La giornata particolare del Due Palazzi, nuovi spazi per il lavoro e una ricorrenza Il Mattino di Padova, 4 dicembre 2017 Venerdì 1° dicembre 2017 giornata particolare nell’istituto di pena di Padova: inaugurazione degli spazi trasformati di AbitareRistretti e ventesimo compleanno di Ristretti Orizzonti. Il motore del progetto: la necessità della cooperativa AltraCittà di ampliare i laboratori per offrire lavoro ad altre persone detenute, in particolare grazie a un committente davvero importante, Fischer Italia; un workshop internazionale con studenti e docenti di architettura di un anno fa che ha prodotto sogni e un progetto didattico “partecipato”; un lavoro corale che ha coinvolto persone detenute, agenti di Polizia Penitenziaria (Manutenzione ordinaria Fabbricati), elettricisti, operatori della cooperativa (che si è esposta per finanziare il progetto). E poi gli architetti, compresa la formidabile squadra degli Artieri di Torino, che ha seguito tutte le fasi dei lavori e nell’ultima settimana è venuta in aiuto per lo sprint finale. E poi, ingrediente aggiunto in corso d’opera, il colore, per spezzare la violenza del rosso delle sbarre e degli infissi che marchia l’istituto, grazie alla sensibilità del colorificio padovano Ard-Fratelli Raccanello. Coinvolgente la presentazione con la testimonianza di tutti i soggetti che hanno concorso al cambiamento. Importante il taglio del nastro del nuovo laboratorio di assemblaggio, compiuto dal direttore generale di Fischer Italia, Stefano Marzolla, che ha sottolineato la positività della collaborazione, partita nel 2014, con AltraCittà. L’elefante e il topolino. A volte succede che possano lavorare insieme. Particolarmente emozionante la presenza dei collaboratori esterni di AltraCittà e Ristretti, un tempo ospiti del carcere, che hanno voluto rientrarci per qualche ora per vedere i risultati dei lavori. Il racconto del progetto in www.abitareristretti.it. Un carcere diverso è davvero possibile Giornata intensa quella di venerdì 1 dicembre 2017, che verrà ricordata a lungo. Personalmente la ricorderò per due motivi: il tornare in carcere da visitatore e non da “ospite” e l’orgoglio di far parte della famiglia chiamata AltraCittà. L’occasione di tornare nella Casa di reclusione mi è stata data dall’inaugurazione della nuova area ristrutturata, quella che fino a ieri era chiamata Centro di documentazione, ma che da oggi dovrebbe essere chiamata “miracolo”. Parlo di miracolo per il semplice motivo che tutto quello che ricordavo di quell’area, la biblioteca che è stata praticamente la mia casa per quattro anni, la rassegna stampa, la legatoria, la redazione, la sede del tg, è mutato, evolvendosi in qualcosa che non mi sarei aspettato di vedere. Ho visto un’area come raramente si vedono anche all’esterno, per organizzazione, struttura, ambiente. Ho visto laboratori di assemblaggio che si sono conquistati spazio per creare più possibilità di riscatto e più percorsi che porteranno dal dentro al fuori altre persone come me. Ma tutto questo è stato un passo che spero presto porterà altri cambiamenti, per un continuo miglioramento della vita all’interno del carcere e, chissà, un domani essere esempio da replicare in altri istituti di pena in Italia. Non ero l’unico ex a rientrare in carcere, e ascoltando i loro commenti posso dire che anche gli altri hanno avuto più o meno le mie stesse impressioni e alla fine non posso che ribadire di essere orgoglioso di far parte di AltraCittà, coop creata dal nulla quasi quattordici anni fa, e che dal nulla ha realizzato qualcosa che verrà ricordato a lungo dimostrando che un carcere diverso è davvero possibile. Stefano Carnoli Tre giorni all’opera nel cantiere in fermento Arriviamo al Due Palazzi e subito siamo catapultati in un cantiere in fermento, con quell’operosità che ricorda le città antiche, dove l’opera occupava le strade e si faceva veicolo di socialità e umanità. Siamo qua per supportare l’autogestione del cantiere attraverso un lavoro di organizzazione delle risorse. Rossella e Valentina ci caricano con la loro accoglienza e facendo il punto della situazione. Sembra che siano ancora tante le cose da fare, troppe; difficile che si riescano a concludere negli ultimi tre giorni. Salutiamo rapidamente tutti e subito ci mettiamo al lavoro. Nel cantiere ognuno svolge il proprio ruolo con grande concentrazione, tutti si adoperano: dai bravi manovali alla nostra sociologa Viviana, tutti si dedicano a qualsiasi lavoro secondo le priorità, pulizie e lavori di riordino compresi. Lo scambio è paritario, come in una classe composta tutta da maestri, ognuno offre le proprie capacità per trovare le migliori soluzioni attraverso il dialogo. Venerdì è il giorno dell’inaugurazione, tutto quanto ci eravamo prefissati è stato concluso. Dall’inizio dei lavori sono state fatte molte cose, e Slavisa ci racconta con orgoglio che tutti quei muri che ora non ci sono più li ha demoliti lui, insieme a Miro, con grande fatica e ancor più maestria. A vederli ora, dopo quasi un anno dall’inizio del cantiere, gli ambienti sono stati completamente trasformati, non più solo in considerazione di norme e calcoli (com’è per ogni carcere), bensì cercando di mettere al centro le esigenze delle persone. Il passo è stato enorme, un’importante esperienza di cooperazione in un contesto che vede tradizionalmente nette separazioni tra i ruoli. Impariamo che nel cantiere di autocostruzione, come nella bottega artigiana, si possono abbattere le barriere sociali, per scrivere a più mani sulla stessa pagina. Sentendo parlare tutti nella giornata finale d’inaugurazione, accanto alla gioia spensierata ci raggiunge una punta di amarezza, soprattutto per le parole di Francesca, figlia di un detenuto ergastolano ostativo, che ci ricorda che anche se ‘cambiamo il colore, le sbarre rimangono. Valeria, Valerio, Isabella, Irene Un’unica squadra senza pregiudizi Le novità dell’area detta Rotonda 3 del carcere Due Palazzi da tempo mi incuriosivano, anche perché è uno spazio di “umanità” che ho avuto modo di frequentare quale redattore di Ristretti Orizzonti già dall’aprile 2010. Uno spazio che mi ha dato modo di sentirmi una persona utile, sentirmi ascoltato, dare qualcosa agli altri e ricevere molto. Uno spazio dove la realtà esterna era presente sia come volontari, che per il progetto “scuola-carcere” grazie al quale da anni incontriamo molti studenti sia dentro che fuori dal carcere. Un impegno gravoso, ma che aiuta a fare informazione e a eliminare i pregiudizi, provando a fare prevenzione. Non potevo mancare a questo evento, non ricalpestare quel luogo che ho lasciato nel luglio 2015, per accedere al lavoro esterno, sempre collegato alla redazione di Ristretti ed alla cooperativa Altracittà, e quindi ho chiesto alla direzione del carcere di poter presenziare all’inaugurazione dei nuovi locali e poter ritrovare persone che avevo conosciuto in passato. C’è stata una “rivoluzione”, uno scambio di locali, in ogni caso più ampi per le realtà operative, ma quello che mi ha colpito è stato l’arcobaleno di colori diversi, non più il solo bianco e soprattutto quel rosso cupo opprimente. Un tranquillo azzurro a Ristretti Orizzonti, comprese le possenti sbarre e porte. Spostandomi nel lungo corridoio ho trovato un giallo splendente e luminoso, che intervallato con l’arancio dei termosifoni dava un diverso senso di profondità; una luce che non appesantisce la vista, una parte di sole che sembra essersi fissato dentro i locali. Un altro colore è il verde della porta della biblioteca; solitamente si dice “verde speranza”, forse in carcere è una speranza di umanità, di prospettiva futura, di acquisire una cultura grazie alla biblioteca, ma anche di imparare un lavoro. Mi ha fatto piacere riabbracciare chi avevo lasciato in redazione nel luglio 2015, vedere la soddisfazione di chi ha dato il massimo per arrivare al completamento di questi importanti luoghi. Quello che ho potuto apprezzare è stato il coinvolgimento di tutte le parti: Ornella e Rossella Favero, gli agenti penitenziari, le aziende stesse che hanno anche istruito chi doveva svolgere i lavori, dall’edilizia, all’idraulica, agli impianti elettrici … un’unica squadra senza pregiudizi, unita per un obiettivo comune. Cosa che non è facilmente visibile nelle realtà esterne. Ulderico Galassini Il 41bis? Proporzionale. Piscitello: in equilibrio tra tutela e diritti di Marzia Paolucci Italia Oggi, 4 dicembre 2017 Il direttore generale del Ministero della Giustizia interviene sul (contestato) regime. Detenuti ex 41bis dell’ordinamento penitenziario di nuovo sulla ribalta giudiziaria: dai rilevi del Comitato anti tortura - Cat - delle Nazioni Unite alla morte di Totò Riina, mai uscito dal regime di carcere separato e comunque ancora considerato il capo indiscusso di Cosa Nostra. “Un regime proporzionale ed efficace che deve essere sul filo di lana rispetto alla necessità di garantire insieme tutela e sicurezza al cittadino e diritti ai detenuti. Un equilibrio sottile che va rispettato”. Lo definisce tale Roberto Calogero Piscitello, direttore generale dei detenuti e del trattamento del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del Ministero della giustizia, componente della delegazione italiana convocata a Ginevra dal Cat. Un magistrato critico verso il ruolo che ricopre: “Il magistrato non deve essere famoso”, dichiara con convinzione. Alle spalle dieci anni di distrettuale antimafia a Palermo, oggi si occupa del versante amministrativo dell’esecuzione della pena. “Mi occupo del trattamento del detenuto dal suo ingresso in carcere alla scarcerazione, tutto passa per questa direzione generale”, ricorda a Italia Oggi dal suo ufficio di dipartimento a Largo Luigi Daga. “Il carcere separato del 41bis risponde a una necessità: quella di far smettere ai capi mafia di continuare a fare i mafiosi in carcere rendendo impossibili o comunque più difficili le comunicazioni dal carcere alle organizzazioni criminali. Il carcere non riusciva a interrompere quella catena di comando necessaria alle organizzazioni criminali e allora nel 1992, dopo due stragi, è intervenuto il legislatore. Il 41bis viene emanato con decreto legge dopo la prima strage e convertito successivamente alla seconda strage, nell’agosto del 1992. Un regime differenziato che ritengo necessario e indispensabile per far fronte a queste associazioni criminali tutt’altro che finite e che comporta una deroga a tutta una serie di prescrizioni dell’ordinamento penitenziario. Nel tempo - ne ripercorre le tappe - ci sono stati almeno tre interventi legislativi degni di essere considerati: gli ultimi due risalgono al biennio 2008-2009 per il Pacchetto Sicurezza 1 e 2 che resero il regime meno discrezionale rispetto alle volontà del potere politico vincolando lo stesso ministro all’adozione di una serie di prescrizioni, prima facoltative e ora obbligatorie. Un’oggettivizzazione di un sistema che era nato temporaneamente, suscettibile di proroghe e che solo dopo si è stabilito avesse una sede nell’ordinamento giuridico italiano in via permanente e quando lo si è fatto, è avvenuto con legge ancorandolo a dei presupposti di verifica da parte della giurisdizione”. Aggiustamenti? “La Corte costituzionale, negli anni, ne ha limato, migliorandoli, gli istituti di concreta applicazione. Un detenuto al 41bis ha colloqui limitati: non più di uno al mese, compresi quelli con i difensori. La Suprema corte è intervenuta dicendo che la difesa è un diritto di ognuno e non può essere soggetta a limitazioni. Di recente, invece, la Corte ha stabilito che il detenuto non possa acquistare libri direttamente ma solo tramite l’istituto”. I detenuti sottoposti a questo particolare regime sono una minoranza: “Circa 730 in tredici istituti”, risponde Piscitello, “e sette gli internati che scontano la pena nella Casa di lavoro di Tolmezzo dove si lavora in orti e serre con le stesse limitazioni del 41bis, la durata è stabilita dal magistrato di sorveglianza. Il 95% dei reati commessi sono a caratterizzazione mafiosa, oggi in minima parte quelli con finalità terroristiche. Non più di una decina di casi di videosorveglianza ma non c’è nessuna videoregistrazione come invece accade nei colloqui. Circa 20 persone sono in carcere dal 1992 ma si tratta del gotha delle associazioni mafiose. Le riunioni in “gruppi di socialità” da due a quattro persone, sono consentite per un massimo di due ore al giorno”. Scandito il susseguirsi o meno delle proroghe: “Il regime è disposto con un decreto del ministro della Giustizia che ha valenza di quattro anni, allo scadere dei quattro anni il mio ufficio”, spiega Piscitello, “cura l’istruttoria per l’eventuale proroga che passa per una richiesta fatta alla procura distrettuale antimafia che ha chiesto originariamente il 41bis, alla Procura nazionale antimafia e tutta una serie di informative agli organi centrali delle Forze dell’Ordine. Se la proroga è confermata, il Ministro emana un decreto di proroga che ha una vigenza di due anni. Sia il decreto che le proroghe successive possono essere impugnati davanti alla magistratura di sorveglianza”. Accade? Certo che sì. “Tutti impugnano ma le percentuali di accoglimento sfiorano appena il 10% a dimostrazione del fatto che non c’è alcuna proroga automatica vista l’ esistenza di un atto amministrativo del ministro valutato dal tribunale di sorveglianza di Roma che controlla la sussistenza dei requisiti di fatto e di diritto alla base del provvedimento. Senza contare che anche davanti al Tribunale di sorveglianza di Roma, il detenuto può sempre percorrere la strada del ricorso in Cassazione”. Licenziamento per i molestatori di Claudia Voltattorni Corriere della Sera, 4 dicembre 2017 “Licenziamento”. Parte dalla Pubblica amministrazione la battaglia contro le molestie in ufficio. Le novità nella bozza del nuovo contratto per gli statali. “Comportamenti o molestie di carattere sessuale”, non gravi: fino a 6 mesi di sospensione dal lavoro e dallo stipendio, in prima battuta. “Comportamenti o molestie a carattere sessuale di particolare gravità”: licenziamento. “Recidiva nel biennio” degli stessi comportamenti, anche non gravi: licenziamento. Parte dalla Pubblica amministrazione la battaglia contro le molestie in ufficio. Sanzioni più aspre che mettono tutti d’accordo, governo e sindacati. Le novità sono nella bozza del nuovo contratto per gli statali in discussione e che la ministra per la PA Marianna Madia auspica di firmare “entro Natale”. E per la prima volta le sanzioni disciplinari per i comportamenti scorretti in ufficio porteranno al licenziamento. “C’è un rafforzamento della sanzione - spiegano al ministero - che finora prevedeva solo una sospensione fino a 10 giorni per atti, comportamenti o molestie, anche di carattere sessuale, che siano lesivi della dignità della persona”. Il nuovo contratto definirà tutte le sanzioni per i molestatori, le vittime potranno denunciare all’ufficio del personale. “È un primo passo, ma attenzione al buonismo”, avverte Gabriella Carneri Moscatelli, presidente dell’associazione Telefono Rosa. Perché, spiega, “in Italia le norme sono sempre ottime, ma poi bisogna vedere come vengono applicate e nel caso specifico c’è il rischio che, dopo la denuncia, si sia sopraffatti dal buonismo verso il molestatore, soprattutto se è più alto in grado”. Carneri Moscatelli sottolinea anche che “alle donne bisognerà poi insegnare come comportarsi in caso di molestie, perché alla fine l’onere della prova è sempre a carico loro. Sono perplessa sulla denuncia fatta all’interno dello stesso ufficio: associazioni e sindacati dovranno vigilare”. Salvatore Chiaramonte, segretario nazionale Fp Cgil, siede al tavolo della discussione del nuovo contratto degli statali e riconosce che le sanzioni per i molestatori sono un punto di partenza “per cambiare subito la cultura dello stare in ufficio: purtroppo queste sono situazioni molto legate alla gestione del potere”. Sono previste anche tutele specifiche per le donne vittime di violenza. Come un congedo retribuito fino a 3 mesi (ma i sindacati ne chiedono altri 3) e la possibilità di trasferirsi in un ufficio in un comune diverso da quello di residenza. Ma il nuovo contratto prevede il licenziamento anche per l’impiegato statale che accetta o chiede per sé o per altri un regalo come contropartita. E saranno sanzionati con una sospensione e poi con l’allontanamento dal posto di lavoro anche i “furbetti del weekend”, che fanno assenze strategiche e “ingiustificate” nei giorni intorno al fine settimana o prima e dopo i festivi. Domani governo e parti sociali si incontreranno di nuovo. L’obiettivo è chiudere l’accordo entro la fine dell’anno. Molestie sessuali, se il rimedio è peggiore del male di Corrado Ocone Il Mattino, 4 dicembre 2017 Le vie dell’inferno a volte sono, o potrebbero essere, lastricate di buone intenzioni. E non c’è dubbio che l’intenzione del legislatore di combattere le molestie sessuali nei luoghi di lavoro, a cominciare dalla pubblica amministrazione, abbia a tutta prima l’aria di essere un’iniziativa lodevole. Quale migliore occasione del rinnovo del contratto di lavoro degli statali per recepire in esso una norma che prevede la sospensione, prima, e il licenziamento, poi, di chi se ne rende autore? La pena sarebbe così prevista, da oggi in poi, da contratto, e lo sarebbe nei casi in cui si presentassero “atti o comportamenti o molestie a carattere sessuale di particolare gravità”. Con questa iniziativa, il governo compie un doppio movimento: da un lato rende indipendente dal processo penale il giudizio sugli atti o comportamenti incriminati; dall’altro rende più precisa, ma anche paradossalmente più equivoca, la clausola presente nel vecchio contratto, che faceva scattare le sensazioni di fronte a comportamenti o atti “lesivi della dignità umana”. Ne valeva la pena? Per quanto il concetto di dignità sia anch’esso scivoloso, non è dubbio che esso conservava un carattere di “oggettività” che scompare del tutto di fronte ai tanti casi di “molestie sessuali” che, come i fatti di cronaca degli ultimi giorni dimostrano, non sempre sono netti come si vorrebbe, essendo spesso qualificabili in base a percezioni soggettive variabili nel tempo. Si potrebbe dire che il “diavolo si annida nel dettaglio”: nel testo della bozza di contratto, infatti, gli atti e comportamenti di tipo sessuale vengono distinti ma equiparati, nella condanna disciplinare, alle molestie vere e proprie. Il che, seppure in prospettiva, lascia presagire il rischio di veder sanzionate anche affermazioni e azioni del tutto innocenti, molte delle quali pure connotano la nostra quotidianità: relazioni pertinenti al semplice ambito delle relazioni umane o anche, perché no?, a quel campo della seduzione che, pur giocandosi a livello intellettuale, proprio perché messo in atto da esseri umani, non può mai essere del tutto codificato o reso senza anima. Queste relazioni si giocano tutte a livello di quello “spirito di finezza” di cui già Blaise Pascal parlava e che, se scomparisse, lasciando campo come vorrebbe il legislatore al solo “spirito geometrico”, finirebbe per impoverirci spiritualmente e farebbe regredire la nostra stessa umanità. C’è da chiedersi se dopo tante battaglie per immettere la vita, con le sue irregolarità, negli uffici di lavoro, non si rischi di cadere nel modello della fredda “gabbia d’acciaio” di weberiana memoria. Il rischio insomma è che in nome di una “deriva politicamente corretta”, vengano messi in gioco alcuni principi fondamentali di una società libera. In primo luogo l’idea che non tutto può essere ridotto a norma e “regolarizzato”, perché la vita trabocca sempre e distrugge le forme in cui tentiamo di ingabbiarla o razionalizzarla. Poi, l’idea che, tutto normando, non ci siano più ambiti umani soggetti a dubbi e che si prestino a sfumature di giudizio e a contestualizzazioni storico-ambientali. Il che, a ben vedere, è un ideale altamente deresponsabilizzante. E anche pericoloso nella precisa misura in cui può fare di un innocente una vittima, sottoponendola al giudizio e al pregiudizio morale ancor prima di avere diritto di replica e di difesa garantito a chiunque in sede penale. Che oggi su certi temi ci sia più sensibilità è sicuramente un bene e una conquista. Che la sensibilità si converta in una nuova ideologia incurante dei chiaroscuri, di questo sinceramente non se ne sente proprio il bisogno. Eco-reati, più facile denunciare di Vincenzo Dragani Italia Oggi, 4 dicembre 2017 Dall’inquinamento alla gestione illecita dei rifiuti: la legge sul whistleblowing rafforza le tutele per chi segnala. Tutela rafforzata per i dipendenti pubblici che denunciano gli illeciti anche di interesse ambientale di cui sono a conoscenza per lavoro, allargamento dello scudo ai fornitori privati della p.a. e introduzione di analogo (seppur depotenziato) istituto nelle imprese che utilizzano il modello “231”. La riscrittura delle norme sul cosiddetto “whistleblowing”, che promette grazie all’ampliato e duplice fronte pubblico/privato di aprire una rinnovata lotta anche agli eco-reati, arriva con la legge approvata in via definitiva dal parlamento il 15 novembre 2017 recante “Disposizioni per la tutela degli autori di segnalazioni di reati o irregolarità di cui siano venuti a conoscenza nell’ambito di un rapporto di lavoro pubblico o privato”. Whistleblowing nella p.a. Le novità sono introdotte attraverso la riformulazione dell’articolo 54-bis della legge 165/2001, il Testo unico del pubblico impiego. In primo luogo viene allargata la platea dei lavoratori pubblici protetti, ora comprendente i dipendenti degli enti di diritto privato sottoposti al controllo pubblico ex articolo 2359 del codice civile così come i lavoratori e i collaboratori delle imprese fornitrici di beni o servizi e che realizzano opere in favore dell’amministrazione pubblica. In secondo luogo viene rimodulato il novero dei soggetti destinatari delle segnalazioni, e questo: prevedendo (oltre all’Autorità nazionale anticorruzione e quella giudiziaria) anche il “responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza” ex lege 190/2012 (recante il codice del processo amministrativo); non contemplando più tra i canali di destinazione il “superiore gerarchico”. In terzo luogo viene estesa la tutela dell’identità del denunciante, assicurata in tutti i procedimenti seguenti alla segnalazione, con la specificazione delle ipotesi eccezionali in cui potrà essere rivelata. In quarto luogo, nel confermare la nullità delle condotte ritorsive a carico dei segnalanti (licenziamento, demansionamento, trasferimento e ogni altra condotta con effetti negativi diretti o indiretti determinata dalla denuncia) vengono introdotte puntuali sanzioni irrogabili direttamente dall’Anac. Le pene colpiranno sia le p.a. che hanno adottato le azioni ritorsive (con sanzione amministrativa pecuniaria fino a 30 mila euro) sia i suddetti responsabili della prevenzione che non hanno analizzato le denunce pervenute (fino a 50 mila euro). Il potenziamento dell’istituto nella p.a. potrà rafforzare anche il contrasto degli illeciti “indirettamente” danneggianti l’ecosistema, quali il reato di corruzione (art. 318 c.p.) e quello di “indebita induzione a dare o promettere denaro o altra utilità” (319-quater c.p.), cui appaiono essere “sensibili” sia gli appalti verdi che i procedimenti di rilascio delle autorizzazioni ambientali. Il whistleblowing nel settore privato. Le regole sul whistleblowing esordiscono tra le condizioni che le organizzazioni devono rispettare per poter arginare la propria responsabilità amministrativa “231” in caso di condotte illecite di propri lavoratori. In base al dlgs 231/01, enti e imprese rispondono direttamente, con sanzioni amministrative (pecuniarie e interdittive) per determinati reati commessi nell’interesse o a vantaggio dell’organizzazione da amministratori, dirigenti e dipendenti. Le stesse entità non rispondono di tali illeciti indicati dal decreto (i “reati presupposto”) solo se dimostrano: di aver adottato e attuato prima della loro commissione un “modello di organizzazione e gestione” idoneo a prevenirli; di aver svolto effettiva vigilanza sulla sua osservanza; la fraudolenta elusione del modello da parte degli autori dell’illecito. E tra i requisiti d’idoneità di tale modello la nuova legge inserisce ora: la previsione di uno o più canali che consentano ai lavoratori di presentare segnalazioni di illeciti garantendo la riservatezza della loro identità; almeno un canale alternativo con modalità informatiche; il divieto di atti ritorsione (denunciabili ad Ispettorato del lavoro e sindacati, e la cui adozione è comunque nulla); la previsione di sanzioni sia per chi adotta atti di ritorsione che per chi effettua con dolo o colpa grave segnalazioni infondate (e non per chi omette di verificare o analizzare le segnalazioni ricevute, come nella p.a.). Il nuovo provvedimento detta anche le caratteristiche che le segnalazioni dovranno avere, ossia: l’essere circonstanziate e fondate su elementi di fatto precisi e concordanti; il vertere su condotte illecite rilevanti ex dlgs 231/2001 o su violazioni del “modello” di cui il denunciante è a conoscenza in ragione delle funzioni svolte. Larga la copertura dell’istituto, se si considera che il campo di applicazione del dlgs 231/2001 abbraccia sia gli enti forniti di personalità giuridica che quelli privi, con la sola esclusione di stato, enti pubblici territoriali, enti pubblici non economici, enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale (coperti comunque dalle disposizioni ex articolo 54-bis della legge 165/2001). Tra i reati ambientali previsti dal dlgs 231/01 (e la cui commissione potrà essere utilmente segnalata tramite il nuovo strumento) vi sono: inquinamento e disastro ambientale; traffico o abbandono di materiale ad alta radioattività; gli illeciti su gestione rifiuti, inquinamento acque ed aria, omessa bonifica; gestione di sostanze lesive dell’ozono stratosferico; danni ad animali e vegetali; inquinamento da navi punito ex dlgs 202/2007. E questo oltre ai reati “connessi” alla gestione di risorse ambientali, anch’essi richiamati dal dlgs 231/2001, e ai quali può qui altresì aggiungersi la “corruzione tra privati” (art. 2635 c.c.). Fornitori della p.a. Lo scudo del rinnovato istituto estende i propri confini grazie all’ampia e citata nozione del “dipendente pubblico” tutelato contro atti discriminatori e rivelazione illegittima di identità. Riconoscendo tale status ai “lavoratori e ai collaboratori delle imprese fornitrici di beni o servizi e che realizzano opere in favore dell’amministrazione pubblica” la nuova legge incoraggia la segnalazione di illeciti da parte di tutte le aziende che interagiscono con la p.a. in forza di gare a evidenza pubblica (che, ai sensi del nuovo dlgs 50/2016, “Codice appalti”, devono avvenire anche nel rispetto di precisi criteri ambientali). La scriminante ad hoc. La neo legge introduce infine una specifica causa di giustificazione per tutte le segnalazioni e denunce. Tali “informative”, nel rispetto di determinate condizioni, costituiranno giusta causa della rivelazione delle notizie eventualmente coperte da obblighi di segreto ex articoli 326, 622 e 623 c.p., 2105 c.c. Per godere della scriminate, le denunce dovranno: - essere effettuate nelle forme e nei limiti ex lege 165/01 e dlgs 231/01; - finalizzate a perseguire interesse e integrità delle amministrazioni o lotta a malversazioni; - provenire da soggetti diversi dai consulenti degli enti o delle persone fi siche coinvolte; non comportare la comunicazione di notizie o documenti in modalità eccedenti la finalità di eliminare l’illecito; effettuate utilizzando solo i citati canali a tal fi ne predisposti. Franco Coppi: “I tribunali? Gabbie di matti. Ho difeso la Juve con la cravatta romanista” di Giusi Fasano Corriere della Sera, 4 dicembre 2017 L’avvocato: parlo con il mio cane, me l’ha regalato Ghedini. Da ragazzo credevo di poter contribuire alle sorti dell’arte. Poi non ho più preso in mano un pennello, non potevo permettermi la tentazione di distrarmi. “Buongiorno professore”. “Ossequi”. “Carissimo prof, permette un saluto?”. “I miei omaggi, avvocato”. Più che un’intervista è uno slalom fra ammiratori. Franco Coppi, fra i più stimati e autorevoli avvocati italiani, è a casa sua, in Cassazione, e qui non c’è collega, giudice, cancelliere, usciere che non lo conosca. Anche perché dei suoi 79 anni ha passato più tempo in questo palazzo che in qualsiasi altro posto. E oggi è il re dei cassazionisti. Un’istituzione. Prof, non le danno tregua con le riverenze. Come fa a dar retta a tutti? “Io sono un noto chiacchierone e poi sarebbe disonesto dire che non fa piacere sentirsi apprezzati o vedere che i colleghi ti dimostrano considerazione e simpatia. Anche se, le confesso, avrei una voglia di smettere...” Non dica così o farà venire un infarto ai suoi assistiti. “Ma sì, invece. In questi ultimi anni ho sentito sulla mia pelle l’ingiustizia di alcune decisioni che sono diventate un peso insopportabile”. Neanche glielo chiedo. So che sta parlando di Sabrina Misseri e del suo ergastolo per l’omicidio di Avetrana. “Esatto, non mi stancherò mai di ripetere che la sua è una pena ingiusta, mostruosa. Sapere di non essere riuscito a dimostrare la sua innocenza non mi fa dormire la notte”. Sta criticando una sentenza definitiva. “E perché no? Chi lo dice che non si debba fare? Se la ritengo non giusta posso criticarla eccome! Quella condanna mi ha segnato così profondamente che ho pensato davvero di abbandonare la professione”. Cosa le ha fatto cambiare idea? “Il senso di responsabilità verso i colleghi dello studio e le cause che sto seguendo. E poi una persona che stimo molto mi ha detto: in futuro quella ragazza potrebbe avere ancora bisogno di te, se te ne vai non la potrai più aiutare. È vero, e io spero ancora di esserle utile. Nel frattempo ci scriviamo. Lei sa del mio amore per gli animali e assieme alle lettere mi manda disegni di animali bellissimi che fa con le sue mani”. Ha detto animali ma lo sanno tutti: il suo amore più grande è per i cani. “È vero ma ho avuto anche gatti e perfino una gazza ladra”. Era arrivata da lei come imputata? Ride. “No. Era venuta perché le piaceva il mio terrazzo, forse. Le abbiamo costruito una gabbia il più grande possibile ma spesso era libera, veniva a mangiare nel piatto e faceva il bagno nel lavello della cucina. È morta di vecchiaia. Ma nella mia vita ho sempre avuto accanto un cane, fin da piccolissimo”. Ne ha uno anche adesso? “Sì. Dopo la morte del nostro Bruce io e mia moglie eravamo molto indecisi. Siamo anziani, sa com’è...E invece a Natale di due anni fa si presentò a casa mia con un cucciolo irresistibile di golden retriever l’avvocato Ghedini (con Coppi si occupò del caso Ruby in cui Berlusconi fu assolto, ndr)”. Un regalo post-assoluzione del Cavaliere? “Era un regalo di Ghedini, graditissimo. Aveva già un nome, Rocco, che io ho cambiato in Rocky e poi gli ho dato anche un cognome”. Che sarebbe? “Ghedini”. Chissà come sarà contento l’avvocato... “È una persona intelligente, sono certo che capirà che non è un’offesa. Anzi, per me è un onore. Io e Rocky Ghedini ci facciamo passeggiate lunghissime, ci capiamo al volo con un’occhiata. Ogni tanto gli parlo, un giorno o l’altro mi risponderà”. Ancora passeggiate chilometriche anche dopo la caduta e la frattura alla spalla? “Ora confesso una cosa: lì non stavo passeggiando. Correvo. Ho visto tutti quei ragazzi correre al parco e mi sono detto: ci provo anch’io. Ricordo che quando sono tornato in aula il presidente mi chiese “avvocato, cosa le è successo”? Gli ho risposto: se le dico com’è andata mi caccia per manifesta stupidità”. Torniamo alla sua professione. C’è il nome di Coppi nel caso Andreotti, nello scandalo Lockheed, nel Golpe Borghese, nelle difese di grandi gruppi industriali e in quelle di Niccolò Pollari, Antonio Fazio, Gianni De Gennaro, Berlusconi... Però lei ha sempre detto che la sua Corte preferita è quella d’Assise. Cosa ci trova di così appassionante in un omicidio? “Ma scherza? I cosiddetti casi “di cronaca” consentono di vedere le sfaccettature della vita, capisci molto della natura umana, entri nei moventi dell’agire degli individui, scopri i meccanismi di giustificazione che le persone cercano per i propri comportamenti. È affascinante, ogni volta è quasi una lezione di psicologia”. Non starà esagerando? “Beh, lo dico con il dovuto rispetto: i luoghi della giustizia spesso sono gabbie di matti. Lei sa, vero, che Eduardo De Filippo in molte delle sue commedie ha preso spunto dalla realtà nelle aule dei tribunali? Nella vita ho assistito a difese diciamo bizzarre, per usare un eufemismo”. Per esempio? “Per esempio ricordo tanti anni fa l’arringa straordinaria di un collega che cercò di convincere tutti con un discorso aulico: “La vita di questo povero ragazzo è stata già messa duramente alla prova” disse indicando il suo assistito. E poi cose tipo: “Vivrà il resto dei suoi giorni senza avere più accanto i suoi genitori”. Erano parole accorate”. E cosa c’era di bizzarro in quella difesa? “C’era che il presidente a un certo punto disse: ma avvocato, i genitori di ha ammazzati lui! E la risposta fu: “E che c’entra? Rimane pur sempre orfano”. Indimenticabile”. Rientra nel capitolo bizzarrie anche la sua cravatta giallorossa durante il processo in difesa della Juventus? “Lì ho agito per chiarezza. Per evitare l’accusa di tradimento io, romanista, ho messo in chiaro le cose con la cravatta più adeguata”. A proposito, è vero che di cravatte ne ha un numero imbarazzante? “Temo di sì” Quante? Cento, duecento, di più? “Non le ho mai contate ma credo di più...”. Tempo fa parlò di un segreto per il figlio di Borsellino. Gliel’ha poi svelato? “Non l’ho mai incontrato. Più che un segreto era un ricordo di parole che mi disse suo padre. Eravamo a Roma, io camminavo accanto a lui e più avanti c’era Falcone. Borsellino indicò Falcone e mi disse: “Vede quell’uomo? Gli devo tutto, mi ha ridato la fiducia e il coraggio che stavo perdendo e ogni volta che sono accanto a mio figlio sento che gli posso trasmettere tutto il bene che Falcone mi ha passato”. Mi sono commosso, non ho mai dimenticato quelle parole”. Lei è nato in Libia per puro caso, giusto? “Giusto. Mio padre Filippo, che ho perso quand’ero ragazzino, era un dirigente Fiat che andò lì a lavorare e mia madre, che era una casalinga, lo seguì. Così io e mia sorella Cecilia siamo nati laggiù. Avevo quattro anni quando scappammo da Tripoli con i magazzini in fiamme e i tedeschi che davano ordini alle auto in coda. Ricordo tutto come fosse qui, adesso. Non ci sono mai tornato”. Come ha conosciuto sua moglie? “Fu mentre ero in vacanza a Capri, dove Anna Maria lavorava. Mi è piaciuta subito”. Corteggiamento? “Una cosa semplice. Abbiamo cominciato a frequentarci e a un certo punto le ho detto: che ne diresti se ci sposassimo?” Tutto qui? “Beh, proprio tutto no”. Avete avuto tre figlie. “Sì. Francesca fa l’avvocato nel mio studio, Alessandra è ingegnere e Giuliana è consigliere parlamentare. Ho avuto e ho una vita familiare felice. Sono fortunato”. E la vita da docente universitario? “Ho cominciato nel ‘68 a Teramo e ho finito sei anni fa alla Sapienza. Insegnavo Diritto penale, un’esperienza bellissima di cui conservo molti ricordi”. C’è qualcosa nei suoi 79 anni che avrebbe voluto fare e non ha fatto? “Adesso, da anziano, penso ai libri non letti, ai musei non visti, ai viaggi non fatti, assorbito com’ero dalla mia professione. Ma non sono rimpianti, solo malinconie postume”. E quel vecchio amore per la pittura? Nessun rimpianto neanche per quello? “Da ragazzetto, a forza di girare per chiese e musei romani con mio padre, mi ero innamorato del bello e credevo di poter contribuire alle sorti dell’arte. Avevo frequentato corsi, l’avevo presa sul serio. Quando ho deciso di smettere non ho più guardato un pennello, non potevo permettermi tentazioni. Dalle tentazioni bisogna avere il coraggio di allontanarsi sennò chissà quanti motivi d’appello avrei lasciato scadere per dipingere i miei paesaggi...”. A fine intervista ce lo può svelare: erano eleganti le cene a casa Berlusconi? “Anche. Non mi faccia aggiungere altro”. Limitazioni al ricorso personale in cassazione estese alle misure cautelari di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 4 dicembre 2017 Corte di cassazione - Sezione V penale - Sentenza 7 novembre 2017 n. 53203. Con i commi 54 e 63 dell’articolo 1 della legge 23 giugno 2017 n. 103, entrata in vigore il 3 agosto 2017, è stata eliminata la possibilità per l’imputato di sottoscrivere personalmente il ricorso per cassazione, con la conseguente inammissibilità del ricorso in caso di presentazione personale da parte dell’imputato e tale “eliminazione” vale anche per i ricorsi in tema di misure cautelari personali e reali previsti rispettivamente dagli articoli 311e 325 del Cpp, senza che rilevi il fatto che il novum normativo abbia espressamente inciso solo sul combinato disposto degli articoli 571, comma 1, e 613, comma 1, del Cpp, e non formalmente sulle disposizioni contenute nell’articolo 311 del Cpp, relative al ricorso per cassazione in tema di misure cautelari personali, e neppure su quelle contenute nell’articolo 325 del Cpp, relative al ricorso per cassazione in tema di misure cautelari reali. È pur vero, infatti, che l’articolo 311, comma 1, continua ad attribuire la facoltà di ricorso per cassazione contro le decisioni emesse a norma degli articoli 309e 310 anche all’imputato e al suo difensore, e, parimenti, l’articolo 325ammette anch’esso l’imputato e il suo difensore al ricorso per cassazione nella materia delle misure cautelari reali. Peraltro, al di là del dato formale, la finalità dell’intervento di riforma introdotto con la legge n. 103 del 2017, che mira, tra l’altro, a garantire maggiore efficienza al controllo di legittimità e alla funzione nomofilattica della Corte di cassazione, anche cercando di evitare la proposizione di ricorsi per cassazione destinati con grande frequenza alla declaratoria di inammissibilità per mancanza dei requisiti di forma e di contenuto, dovuta alla obiettiva incapacità del ricorrente personale di individuare e censurare i vizi di legittimità del provvedimento impugnato, deve indurre a ritenere che nel combinato disposto delle due norme modificate dalla legge n. 103 del 2017 ben può leggersi la regola dell’esclusione, espressa e generalizzata, della sottoscrizione personale del ricorso per cassazione per l’imputato e i soggetti al medesimo legislativamente equiparati. In definitiva, l’imputato, anche rispetto ai provvedimenti cautelari personali e reali non è più legittimato a sottoscrivere personalmente il ricorso per cassazione, ma, a pena di inammissibilità, deve esercitare il suo diritto di impugnazione esclusivamente per il tramite di un difensore iscritto nell’albo speciale, munito di specifico mandato (e ciò a far data dal 3 agosto 2017, data di entrata in vigore della legge n. 103 del 2017, anche laddove il provvedimento da impugnare fosse stata adottato in data anteriore, in quando, dovendosi avere riguardo all’applicazione della regola del tempus regit actum, l’actus da considerare temporalmente, ai fini dell’applicazione dell’articolo 11 delle disposizioni preliminari al codice civile, è l’atto di impugnazione in sé e per sé, e, in questa prospettiva, ciò che rileva è l’individuazione, a quel momento, del soggetto a tal fine legittimato a sottoscriverlo). Va notato che la Corte, nel risolvere la questione, ha ritenuto di non dovere attendere il pronunciamento delle sezioni Unite, il cui intervento era stato chiesto dalla sezione V, con ordinanza 8 novembre 2017, Aiello, in ordine al quesito se in materia di misure cautelari debba o no ritenersi sussistente la possibilità per l’imputato di ricorrere personalmente in cassazione, per non essere state formalmente modificati gli articoli 311e 325 del Cpp, giacché il novum introdotto dalla legge n. 103 del 2017 aveva riguardato esclusivamente le disposizioni generali in materia di impugnazione contenute negli articoli 571e 613 del Cpp. L’orientamento più recente - Più in generale, in ordine alla innovata disciplina limitativa della possibilità di ricorrere personalmente in cassazione, si è affermato che, in assenza di specifiche disposizioni transitorie circa il regime normativo da applicare ai ricorsi per cassazione, presentati personalmente dall’imputato ai sensi del previgente dettato di cui agli articoli 571, comma 1,e613, comma 1, del Cpp, ma trattati dalla Corte di cassazione dopo l’entrata in vigore delle norme di cui ai citati commi 54 e 63 della legge n. 103 del 2017, vertendosi in tema di successione di norme processuali relative alle impugnazioni, deve farsi applicazione del principio (già affermato dalle sezioni Unite, 29 marzo 2007, Lista), in forza del quale, ai fini dell’individuazione del regime applicabile in materia di impugnazioni, allorché si succedano nel tempo diverse discipline e non sia espressamente regolato, con disposizioni transitorie, il passaggio dall’una all’altra, l’applicazione del principio tempus regit actum impone di far riferimento al momento di emissione del provvedimento impugnato e non già a quello della proposizione dell’impugnazione. Infatti, poiché l’atto d’impugnazione è la risultante di un’attività preparatoria avviata con il sorgere del diritto d’impugnare, che è strettamente collegato alla pronuncia della sentenza, il quadro normativo cui occorre fare riferimento per regolare le ipotesi di modificazioni delle impugnazioni, quali quelle riguardanti le relative modalità, è quello del tempo in cui tale diritto è venuto a esistenza: vale a dire, il momento di adozione del provvedimento impugnabile (cfr. sezione V, 26 settembre 2017, Cante). Cagliari: tragedia nel carcere di Uta, detenuto si uccide impiccandosi in cella castedduonline.it, 4 dicembre 2017 “Una nuova tragica notizia arriva dalla Casa Circondariale di Cagliari-Uta dove un detenuto si è tolto la vita, ieri pomeriggio, impiccandosi in cella. L’uomo, N.A. 60 anni, cagliaritano, svolgeva attività di lavorante nella struttura. Sconcerto e dolore tra gli Agenti e i Sanitari che, nonostante si siano prodigati per salvarlo, non hanno potuto fare nulla”. Lo rende noto Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”. “Ancora una volta - osserva - le Istituzioni registrano una sconfitta che non può essere dimenticata. Sono sicuramente molte le ragioni di una scelta così dolorosa e disperata, ma senza dubbio tra queste c’è la solitudine più profonda. Quella che non lascia intravedere alcuna possibilità, alcuna luce. Le Istituzioni devono farsi carico di queste situazioni favorendo il dialogo, la vicinanza e la conoscenza. Offrendo occasioni per rendere l’assenza di libertà un periodo di riflessione e crescita sociale. Aumentare le opportunità per scacciare le crisi depressive e i momenti di scoraggiamento che, soprattutto durante i periodi delle Festività, si moltiplicano”. Napoli: “picchiato nella cella zero di Poggioreale durante la notte di Natale” di Fabio Postiglione Corriere del Mezzogiorno, 4 dicembre 2017 Processo contro 12 agenti. Un detenuto scaraventato con la sedia a rotelle contro il muro. Avevano bevuto qualche bicchiere di vino in più. Era la vigilia di Natale e volevano cercare così di placare i pensieri brutti e la solitudine. Ma uno di loro fu umiliato, picchiato e segregato anche se era su una sedia a rotelle a causa di numerose fratture alla schiena e al busto rimediate in una caduta. “Quella notte lo presero con la forza dalla cella, gli tolsero il corsetto che indossava e con tutta la sedia fu scaraventato contro il muro e picchiato selvaggiamente”. È una delle testimonianze choc racchiusa negli atti del processo partito a novembre davanti al giudice monocratico della Terza sezione penale del Tribunale di Napoli, contro dodici agenti di polizia penitenziaria accusati di sequestro di persona, abuso di potere, lesioni e maltrattamenti che sarebbero avvenuti tra il 2013 e il 2014 nella cosiddetta “cella zero” del carcere di Poggioreale. A parlare è un detenuto che era recluso al padiglione Avellino e ascoltato l’11 marzo del 2014. “Sono tanti i ricordi che affiorano alla mente se penso al mio periodo in carcere - dice ai carabinieri della stazione “Napoli 167” delegati alle indagini dal pm Valentina Rametta - Ricordo la sveglia dei secondini che sbattevano mazze di ferro sulle sbarre cui dovevamo rispondere in piedi e prontamente. Ricordo le urla dei ragazzi che venivano dalle celle di punizione, di notte per non sentirle mi premevo i pugni sulle orecchie”. È stato lui il primo a ripercorrere le presunte sevizie che un suo compagno di cella avrebbe subito nella “cella zero” del carcere. Una stanza senza numero al pian terreno del carcere di Poggioreale dove secondo il racconto di molti detenuti, che hanno inviato lettere e petizioni ad Adriana Tocco, all’epoca Garante dei diritti dei detenuti, i reclusi venivano picchiati dagli agenti di polizia penitenziaria. “Ricordo che la sera del 24 dicembre del 2013 uno dei miei compagni di cella aveva avuto una discussione con un assistente in servizio al padiglione Napoli. Ritornò pochi minuti dopo in compagnia di 5 colleghi in divisa. Lo prelevarono con tutta la sedia a rotelle e lo portarono via”. Tornò dopo tre giorni e fu lui stesso a raccontare ai suoi compagni di cella quello che aveva subito. “Era stato portato nella “cella zero” e aveva segni di violenza sia sul viso che sul corpo. Prima era stato picchiato e poi scaraventato con la sedia a rotelle contro il muro”. Il racconto di questo pestaggio è confermato da altri due compagni di cella della vittima degli abusi e su questo fu sentita anche Adriana Tocco. Fu lo stesso pm ad ascoltarla come testimone il 7 febbraio del 2014. “Quel detenuto mi ha raccontato che era stato prelevato dalla sua cella, condotto in isolamento mentre era in sedia a rotelle e senza il parere di un medico. Mi ha detto di essere stato picchiato e nonostante le fratture al busto gli tolsero anche il corsetto”. Il 4 aprile del 2014 c’è la testimonianza di un altro recluso che ha parlato delle sevizie che avrebbe subito il 1 luglio del 2013. “Avevo risposto male ad un agente di polizia penitenziaria che voleva fare il guappo. Vennero in cinque. Mi presero, mi picchiarono, mi fecero fare delle flessioni sulle gambe mentre ero appoggiato con le mani alle pareti. Rimasi nella “cella zero” per circa un’ora e dopo fu riportato in cella”. Lunedì prossimo la Camera penale del Distretto di Napoli ha organizzato una marcia proprio in difesa dei detenuti dal Palazzo di Giustizia al centro Direzionale fino al carcere di Poggioreale. Una giornata di mobilitazione contro le inefficienze e le disfunzioni del tribunale di Sorveglianza, contro il trattamento disumano e degradante dei detenuti, contro il sovraffollamento delle carceri e contro l’uso eccessivo della misura della custodia cautelare. Reggio Calabria: due casi di tubercolosi tra i detenuti, allarme al Panzera di Monia Sangermano strettoweb.com, 4 dicembre 2017 Due detenuti del Panzera ricoverati in ospedale per tubercolosi: è allarme epidemia nella Casa circondariale. Il carcere dovrebbe essere, innanzitutto, un luogo di detenzione per chi ha commesso, o si presume che abbia commesso, dei reati, ma anche un luogo dove chi ha sbagliato possa riflettere e magari redimersi dai propri errori. Almeno nella teoria. Perché nella pratica può succedere di ritrovarsi su un letto d’ospedale con una diagnosi “da medioevo”: tubercolosi. È quanto accaduto nelle scorse settimane nella casa circondariale Giuseppe Panzera di Reggio Calabria, dove due detenuti hanno contratto la pericolosa patologia polmonare, causata da un batterio che ora potrebbe rappresentare una fonte di pericolo per tutti gli altri ospiti della struttura attiva dal 1932. I due uomini in questione, evidentemente per la fiducia riposta in loro, svolgevano tra l’altro la mansione di spesini, ovvero distribuivano la spesa agli altri detenuti. I contatti con questi ultimi, dunque, erano regolari e all’ordine del giorno. Il rischio di una vera è proprio epidemia, aggravato dal sovraffollamento del carcere, è quindi concreto e preoccupa non poco, soprattutto gli stessi detenuti e le famiglie. Questi ultimi hanno chiesto infatti una bonifica della struttura e per questo motivo si sono rivolti ai propri legali, cercando di far valere quei diritti che, anche in una prigione, sono inalienabili e indispensabili per una società civile come la nostra. Anche perché il carcere in questione non è nuovo ad episodi simili. Lo scorso agosto, nel cuore del caldo estivo già di per sé ‘nemico’ della salubrità nei luoghi chiusi, un detenuto, mentre dormiva, era stato morso sul labbro da un topo. Il caso aveva sollevato un polverone accendendo i riflettori su una questione che tocca ormai numerose case circondariali italiane: il sovraffollamento e la detenzione in ambienti per niente salubri e forieri di malattie ed epidemie, che in un Paese sviluppato come l’Italia dovrebbero essere ormai morte e sepolte. L’allarme dunque, al Panzera e non solo, è alto e gli avvocati stanno facendo quanto in loro potere per vedere riconosciuti quanto meno i diritti minimi di vita per i propri clienti. I due detenuti ammalatisi di tubercolosi, intanto, sono stati trasferiti nell’apposito reparto dell’Ospedale Riuniti, dove lamentano comunque trattamenti al limite della decenza: cibo di scarsissima qualità e pulizia che è quasi un optional. “Il carcere in confronto sembra un grand hotel” trapela dall’ospedale. La speranza è che l’episodio, a parte risolversi nel migliore dei modi per i due ricoverati, possa finalmente porre l’attenzione sulla questione carceri e sulla necessità che i detenuti vengano trattati innanzitutto da esseri umani. Perché fare in modo che chi ha sbagliato possa riconoscere i propri errori è importante, ma non si può certo ottenere questo risultato abbandonando queste persone al proprio destino, lasciandole letteralmente marcire in condizioni da terzo mondo. La legge deve essere uguale per tutti, anche per chi è rinchiuso in un carcere, per motivi più o meno gravi. Treviso: blitz del ministro Orlando in carcere di Giorgio Barbieri La Tribuna, 4 dicembre 2017 La visita a sorpresa del responsabile della Giustizia: “Non è una situazione di eccellenza, ma certamente accettabile”. È stato un vero e proprio blitz quello del ministro della Giustizia, Andrea Orlando, che nel tardo pomeriggio di venerdì si è presentato davanti al carcere di Santa Bona per una visita a sorpresa. Ad accoglierlo, tra gli altri, il direttore della casa circondariale Francesco Massimo. “Il numero dei detenuti è compatibile con il numero di posti regolamentari”, ha commentato il ministro all’uscita dalla visita, “tuttavia non si può dire che sia una situazione di eccellenza, ma certamente accettabile”. L’iniziativa rientra in una serie di attività che Andrea Orlando sta compiendo regolarmente quando va in visita nelle province italiane e così ieri il ministro ha sfruttato gli incontri che aveva in programma a Padova e a Mestre per visitare il carcere di Treviso. “Ho fatto una visita senza preavviso alla casa circondariale”, ha sottolineato il ministro Orlando con un post sul suo profilo Facebook, “ho sempre preferito visitare i nostri istituti penitenziari senza prima avvisare. Credo che sia il modo migliore per rendersi conto dei problemi, evitare l’ufficialità, poter scambiare alcune opinioni con gli uomini e le donne della polizia penitenziaria e dell’amministrazione, per comprendere meglio le condizioni di lavoro e detenzione”. Per quanto riguarda il carcere di Treviso, il ministro Orlando ha detto anche che “alcuni interventi, in particolar modo di edilizia, devono essere ancora attenzionati e che in questi anni abbiamo lavorato per cambiare il sistema penitenziario. Abbiamo realizzato il riallineamento delle carriere atteso da anni. Affrontato e superato la condanna della Cedu, ridotto il sovraffollamento. Le condizioni del carcere sono migliorate, anche se resta ancora molto da fare. A brevissimo questo percorso troverà compimento con l’approvazione dei decreti che contengono la riforma dell’ordinamento penitenziario. Anche nella legge di bilancio e nel decreto fiscale abbiamo previsto molte novità, a partire dal rafforzamento degli organici”. Il ministro aggiunge che “lo abbiamo fatto con un obiettivo. Avvicinare al dettato costituzionale il nostro sistema, perché siamo convinti che la sicurezza si persegua anche attraverso l’opera di reinserimento dei detenuti. Questo lavoro è reso possibile dell’impegno generoso degli uomini e le donne di questa amministrazione che non smetterò mai di ringraziare”. Dopo il Due Palazzi di Padova la Casa circondariale di Treviso è comunque il carcere con il numero più alto di detenuti che hanno deciso di tornare a frequentare la scuola. Su 180 ospiti sono 120 coloro che sono impegnati in attività scolastiche dentro il carcere di Santa Bona. All’interno del carcere ci sono anche due campi sportivi, quattro palestre, cinque aule, due biblioteche, un locale di culto, un laboratorio e una officina. Merano (Bz): i parrocchiani fanno i volontari per i detenuti di Massimiliano Bona Alto Adige, 4 dicembre 2017 A guidarli Paola Spagnoli, 31 anni, operatrice della Caritas: “lavoriamo con le persone e non con reati che camminano”. Merano ha deciso di fare rete, con le sue Parrocchie, per aiutare i carcerati. E per creare uno zoccolo duro di volontari ha organizzato una serie di incontri con il sostegno della Caritas, impegnata da anni nel progetto “Odós”. In greco significa strada e il servizio intende aiutare detenuti ed ex-detenuti a ritrovare la via perduta. A metterci la faccia, l’altra sera alla parrocchia di Santo Spirito, è stata Paola Spagnoli, 31 anni, che in carcere va due volte a settimana. Qual era il senso dell’incontro con i parrocchiani? “Parlare di un tema che può sembrare lontano, ma non lo è: il carcere. Abbiamo messo al centro argomenti come il senso della pena e la necessità di riconoscere chi sta scontando una pena come persona e non come un “reato che cammina”. Quali sono i sacerdoti a cui vi siete appoggiati finora per sviluppare un progetto obiettivamente ambizioso? “Don Gabriele Pedrotti di Santa Maria Assunta e don Gioele Salvaterra di Santo Spirito”. Ma il parrocchiano che decide di dare una mano cosa fa concretamente? “Ci confrontiamo, non di rado, con persone chiuse in casa per gran parte della giornata. Aiutarle può voler dire accompagnarle una volta alla settimana a fare la spesa. Nel caso dei detenuti in permesso la nostra è una forma di accompagnamento a sostegno della quotidianità”. Qual è il senso del progetto “L’utente che non c’è” che state portando avanti anche nelle Parrocchie? “L’obiettivo di questi incontri è quello di attivare le comunità nel leggere e riconoscere situazioni di disagio e nel farsi più vicine a chi - nell’espiazione della sua pena - vive una situazione di vulnerabilità”. Ma ci sono corsi mirati per formare volontari di questo tipo? “Sì, certo. Il confronto dell’altra sera a Merano è stato, per così dire, preparatorio. Nei primi mesi del 2018 partiranno i corsi per formare volontari più strutturati. In grado di entrare, all’occorrenza, anche in carcere. I parrocchiani che continueranno questo percorso potranno dare un contributo importante sul territorio. Anche per questo ci stiamo muovendo soprattutto fuori da Bolzano”. Dovendo scegliere i carcerati da seguire più da vicino ha rilevanza anche il reato commesso? “Non facciamo questo tipo di distinzioni. È fondamentale, al contrario, la motivazione di ciascuno”. Si tratta soprattutto di stranieri? “Non necessariamente, ma sono in leggera maggioranza. Molti di loro sono radicati in Alto Adige, hanno moglie e figli qui. E prima di entrare in carcere avevano anche un lavoro”. Quanti, alla fine, riescono a reinserirsi con l’aiuto dei volontari e degli operatori Caritas? “È difficile fare statistiche ma li seguiamo passo per passo, creando reti protettive assieme agli altri servizi. L’apporto dei volontari, in ogni caso, si rivela sempre più prezioso”. Milano: “Ascolta i miei passi”, quando l’autismo incontra il carcere moveability.org, 4 dicembre 2017 L’autismo è una malattia della quale, ancora oggi, si sa ben poco, sia per quanto riguarda le cause che, di conseguenza, quanto alla cura e, in generale, alle modalità più adatte per stabilire un contatto con chi ne è affetto. Le persone con autismo sono spesso vittime di pregiudizi e convinzioni errate (influenzate anche dal modo in cui questa condizione è stata spesso descritta dal cinema), nonché tenute in disparte perché “strane” (e, quindi, potenzialmente pericolose, secondo molti). Come capire l’universo di chi convive con l’autismo? Come creare vicinanza e dialogo? Il progetto “Ascolta i miei passi”, promosso dall’Associazione Ortica di Milano si propone di sensibilizzare l’opinione pubblica su questo tema, partendo dall’ascolto diretto dei protagonisti: le persone con autismo, che si raccontano a loro modo in brevi audio, consentendo così di conoscerne la quotidianità, il percorso di vita, i sogni, le speranze. In occasione della Settimana della Disabilità (dal 27 novembre al 2 dicembre), l’Associazione Ortica ha portato “Ascolta i miei passi” all’interno di un luogo che, nell’immaginario comune, rappresenta anch’esso un “mondo a parte”, nonostante si trovi nel cuore della città: il carcere di San Vittore. Grazie ad un accordo con la direzione del carcere, nei cinque incontri organizzati, i detenuti hanno potuto ascoltare in cuffia le storie raccontate direttamente dalle persone con autismo. Non solo: hanno anche avuto la possibilità di calarsi direttamente nella realtà delle persone narranti, indossandone simbolicamente le scarpe: quelle di bambini che hanno appena ricevuto la diagnosi, scarpe da ginnastica dell’adolescente che cammina cento mille volte avanti e indietro per scaricare l’ansia, o, ancora, le scarpe di un uomo che vorrebbe diventare protagonista della sua vita ma non ce la fa perché è vittima del pregiudizio. Un tema, quello del pregiudizio, che accomuna persone con autismo - e persone con disabilità in genere - e persone detenute, in fondo. Basterebbe semplicemente conoscere da vicino queste realtà per rendersi conto che, in definitiva, le differenze sono molto meno marcate di quanto si creda. Ed è proprio questo il significato del nome scelto per il progetto “Ascolta i miei passi”. Come recita un proverbio dei nativi americani: Caltagirone (Ct): torna in chiesa la statua della Madonna restaurata dai detenuti di Nuccio Merlini La Sicilia, 4 dicembre 2017 Oggi la consegna durante la messa nella parrocchia Gesù Adolescente della Casa del Fanciullo. È stata consegnata oggi, dopo la Messa domenicale, nella parrocchia Gesù Adolescente (Casa del Fanciullo) la statua della Madonna restaurata da insegnanti e detenuti della Casa circondariale di contrada Noce Caltagirone. I giovani detenuti, guidati dai loro docenti, Adamo, Pintaloro, Squadrito e Impresario e dal responsabile della sicurezza Romito, attraverso lezioni teorico-pratiche, hanno appreso le tecniche che li hanno portati al definitivo restauro della statua, la cui fatiscenza era notevole, ed il risultato finale è stato il premio più grande conseguito. La statua è stata ufficialmente consegnata oggi nelle mani del parroco don Tino Zappulla, al cospetto dei docenti che ne hanno seguito il percorso restaurativo, della dirigente scolastica Concetta Mancuso e del giovane detenuto (debitamente autorizzato) che, assieme a tanti altri colleghi, ha eseguito il delicato restauro. Riflettori accesi quindi non solo sul restauro di una statua, ma soprattutto sulla realtà carceraria, spesso invisibile e silenziosa, nella quale il lavoro assume un profondo significato, rappresentato dall’avvenimento odierno. Un gesto quindi e un lavoro dai mille significati in quanto attraverso il restauro oltre alla tecnica appresa, quanti scontano la loro pena nel carcere, trovano lo spunto di “restaurare” anche la propria condotta. Propugnatori di questa lodevole iniziativa i docenti di restauro che insegnano nella struttura carceraria e che unitamente ai detenuti svolgono un lavoro di acculturamento e di redenzione. “Nell’occasione della consegna dell’opera - spiega il prof. Raffaele Adamo a nome dei colleghi tutti - un giovane detenuto, debitamente autorizzato dal magistrato di sorveglianza, ha spiegato ai presenti l’esperienza sua e di quanti hanno collaborato al restauro effettuato, sotto la nostra guida e leggerà una lettera scritta di suo pugno sul percorso fatto, frutto di impegno, attenzione e passione”. Roma: prima tappa del progetto “L’Arte non ha sbarre” labiennale.eu, 4 dicembre 2017 Partirà il 7 dicembre la prima tappa del progetto “L’Arte non ha sbarre”, anticipando la Giornata Mondiale dei Diritti Umani indetta dalle Nazioni Unite con Gianluca Secco, redazione di Lercio, Marco Conidi e lo street artist Moby Dick. L’arte non ha sbarre - art has no bar - è un progetto della BiennaleMArteLive, con il Patrocinio del Garante dei Detenuti del Lazio e in collaborazione con le Officine GM, il cui obiettivo è portare l’arte e la cultura nelle carceri sia come intrattenimento che come vera e propria formazione. L’idea di base è far diventare le carceri non solo degli istituti di pena ma anche degli istituti di cultura, dove si fa e si apprende cultura per migliorarsi, dove le contraddizioni e le energie presenti vengano valorizzate e trasformate in senso costruttivo e propositivo e non solo in senso contenitivo. Il progetto intende unire la valorizzazione della persona allo sviluppo della sua autonomia, coerentemente con la vocazione dell’art. 27 della Costituzione, andando nella direzione di un re/inserimento sociale. Per l’occasione si esibiranno i cantautori Gianluca Secco e Marco Conidi; Vittorio Lattanzi, Patrizio Smiraglia ed Edmondo Luigi Settembrini del giornale satirico Lercio e lo street artist Moby Dick farà un murales in un muro all’interno della Casa di Reclusione sul tema dei diritti umani. La street art in questo caso non è solo rigenerazione sociale e del territorio, ma anche umana. Roma è la capitale della Storia, dell’archeologia, ma è sempre di più proiettata nel futuro come capitale dell’arte contemporanea. Per questo chiederemo di inserire l’opera realizzata all’interno della mappatura della street art romana. In collaborazione con O.GM. 7 dicembre - Casa di Reclusione Rebibbia ore 10 - Via Bartolo Longo 72 - Roma. “Fine pena: ora”, in scena al Piccolo di Milano. Indovina chi viene in cella di Anna Bandettini La Repubblica, 4 dicembre 2017 La pièce. Paolo Pierobon e Sergio Leone in “Fine pena: ora”, in scena al Piccolo di Milano. Uno scambio di lettere tra giudice e condannato. Diventato libro e ora spettacolo. Che parte in nome della legge. E finisce dritto al cuore. Elvio Fassone è stato magistrato al Csm e senatore. Nel 1985 a Torino presiede il maxi processo sulla mafia catanese, dove emette per uno degli imputati, Salvatore, ventisette anni, pluriassassino, la condanna all’ergastolo. Poco dopo, avvia con lui una corrispondenza sempre più personale. Due voci interiori che, nel corso di ventisei anni, danno vita a un’amicizia che si interroga sulla pena, l’ergastolo come strumento di giustizia, il riscatto, ma anche sugli affetti e la vita. Lo scambio è raccontato da Fassone in un libro, Fine pena: ora (Sellerio) diventato ora uno spettacolo che la lineare scena di Marco Rossi esemplifica in uno spazio inizialmente cupo e diviso in due - la poltrona del giudice e la “gabbia” - poi sempre più amalgamato e luminoso. Sul racconto epistolare, Paolo Giordano - in un’altra sala, sempre al Piccolo, c’è anche il suo Galois - ha costruito un dialogo a distanza scandito in una serie di quadri che la regia cinematografica di Mauro Avogadro, semplice e solenne allo stesso tempo, poteva forse diluire: si contano più o meno tredici stacchi di buio su un’ora e quarantacinque minuti. Si parla poco dei reati o del rispetto delle norme, molto di vita, amori, sogni, di grammatica (perché il detenuto parla un italo-siciliano sconnesso), di libri, di semilibertà, del 41bis e del tentato suicidio di Salvatore. Nessuna meraviglia se prevale la simpatia per il detenuto, e non solo perché suscita curiosità, odio, ammirazione, ma perché lo interpreta Paolo Pierobon magistrale in tuta e coi capelli tagliati da coatto. Bei personaggi che tengono fermo un progetto semplice e personale di umanità. Anche se, per Salvatore, tardivo. “Io ho ucciso”, di Eni Vasili. Un viaggio nell’inferno di drammi al femminile albanianews.it, 4 dicembre 2017 Donne e violenza nell’Europa dei giorni nostri. Eni Vasili presenta “Io ho ucciso” in anteprima a Più Libri Più Liberi il 10 dicembre nel Roma Convention Center La Nuvola. L’evento è promosso in collaborazione con il Ministero della Cultura d’Albania, con l’Ambasciata albanese a Roma e con Albania News. Si intitola “Io ho ucciso” la nuova inchiesta di Eni Vasili, in uscita a dicembre per i tipi di Besa editrice. La nota giornalista albanese, volto televisivo tra i più noti in patria, è entrata nelle carceri albanesi per incontrare dieci donne condannate per omicidio e raccogliere le loro strazianti storie. Quello di Eni Vasili è un viaggio nell’inferno di drammi al femminile che si sviluppano spesso fra le mura di casa, all’ombra di una mentalità maschilista, fra mariti padroni e famiglie capaci di tessere intorno alle donne una rete di sottili violenze, soprusi e pressioni quotidiane che covano in silenzio fino all’estremo punto di rottura. Rispondendo alle domande di Eni Vasili, le assassine che si raccontano in Io ho ucciso fanno emergere storie e vissuti in cui il reato sfida la morale mentre i ruoli si capovolgono, con l’omicida che diventa vittima e la vittima che è quasi impossibile non percepire come colpevole. Il libro sarà presentato in anteprima nazionale a Più Libri Più Liberi domenica 10 dicembre, alle 12:30, nella Sala Giove del Roma Convention Center La Nuvola. A dialogare con l’autrice ci saranno la dott.ssa Ida Del Grosso, direttrice della Casa circondariale femminile di Rebibbia, la dott.ssa Mimosa Hysa del Ministero della Cultura d’Albania e la giornalista Luisa Ruggio. L’evento è promosso in collaborazione con il Ministero della Cultura d’Albania, con l’Ambasciata albanese a Roma e con Albania News. L’autrice Eni Vasili - Eni Vasili è una delle figure più note del giornalismo televisivo albanese. Nata a Tirana, e laureata in Lingue Straniere, ha conseguito un master in Management in comunicazione pubblica, politica e istituzionale a Milano. Dopo aver rivestito il ruolo di caporedattore presso il Dipartimento delle comunicazioni di RTSH, diventa direttore generale della televisione Alsat, partecipando alla sua trasformazione da network d’informazione a tv generalista sotto il marchio Albanian Screen. Durante questo periodo, realizza due dei formati più importanti del genere: Ora 20.00 e Studio Aperto, a oggi uno dei programmi più seguiti. Presidente del Forum dei giornalisti professionisti albanesi, Eni Vasili scrive per “Panorama” ed è autrice di numerosi articoli volti a indagare aspetti della vita sociale, schierandosi a favore dei deboli contro le ingiustizie. “Seme di strega”. Margaret Atwood adesso balla con Shakespeare di Chiara Valerio La Repubblica, 4 dicembre 2017 Nel suo ultimo romanzo l’autrice canadese trasferisce “La tempesta” dentro una prigione dove Miranda è una ex danzatrice, Ariel un hacker e Calibano un rapper. Per dirci che tutti, alla fine, viviamo in un carcere. “Riconosceva il suo dramma, un dramma di cui lui era l’unico spettatore. Era infantile intestardirsi a voler essere giù di corda. Non era un comportamento adulto”. Felix, il protagonista di “Seme di strega” di Margaret Atwood (Rizzoli, traduzione di Laura Pignatti) è un regista teatrale, o almeno, lo è stato. La vita di Felix, quando lo incontriamo, è già al passato. Ha avuto una moglie, ha avuto una figlia, ha diretto un festival di teatro, ha pensato di mettere in scena La tempesta di Shakespeare e di vestire Prospero con un mantello di pelouche svuotati e cuciti l’uno accanto all’altro come in un patchwork di pelo sintetico e occhi di plastica, “questi animali avrebbero evocato la natura elementale dei poteri soprannaturali e tuttavia naturali di Prospero”. Al presente, la vita di Felix s’è ristretta, nessun arredo umano, nessun arredo tout court nella piccola stamberga presa in affitto per sottrarsi al mondo. Felix mangia un uovo alla coque, spia in internet le persone - Tony e Sal, ex colleghi e forse amici - che lo hanno tradito e si prende cura della figlia Miranda, di quel che ne rimane - una foto su un’altalena in una cornice d’argento - lo spirito. Come tutti gli spiriti, dagli alcolici ai fantasmi, anche Miranda altera il passare dei giorni di Felix. Così fanno gli spiriti, così è se gli pare. Tuttavia, in questa vita isolata alle cui finestre si vede la campagna fredda e inospitale, arriva, sempre via etere - spiriti anche questi - la possibilità di sostituire un insegnante nel vicino carcere. Un insegnante di teatro. “Ma che forma avrebbe potuto prendere la sua vendetta?”. La maschera, con la speranza forse che la maschera, alla fine, diventi il volto. Felix sceglie uno pseudonimo, e comincia a insegnare a un gruppo di galeotti, comincia con Giulio Cesare, Macbeth, Riccardo III, comincia con i dolori, le lotte, le vendette, i tradimenti, le risse - “Perché no? Tutti adorano le scene delle risse: è per questo che Shakespeare le ha messe” - per tornare, infine, a Prospero, per liberare dall’isola della propria memoria la figlia Miranda, e per sé stesso. Felix, alias Signor Duke, decide che, passati dodici anni, può mettere in scena La tempesta che gli era stata negata. E lo fa. In carcere. “Sono le parole che dovrebbero preoccuparvi, pensa Felix guardando le guardie all’entrata. È questo il vero pericolo. Le parole non le vedono gli scanner”. “Seme di strega” è la riscrittura che Atwood ha fatto de La tempesta di Shakespeare. Ed è il quinto volume di un progetto della Hogarth Press (casa editrice fondata nel 1917 da Virginia Woolf e suo marito Leonard) di riscrittura, a 400 anni dalla morte, delle opere del bardo. Lo hanno già fatto Jeanette Winterson, Jo Nesbø, Tracy Chevalier e Anne Tyler. La tempesta è toccata ad Atwood, così come doveva essere per la natura (della narrativa) di Atwood, per le sue incursioni, frequenti e risalenti, in qualcosa che può essere assimilato al genere, soprattutto toccava a lei per l’ossessione - sapiente e risalente - che riguarda il concetto di prigione, clausura, confino, esclusione e reclusione. In Shakespeare, Prospero e sua figlia Miranda sono confinati sull’isola. Prospero, dal canto suo, tiene al laccio Ariel, spirito dell’aria, Caliban frutto della terra, sua figlia stessa e Ferdinand, tutti. Nella Tempesta, conta Atwood, ci sono ben nove prigioni e l’ultima è il dramma stesso. Tutto è un carcere, tutti siamo carcerieri (gli uomini di più), pochi intuiscono e ancora meno accettano che l’ultima magia, imparati e abusati gli incantesimi, è smettere di fare magie. “Comunque, ce l’ho fatta”, si dice. “O almeno non ho fallito”. Perché gli sembra un tradimento? Più raramente ci si risolve al perdono che non alla vendetta, sente nella sua testa. Atwood mette in scena due volte, tre, moltiplica - e d’altronde La tempesta è il dramma nel (sul, col, pel) dramma - il racconto del carceriere e del carcerato, figure coincidenti quando, per un momento o per una vita, si pensa che sia possibile correggere il male invece di concentrarsi sul far sì che il male non accada. Come per Shakespeare, così per Atwood, il passato è un prologo. Come per Felix, così per Atwood “il testo non è una vacca sacra” tanto che Ariel, lo spirito dell’aria, è un giovane hacker (tutti gli spiriti, anche il mondo di etere, alterano la realtà. Ma, allora, quanto è debole e che cos’è la realtà?), Ferdinand, un seduttore a fini di lucro su polizze vita, Caliban è un rapper, tutto è retto dai coboldi, folletti formicolanti che trascinano azione drammatica e attori in commedia, Miranda è una ex ballerina che parla come uno scaricatore di porto. Dopo Il racconto dell’ancella (pubblicato da Ponte alle grazie, l’editore italiano di Atwood), dopo L’assassino cieco, dopo L’altra Grace, dopo cinque premi Pulitzer, candidature al Nobel e otto Emmy Awards per la serie tratta da Il racconto dell’ancella, Atwood racconta qui il caleidoscopio, la messa in scena della nostra idea di noi stessi davanti a noi stessi, e dunque e per sempre, di fronte al noi stessi vero, affidabile e socratico che sono gli altri. “Guardare le molte facce che guardavano le proprie facce mentre fingevano di essere qualcun altro: Felix, questo, lo trovava stranamente commovente. Per una volta nella vita, volevano bene a sé stessi”. Stati Uniti. “Condannato a morte da innocente, ora faccio l’avvocato per salvare gli altri” di Miriam Romano Libero, 4 dicembre 2017 “Mentre ero in cella ho letto un libro su un killer e ho avuto l’idea: ho chiesto il test del dna e mi hanno assolto. Ma nessuno mi ridà quel pezzo di vita perso”. È iniziato tutto dal corpo di una bambina di nove anni, Dawn Hamilton, trovata morta in un bosco del Maryland nel marzo del 1984. Senza pantaloncini, il viso paonazzo, le mani fredde, le labbra contorte in una smorfia di paura. Era stata strangolata, violentata e ammazzata dai colpi brutali inferti con una pietra, trovata sporca di sangue accanto al cadavere. Stava giocando con le sue amiche vicino casa, quando un uomo la rapì e la condusse tra gli alberi fitti, dove nessuno poteva sentirne le grida e i gemiti. Le aule dei tribunali, le televisioni e giornali iniziarono a chiedere vendetta: l’orco che aveva strappato alla bambina gli anni, i giochi e la vita, doveva essere trovato. Così la storia di Dawn si intrecciò inestricabilmente alla vita di Kirk Bloodsworth, un ragazzo di ventidue anni, un ex marine, arrivato da poco nel Maryland per guadagnarsi da vivere come pescatore. Il suo volto, le sue mani, i suoi capelli, secondo i testimoni, erano quelli dell’assassino. “Ero stato coinvolto in un crimine che non avevo commesso”, ci racconta oggi a cinquantacinque anni. Tutto precipitò. Mentre Kirk gridava la sua innocenza, la polizia andava avanti, i sospetti si infittivano e la pena capitale gli piombò addosso. Tra le pareti strette di una cella lottò per nove anni, fin quando grazie al test del dna riuscì a provare che con la morte di quella ragazzina lui non aveva nulla a che fare. “Sono stato il primo negli Usa ad essere esonerato dalla pena di morte col rilevamento delle impronte digitali”. Dopo essere stato scagionato, ha deciso di intraprendere la carriera giuridica ed è diventato un avvocato professionista. Come mai? “Quando sono uscito di prigione ho attraversato crisi depressive e attacchi di panico. Per uscirne, ho iniziato a raccontare la mia storia in pubblico. È stato catartico. Ma poi ho voluto fare di più. Continuavo a pensare che quello che era successo a me poteva capitare a chiunque. Quindi sono sceso in prima linea come avvocato. Mi sono battuto perché la pena di morte venisse cancellata dal Maryland e ci siamo riusciti. Sono diventato direttore di Witness to Innocence, un’organizzazione che lotta per l’abolizione della pena di morte e per riformare il sistema giudiziario”. Con lei sono stati commessi diversi errori. Come sono andate le cose? “L’assassino di Dawn Hamilton era stato descritto come un uomo alto sei piedi e cinque pollici (circa 1,95 cm)magro, capelli biondi ricci, baffi folti, pelle abbronzata. Io, invece, ero alto un metro e ottanta, i miei capelli erano rossi come il ketchup e la mia carnagione chiara. Ma un mio vicino di casa, notando una somiglianza tra me e un identikit mandato in onda in televisione, ha chiamato il Dipartimento di Polizia della Contea di Baltimora in Maryland facendo il mio nome. Cinque testimoni indicavano me come assassino e due di loro avevano otto e dieci anni. Due ragazzini”. Il processo com’è stato? “È durato solo due settimane. Ricordo che tutti mi puntavano il dito contro, il pubblico ministero mi chiamava “mostro”. Io non facevo altro che ripetere che ero un uomo innocente. Quando il giudice ha letto la sentenza, il tribunale è scoppiato in un applauso. “Dategli il gas! Uccidetelo”, urlavano. Poi mi hanno rinchiuso nel penitenziario del Maryland in una cella strettissima. Potevo fare tre passi per raggiungere i due capi della prigione e mi bastava allargare le braccia per toccare le pareti”. Lei è stato in carcere nove anni, due dei quali nel braccio della morte... “La mia cella era proprio sotto la camera a gas. Le guardie non hanno fatto che ricordarmelo ogni giorno, per due anni. Mi hanno accompagnato perfino di sopra e mi hanno chiesto di ridipingere la sedia su cui sarei morto, la chiamavano sedia del capitano. “Sarai presto il capitano Kirk”, mi dicevano. Mi hanno spiegato per filo e per segno come sarebbe andata: l’acido sarebbe stato versato nella vasca sotto la sedia. Al segnale, il boia avrebbe fatto cadere meccanicamente i granuli di cianuro nell’acido, riempiendo la cripta di fumi putridi che mi avrebbero bruciato gli occhi e le narici prima di raggiungere i polmoni. “I condannati devono fare respiri profondi per evitare di prolungare l’agonia”, mi consigliavano ridendo. Poi sarebbero arrivate le contorsioni e le convulsioni. Di solito ci volevano circa 10 minuti perché il condannato morisse. Per me, invece che ero grande e grosso, ci sarebbe voluto di più. Per due anni non ho fatto altro che pensare, ogni secondo, ogni minuto, al mio corpo che moriva, al respiro che veniva meno. Mi passavo la mano sul collo, sul petto, sulla bocca e piangevo a dirotto. Di notte vomitavo perché sognavo di soffocare. A ventiquattro anni sarei morto e non potevo farci nulla”. Poi il suo processo è stato ripreso in mano e la sua pena è stata convertita in due ergastoli. Da lì è iniziata la sua battaglia per essere scagionato. Ci può raccontare come è andata? “Ho iniziato a leggere tantissimo. Sono diventato il bibliotecario del carcere per sette anni e mezzo. Fin quando mi sono imbattuto nel libro The Blooding, che raccontava la cattura di un serial killer britannico avvenuta tramite il test del Dna. E ho avuto l’illuminazione”. Cosa ha pensato? “Se il dna serviva a identificare il colpevole, poteva anche scagionare un innocente. Così ho chiesto che venissero rilevate le impronte digitali sul corpo e i vestiti della vittima”. Ma anche qui non è filata liscia. “Il pubblico ministero mi ha informato che le prove erano andate perse e che il dna era stato inavvertitamente distrutto. Mi è crollato il mondo addosso per una seconda volta. Ero a un passo dalla verità e tutto era andato a monte di nuovo. Per fortuna poi è stato ritrovato. E sai dov’era? Nell’armadio del giudice in un sacchetto di carta, in una scatola di cartone sul pavimento. Nel 1993, grazie a quella prova sono stato scagionato. Ma non era finita, volevo che anche Dawn avesse giustizia”. Per questo ci sono voluti altri dieci anni. “Sì, solo nel 2004 è stato condannato all’ergastolo il vero killer: Kimberly Shay Ruffner, un tizio che era stato arrestato otto giorni prima di me per altri crimini. Per cinque anni è stato in prigione con me e non ha mai detto nulla. Ci siamo parlati più volte mentre eravamo in fila, ma non mi guardava mai negli occhi”. Com’è stata la sua vita dopo la prigione? “Ero rimasto fermo per quasi dieci anni. Mentre tutti erano andati avanti, erano andati al college, si erano sposati, avevano avuto dei figli, io non sapevo nemmeno tenere in mano un libretto di assegni. E poi c’era la domanda che mi perseguitava. Mi decidevo a uscire con una ragazza, ma poi mi chiedeva: “Cos’hai fatto in questi ultimi anni?” E tu cosa rispondi? “Sono stato in galera perché accusato di aver violentato e ammazzato una bambina di nove anni, ma sono innocente”. Il suo caso ha fatto da apripista ad altri innocenti condannati a morte. “Sì, io sono stato il primo a salvarmi grazie al test del dna. In tutto ad oggi siamo circa 160 esonerati dalla pena di morte negli Stati Uniti e circa una ventina di questi si sono salvati proprio attraverso la prova del dna. Adesso negli Usa c’è un esonero ogni tre condannati”. Azerbaigian. Come escludere dai processi gli avvocati indipendenti di Riccardo Noury Corriere della Sera, 4 dicembre 2017 Il governo dell’Azerbaigian (nella foto, il presidente Ilham Aliyev con la moglie Mehriban, sua vice) ha escogitato un altro modo per ridurre al silenzio i coraggiosi avvocati che si occupano di diritti umani. A seguito di un emendamento al codice di procedura amministrativa e civile, dal 1° dicembre sono esclusi dai tribunali tutti i legali che non risultano iscritti al Collegio degli avvocati, non esattamente un organismo indipendente. Dopo aver perseguitato, minacciato e anche condannato gli avvocati che cercavano di garantire processi equi, ora questa nuova norma compromette ancora di più lo stato di diritto. In un paese nel quale persino la più innocente critica nei confronti delle autorità, come scrivere un post sui social media, apre le porte del carcere, impedire agli avvocati per i diritti umani di difendere gli imputati di reati di opinione rischia di rendere vana ogni residua speranza nella giustizia. Turchia. Condannato a 3 anni direttore sito web Cumhuriyet Ansa, 4 dicembre 2017 Record del paese con 550 reporter detenuti. Un tribunale di Istanbul ha condannato a 3 anni e 1 mese di prigione per “propaganda terroristica” Oguz Guven, direttore del sito web di Cumhuriyet, il quotidiano di opposizione laica al presidente Recep Tayyip Erdogan, diventato uno dei simboli delle minacce alla libertà di stampa in Turchia. Il giornalista era sotto processo per la pubblicazione sull’account Twitter di Cumhuriyet di un post sulla morte sospetta - avvenuta in un incidente d’auto - del magistrato Mustafa Alper, che avviò la prima indagine contro la presunta rete golpista di Fethullah Gulen dopo il fallito putsch del 2016. Il tweet, che secondo l’accusa avrebbe suggerito una presunta correlazione tra il decesso del procuratore e le sue inchieste, era stato cancellato dopo 55 secondi. Il reporter, rilasciato a giugno dopo 32 giorni di detenzione cautelare, aveva inoltre sostenuto che era stato pubblicato “per sbaglio”. Per Cumhuriyet si tratta di un nuovo colpo, in attesa della sentenza del maxi-processo per “terrorismo” contro diversi suoi giornalisti e amministratori, tra cui il direttore attuale Murat Sabuncu - detenuto da 387 giorni - e il suo predecessore Can Dundar, riparato in Germania. Gli imputati sono accusati a vario titolo di legami con la presunta rete golpista di Fethullah Gulen, il Pkk curdo e il gruppo di estrema sinistra Dhkp/c e rischiano fino a 43 anni di carcere. La prossima udienza è fissata per il 25 e 26 dicembre. Secondo l’osservatorio per la libertà di stampa P24, i reporter attualmente detenuti in Turchia sono almeno 155, più che in ogni altro Paese al mondo. Egitto. Disse “violentare le donne è un dovere nazionale”, avvocato condannato La Stampa, 4 dicembre 2017 Nabih El Wahsh aveva fatto l’assurda dichiarazione in diretta tv. L’uomo si è reso irreperibile. È stato condannato in contumacia a tre anni di reclusione l’avvocato conservatore egiziano Nabih El Wahsh che aveva dichiarato in televisione “un dovere nazionale” violentare le donne che indossano pantaloni provocanti. La sentenza è stata emessa da un tribunale del Cairo per gli affari urgenti che ha anche condannato il legale ad un’ammenda di 20mila lire egiziane (poco più di mille euro). La dichiarazione di El Wahsh in tv lo scorso ottobre sollevò immediate proteste delle associazioni di donne non solo egiziane, collegandosi alla mobilitazione generale contro le molestie sessuali. Sulla vicenda, molto rilievo ha avuto, tra altre, la dichiarazione dell’attrice tunisina Hend Sabry, secondo la quale “il fenomeno della molestia è diffuso nelle istituzioni artistiche arabe e nelle attività delle organizzazioni di difesa dei diritti umani, senza che questo “spettini i capelli” sulla testa dei responsabili arabi”. “Eccetto poche modifiche in alcune leggi sullo stato civile, le istituzioni politiche, sociali e giuridiche che operano per l’abolizione del sessismo - sottolinea in proposito il quotidiano Al Quds Al Arabi - in realtà ancora lo mantengono”.