo, i detenuti domiciliari diventino autonomi, trovino un lavoro e siano capaci di prendersi cura di se stessi e delle loro famiglie. In questo modo si può tentare di ottenere se non l’azzeramento, quantomeno l’abbassamento del tasso di recidiva. Lei è anche direttrice dell’Icatt e in questo progetto porta avanti i principi che già muovono il suo impegno nel carcere di Eboli. Dal punto di vista dell’impegno penitenziario mi giudico un operatore completo, è un continuum tra il dentro e il fuori dal carcere, nel senso che la pena all’interno deve essere finalizzata al reinserimento all’esterno del detenuto, attraverso un percorso rieducativo e di reinserimento sociale. Al contrario si è destinati a fallire e, conseguentemente, a sprecare soldi pubblici. Un detenuto costa allo Stato trecento euro al giorno e questi soldi devono essere ben investiti. La sfida più grande non è mettere fuori i detenuti, è quella di fare in modo che restino fuori. Reggio Calabria: casi di tubercolosi al carcere, le parole del Garante dei detenuti di Monia Sangermano strettoweb.com, 5 dicembre 2017 Il Garante dei detenuti di Reggio Calabria interviene in merito all’allarme tubercolosi presso la Casa Circondariale “G. Panzera”. “In corrispondenza della diffusione della notizia di un possibile allarme di contagio per tubercolosi presso la Casa Circondariale “G. Panzera” di Reggio Calabria, anche e soprattutto al fine di rassicurare i parenti delle persone detenute, i detenuti stessi e, più in generale, tutto il personale che a vario titolo opera all’interno del carcere di via S. Pietro, appare quanto mai opportuno fornire alcuni dati sanitari che, nella qualità di Garante dei detenuti, ho avuto modo di acquisire dall’Azienda Sanitaria Provinciale di Reggio Calabria, che espleta il Servizio Sanitario presso l’istituto penitenziario in questione”. Lo afferma in una nota il Garante dei Detenuti di Reggio Calabria Avv. Agostino Siviglia. “Dalla documentazione acquisita, risulta che due detenuti sono stati sottoposti all’esame batterioscopico per BK (Bacillo di Koch - il bacillo, cioè, responsabile della tubercolosi nell’uomo) e, l’esame, è risultato per entrambi negativo. Per quanto riguarda, in particolare, il primo dei due detenuti ricoverati presso il Grande Ospedale Metropolitano Bianchi Melacrino Morelli, nella certificazione sanitaria, a firma del Dott. Antonio Marcello De Cicco, si legge testualmente che dopo “ben 6 prelievi il dato esclude un quadro Bacillifero diffusivo di malattia”. Per quanto riguarda il secondo dei due detenuti, ricoverato in medicina d’urgenza il 19.11.2017, anche in questo secondo caso, la certificazione sanitaria fornita, a firma del Direttore del reparto di Chirurgia Toracica del Grande Ospedale Metropolitano Bianchi Melacrino Morelli, dott. Baldassarre Mondello, recita testualmente: “il risultato batterioscopico è risultato negativo per BK” (Bacillo di Koch)”. “Dai dati sanitari acquisiti, dunque, si esclude una situazione cogente di malattia in fase di diffusione, non essendo stato rilevato dagli esami effettuati il batterio (BK) che ne determinerebbe il contagio. Nella qualità di Garante continuerò a monitorare l’evolversi della situazione, assicurandomi, altresì, che si compiano di tutti gli ulteriori accertamenti del caso, al fine di garantire la più completa salubrità all’interno dell’istituto penitenziario in questione che, per vero, allo stato, non pare possa considerarsi di allarme”. Rassicuranti, dunque, le parole Garante dei detenuti, che dopo le notizie trapelate nelle scorse settimane sottolinea il proprio lavoro di controllo e monitoraggio al fine di evitare il diffondersi di epidemie. Sebbene, allo stesso tempo, ci diano conferma del fatto che due detenuti siano stati effettivamente sottoposti ad accertamenti, i quali, pur non avendo rilevato la presenza del batterio che causa la tubercolosi, si sono resi necessari a causa delle condizioni di salute dei due uomini. Il punto cruciale, in verità, è proprio questo: a prescindere dalla patologia riscontrata ciò su cui si deve porre la massima attenzione sono le condizioni igienico sanitarie del carcere in questione. I sintomi riconducibili alla tubercolosi possono essere il campanello d’allarme per altre patologie più o meno importanti, che sono comunque state contratte all’interno della casa circondariale. Se c’è pericolo di contagio, dunque, è necessario garantire il massimo controllo possibile affinché questa eventualità venga scongiurata. Napoli: nessun processo per il disabile pestato in carcere di Vincenzo Iurillo Il Fatto Quotidiano, 5 dicembre 2017 Non ci sarà un processo per i responsabili del pestaggio del detenuto in sedia a rotelle lanciato contro il muro di “Cella Zero” nel penitenziario di Poggioreale (Napoli) la vigilia di Natale del 2013. L’episodio è stato rivelato da Il Fatto Quotidiano l’altro ieri: i verbali che ne raccontano la storia sono allegati agli atti del processo iniziato il mese scorso, che vede imputati 12 ex agenti di polizia penitenziaria del carcere napoletano accusati a vario titolo di sequestro di persona, lesioni e maltrattamenti, e nel frattempo trasferiti in altri istituti. Ma per questa vicenda la Procura di Napoli ha dovuto chiedere l’archiviazione, pur non ritenendo infondate le accuse e ricordando che un paio di compagni di cella del disabile - un uomo costretto momentaneamente sulla sedia a rotelle per via di alcune fratture al torace - hanno confermato il narrato della vittima. I pm Giuseppina Loreto e Valentina Rametta, coordinati dal procuratore aggiunto Alfonso D’Avino, non avevano però altra scelta: il detenuto in carrozzella non è stato in grado di riconoscere nessuno dei suoi aguzzini dall’album fotografico degli agenti di polizia penitenziaria sottopostogli in visione dagli inquirenti. Un compagno di cella era riuscito a identificare i tre secondini che “prelevarono” il disabile quella notte dalla cella 2 del padiglione “Napoli” per portarlo nella famigerata “Cella Zero”, una stanza vuota al pian terreno chiamata così perché priva di numerazione e utilizzata per “punire” i detenuti. Ma la vittima non ha riconosciuto nemmeno questi. Fu un pestaggio terribile, secondo i ricordi dell’uomo, in prigione per reati di droga: gli fu tolto il corsetto di protezione, denudato, picchiato al torace già fratturato, lasciato per terra. Tornò in cella solo tre giorni dopo. Visibilmente provato e “aveva segni di violenza sul viso e sul corpo - dichiarò agli inquirenti un compagno di detenzione - lui ci disse di essere stato portato prima ai cancelli uffici, dove era stato picchiato, e poi al padiglione ‘Avellino destrò, dove sono ricoverati quelli con problemi mentali. La sedia a rotelle era completamente fuori uso: ci ha detto che era stato scagliato con tutta la sedia contro un muro”. Il processo per gli altri episodi invece riscontrati, riprenderà solo il 1 marzo. Un rinvio lungo, la prescrizione si avvicina. I fatti oggetto delle imputazioni sono avvenuti tra il 2012 e il 2014. Intanto il carcere di Poggioreale resta uno dei più sovraffollati dello Stivale. E la mattina dell’11 dicembre la Camera Penale presieduta da Attilio Belloni marcerà dal Tribunale verso il penitenziario per protestare contro le condizioni disumane dei condannati. Voghera (PV): sopralluogo della Commissione regionale Carceri all’istituto penitenziario lombardiaquotidiano.com, 5 dicembre 2017 Struttura in parte fatiscente e grave carenza di personale. Questi gli aspetti più problematici emersi oggi durante il sopralluogo della Commissione speciale sulla situazione carceraria all’istituto penitenziario di Voghera (PV). La delegazione consiliare, cui hanno preso parte oltre al Presidente della Commissione, Fabio Fanetti (Lista Maroni), i Consiglieri regionali Paola Macchi (Movimento 5 stelle) e Mario Mantovani (FI), ha incontrato la direttrice Maria Antonietta Tucci e il Comandante di reparto, Roberto Di Stefano, che hanno illustrato la situazione all’interno del carcere, che ospita attualmente 360 detenuti con una dotazione organica complessiva di 172 dipendenti, di cui appena 92 per il servizio di turno ai reparti. “La parte più critica riguarda i locali dell’infermeria, piccoli e fatiscenti, e per i quali esisteva un progetto di ampliamento mai realizzato - ha spiegato il Presidente Fanetti - Noi solleciteremo il Ministero perché venga ripreso il vecchio disegno: si tratta infatti di un ambito importantissimo per erogare i servizi sociosanitari ai detenuti che qui scontano anche pene molto lunghe. Inoltre, vi è una grave carenza di organico: mancano almeno una trentina di funzionari di Polizia penitenziaria. Ciò comporta orari più lunghi e una scarsa programmazione di ferie e giorni di riposo, necessari per il recupero delle forze psicofisiche. Si tratta di una situazione che rischia di compromettere il mantenimento di alti livelli di sicurezza, oltre che un maggiore costo economico per pagare gli straordinari. Solleciteremo lo Stato ad intervenire, anche per non vanificare gli sforzi che la Direzione e le forze di Polizia mettono in atto per migliore le condizioni di vita all’interno del carcere e per la riabilitazione del detenuto”. All’incontro, richiesto dalla Consigliera Macchi, hanno partecipato anche i funzionari Asst, Pietro Caronna e Marino Roberto, e Luigi Camana e Laura Bianchi del Dipartimento Prevenzione dell’ATS, oltre che Catia Taraschi in rappresentanza del Provveditorato regionale. “Si tratta di un carcere particolare per quanto riguarda la tipologia di detenuti che ospita - ha spiegato la Consigliera Macchi - Sicuramente molto potrebbe essere migliorato anche con una maggiore integrazione con il territorio. A tale proposito lancio un appello alle forze imprenditoriali e sociali perché, come avviene già in molti altri istituti lombardi, propongano esperienze lavorative all’interno del carcere, affiancando le attività educative e formative che già vengono realizzate. È importantissimo coinvolgere i detenuti in mansioni che ne recuperino il senso e la dignità”. Pistoia: Consiglieri comunali in visita al S. Caterina “ora il carcere è meglio di prima” di Lorenzo Vannucci Gazzetta di Pistoia, 5 dicembre 2017 Una folta delegazione di consiglieri comunali e di amministratori ha fatto visita, stamane, alla struttura penitenziaria di Santa Caterina in Brana. Ne è stato dato conto nella seduta del consiglio comunale che si è tenuta questo pomeriggio presso Palazzo di Giano. “La struttura - ha sottolineato la vicesindaco Celesti - non è più una struttura degradata come un tempo. Sono state apportate migliorie, anche nella ricezione degli ospiti che vengono a trovare coloro che scontano lì la propria pena. Dobbiamo sempre ricordare che chi sta in carcere non deve mai perdere la propria dignità, né mentre scontano la pena né una volta liberi”. “Il personale si è dimostrato molto cortese e preparato - ha sottolineato Cerdini (Lega) e gli ambienti sono sembrati ospitali, soprattutto quelli dedicati all’incontro tra i detenuti e le proprie famiglie. Mi ha fatto riflettere il fatto che alcuni bambini non possano stare con i propri genitori perché questi devono scontare qualche condanna. Sono comunque soddisfatta del fatto che l’assessore Celesti si occuperà in prima persona di queste tematiche”. “La visita a cui abbiamo partecipato - ha detto Menichelli di Pistoia Concreta - senza dubbio è stata dura e dal forte impatto emotivo. La porta che separa il carcere dal resto del mondo fa riflettere, come se si fosse sul confine di due dimensioni. Inoltre si è avvertito il senso di imbarazzo dei detenuti e si è avuto l’impressione del fatto che nessuno di questi avesse fretta. La fretta non esiste in carcere”. “Questa tematica ci ha sempre visto molto uniti, indipendentemente da chi fosse maggioranza e chi opposizione - ha detto Nuti di Spirito Libero - ci siamo inoltre trovati solidali nell’individuare una voce di bilancio ad hoc per i progetti di inclusione in materia. Siamo stati l’unico comune a mantenere quanto previsto dalla convenzione Anci sull’argomento, che prevedeva di mettere a disposizione dei fondi proprio per quello scopo. Inoltre ciò che fa onore alla città è lo spirito di volontariato che si manifesta nell’aderire a progetti di aiuto come questi”. “Tutto questo dimostra come noi si sia la politica del fare e non delle enunciazioni” ha sottolineato Checcucci di Fdi. Invece Tripi (Pd) si è soffermato su come “Sicuramente la situazione della struttura è molto migliorata rispetto a qualche anni fa, quando io la visitai”. Il Centrista per l’Europa Pagliai ha invece affermato che “Mentre altre volte ho avvertito fastidio da parte del personale questa volta si sono mostrati tutti più che disponibili”. Il portavoce dei M5S in consiglio comunale, Maglione, ha messo in luce come “Gli interventi dei consiglieri di maggioranza dimostrano come ci siano sensibilità comune, soprattutto quando si esce fuori dalle barriere delle differenze politiche. Fa inoltre riflettere come l’Italia sia uno dei paesi con il più alto tasso di corruzione ma uno dei paesi con il più basso tasso di carcerazione per i colletti bianchi”. A Maglione fa eco Bartoli (Pistoia Sorride): “In galera ci vanno i poveracci. Abbiamo un sistema penitenziario più afflittivo e meno effettivo. Dovrebbe essere l’esatto opposto. Chi di dovere farebbe bene a porsi questa problematica”. Opera (Mi): Progetto Sicomoro, i parenti delle vittime incontrano i killer di Luisa Cornegliani fanpage.it, 5 dicembre 2017 I parenti delle vittime hanno incontrato, in carcere, persone che si sono rese colpevoli di atroci delitti. Si chiama Progetto Sicomoro, promosso dall’associazione Prison Fellowship, che è presente in 136 nazioni. Si tratta di uno strumento di giustizia riparativa: per alcune settimane vittime e carnefici, si incontrano, si confrontano e alla fine si aiutano reciprocamente. “Mi ha dato la pace. Sono entrata piena di rabbia, esco libera”. Elisabetta Cipollone è una mamma che ha perso il proprio figlio in un grave incidente stradale, causato da un pirata della strada. Il suo Andrea è stato travolto e ucciso nel 2011, a soli 15 anni, mentre attraversava sulle strisce pedonali, sotto gli occhi del fratello gemello. Ha lottato perché l’uomo che l’ha assassinato fosse condannato a una pena esemplare, si è battuta per l’omicidio stradale raccogliendo firme in tutta Italia. Come può una mamma che ha perso il proprio figlio trovare la pace? Dov’è avvenuto questo processo che l’ha finalmente liberata dalla rabbia per quello che era capitato a lei e al suo Andrea? Sembra incredibile, ma è in carcere che questa mamma ha trovato la serenità perduta. E l’ha aiutata un assassino. Sì, proprio così, un uomo che aveva commesso il più atroce dei delitti, prima di finire dietro le sbarre a Opera, nel Milanese, una delle più grandi prigioni europee, con la più numerosa sezione dedicata ai cosiddetti 41bis, cioè al carcere duro. Com’è possibile? È lei stessa a spiegarlo. Dice: “È stata un’esperienza illuminante. Non conoscevo la realtà del carcere. Sono entrata piena di pregiudizi, poi mi sono accorta che dietro a quelle persone, che si sono macchiate di crimini orribili, ci sono uomini. Mi sono resa consapevole di tante cose. Per esempio, ci sono persone che nella loro vita hanno conosciuto solo il male. Infrangere la legge per loro è stata la più naturale delle scelte, se non addirittura l’unica possibile. Mentre io facevo questa presa di coscienza, altrettanto faceva la persona che avevo davanti. Io ho cercato di fargli capire quali conseguenze ha il reato su chi lo subisce, anche indirettamente: lo choc, la paura, il dolore della perdita. Mettersi l’uno nei panni dell’altro è utilissimo. Non ho cambiato idea: credo fermamente nella certezza della pena. Chi commette un reato, grave o piccolo che sia, deve pagare il suo debito con la società, ma perché questo avvenga, il carcere si deve trasformare in un’esperienza positiva. Anche se rinchiusi, i detenuti possono fare grandi cose. L’ho visto personalmente. E quando queste persone torneranno libere, saranno davvero pronte a lasciare per sempre la vita criminale. Pensi che un detenuto, con fine pena mai, ossia che non uscirà mai di prigione, mi ha detto: “Io ora sono libero, anche se sto qua dentro. Il male che ho fatto non si cancella, ma farò qualcosa di buono da qui in avanti”. Il progetto a cui Elisabetta Cipollone ha partecipato si chiama Progetto Sicomoro, promosso dall’associazione Prison Fellowship, che è presente in 136 nazioni. Si tratta di uno strumento di giustizia riparativa: per alcune settimane vittime e carnefici, si incontrano, si confrontano e alla fine si aiutano reciprocamente. Non è un progetto premiale, ossia non dà sconti di pena né benefici. Il concetto è semplice, la sua realizzazione è più complicata, ma finora ha dato grandissimi risultati. Basti pensare che ha funzionato persino con le vittime del genocidio avvenuto in Rwanda tra Hutu e Tutzi. È una realtà istituzionale in Canada, negli Stati Uniti, dov’è nato, e in tutto il Nord Europa. Dice la presidente dell’associazione italiana Marcella Reni, 60 anni: “Facciamo incontrare due dolori, certi che dove c’è stato un mare di male possa generarsi un’onda di bene. Parlando si scopre che il dolore del carnefice è lo stesso della vittima e i cuori si uniscono. Nel 99,9 per cento dei casi non c’è stata recidiva. I detenuti, trattati con dignità a prescindere dal crimine che hanno commesso, fanno un duro lavoro di introspezione, insieme con le vittime degli stessi reati che hanno compiuto. Ne nasce un progetto di vita che risana anche la società. Quando torneranno liberi, non commetteranno più gli stessi errori”. Lo dicono le statistiche, dal 2009, quando in Italia è nata l’associazione, a oggi. Il progetto ha dato risultati positivi soprattutto con i detenuti peggiori, quelli cioè che hanno commesso i crimini più gravi. Continua Marcella Reni: “C’è uno 0,01 per cento di carcerati che non ha finito il progetto e che una volta uscito è tornato a delinquere. Si tratta di piccoli criminali, rapinatori con alle spalle storie di droga. A Ivrea, durante l’ultimo progetto, solo un carcerato su 11 non ce l’ha fatta a proseguire: era in attesa della sentenza della Cassazione, che è stata durissima. Per lui il carico emotivo è stato eccessivo e si è fatto da parte. Al contrario collaborano stabilmente con noi killer di mafia, detenuti con fine pena mai, ergastolani. All’inizio per tutti è stata durissima. Hanno avuto un crollo emotivo, hanno dovuto ricorrere al supporto degli psicologi del carcere per farcela. Molti di loro prima non ricordavano il volto delle loro vittime, l’avevano cancellato, preferendo sentirsi a loro volta vittime del sistema, di un carcere crudele, di un giudice poco comprensivo, poi d’improvviso sono diventati consapevoli. Un killer di cosa nostra, Roberto C., mi ha raccontato di aver rammentato, grazie a noi, le ultime parole che avevano proferito molte delle sue vittime, le loro espressioni di terrore. Per lui è stato nello stesso tempo atroce e salvifico. Dopo, ha cercato i parenti delle oltre 50 persone che ha assassinato, ha provato ad avere un dialogo con loro. Ha aiutato e aiuta altri detenuti. A volte parla ai ragazzi delle scuole superiori. Insomma fa del bene, è diventato un esempio. Spesso mi dice: “La riparazione del male che ho fatto consiste proprio nel raccontare a tutti quanto fossi bestia. Vedo negli occhi di chi ascolta, la scintilla del bene e della giustizia”. Roberto C. è uno che ha sparato a un anziano del suo paese perché, quand’era piccolo, gli aveva dato schiaffo. Adulto, divenuto un sicario, si è vendicato. Su un punto non hanno dubbi né Marcella Reni, né Elisabetta Cipollone. Perché il carcere redima, deve essere un’esperienza formativa. Dicono in coro: “Dal male nasce solo male. Dare dignità ai detenuti, considerarli persone è la cura migliore per la nostra società”. A Natale l’associazione organizza pranzi con detenuti in dieci carceri italiane: a cucinare è uno chef stellato, a tavola ci sono proprio loro, i carcerati, a servirli sono i parenti delle vittime e a volte personaggi dello spettacolo. Conclude Elisabetta Cipollone: “Sono entrata in carcere assetata di giustizia, mi sono sentita riconosciuta nel mio bisogno proprio da chi ha commesso il reato che mi aveva portato via mio figlio. Lo so che è incredibile da credere, ma il desiderio di vendetta e il rancore si sono trasformati in liberazione e comprensione. Durante il progetto c’è un momento molto particolare: si getta una pietra in una bacinella e si osservano i cerchi concentrici che nascono dall’impatto con l’acqua. Il detenuto deve fare un disegno: per ogni cerchio deve indicare il nome delle sue vittime. Ha una settimana, perché all’inizio non sa cosa scrivere. Alla fine non gli basta un foglio”. Napoli: “Nati per leggere” a Nisida. I volontari: piccoli miracoli dietro le sbarre di Daniela De Crescenzo Il Mattino, 5 dicembre 2017 Francesca, Bianca e Alessandra “Così un libro ci ha salvato la vita”. Francesca, figlia di uno dei giovani detenuti di Nisida, a cinque anni non sapeva distinguere il giallo dal blu, ha imparato i nomi dei colori e quelli degli animali quando per la prima volta, dietro le sbarre, mamma e papa si sono fermati a guardare un libro con lei. Alessandro non aveva mai detto una parola, poi gli hanno raccontato la storia di “Whisky il ragnetto” e gli hanno fatto sentire la canzoncina che canticchiano tutti i bambini e lui ha cominciato a sillabare. Bianca è nata a Forcella e quando ha scoperto le pagine a colori se ne è innamorata. ha spiegato: “Meno male che ho visto il foglio che mi ha portato da voi, adesso la mia vita è più bella”. Piccoli miracoli compiuti dai libri, ma soprattutto dalla voce dei genitori che, per una volta, spesso la prima, è diretta esclusivamente ai propri bambini. Sono loro, mamma e papa, a prendere per mano i figli e a trascinarli nel magico mondo delle parole. Regalare parole, e quindi amore e conoscenza, è uno degli obiettivi del programma di promozione della lettura in famiglia da 0 a 6 anni “Nati per Leggere”, ispirato allo statunitense Reach Out And Read nato nel 1989 dall’intuizione di un gruppo di pediatri tra cui la dottoressa Perry Mass e promosso in Italia dal 1999 dall’alleanza tra l’Associazione Culturale Pediatri ACP, l’Associazione Italiana Biblioteche AIB e il Centro per la Salute del Bambino Onlus Csb. Leggere una favola sembra un gesto semplice, scontato, ma invece per le mamme e i papa che ogni giorno cercano di arrangiare la vita, per quelli che a stento riconoscono i caratteri stampati, aprire un libro, è come scalare una montagna. Senza una guida non possono farcela. Ed è questo il lavoro dei volontari e degli operatori coinvolti nell’iniziativa: sostenere genitori e figli che esplorano il mondo dell’alfabeto. Un imperativo soprattutto in una regione, la Campania, dove, come testimonia una recente ricerca del Miur il tasso di dispersione scolastica si attesta all’uno per cento, quasi il doppio delle Marche e dell’Emilia Romagna. E non solo: a Napoli nelle prove Invalsi che saggiano le competenze degli studenti, si segnala il punteggio più basso in un’ampia fetta della città. “La cosa più difficile è proprio coinvolgere le madri e i padri - spiega Tiziana Cristiani referente regionale del programma insieme a Stefania Manetti. Spesso si tratta di persone giovani che hanno a loro volta difficoltà a comprendere le lettere, ma se ne vergognano”. Un atteggiamento che si ripete spesso anche tra i giovanissimi detenuti del carcere di Nisida. All’interno dell’istituto penitenziario i detenuti sono autorizzati a incontrare le mogli e le compagne una volta alla settimana per leggere insieme a loro una favola ai propri bambini. Eppure molti rinunciano all’incontro nel timore di mostrare a tutti le proprie debolezze. “Le mamme sono quelle più difficili da coinvolgere - spiega Rosa Spinelli, una delle volontarie - si tratta spesso di ragazzine che sentono il peso di quei bambini che devono crescere da sole. Arrivano in carcere e preferiscono chiacchierare con i compagni o con le altre donne. Convincerle a sedersi con noi sul tappeto insieme ai bimbi per leggere insieme è un? Impresa complicata. È più facile coinvolgere i padri”. A volte è l’interesse manifestato dai figli a convincere i genitori. “Lucia aveva poco più di diciotto anni e già due figli a carico nati da due padri diversi - racconta la volontaria - veniva in carcere con la bambina più piccola, più che altro per avere l’occasione di incontrare il compagno, ma quando ha visto il sorriso della figlia di meno di un anno nello scorrere le pagine colorate, si è fatta coinvolgere”. Piccoli successi che alimentano la speranza e spronano i volontari e i pediatri: in Campania il programma che è diffuso in tutta la Penisola, va avanti dal 2000 e conta ormai più di dieci Punti Lettura soltanto a Napoli. Dopo il primo ospitato dal Pan (e poi chiuso tra le polemiche dal Comune) ne sono nati altri dieci. Si legge al Santobono, al primo e al secondo Policlinico, alla scuola Russolillo di Pianura, al carcere minorile di Nisida e in quello di Secondigliano, a Forcella. Si legge in sette ospedali della Campania e presto si leggerà anche al carcere di Poggioreale. Complessivamente dal 2012 sono stati raggiunti più di 26 mila bambini in Campania. L’iniziale collezione di mille libri, oggi ospitata nel Punto Lettura NpL Biblioteca Nazionale Napoli, inaugurato il 22 novembre scorso, continua ad arricchirsi e oggi alle 15,30, presso la sua sede (Napoli, via Raffaele De Cesare 28) la Fondazione Pol.i.s. della Regione Campania, presieduta da Paolo Siani, presenta i risultati conseguiti nel primo anno di attuazione del progetto ?Leggendo Crescerai realizzato in alleanza con Nati per Leggere Campania e il contributo della sede Rai di Napoli, e che ha permesso la nascita dei dieci Punti Lettura tra il 2016 e il 2017. Trento: “501 disegni a sei mani”, con i colori della pace il carcere diventa una grande tela Corriere del Trentino, 5 dicembre 2017 L’allestimento verrà inaugurato oggi alla casa circondariale di Spini. Coinvolti 1.500 bambini. Si intitola “501 disegni a sei mani per 500 anni veneziani, Venezia-Rabat-Tunisi-Hewitt”, la mostra che viene inaugurata oggi alle 11 alla casa circondariale a Spini di Gardolo, alla presenza di diverse autorità e rappresentanti del mondo della cultura e dell’associazionismo trentino e non. Tra loro, il dirigente delle carceri di Trento Valerio Pappalardo, il sindaco di Trento Alessandro Andreatta, monsignor Lauro Tisi, il rabbino di Verona e Vicenza, Rabbi Yosef Y. Labi, il rappresentante della Comunità religiosa islamica italiana Imam Isa Abd Al-Haqq Benassi. “Un progetto nato due anni fa da un’idea che di anni ne ha venticinque e che coinvolge bambini delle scuole elementari italiane di varie città. Tutto prende vita sui banchi di scuola a partire da Venezia, e poi si diffonde in altre città, e quindi in scuole di Tunisia, Marocco e Texas - spiega Nadia De Lazzari, curatrice e ideatrice dell’iniziativa - Erano oltre 900 i bambini che, alla presenza delle autorità e dei rappresentati delle religioni cattolica, ebraica e musulmana affollavano il cortile di Palazzo Ducale per l’apertura della mostra a Venezia”. Sono 1.500 i bambini italiani, tunisini, marocchini, texani (anche figli di detenuti) che, contattati dai responsabili dell’associazione Venezia: Pesce di Pace, hanno colorato per la pace e scritto messaggi in più lingue, mentre nove detenuti hanno tradotto e trascritto a mano i pensieri dei piccoli studenti. “Con il loro impegno e la consultazione del vocabolario, della Bibbia, del Corano e della Torah hanno abbattuto, in questo modo, i muri linguistici e avvicinato culture differenti - prosegue De Lazzari. I bambini hanno colorato, a distanza e in tempi successivi, fogli di carta a forma di mondo, suddivisi in tre settori: un alunno ha iniziato a disegnare una parte e ha lasciato gli altri due spazi per i coetanei che hanno continuano e completato l’elaborato”. Sono cinque temi e colori dei 501 disegni a sei mani: l’autoritratto si collega con il rosso; l’amicizia con il verde; la propria città in azzurro; le feste in viola; la chiesa, la moschea, la sinagoga in arancione. Tra i messaggi dei bambini ci sono quello di Alessandro, 10 anni: “Caro amico sei speciale, ti abbraccio con il pensiero”, mentre Gregorio, 9 anni, scrive: “Nella mia scuola è pieno di bambini; ho molti amici ma mi piacerebbe avere un amico come te”. Importante per la riuscita del progetto è stata naturalmente la collaborazione con gli insegnanti, che anche dal punto di vista didattico hanno proposto approfondimenti su temi quali la solidarietà e l’emigrazione, ma anche quella delle ambasciate e dei consolati. Brindisi: al prefetto e al commissario i doni realizzati nel laboratorio del carcere di Vincenzo Maggiore Quotidiano di Puglia, 5 dicembre 2017 Quella di ieri non è stata una giornata ordinaria per la Casa circondariale di Brindisi. I detenuti e il personale impiegato hanno ricevuto la visita del prefetto Valerio Valenti e del Commissario straordinario della città Santi Giuffrè. Alle due cariche istituzionali che operano sul territorio sono stati donati alcuni manufatti realizzati da un gruppo di detenuti che hanno preso parte ad un laboratorio artistico/artigianale sapientemente guidati dai volontari dell’associazione “Rompi le sbarre”. Una realtà, quest’ultima, che da qualche mese collabora con l’istituto nella progettazione di percorsi di inclusione sociale dei detenuti e di promozione delle attività intramurarie. Il tutto, con gli obiettivi di migliorare l’autostima, stimolare le capacità espressive, relazionali e sociali dei detenuti, migliorare la loro condizione di vita in carcere cercando al contempo di facilitarne un futuro reinserimento nella società. “La visita del Prefetto e del Commissario prefettizio rappresenta solo il culmine di un rapporto continuativo e di una sensibilità condivisa - ha dichiarato la dirigente del carcere Anna Maria Dello Preite - siamo lieti di poter ospitare due personalità così importanti all’interno della nostra realtà; siamo lieti di ricevere grande attenzione quando si parla delle criticità che persistono nell’istituto”. La dirigente ha fatto chiaro riferimento ad alcune problematiche storiche, quali il sovraffollamento, la carenza di personale e la mancanza di spazi adeguati. Grande soddisfazione da parte del prefetto Valenti e del commissario Giuffrè che hanno commentato positivamente l’iniziativa. “Il lavoro compiuto dai detenuti è la testimonianza di un impegno e di una volontà di migliorarsi pur affrontando tutte le difficoltà ambientali e personali - ha dichiarato il Prefetto - gli oggetti prodotti attraverso i laboratori hanno un valore importante”. “È questa un’occasione per conoscerci meglio - ha detto il Commissario - con la Casa Circondariale c’è un impegno reciproco, una comunanza di intenti che non si ferma alla manifestazione, ma che sarà di buon auspicio per il futuro”. I manufatti realizzati dai detenuti rappresentano una chiave con il simbolo del capoluogo adriatico ed un fermacarte con un bassorilievo del capitello della Colonna Romana attualmente custodito nella sala della ex Corte di Assise di Brindisi. Saranno l’omaggio che il Prefetto ed il Commissario offriranno alle delegazioni in visita alla città. In cella, cercando squarci di luce di Viviana Daloiso Avvenire, 5 dicembre 2017 Un volontario racconta gli incontri con i detenuti a Napoli, insieme alla Comunità di Sant’Egidio. “E adesso la palla passa a me” è il titolo del libro scritto da Antonio Mattone (Guida editori) presentato ieri sera alla libreria Feltrinelli di Milano. Dieci anni di galera. Li ha trascorsi da volontario Antonio Mattone, entrando e uscendo dagli inferni di Poggioreale, Secondigliano, Nisida con la Comunità di Sant’ Egidio. I letti a castello a tre piani coi detenuti appiccicati al soffitto, le celle da 16 persone e il caldo insopportabile, malati e folli, il mondo stravolto dei baby boss. Non ci fossero stati Enzo, Gianni, Ciro, la speranza sarebbe finita calpestata come l’ umanità e i diritti di chi sta dietro le sbarre. I colpevoli che l’ Italia rinchiude e poi dimentica, senza appello. Loro invece ad Antonio hanno insegnato che dall’ inferno si torna: per ricominciare a lavorare come carrellisti e appena si ha tempo andare a tagliare i capelli agli anziani nelle case di cura. Per sbagliare di nuovo magari e poi risollevarsi. Per guardare al futuro fiduciosi ripetendo “E adesso la palla passa a me”. Si intitola proprio così il libro di Antonio Mattone (Guida editori), presentato ieri sera alla libreria ‘Feltrinellì di Milano alla presenza di don Virgilio Balducchi, Lucia Castellano e Giuliano Pisapia. Un viaggio intenso e crudo nella realtà carceraria italiana. Dimenticate i grandi discorsi sul sovraffollamento e la disorganizzazione del sistema: c’ è la quotidianità della detenzione, in queste pagine, col caldo insopportabile e la legge crudele della vendetta su chi ha compiuto un reato più sporco, c’ è la gioia per gli Opg che chiudono e il dramma di chi muore di febbre, i governi che passano e le riforme che falliscono mentre il carcere rimane uguale a se stesso e poi, lentamente, comincia a cambiare. Gli articoli di Mattone (molti dei quali pubblicati sul quotidiano Il Mattino ) sono squarci di luce nelle tenebre della galera, che illuminano il periodo che va dal 2010 al 2016. Anni in cui da Poggioreale è passato il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, papa Francesco, persino Gianni Morandi. Il loro incontro coi detenuti, il significato della loro presenza, i gesti e le parole di quei momenti speciali vengono raccontati per la prima volta attraverso gli occhi di chi li ha vissuti lontano da telecamere e cronisti. E poi le storie, i piccoli miracoli, come quello degli assassini tra i bambini di Nisida che imparano il valore degli altri servendo a tavola i clochard o gli internati di Secondigliano che in gita vedono il mare dopo vent’ anni. “Da qualche parte bisogna pur ricominciare - scrive Antonio - forse si potrebbe ripartire proprio dalle carceri”. Frase che piace anche al ministro della Giustizia Andrea Orlando, che del libro ha scritto la prefazione. La gabbia d’acciaio delle (vere) fake news di Angelo Panebianco Corriere della Sera, 5 dicembre 2017 Alcune di asserzioni false appartengono alla categoria “come imbrogliare i giovani”. La più spudorata è quella secondo cui avremmo in Italia “pochi laureati”. Detta così è una bugia. A dimostrazione del fatto che le fake news non sono una invenzione recente, possiamo identificare una serie di asserzioni false che, a volte da decenni, vengono riproposte continuamente di fronte al pubblico. Queste falsità sono diventate luoghi comuni, acriticamente assunti come veri. Sono, almeno in parte, frutto di automatismi mentali, di cortocircuiti cognitivi. Per lo più, le asserzioni false circolano per una combinazione di interessi (qualcuno ha interesse a che il falso venga creduto vero) di chi le ribadisce e della pigrizia mentale di chi le ascolta. Faccio alcuni esempi scelti per la loro persistenza e per gli effetti negativi che tali falsità esercitano sulla nostra vita pubblica. Se ne potrebbero scegliere anche altri. Alcune di queste asserzioni false appartengono alla categoria “come imbrogliare i giovani”. La più spudorata è quella secondo cui avremmo in Italia “pochi laureati”. Detta così è una bugia. Abbiamo troppi laureati in giurisprudenza e troppo pochi laureati in fisica. Più in generale: troppi laureati in materie umanistiche, e in scienze umane, e pochi laureati nelle scienze hard. Questa distorsione penalizza i giovani laureati alla ricerca di una prima occupazione. Per eliminare la distorsione bisognerebbe introdurre il numero chiuso in tutti i corsi di laurea umanistici e di scienze umane. In modo da dare agli studenti liceali una bussola per orientare le scelte future. I più dotati in materie umanistiche sapranno che, se quella è la loro vocazione, essi dispongono di buone chance per superare lo sbarramento del numero chiuso. Gli altri, se vogliono accedere all’Università, dovranno dedicarsi con impegno, già al liceo, allo studio della matematica e delle discipline scientifiche. Avremmo allora, in prospettiva, meno laureati(ma di migliore qualità)nelle umanistiche e più laureati nelle scientifiche. Mettendo fine a una distorsione che penalizza i giovani (e,per giunta, non mette a disposizione del mondo produttivo abbastanza “capitale umano”). Ma le autorità pubbliche, un po’ per quieto vivere, un po’ per disinteresse per il futuro dei giovani (e un po’ anche per un antico pregiudizio italico contro la formazione scientifica) continuano a raccontare che abbiamo, semplicemente, “pochi laureati”. Sembra quasi che l’ideale proposto sia quello di un Paese che, un giorno, possa vantare, a ogni semaforo, un lavavetri in possesso di una laurea qualunque. Sotto la rubrica “come imbrogliare i giovani”, stanno anche altri luoghi comuni, altre falsità di uso corrente. Come quella di chi invoca “lavoro” senza mai usare la parola “crescita”. Come se non fosse la crescita economica a generare lavoro. Si capisce che il lavoro a cui pensano costoro sia il lavoro improduttivo, fare buche e poi riempirle con i soldi dei contribuenti. Ancora falsità, tipiche di chi, in un Paese in accelerato declino demografico, è in realtà interessato solo a spostare risorse da impieghi produttivi (quelli che danno lavoro) alle pensioni. In omaggio all’idea che questo sia e debba restare “un Paese per vecchi” (e che i giovani si arrangino). Ma anche chi parla di crescita non ha spesso le carte in regola. Per avere crescita bisogna fare due cose: abbassare le tasse e spezzare la cappa burocratica che blocca lo sviluppo. Chi propone di abbassare le tasse, spesso, dice la cosa giusta ma in modo sbagliato. Non si preoccupa dei vincoli. Parla come se il nostro debito pubblico non lo riguardasse. Chiunque invochi la riduzione delle tasse senza spiegare come fare tornare i conti fa promesse irrealizzabili, imbroglia gli elettori. È interessante notare che anche chi parla di crescita e di riduzione delle tasse, poi tace a propositivo dell’altro grande ostacolo che la blocca: la “gabbia d’acciaio” burocratica che imprigiona e soffoca il Paese. Si capisce perché tace. Spezzare quella gabbia di acciaio significa scontrarsi con corporazioni burocratiche potenti e con le magistrature che le proteggono, con gruppi il cui status e i cui privilegi dipendono dalla difesa e dal mantenimento di quella gabbia. È un altro luogo comune: gogna e pubblico ludibrio, ormai da molto tempo, colpiscono i parlamentari,i politici, da tutti conosciuti. Essi sono certamente colpevoli ma loro vera colpa non viene mai identificata per ciò che è. Essi sono colpevoli di essere diventati i reggicoda, e i cavalier serventi, di gruppi, annidati nella pubblica amministrazione e nelle magistrature di ogni tipo: gruppi che, sfruttando varie circostanze, ormai da alcuni decenni, hanno tolto il bastone del comando alla politica, si sono impadroniti di un potere decisionale che un tempo apparteneva al regime rappresentativo e ai suoi esponenti. Da ultimo, cito una fake news che ha anch’essa conseguenze negative: di solito è utilizzata per delegittimare agli occhi del pubblico una legge elettorale appena approvata o una proposta di legge elettorale in discussione. Consiste nel pretendere di sapere, alla luce della distribuzione dei voti nelle precedenti elezioni(quando era in vigore la legge elettorale X) come voteranno gli elettori(se e quando sarà in vigore la legge elettorale Y). Peccato che ciò non sia possibile. Se cambia la legge elettorale, cambia l’offerta politica(i gruppi politici si aggregano o si disaggregano in modo diverso dal passato). E se cambia l’offerta politica cambiano le scelte degli elettori. A differenza dei sondaggi che, se sono fatti bene, sono un’utile indicazione sugli umori del Paese nel momento della rilevazione, le proiezioni sul voto con le nuove regole a partire dal voto con le vecchie sono sbagliate per definizione. Non c’è nulla di male. Basta solo avvertire il pubblico. Biotestamento e Ius soli, al senato si gioca la partita delle alleanze di Eleonora Martini Il Manifesto, 5 dicembre 2017 Oggi riunione dei capigruppo. Campo progressista vuole la calendarizzazione della legge sulla cittadinanza per concludere l’accordo con il Pd. Fari puntati sulla riunione dei capigruppo del Senato, prevista per oggi alle 13, che deve decidere quali leggi calendarizzare nella manciata di sedute d’Aula rimaste prima dello scioglimento delle camere, nella finestra che si è aperta in questa settimana o subito dopo (ma è decisamente meno probabile) la conclusione dell’iter della legge di Bilancio. Testamento biologico, innanzitutto, sul cui testo i dem sembrano aver sciolto ogni riserva, ma anche la legge sulla cittadinanza - alla quale Pisapia ha subordinato l’accordo tra Campo progressista e Pd, altre tre testi sui quali insiste una larga o totale maggioranza (modifica del regolamento del Senato, protezione dei testimoni di giustizia, orfani di crimini domestici), e la legge sui vitalizi richiesta a gran voce dal M5S. Mettiamo subito in chiaro l’infondatezza dei rumors circolati ieri su alcuni quotidiani mainstream e megafonati da Forza Italia, secondo i quali “il presidente del Senato, Pietro Grasso, metterà all’ordine del giorno di Palazzo Madama lo ius soli e il biotestamento - parola del capogruppo berlusconiano Renato Brunetta - e metterà prima lo ius soli e poi il biotestamento per fare l’ennesimo dispetto al Pd e a Renzi”. Infondate non solo perché smentite dagli stessi esponenti della neonata lista “Liberi e uguali”, entrata ovviamente nel cono delle fake news, ma anche perché il presidente del Senato può, in base al regolamento, soltanto proporre (e probabilmente lo farà) la calendarizzazione del testo sullo Ius soli e Ius culturae, ma poi la decisione finale spetta ai capigruppo riuniti. E qui la faccenda si complica. “Il biotestamento è una cosa che si può portare a casa, c’è meno rischio. Poi ci giochiamo la partita dello Ius soli, dove i numeri sono più incerti”, ha affermato ieri dai microfoni di Radio Capital il ministro della Giustizia Andrea Orlando. “Spero che questa sia la volta buona per l’approvazione del biotestamento. Mio figlio ha lottato tanto per questo”, ha ricordato ieri Carmen Antoniani, la madre di Dj Fabo, morto suicida in Svizzera chiedendo aiuto all’Associazione Coscioni. In effetti solo una piccola minoranza dei senatori è rimasta ad opporsi strenuamente, coltello ai denti, al testo che porta la firma del M5S e che norma le Dichiarazioni anticipate di trattamento in modo ben più arretrato delle leggi sul fine vita in vigore in altri Paesi europei. La parole di Bergoglio hanno infatti rotto gli indugi dei dem di cultura cattolica e convinto perfino i centristi di Ap a lasciare “libertà di coscienza”. L’ostacolo dei 1500 emendamenti presentati in Aula si può superare - secondo le previsioni - in tre sedute, senza il ricorso alla fiducia, se la conferenza dei capigruppo deciderà di accorpare gli emendamenti (“canguri”) e usare la cosiddetta “ghigliottina”, la votazione a data certa che abbatte ad un certo punto, in modo tranchant, la discussione. Ieri però Campo progressista ha deciso di vendere cara l’alleanza con il Pd - “non ancora raggiunta”, ha assicurato Pisapia - e ha lanciato la campagna “Portate l’Italia in Aula”, per sollecitare la calendarizzazione anche dello Ius soli temperato. “Vedremo se ci saranno i numeri, e poi ci sono anche altre leggi ferme a fine legislatura - ha affermato Matteo Renzi su RTL 102.5 - Ma non è che io decido, non è come prima che avevamo la maggioranza, il partito, il governo, e abbiamo fatto cose che non si erano mai fatte prima”. Una calendarizzazione però è sempre possibile, spiana la strada e senza impegno: già in passato, infatti, lo Ius soli è rimasto per molte settimane solo una voce sul calendario dei lavori. Ventimiglia, confine senza diritti: migranti in condizioni disumane ed espulsione di minori La Repubblica, 5 dicembre 2017 Le testimonianze e il lavoro di Oxfam e Diaconia Valdese all’accampamento informale lungo il fiume Roia. “Inammissibile il respingimento dei minori migranti al confine italo-francese: appello agli Stati membri per il rispetto della normativa europea e per la creazione di canali sicuri per le persone in fuga”. “Ho provato 10 volte ad attraversare la frontiera con la Francia nelle ultime settimane, 8 volte a piedi e 2 volte in treno. Ogni volta la polizia francese mi ha fermato, ammanettato. Più volte mi hanno picchiato e ogni volta rimandato a piedi in Italia”. Così Sheref (nome di fantasia), 16 anni, fuggito da solo dal Ciad, dove guerra e carestia stanno generando una delle più gravi emergenze umanitarie del mondo, racconta la sua storia, mentre si accinge ad affrontare un’altra notte al freddo dell’inverno, senza sapere nulla di ciò che gli riserverà il domani. L’inferno che ha dovuto attraversare in Libia, dove si è imbarcato per raggiungere l’Europa, non è poi tanto lontano. L’unità mobile di Oper Europe. Quella di Sheref è solo una delle storie raccolte nelle prime settimane di lavoro dell’unità mobile di Open Europe a Ventimiglia, dove centinaia di migranti, per lo più fuggiti da paesi in guerra (Sudan, Iraq, Afghanistan, Eritrea e altri ancora), si ritrovano a vivere sotto un cavalcavia, lungo il fiume Roia, fuori dal sistema di accoglienza per i richiedenti asilo. Indipendentemente dalla loro storia, dalla provenienza, dalla loro età. Costretti in un “limbo” dove sono fantasmi, in una condizione di spaesamento, isolamento e abbandono. La gran parte tenta di attraversare il confine con la Francia, mettendo a rischio la propria vita lungo sentieri di montagna, la ferrovia o i cavalcavia dell’autostrada. Lungo il fiume Roia oltre 200 migranti allo stremo. A Ventimiglia - dove un migrante su tre è minorenne - è in atto una vera e propria emergenza umanitaria che dopo più di un anno di lavoro in Sicilia, ha portato Oxfam e Diaconia Valdese ad intervenire al confine Italia-Francia per garantire diritti e beni di prima necessità a centinaia di migranti, costretti a sopravvivere in condizioni disumane. Sono circa 700 i migranti che si trovano qui nel pieno dell’inverno: 500 vivono nel centro di transito gestito dalla Croce Rossa, mentre oltre 200 dormono all’aperto nel campo improvvisato lungo il greto del fiume Roia. Tra loro circa 1 su 3 sono minori non accompagnati, che dopo non aver ricevuto la protezione a cui hanno diritto in Italia, si vedono respinti con brutalità dalle autorità francesi. Molte donne con figli piccoli. “Ogni giorno incontriamo ragazzi come Sheref, respinti dalla Francia. - raccontano Chiara Romagno responsabile dell’intervento di Oxfam Italia a Ventimiglia e Simone Alterisio, operatore della Diaconia Valdese - Ci sono anche madri con figli molto piccoli, magari a loro volta fuggite quando erano minorenni da conflitti, come quello in Somalia, che si ritrovano a vivere in una totale assenza di diritti e servizi essenziali. Una condizione non lontana da quella infernale della loro provenienza. A loro ogni giorno rivolgiamo tutti i nostri sforzi, distribuendo coperte, scarpe, cappelli per affrontare il freddo della notte”. Le contraddizioni dell’accoglienza. L’unità mobile di Open Europe, costituita da due operatori socio-legali e un mediatore linguistico-culturale, oltre a distribuire kit di prima necessità ai migranti, identifica i casi di abuso soprattutto verso i soggetti più vulnerabili. Fornendo, là dove necessario, assistenza legale per presentare ricorso verso il decreto di respingimento a supporto di un’eventuale richiesta di protezione internazionale. Vengono inoltre date informazioni sui servizi presenti sul territorio e i rischi connessi all’attraversamento della frontiera italo-francese. “Il progetto Open Europe a Ventimiglia non risolverà i problemi di tutti - ammette il segretario esecutivo della Diaconia Valdese, Gianluca Barbanotti - ma, a volte, è importante essere presenti e cioè essere dove appaiono con vivida concretezza le contraddizioni dell’accoglienza nel momento in cui queste si manifestano alle persone che cercano un futuro migliore. Fornire consulenza legale o un supporto per comunicare con le proprie famiglie lontane, è un’occasione per significare la solidarietà nostra, e di conseguenza di tutte le persone che hanno ancora a cuore i diritti delle persone e non si sono lasciati sopraffare dalla paura”. L’appello alla Ue e all’Italia. “I minori migranti non accompagnati hanno diritto di chiedere protezione internazionale in qualunque Stato membro dell’Unione europea si trovino. A stabilirlo è una sentenza del 2014 della Corte di Giustizia, per questo i respingimenti dalla Francia sono un abuso intollerabile - afferma il direttore dei Programmi in Italia di Oxfam, Alessandro Bechini - Chiediamo quindi alla Commissione europea e agli Stati membri che vengano messe in atto tutte le procedure affinché i diritti - in particolare di minori fuggiti da guerre, persecuzioni e povertà - vengano sempre garantiti. In questa direzione anche l’Italia può fare la sua parte: ad esempio riducendo i tempi necessari per le procedure di ricongiungimento familiare e garantendo così canali di accesso sicuro verso l’Europa”. Migranti. Via al piano per svuotare i Centri libici: “prima donne, bambini e malati” di Leo Lancari Il Manifesto, 5 dicembre 2017 I primi a essere trasferiti saranno i soggetti più deboli: donne e bambini, ma anche anziani e famiglie e le vittime di violenze. Comincia a delinearsi il piano dell’Onu per liberare i migranti detenuti nei campi libici. Ieri ad Adis Abeba si è tenuta una riunione operativa tra Unione africana, Unione europea, l’Alto commissariato Onu per i rifugiati e l’Organizzazione internazionale per le migrazioni. Vertice che è servito a mettere a punto le prime mosse del piano stabilito la scorsa settimana nel corso del vertice di Abidjan, in Costa d’Avorio. Secondo stime confermate sia dall’Onu che dall’Unione africana in Libia si troverebbero almeno 500 mila migranti, distribuiti in più di 40 campi, Individuarli tutti è praticamente impossibile visto che la maggior parte di loro si trova nelle mani delle milizie. Il piano prevede che eritrei e somali - due nazionalità che possono accedere alla protezione internazionale - vengano trasferiti a Tripoli in un centro che l’Unhcr conta di riuscire ad aprire entro febbraio. Potrà ospitare fino a mille persone e avrà al suo interno una clinica e gli uffici per procedere all’esame delle richieste di asilo. L’Unhcr spera di convincere le autorità libiche a permettere ai migranti di muoversi liberamente anche all’esterno del centro dopo aver ottenuto un permesso. Per quanto riguarda i migranti, il piano prevede la possibilità di intercettarli direttamente nei dodici punti in cui vengono sbarcati dopo essere stati fermati in mare dalla guardia costiera libica, evitando così che siano riportati nei centri di detenzione. I migranti avvicinati verranno poi trasferiti in un Paese terzo - come ad esempio la Nigeria dove nei giorni scorsi è arrivato un piccolo gruppo di 25 persone - dove vengono identificati e rimpatriati. La priorità verrà data a donne sole, bambini non accompagnati, anziani, malati, famiglie, persone traumatizzate da violenze, stupri e torture. Il problema è che i funzionari dell’Unhcr e dell’Oim possono entrare solo nei centri gestiti dal governo (e neanche in tutti), ma nulla possono fare in quelli in mano alle milizie. Un punto sottolineato ieri da Amnesty International estremamente critica verso l’accordo di Abidjan. “Il governo (libico, ndr) non gestisce i campi né ha alcuni influenza su di essi. Questo significa che è praticamente impossibile far uscire tutti da lì”, ha denunciato Franziska Vilmar, esperta di diritto d’asilo. “Due settimane di preoccupazioni per le aste degli schiavi sono state seguite da annunci volti a mantenere una pretesa di interesse umanitario, conservando il principale obiettivo dell’Europa. la chiusura del mediterraneo agli arrivi”. Venezuela. Decapitazioni, festini narcos e denutrizione: tra i “dannati” delle carceri di Filippo Femia La Stampa, 5 dicembre 2017 Il romanzo-reportage di Christiana Ruggeri denuncia l’inferno in cui vivono i detenuti. Il sovraffollamento delle carceri venezuelane è stato ripetutamente denunciato da associazioni dei diritti umani. Quando, nel 2015, Franklin Hernández Quesada deve fuggire dalla polizia, si rifugia tra i peggiori criminali del Paese, nel posto più sicuro che conosce: un carcere. Non una prigione qualsiasi, la Penitenciaria General de Venezuela. Per tutti PGV, una struttura in mano a narcos e spietati assassini, dove la polizia non mette piede. Il carcere di San Juan de los Morros (140 km a sud ovest di Caracas), è stato costruito negli Anni ‘40 per ospitare 700 detenuti, ma è arrivato a ospitarne 4 mila. È qui che trascorre l’incubo dei protagonisti di “Dannati” (Infinito edizioni, 192 pagine, 14 euro) di Christiana Ruggeri, giornalista del Tg2. Un viaggio a metà tra romanzo e reportage, che racconta l’inferno del “carcere più pericoloso del mondo”. Celle luride, un abisso di disperazione e violenza dove finisce per una storia di droga anche l’italiano Rico, napoletano di 22 anni, tradito dall’amore per i soldi e le belle ragazze. Fin dai primi istanti capisce che la PGV è una giungla dove l’unica legge è quella del più forte. Se i pranes (boss) come Franklin - soprannominato Massacro - annusano la tua paura, è la fine. Decidono tutto loro: chi sopravvive e chi no. Uccidono anche solo per noia. Come testimonia la fossa comune ritrovata nel 2017, con 12 corpi (ma solo 9 teschi). E controllano tutto: dai letti nelle celle al cibo. La PGV non lascia scampo. “Ci sono tre strade - dice il protagonista. Ci provi a oltranza, ti ammazzi, oppure ti fai ammazzare. Dai boss o dalle droghe”. E dopo una tentazione iniziale di lasciarsi andare, Rico scopre la sua missione: raccontare le atrocità che avvengono nel carcere. “Potevo essere utile. Per la prima volta nella mia vita, avevo un ruolo”. Così inizia a inviare le sue “cartoline dall’inferno”, scritte di nascosto su un computer. Le affiderà, all’interno di una penna Usb, a Neyda e al suo velo bianco, l’unico barlume di speranza in mezzo a tanto sudiciume. La suora è l’unico essere umano rispettato da tutti nella PGV: visita da 18 anni i detenuti senza che nessuno l’abbia mai sfiorata. È soprannominata la “goccia bianca”, “un soffio divino scampato alla furia del diavolo che vive tra di noi - dice il protagonista - una guerrigliera di speranza”. Le pagine ripercorrono la denuncia di Rico (personaggio di fantasia) raccontando fatti reali avvenuti nella PGV. Come la granata esplosa durante una delle sontuose feste organizzate nella cella di Franklin “Massacro” con droga e prostitute. O la tassa che i detenuti devono pagare ogni settimana per sopravvivere. Oppure il famigerato “Cartel de los soles”, organizzazione di narcos che sarebbe stata fondata da alcuni generali dell’esercito. Il libro di Christiana Ruggeri è un viaggio agli inferi che si consuma nell’indifferenza generale del Venezuela. E se, per dirla con le parole di Rico, si ha la fortuna di uscire da quell’inferno “ci sono troppo dolore, vergogna e devastazione per riguadagnare un brandello di vita. E spesso le squadre della polizia ti fanno secco poche ore dopo la rinnovata libertà”. Nel corso del 2017 la PGV è stata chiusa per sempre. Ma le condizioni carcerarie in Venezuela continuano a essere drammatiche. Solo un terzo dei detenuti ha ricevuto un regolare processo, gli altri restano in attesa in condizioni disumane. Ma spesso non sopravvivono. Benvenuti all’inferno. Gran Bretagna. Running di sabato in prigione, così la corsa prepara alla libertà di Enrico Franceschini La Repubblica, 5 dicembre 2017 L’iniziativa del supervisore di educazione fisica nel carcere di Haverigg, in Cumbria, che ha portato all’interno del penitenziario la “Parkrun” che dal 2004 si corre in mezzo mondo. Un progetto che aiuta a programmare il reinserimento dei detenuti nella società. Un sabato mattina del 2004 un gruppetto di amici si diede appuntamento in un parco londinese per fare una corsa di 5 chilometri. Da allora questa abitudine ha un nome in codice, “Parkrun”, ed è diventata un fenomeno internazionale. Adesso, per la prima volta, la “corsa nel parco” è entrata anche in una prigione. È successo nel carcere di Haverigg, in Cumbria (nord-ovest dell’Inghilterra), su iniziativa del supervisore di educazione fisica dell’istituto di pena, Shane Spencer: circa metà dei detenuti non partecipavano alle attività nella palestra della prigione e lui cercava un mezzo per coinvolgerli di più. Alla prima corsa di 5 km, qualche settimana fa, hanno partecipato in 20. E da quel momento la “Parkrun” del sabato è continuata ogni sabato. Anche dietro le sbarre. Naturalmente non è una vera corsa in un “parco”, sarebbe troppo rischioso fare uscire i carcerati. I 5 km sono intorno al campo sportivo della prigione. Ma visto che coincide con la “Parkrun” all’esterno, Spencer ha deciso di chiamarla così lo stesso. Primo, perché alla stessa ora, in un parco vero, possono andare a correre per 5 km anche i familiari dei detenuti: e così c’è qualcosa che li unisce anche se sono separati. Secondo, perché i detenuti, allenandosi alla corsa in carcere, si preparano mentalmente per quando potranno farla davvero in un parco, una volta riacquisita la libertà. E questo, secondo educatori ed esperti, li aiuta a programmare il reinserimento nella società. Non è la prima volta in assoluto che si organizza una corsa in carcere. Paolo Maccagno, un antropologo italiano dell’università di Aberdeen, ne ha promossa una di 10 km un anno e mezzo fa dentro al penitenziario di Grampian, a Peterhead, nella Scozia orientale. Un progetto che “Familiesoutside”, una ong di Edimburgo, intende proseguire ed espandere in altre prigioni. Ma quella del carcere di Haverigg è considerata la prima “Parkrun” del sabato al mondo che si è svolta in una prigione. “Lo sport offre ai detenuti una fuga dalla deprimente realtà del carcere ma li aiuta anche a uscire dal mondo del crimine e impegnarsi in un’opera di rieducazione”, commenta sul Guardian la professoressa Rosie Meek, docente della School of Law della Royal Holloway University e autrice di “Sport in prison”, un libro sull’argomento. Non tutte le prigioni possono offrire una “Parkrun” ai propri detenuti: occorrono lo spazio adatto e le necessarie condizioni di sicurezza. Quella di Haverigg, in Cumbria, ha l’uno e le altre, avendo un campo da calcio con pista di atletica e detenuti che scontano mediamente gli ultimi 2-3 anni della loro pena. Cioè intravedono il ritorno alla libertà. E non vedono l’ora di correrci incontro. Iraq. La Corte penale internazionale riapre il caso delle violenze dei soldati britannici globalist.it, 5 dicembre 2017 La Corte penale internazionale ritiene che ci sia una “base ragionevole” per credere che i soldati britannici si siano resi responsabili, in Iraq, di crimini di guerra contro detenuti. “A seguito di una valutazione approfondita, in fatto e in diritto, delle informazioni disponibili, c’è una base ragionevole per credere che i membri delle forze armate britanniche abbinano commesso crimini di guerra in relazione alla giurisdizione della Corte nei confronti dei detenuti”, ha fatto sapere la procura della Cpi. Il pubblico ministero, Fatou Bensouda, ha riaperto nel 2014 le indagini preliminari, passo preliminare prima del possibileavvio di un’inchiesta. Gruppi di difesa dei diritti umani ed avvocati avevano sostenuto che almeno 1.071 detenuti iracheni sono stati torturati e maltrattati tra il marzo 2003 e dicembre 2008, aggiungendo che il personale militare britannico era responsabile della morte di 52 persone che erano in loro custodia durante lo stesso periodo. Comunque, un gruppo di avvocati che avevano mosso queste accuse e che, nel frattempo, hanno interrotto la loro attività nell’ambito egli episodi denunciati, erano stati pesantemente criticati per i metodi usati durante l’inchiesta. Ma l’ufficio del pubblico ministero ritiene che le dichiarazioni personali raccolte da questi avvocati “potrebbero essere considerate abbastanza credibili se fossero corroborate con materiale”, come documentazione sulla detenzione, certificati medici e fotografie. Un primo esame preliminare era stato chiuso nel 2006 dall’allora procuratore Luis Moreno-Ocampo che non aveva ritenuto di dovere aprire una indagine su quanto accaduto in Irak ed addebitato a militari britannici, in quanto aveva ritenuto non sufficienti le prove in suo possesso. All’inizio di quest’anno, il governo britannico ha deciso di sopprimere l’organismo che doveva condurre indagini sulle accuse di violazione dei diritti umani da parte dei soldati britannici in Iraq, lasciando centinaia di casi irrisolti. Bahrain. La repressione contro gli sciiti con la benedizione di Trump di Mauro Pompili La Repubblica, 5 dicembre 2017 La denuncia di Amnesty International e di Human Rights Watch. La piccola monarchia, governata da una famiglia sunnita, in un Paese con il 65% di sciiti. In Bahrain continua la repressione contro l’opposizione politica e religiosa. Il leader del principale partito di opposizione sciita, lo sceicco Ali Salmane, è stato recentemente incriminato dalla procura di Manama per spionaggio con il Qatar. È accusato di avere legami con “un Paese straniero... e di agire per sovvertire l’ordine costituito in Bahrain e danneggiare i gli interessi nazionali”. È accusato inoltre di “aver rivelato a un Paese straniero informazioni che possono danneggiare lo Stato e la reputazione del Bahrain”. Negli stessi giorni altri dieci esponenti sciiti sono stati condannati a dieci anni di carcere e privati della nazionalità per “complotto terroristico”. Mentre altre 19 persone sono state condannate per “collaborazione con l’Iran per rovesciare il governo”. Una famiglia sunnita controlla un Paese con il 65% di sciiti. Il piccolo regno, una monarchia costituzionale ereditaria, è guidata dalla famiglia sunnita Khalifa, anche se la popolazione musulmana è per il 65% sciita. La repressione è iniziata nel febbraio 2001 quando, sull’onda delle cosiddette “primavere arabe”, anche in Bahrain iniziarono le rivolte. Al centro delle proteste, la denuncia delle discriminazioni contro la comunità sciita. Le dimostrazioni furono represse dal regime con l’aiuto di forze inviate dall’Arabia Saudita. Nel luglio 2016, il partito guidato da Ali Salmane, “al-Wefaq” era stato sciolto dal tribunale del Bahrain. Ali Salmane era stato già arrestato dalle autorità nel dicembre 2014 ed era stato condannato a nove anni di carcere. Fuorilegge anche leader sunnita di Waad. Poche settimane fa è stato messo fuorilegge anche il “Waad”, movimento alleato di “al-Wefaq”. Il religioso Issa Qassim, massima autorità spirituale sciita del Paese, è stato privato della sua nazionalità, nel 2016, su richiesta del Ministero degli Interni. La repressione del regime non riguarda solo la comunità sciita. Il leader sunnita di Waad, Ibrahim Charif, è stato arrestato nel 2016, con l’accusa di “incitamento all’odio”, per la sua continua richiesta di maggiore democrazia nel Paese. A maggio Amnesty International ha denunciato lo scioglimento dei principali partiti politici di opposizione. “Il Bahrain si sta muovendo verso una repressione totale dei diritti umani”, ha detto Lynn Maalouf, direttore presso l’ufficio regionale di Amnesty International a Beirut. “Lo scioglimento di “Waad” è un attacco alla libertà di espressione e associazione. Dimostra ancora una volta che le autorità non hanno intenzione di mantenere gli impegni presi a favore del progresso dei diritti umani”. Denunciate organizzazioni per i diritti umani. Nella stessa direzione vanno le denunce di altre associazioni per i diritti umani. “Per anni le autorità del Bahrein hanno soffocato la società civile, ma nel 2016 hanno deciso di ridurla al silenzio”, ha dichiarato Joe Stork, vice direttore della divisione Medio Oriente di “Human Rights Watch”. “La stabilità a lungo termine del Bahrain dipende da un processo di riforma politica che rispetta i diritti umani fondamentali, ma per il momento purtroppo sta avvenendo il contrario”. Anche la mancanza di risposta internazionale alla repressione nel paese è stata ripetutamente denunciata dalle organizzazioni umanitarie. Il via libera di Donald Trump. Nel marzo 2017, il presidente USA Donald Trump aveva detto al re Hamad del Bahrain; “Non ci sarà alcuna pressione sul Paese con la mia amministrazione”. La piccola monarchia sembra aver interpretato questa dichiarazione come una luce verde per continuare la sua politica di repressione. C’è un chiaro segnale che quella di re Hamad sia l’interpretazione corretta. Nonostante il piccolo regno ospiti la “Quinta Flotta” statunitense, Barack Obama aveva congelato la vendita degli aerei militari F-16, considerando che Manama non aveva fatto abbastanza progressi nel campo dei diritti umani. L’amministrazione Trump a settembre è tornata su questa decisione per autorizzare la vendita. Yemen. La svolta nel baratro di Farian Sabahi Il Manifesto, 5 dicembre 2017 Circolano sul web, rimbalzano su twitter. Sono le immagini di Ali Abdallah Saleh, l’ex presidente yemenita ucciso negli scontri con i ribelli Huthi. La sua colpa? Aver tradito gli Huthi offrendo ai sauditi la riconciliazione. In cambio della fine dei bombardamenti e del blocco aeronavale che impedisce l’ingresso nel paese di viveri e medicinali di estrema necessità. Capo di stato dal 1978 al novembre 2011, Saleh era stato cacciato dalla primavera araba e la presidenza era passata al suo vice, Mansour Hadi. Tre anni fa, Saleh si era alleato agli Huthi nella speranza di tornare al potere ma negli ultimi tempi tra di loro c’erano state tensioni. In diretta tv, sabato Saleh aveva offerto ai sauditi la possibilità di voltare pagina a condizione che mettessero fine ai bombardamenti e all’embargo. Una proposta, a cui erano favorevoli i capi di numerose tribù, ragionevole dopo due anni e mezzo di guerra, 10mila morti civili e un’epidemia di colera che colpisce 900mila persone. E infatti nei giorni scorsi la popolazione di Sanaa si era schierata con l’ex presidente: non per simpatia, quanto per i danni causati dalla guerra e per la mancanza di cibo, luce ed acqua. Traditi da Saleh, gli Huthi erano però consapevoli che a pagare il prezzo più alto del cessate il fuoco sarebbero stati loro, gli sciiti alleati dell’Iran: i dissidenti e gli oppositori arrestati dalle forze emiratine nel sud dello Yemen vengono torturati sulla graticola. Anche per questo, gli Huthi hanno deciso di non mollare. Mercoledì notte è scoppiata la guerriglia urbana. A dare manforte agli uomini di Saleh, è stata l’aviazione della coalizione guidata dai sauditi: 125 morti, 238 i feriti. Tra i due fuochi, i ribelli Huthi hanno preso di mira la residenza di Saleh. Morto lui, a Sanaa non resta nessuno dei vertici del Congresso generale del popolo, il suo partito. Nemmeno il figlio, che si trova a Riad. Ora, è possibile una rappacificazione interna, attorno agli Huthi. Ma è anche prevedibile un aumento dei bombardamenti della coalizione saudita con armi di ultima generazione made in Usa e una successiva radicalizzazione estrema nello Yemen del nord. Nel sud del paese, intanto, non è consentito al presidente Mansour Hadi di fare ritorno. A impedirlo sono gli Emirati, che non hanno alcuna intenzione di andarsene sebbene nel sud dello Yemen non ci siano gli Huthi e quindi non ci sarebbe motivo di restare. Ad Aden svetta la bandiera degli Emirati e ci sono i poster degli emiri e non certo di Mansour Hadi, presidente riconosciuto dalla comunità internazionale. Sono gli Emirati a controllare il porto e l’aeroporto di Aden, le prigioni e i campi di addestramento. Al tempo stesso, corre voce che gli Emirati vogliano trasformare l’isola di Socotra in un resort a cinque stelle. In un prossimo futuro, la partizione dello Yemen è quindi evidente, anche se bisognerà fare i conti con la presenza sia di al-Qaeda sia dell’Isis. In questo quadro complesso, è da escludersi un sostegno diretto da parte delle forze armate di Teheran: gli iraniani non hanno soldati in Yemen, non hanno impegnato l’aviazione nella penisola araba e non hanno alcuna intenzione di soccorrere gli Huthi che sono sì sciiti ma sono arabi e appartengono alla setta più vicina al sunnismo. In Yemen come altrove in Medio Oriente, la dicotomia tra sciiti e sunniti non spiega la complessità e in particolare due fattori. Il primo è l’emancipazione cercata in questi decenni dalle comunità sciite del Medio Oriente. Ricerca vana nel caso del Bahrein, dove la primavera araba è stata soffocata dai carri armati sauditi con la connivenza dell’Occidente perché nell’arcipelago si corre la Formula Uno e a cinque minuti da piazza delle Perle, nella capitale Manama, è ormeggiata la quinta flotta statunitense. Ricerca vana anche nella regione orientale dell’Arabia Saudita ricca di petrolio, dove si concentra il 15% della popolazione saudita che professa l’Islam nella declinazione sciita. Il secondo fattore di complessità è la rivalità tra attori locali e in particolare tra l’Arabia Saudita e la Repubblica islamica dell’Iran. Nel caso dello Yemen, se l’Iran ha concesso agli Huthi un qualche sostegno, probabilmente finanziario e tecnico, non è solo per motivi confessionali ma anche per coinvolgere i sauditi in una guerra che non avrebbero potuto vincere.