“AbitareRistretti”. Il carcere Due Palazzi allarga i suoi spazi mattinopadova.gelocal.it, 3 dicembre 2017 Risistemata laboratori e sedi nella Rotonda Tre che ospita la cooperativa AltraCittà e Ristretti Orizzonti. Flavio è in carcere dal 1999, lo ammette candidamente: “Non ho mai lavorato, e non fa per me. Quando vedo le sbarre il primo pensiero è di tagliarle e non di dipingerle, ma l’ho fatto e ho aiutato a modo mio durante il cantiere”. È una delle testimonianze emerse venerdì durante la presentazione di AbitareRistretti, un progetto e un lavoro condiviso, nato per umanizzare lo spazio della pena e ampliare le possibilità di lavoro dei detenuti della casa di reclusione Due Palazzi. Tutto è partito un anno fa con la progettazione di trasformazione degli spazi architettonici dell’area “Rotonda Tre” dove, da 20 anni, convivono due realtà: la Cooperativa Sociale AltraCittà che gestisce laboratori di lavoro (legatoria, assemblaggio della carta, minuterie metalliche e digitalizzazione) e la biblioteca d’istituto; e Ristretti Orizzonti/Granello di Senape, che segue la redazione della rivista Ristretti Orizzonti, il Centro di documentazione Due Palazzi e il Tg Due Palazzi. Il progetto è stato illustrato da Rossella Favero e Valentina Franceschini di AltraCittà e da Enrico Sbriglia, provveditore dell’Amministrazione penitenziaria Triveneto. Il progetto di ampliare gli spazi arriva da un’esigenza specifica: è aumentata la richiesta di lavoro delle persone detenute, da 12 a 27 in pochi mesi in particolare per il laboratorio di minuterie metalliche. Nasce così il workshop AbitareRistretti che ha coinvolto docenti e studenti del progetto Gangcity dell’Università e del Politecnico di Torino, per creare un progetto di risistemazione dell’area con criteri pensati in relazione all’uso degli spazi di lavoro, e condivisi dai detenuti che hanno dato alcuni input ai ragazzi. Il progetto approvato ha preso forma: sono caduti 15 muri, sono state tinteggiate sbarre e finestre con colori vivaci come il giallo e il bluette, costruiti mobili per la biblioteca. I lavori più importanti hanno interessato il laboratorio dove si confezionano materiali per la Fischer Italia, che collabora con AltraCittà dal 2014. I detenuti impegnati nelle attività, sono entusiasti “Passiamo qui 4 ore e mezza al giorno” spiega uno di loro “facciamo tutto manualmente, i prodotti di rilegatura e cartoleria vanno poi venduti, ci sono poi le bottiglie di maraschino, che realizziamo a mano: fino a 1600 pezzi al giorno”. AbitareRistretti da workshop è diventata una realtà che conta di crescere e farsi conoscere attraverso il sito www.abitareristretti.it, dove si vedono le fasi dei lavori e si leggono i contenuti del blog di detenuti e volontari. La giornata è proseguita per ricordare i 20 anni della rivista Ristretti Orizzonti con ospiti, tra i tanti, lo scrittore e giornalista Carlo Lucarelli e l’ex pm Gherardo Colombo. Umanizzare la pena per evitare i suicidi in carcere di Nicola Ferroni (Psichiatra) caffe.ch, 3 dicembre 2017 Togliersi la vita in carcere. Morire in e di carcere. Considerando il tasso di suicidi nella popolazione svizzera, vi é un aumento di 7 volte all’interno delle mura di un penitenziario mentre i tentativi di suicidio e l’automutilazione fino a 30 volte superiore ma annualmente molto variabile. Un dato che ritroviamo esponenziale in tutta l’Europa. Un dato che era di 20 volte superiore anche negli Stati Uniti fino ad una trentina di anni fa, prima che il Governo americano decise di organizzare un Ufficio alla prevenzione dei suicidi in carcere mettendo a disposizione un’èquipe che aveva il compito di formare il personale penitenziario. Ciò ha permesso una diminuzione dei suicidi di oltre il 50 per cento. Ma la problematica è complessa e l’ipotesi dello psichiatra Penrose rimane valevole: vi è un rapporto inversamente proporzionale tra il numero di letti psichiatrici e tasso di incarcerazione. Ma come leggere questi dati dal profilo medico e perché i detenuti più di altri giungono ad una scelta così radicale di togliersi la vita? Dobbiamo partire dal vissuto di chi, improvvisamente, si vede aprire uno dopo l’altro i cancelli di un penitenziario che scandiscono rumorosamente la vita prima e quella che sta per iniziare dal momento in cui il detenuto raggiunge la propria cella; ed è il momento del trauma. In un breve frangente tutto vacilla. Subito la consapevolezza di aver perso alcune delle libertà più importanti per la vita di un essere umano: quella di muoversi, di comunicare, di gestire la propria quotidianità. Improvvisamente si è soli. La solitudine, l’essere segregati, la perdita di autonomia, il doversi adattare a spazi ridotti, il senso di impotenza, possono indurre un detenuto a scegliere di togliersi la vita. Come detto rimane comunque una scelta: la prevenzione trova i suoi limiti quanto incontra il libero arbitrio. “Un atto di eliminazione di se stesso - l’Oms nel 1998 definisce così il suicidio- deliberatamente iniziato ed eseguito dalla persona interessata, nella piena consapevolezza o aspettativa di un risultato fatale”. Quindi il togliersi la vita é una soluzione estrema a un dolore intollerabile. Non che in carcere il dolore sia quantificabile diversamente, ma in carcere il senso di smarrimento e di drammatica impotenza decisionale e l’isolamento, il distacco improvviso da ciò che si era prima, possono aumentare il rischio di suicidio. E ne siamo consapevoli. Lo spazio ed il tempo cambiano, la distanza dal “fuori” improvvisamente diventa immensa e tutto ciò che appartiene al periodo precedente alla carcerazione sembra inesorabilmente lontano. L’entrata in carcere, ripeto, è traumatica. Per questo i primi giorni, le prime settimane, i primi mesi di reclusione, presentano un tasso di suicidi più importante. Sono i primi momenti in cui vi deve essere attenzione e prevenzione maggiore. Siamo coscienti che vi è priorità di una umanizzazione della pena. Le persone che si occupano dei detenuti, gli operatori che si prendono cura quotidianamente di loro, sanno quanto sia importante la relazione, la comunicazione. Nei nostri penitenziari si cerca di coinvolgere attivamente il detenuto, consapevoli di quanto necessaria sia la sua risocializzazione. Un modo questo, forse l’unico, per restituire a chi è privato della propria libertà, fiducia nel futuro e la resilienza nella disperazione. Dopo 6 mesi non è più stupro. Orlando: cambiamo la legge di Maria Elena Vincenzi La Repubblica, 3 dicembre 2017 Il caso di un violentatore scarcerato a Bari riapre il dibattito sui tempi di presentazione per la denuncia di violenza sessuale: il codice penale prevede che non si possa procedere dopo sei mesi dal fatto. Era già successo nel caso delle presunte violenze ai danni di aspiranti attrici delle quali è accusato il registra Fausto Brizzi: anche in quella circostanza, essendo passati più di 180 giorni, l’autorità giudiziaria non può né indagare, né tantomeno processare il presunto stupratore. Il Governo valuterà se sia necessaria una riforma del codice sulle violenze sessuali. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando è “pronto a discutere” se serva una modifica sui tempi per la presentazione della querela, fissati a sei mesi. A sollevare la questione, è stata la decisione del tribunale del Riesame di Bari di scarcerare un 51enne, arrestato per stalking e violenza sessuale ai danni di una dottoressa della guardia medica. Da ieri l’uomo è ai domiciliari con il braccialetto elettronico per gli atti persecutori. Mentre per la violenza non si può procedere: la denuncia è stata presentata troppo tardi. I giudici non hanno potuto fare diversamente: “Il fatto commesso non può essere dichiarato estinto, perché la mancanza di una condizione di procedibilità non attiene al profilo sostanziale del reato, bensì al diverso profilo della improcedibilità dell’azione penale, lasciando integra l’antigiuridicità della condotta”. In pratica, l’aggressore non sarà processabile per la violenza che, però, rimane un fatto grave. Per il quale, però, non si può fare nulla. Si riapre, di nuovo, il dibattito sui tempi per la querela delle violenze sessuali. Che non possono essere fatte oltre i sei mesi dal giorno dello stupro. Pena, appunto, non avere giustizia perché, secondo il codice, non si può procedere. Quello di Bari è solo l’ultimo di una lunga serie di casi. Pochi giorni fa, lo stesso problema si era posto a proposito di una serie di dichiarazioni di attrici o aspiranti tali che raccontavano di avere subito molestie sessuali dal regista Fausto Brizzi. Anche in questo caso, però, i fatti sarebbero tanto risalenti da non essere perseguibili. Giulia Bongiorno, avvocato e fondatrice della Fondazione Doppia Difesa ha subito lanciato l’appello per una modifica dei tempi: “Va detto che i sei mesi previsti per la querela in caso di violenza sessuale sono un termine più lungo di quanto disposto per gli altri reati. Parliamo di un delitto pesantissimo che dovrebbe essere procedibile d’ufficio. Ma visto che in politica si procede per piccoli passi, almeno si potrebbero raddoppiare i limiti per presentare querela. Noi in fondazione vediamo tante donne: il tempo medio per l’elaborazione di una violenza sessuale è di circa 8 mesi. Dire a una donna che già è stata massacrata, “sei arrivata in ritardo”, è un ulteriore massacro”. Tanti giuristi che si occupano di questi reati sono a favore della procedibilità d’ufficio o comunque di una dilatazione dei tempi per la presentazione della denuncia. Tra questi anche il procuratore aggiunto di Roma, Maria Monteleone, coordinatrice del pool che si occupa dei reati contro donne e minori: “La violenza sessuale dovrebbe essere perseguibile d’ufficio - spiega il magistrato. Se il reato c’è, ed è un reato indiscutibilmente grave, non si può lasciare alla scelta della vittima che venga perseguito o meno. Lo stesso vale, a mio avviso, per lo stalking. In questo caso, addirittura, il codice prevede che la querela possa essere rimessa”. Massima disponibilità da parte del Guardasigilli Andrea Orlando a valutare eventuali modifiche. “Sono aperto, come mia abitudine, a qualsiasi confronto e discussione per valutare se sia necessaria una riforma del codice su un tema così importante come quello della violenza sessuale”. Raffaele Guariniello: “Per la Thyssen ingiustizia è fatta chi aveva più colpe non sta pagando” di Paolo Griseri La Repubblica, 3 dicembre 2017 Sono passati 10 anni. Nella notte tra il 5 e il 6 dicembre 2007 nello stabilimento ThyssenKrupp di Torino un gruppo di operai viene investito dalla fuoriuscita di olio bollente: muoiono in sette, il primo dopo poche ore, gli altri tra il 7 e il 30 dicembre. L’unico sopravvissuto è Antonio Boccuzzi, ora deputato Pd. A maggio 2016 la Cassazione conferma le condanne per i sei imputati: dai 9 anni e 8 mesi all’ad Harald Espenhahn fino ai 6 anni e 3 mesi per i manager Marco Pucci e Gerald Priegnitz. Dieci anni dopo, Raffaele Guariniello, il pm del processo Thyssen, è in pensione. Ma guarda a una delle inchieste più importanti della sua carriera con la stessa passione civile. E commenta amaramente: “Il fatto che anche tra i condannati siano i più deboli a pagare mentre i più responsabili sono ancora in libertà, urta il mio senso di giustizia”. Guariniello si riferisce al fatto che i due dirigenti tedeschi condannati, l’amministratore delegato Harald Espenhahn e Gerald Priegnitz, non sono ancora stati arrestati dal governo di Berlino mentre i loro sottoposti italiani sono da tempo in carcere. Dottor Guariniello, perché la urta questa disparità? “È bene premettere che non mi ha mai entusiasmato mandare le persone in carcere. Ho sempre pensato che il processo vada fatto ai reati più che agli imputati. Questo non toglie che, trattandosi di sentenze di condanna passate in giudicato con ben tre pronunciamenti della Cassazione, debbano essere applicate. Il fatto che tra i condannati siano i più deboli a pagare mi disturba. Mentre sono proprio i più responsabili a rimanere in libertà, coloro che avevano maggiore ruolo nelle scelte dell’azienda e per questo hanno subito le condanne più dure”. Che cosa si può fare? “Credo che le autorità italiane si siano mosse in modo sollecito appena la sentenza è diventata definitiva. Quel che sta accadendo in Germania, invece, mi sfugge. Ma questa differenza di trattamento, ecco, non la chiamerei giustizia”. Dieci anni dopo che cosa resta del processo Thyssen? “Ho avuto occasione di definirlo un processo storico e ne sono convinto. Non solo perché riuscimmo a concludere l’indagine in soli due mesi e mezzo ma anche perché la svolgemmo con tecniche nuove. Mi ricordo la notte e i giorni successivi all’incendio. Arrivammo sul posto e non ci limitammo ai rilievi di rito. Perquisimmo subito i computer della società per verificare se l’incidente era frutto solo di casualità o conseguenza di una strategia aziendale che finiva per privilegiare il calcolo economico alla sicurezza. Era in effetti così. Lo hanno riconosciuto tutte le sentenze ed è per questo che sono stati condannati a quasi dieci anni di carcere i vertici della società. Un fatto unico al mondo”. Come siete riusciti a chiudere l’indagine in questo modo? “Perché eravamo un gruppo di lavoro specializzato. Continuo a ripetere da tempo che per i reati sul lavoro è necessaria una procura nazionale di magistrati e inquirenti specializzati. Non basta la buona volontà di pm che oggi si occupano di un incidente stradale e domani di un infortunio sul lavoro”. Lei chiede da tempo questa procura nazionale. Perché non l’ascoltano? “Forse perché il timore è che funzioni davvero”. Qual è oggi, nel 2017, il livello di sicurezza sui luoghi di lavoro? “Partecipo spesso a convegni o a presentazioni del libro sulla mia esperienza di magistrato. Gli incidenti erano calati negli anni della crisi: sono tornati a salire”. Aumenta il lavoro e aumentano i morti? “Purtroppo è così. Con un’aggravante. Tra le vittime degli incidenti sul lavoro aumenta il numero delle persone anziane. Che si affaticano prima, non hanno più la sicurezza dei trent’anni. Insomma sono più a rischio. È un campanello d’allarme che dovrebbe essere tenuto in considerazione mentre si discute proprio di innalzare l’età del pensionamento. Un altro campanello di allarme è la diminuzione delle attività ispettive nei luoghi di lavoro. Meno controlli ci sono più aumenta il rischio”. “L’omosessualità è una malattia”. Non è diffamazione, cade l’accusa contro la dottoressa di Ottavia Giustetti La Repubblica, 3 dicembre 2017 Era stata denunciata dal Torino Pride. La Procura chiede l’archiviazione: la professionista non è imputabile. Dichiara in pubblico che l’omosessualità è una malattia. Non è una condizione normale: “Io ho tre specialità: psicoterapia, medicina e chirurgia: sono 40 anni che curo le persone omosessuali”. Silvana De Mari, il medico e scrittore fantasy torinese di 64 anni, era stata denunciata dal Torino Pride con l’accusa di diffamazione. Anche il Comune di Torino si era aggregato all’esposto. Ma la procura, dopo mesi di indagini, ha chiesto l’archiviazione delle accuse nei suoi confronti sostenendo che il reato di discriminazione non è contestabile perché a De Mari si rivolgeva a una pluralità indiscriminata di persone. Non è individuabile, insomma, il soggetto destinatario delle offese. Ieri mattina si è tenuta l’udienza preliminare davanti al giudice Paola Boemio, dopo che gli avvocati del Torino Pride si sono opposti all’archiviazione. Il gup deciderà nei prossimi giorni. Silvana De Mari, assistita dall’avvocato Mauro Ronco, è medico ma sulla scia delle sue dichiarazioni pubbliche anche l’Ordine ha avviato un’istruttoria per valutare l’eventuale radiazione. Le sue tesi sull’anormalità degli omosessuali rimbalzavano già da tempo sul web ma hanno avuto grande diffusione quando è stata intervistata alla trasmissione radiofonica “la zanzara”. In quel caso la dottoressa e scrittrice ha spiegato anche a Radio24: “I gay vivono una condizione tragica”. A quel punto sono partiti gli esposti. Ma il pm che coordina l’inchiesta, Enrico Arnaldi Di Balme, non ha trovato una chiave giuridica per portare il medico a processo, né sulla diffamazione né sull’aggravante della discriminazione secondo la legge Mancino che però non individua tra i diversi tipi di discriminazione quella secondo l’orientamento sessuale e l’identità di genere. Di diversa idea l’avvocato del Torino Pride, Nicolò Ferraris: “Le offese pronunciate pubblicamente dalla De Marui sono rivolte ai movimenti non solo alle persone Lgbt in generale, e non sono opinioni ma offese”. Napoli: avvocati penalisti in marcia per i diritti dei detenuti La Repubblica, 3 dicembre 2017 Mobilitazione l’11 dicembre contro “il trattamento disumano dei reclusi”. Vite impossibili. Sono quelle dei detenuti ingoiati in un sistema che non funziona e che non rispetta i diritti umani. Per questo motivo, ma soprattutto per sollecitare il governo perché vengano attuati in tempi stretti (prima della fine della legislatura) i decreti attuativi che dovrebbero favorire le misure alternative al carcere, le Camere penali del distretto della corte d’Appello di Napoli hanno organizzato per il prossimo 11 dicembre alle ore 11 la “Marcia per i detenuti”, con partenza dalla sede della Camera penale per raggiungere il carcere di Poggioreale. Intanto scatterà la delibera di astensione dalle udienze dall’11 al 15 dicembre. Alla manifestazione hanno già aderito i radicali, l’associazione Antigone, l’Osservatorio carceri. Dunque il clamore dell’iniziativa, ma anche la speranza di ottenere l’attuazione di quei decreti attuativi - fondamentale per migliorare l’intera situazione dei detenuti in Italia - che dovrebbero ad esempio far passare da tre a quattro gli anni previsti per la sospensione della pena con l’affidamento in prova. “Altrimenti - spiega il presidente della Camera penale, avvocato Attilio Belloni - la situazione diventerà drammatica, con una previsione di 67 mila detenuti nel 2020. Bisogna muoversi in tempi stretti, prima della fine della legislatura”. Naturalmente alla base della marcia di protesta che vuole sollecitare il governo ci sono però dei punti chiave. Primo fra tutti le inefficienze e le disfunzioni del Tribunale di sorveglianza di Napoli “che ostacolano - si legge sulla nota delle Camere penali - l’esercizio di diritto di difesa dei detenuti”. Inoltre il trattamento “disumano e degradante dei detenuti denunciato anche nel rapporto del Comitato prevenzione tortura del Consiglio d’Europa”, e il sovraffollamento delle carceri, “oramai una “emergenza nazionale con 7.450 detenuti in più rispetto alla capienza regolamentare, di cui 1.142 in Campania”. Infine l’uso eccessivo delle misure cautelari della custodia in carcere. Un dato tra tutti: su 57.994 detenuti 20.515 non hanno riportato condanne definitive. Condizioni di vita drammatiche, in molti casi. E che a volte finiscono nelle aule giudiziarie come nel caso del processo “Cella zero”, con dodici agenti di polizia penitenziaria imputati per sequestro di persona, abuso di potere, lesioni sulla base di una serie di testimonianze di detenuti su quanto hanno dovuto subire nel carcere di Poggioreale. Come il caso del giovane che portava il busto ortopedico per alcune fratture che venne maltrattato e picchiato e al quale venne tolto il busto, oppure il detenuto sulla sedia a rotelle sparito nella “cella zero” per tre giorni (a Natale) e poi tornato con segni di violenza sul viso e sul corpo. E ancora, racconta un detenuto della “sveglia dei secondini sbattendo mazze di ferro sulle sbarre cui dovevamo rispondere in piedi prontamente, le urla dei ragazzi che venivano dalle celle di punizione, di notte, che per non sentirle mi premevo i pugni sulle orecchie, il carceriere Hulk che faceva paura solo nominarlo”. Napoli: “cella zero”, anche un disabile scaraventato contro il muro di Vincenzo Iurillo Il Fatto Quotidiano, 3 dicembre 2017 “Cella zero”, perché senza numero. Il nome in codice della stanza disadorna al piano terra del carcere di Poggioreale (Napoli) dove 12 agenti di polizia penitenziaria, ora sotto processo, avrebbero organizzato i pestaggi dei detenuti. E a leggere le carte dell’inchiesta, era con l’avvicinarsi del Natale che le guardie diventavano particolarmente nervose. C’è il racconto di un detenuto per reati di droga che si muoveva su una sedia a rotelle per alcune fratture: gli fu tolto - si legge in alcuni verbali - il corsetto di protezione e fu percosso la notte della vigilia di Natale 2013. L’episodio fu denunciato dalla Garante dei detenuti della Campania, Adriana to paura di ritorsioni, una delle guardie mi minacciò dicendo ‘ti faccio fare la fine di tuo cugino’”. Il cugino era anche lui rinchiuso a Poggioreale. Ebbe un diverbio con quell’agente e si suicidò nel mese di ottobre 2012. “Ho saputo da sua madre che era in corso un processo per accertarne le cause”. Sono solo alcune delle storie raccolte dai pm di Napoli Giuseppina Loreto e Valentina Rametta, coordinati dal procuratore aggiunto Alfonso D’Avino. Dodici gli imputati del processo iniziato nei giorni scorsi e subito rinviato al 1° marzo 2018. prossima udienza, assistiti da un pool di legali, tra i quali gli avvocati Cesare Amodio, Raffaele Minieri, Elena Lepre. Sulla questione, la Camera Penale presieduta da Attilio Belloni ha organizzato per l’11 dicembre una marcia dal Tribunale a Poggioreale per protestare contro le condizioni disumane dei detenuti e le disfunzioni del Tribunale di Sorveglianza. Le guardie carcerarie sotto processo nel frattempo sono state trasferite presso altri penitenziari. I prigionieri di Poggioreale ne avevano terrore e li conoscevano solo tramite soprannomi. Un altro episodio sarebbe avvenuto tra fine giugno e inizio luglio 2013. Un detenuto di una cella del 3° piano del padiglione Avellino prova a non reagire all’agente che lo accusa “di voler fare il guappo”. “Appuntato vi state impressionando, stiamo parlando tra noi”, gli risponde. Basta questo per condurlo nella Cella Zero. “Mi fecero spogliare anche degli indumenti intimi, in tre iniziarono a picchiarmi, insultarmi e farmi eseguire flessioni sulle gambe. Si alternarono a picchiarmi con schiaffi dietro la testa e calci alla schiena e al sedere”. Bolzano: l’Osservatorio carcere Ucpi “il carcere bolzanino? Una discarica sociale” di Luigi Ruggera Corriere dell’Alto Adige, 3 dicembre 2017 Sopralluogo degli avvocati in via Dante. “Due soli educatori per 112 detenuti”. Severo il giudizio dell’Osservatorio carcere dell’Unione camere penali sul carcere di Bolzano: la delegazione nazionale, ieri, ha fatto visita alla struttura di via Dante per fare il punto della situazione e analizzare le problematiche: “Il carcere di Bolzano è una struttura pessima, decisamente al di sotto della media qualitativa, già bassa, dei penitenziari italiani”. L’Osservatorio pubblicherà poi su internet una relazione della visita, e la invierà al Garante per i diritti dei detenuti. “Il carcere di Bolzano è una struttura pessima, decisamente al di sotto della media qualitativa, già bassa, dei penitenziari italiani”. Parola dell’Osservatorio carcere dell’Unione camere penali: la delegazione nazionale, ieri, ha fatto visita al carcere di via Dante per fare il punto della situazione. L’Osservatorio carcere, che invierà poi una relazione al garante per i diritti dei detenuti, era composto dagli avvocati Ninfa Renzini, Filippo Fedrizzi, Franco Villa, Gianluigi Bezzi, assieme ai colleghi bolzanini Stefano Zucchiatti e Mara Uggè. Nella visita al carcere sono stati accompagnati dalla direttrice Annarita Nuzzaci. “Non solo si tratta di un edificio vecchio - hanno spiegato gli avvocati dell’Osservatorio in una conferenza stampa al termine della visita - ma il carcere non raggiunge nemmeno gli attuali standard nazionali: ad esempio mancano le docce nelle celle, ci sono addirittura anche dieci posti letto in una cella, ci sono fornelli accanto ai gabinetti. Sono condizioni che impressionano, soprattutto in una provincia ricca come quella di Bolzano. Più che un carcere è una discarica sociale. Ma, soprattutto, mancano gli spazi sociali, limitati ad una sola sezione, che è stata dotata di un biliardino e un tavolo da ping pong, e il numero degli educatori è decisamente inadeguato: gli educatori sono solo due, e uno andrà in pensione nei prossimi giorni. Per sostituirlo potrebbero anche passare due anni. Unica nota positiva: il personale fa tutto il possibile per migliorare la situazione”. Attualmente i detenuti sono 112, quindi 7 in più rispetto alla massima capienza prevista, anche se in passato si erano raggiunti livelli di sovraffollamento più gravi. “Una soluzione al sovraffollamento - commenta il bolzanino Zucchiatti - dovrebbe venire dall’utilizzo delle camere di sicurezza nelle caserme per chi è in stato di fermo, ma queste strutture mancano in Alto Adige. Un altro problema riguarda il Rems di Pergine, dotato di soli 10 posti, di cui 5 per l’Alto Adige, già tutti occupati”. Un miglioramento della situazione si dovrebbe avere con l’imminente avvio dei lavori per la costruzione del nuovo carcere, a Bolzano sud, anche se il trentino Filippo Fedrizzi avverte: “Una nuova struttura è in dispensabile, ma da sola non potrà risolvere i problemi. A Trento ad esempio abbiamo un carcere modernissimo, ma con una drammatica carenza di personale, che comporta molti problemi”. L’Aquila: 41bis, strumento o tortura? di Roberta Galeotti ilcapoluogo.it, 3 dicembre 2017 Il carcere delle Costarelle è una struttura in cui vivono oltre 170 detenuti in regime di 41bis. Un regime che ha lo scopo di recidere ogni legame con le organizzazioni dalle quali i detenuti provengono, obiettivo che nessuno mette in discussione, ma sul quale vorremmo aprire una riflessione dopo la protesta interna attuata dalla Lioce. Nadia Desdemona Lioce vive in regime di 41bis alle Costarelle dal 2004 ed è la leader delle Brigate Rosse - Partito Comunista Combattente, condannata a tre ergastoli per gli omicidi, commessi con finalità di terrorismo, dei giuslavoristi Massimo D’Antona e Marco Biagi e del sovrintendente di Polizia Emanuele Petri. Il regolamento prevede che possa dialogare con una sola compagna di detenzione durante l’unica ora d’aria della giornata, cui si somma una visita al mese da parte dei familiari, senza contatto fisico e attraverso un vetro. La brigatista lamenta di poter tenere soltanto due libri e tre quaderni. Vietati il merluzzo servito crudo, i canali della televisione, i contenitori di plastica e le razioni di detersivo, che si possono tenere in cella e che le vengono tolti durante la notte. L’irriducibile Lioce non è piegata da 13 anni di carcere duro ma, pur definendosi ancora una “militante”, ha decisamente cambiato fronte di lotta. Come si legge nei ricorsi, nelle istanze e nelle richieste che incessantemente scrive nella sua cella di isolamento con finestrella sul nulla, a cui si accede dopo un lungo corridoio sotterraneo, nel carcere dell’Aquila. Su ogni argomento la Lioce tira in ballo i diritti umani e quando le sue richieste non vengono accolte ed esaudite, ecco che Nadia Lioce batte la scodella di metallo contro le sbarre della cella: “una battitura sonora ed ossessiva”, per cui è stata portata a processo. Il carcere duro è stato introdotto nel 1992 dopo la strage di Capaci, dove persero la vita Giovanni Falcone, sua moglie e gli uomini della scorta, dal decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306 (cosiddetto Decreto antimafia Martelli-Scotti), convertito nella legge 7 agosto 1992, n. 356. 41bis l’intervista - “Il 41bis è un regime che vuole minare la stabilità mentale dei carcerati, al fine di riuscire a farli crollare e raccontare i dettagli delle cosche da cui provengono - racconta al Capoluogo l’avvocato aquilano Barbara Amicarella, che lavora da oltre 10 anni con detenuti sottoposti al 41bis. Il regime di carcere duro, però, nel protrarsi degli anni non viene quasi mai revocato ed è continuamente confermato anche ai detenuti che, chiaramente, non hanno più ruoli significativi nelle organizzazioni malavitose. “Ci sono alcuni detenuti che sono in regime di 41bis dal 1992. Alcuni di loro ricevono un paio di visite l’anno dai propri familiari che, non avendo disponibilità economiche, non possono permettersi di affrontare il viaggio dalla Sicilia per fare visita al loro congiunto una volta al mese, come permetterebbe la legge. Quelle persone, evidentemente, non hanno più ruoli e, a differenza di altri, potrebbero avere revocato il regime”. 41bis solo un numero minimo di foto appese in cella - “I detenuti in 41bis hanno l’obbligo di tenere un certo numero ben preciso di fotografie dei familiari appesi in cella e non una di più - ci spiega l’avvocato Amicarella. Questa limitazione, come molte altre che nulla hanno a che fare con i collegamenti esterni, è sicuramente dettata dal voler imporre una costrizione psicologica che, in determinati casi, diventa una violenza gratuita ed inutile. Mi riferisco a chi è in questo regime da oltre 25 anni; a chi non ha effettivamente più nessun controllo sul potere esterno; a chi resterà in carcere per tutta la vita per scontare il malfatto e nulla più conosce delle organizzazioni esterne” conclude l’avvocato Barbara Amicarella. Le limitazioni del 41bis - Isolamento nei confronti degli altri detenuti. Il detenuto è situato in una cella singola e non ha accesso a spazi comuni del carcere. L’ora d’aria è limitata rispetto ai detenuti comuni e avviene anch’essa in isolamento. Il detenuto è costantemente sorvegliato da uno speciale corpo di polizia penitenziaria il quale, a sua volta, non entra in contatto con le altre guardie carcerarie. Limitazione dei colloqui con i familiari e gli avvocati per quantità (massimo due al mese; nel caso degli avvocati questa norma è stata abolita dalla Corte costituzionale nel 2013), per qualità (il contatto fisico è impedito da un vetro divisorio) e per durata. Contatti con l’esterno limitati ad una telefonata al mese. Censura della posta in uscita e in entrata. Proibizione di tenere molti oggetti personali in cella (penne, quaderni, denaro, macchine fotografiche, bottiglie, ecc.). Il 41bis delle Costarelle a L’Aquila - “La struttura è stata ultimata nel 1986, - come si legge sul sito del Ministero della Giustizia che descrive la casa Circondariale aquilana - ma l’istituto è entrato in funzione nel 1993. L’istituto è nato originariamente con una capienza regolamentare di 150 detenuti comuni. La capienza tollerabile è stata fissata a 300 detenuti comuni. Intorno al 1996, la struttura è adibita quasi interamente alla custodia di detenuti sottoposti a particolari regimi di sicurezza che alloggiano in celle singole”. Su 173 detenuti che si trovano nella struttura, ben 147, tra cui 7 donne, sono sottoposti al regime del 41bis. E se lo chiamano carcere duro, un motivo ci dovrà pur essere. Una visita durata un paio di ore, al termine della quale Federica Chiavaroli si è detta “molto provata. Si avverte proprio questo clima da carcere duro. È una struttura assolutamente ordinata”, ha detto all’uscita, “anche se qualche problema ce l’ha per quanto riguarda la carenza di personale, sul quale concentreremo la massima attenzione. È chiaro che poi la riflessione più profonda riguarda il 41bis, Stiamo riflettendo su come assicurare condizioni di vita dignitose anche a chi si trova in 41bis. Anche il presidente della commissione diritti umani, Luigi Manconi, ha parlato dell’umanizzazione del 41bis”. Parma: posta censurata in carcere, la Cassazione dà ragione a Dell’Utri reggionline.com, 3 dicembre 2017 Nel 2015 la sua corrispondenza era controllata. La Suprema Corte ha annullato il provvedimento del magistrato di Sorveglianza di Reggio Emilia. La Corte di Cassazione ha accolto un ricorso di Marcello Dell’Utri con cui contestava la censura della corrispondenza nel 2015 nel carcere di Parma. La prima sezione penale ha annullato con rinvio per una nuova analisi al tribunale di Sorveglianza di Bologna un provvedimento con cui si dichiarava inammissibile il reclamo dell’ex senatore, difeso dagli avvocati Gian Luca Malavasi e Helmut Adelmo Bartolini, sul visto di controllo alla posta in entrata e in uscita dal penitenziario. Dell’Utri, condannato a sette anni per concorso esterno in associazione mafiosa, da maggio 2016 è detenuto a Rebibbia. Il provvedimento di censura era stato emesso dal magistrato di Sorveglianza di Reggio Emilia il 3 novembre 2015, per tre mesi. Era la seconda proroga di un controllo alla posta iniziato ad aprile. La prima proroga, luglio 2015, era già stata dichiarata illegittima dai giudici di Bologna, perché emessa senza esplicita e motivata richiesta, così come per la difesa sarebbe successo per la successiva. Treviso: il ministro Orlando in visita al carcere di Santa Bona “si può migliorare” Corriere del Veneto, 3 dicembre 2017 Blitz del ministro della giustizia nel carcere di Treviso. Andrea Orlando, impegnato a Nord Est per alcuni incontri di partito, venerdì sera si è presentato ai cancelli del penitenziario e ha chiesto di entrare. “Ci sono alcuni interventi che sicuramente devono essere attenzionati - ha spiegato ai giornalisti - ma sicuramente abbiamo un numero di posti letto compatibile con quelli regolamentari. Non è una situazione di eccellenza ma è accettabile rispetto ad un quadro ancora problematico nel Paese”. Un sopralluogo sollecitato anche dai sindacati degli agenti di polizia penitenziaria: “Il 22 ottobre avevamo inviato una relazione - spiega Leo Angiulli segretario generale della Uilpa Triveneto - proprio sulla situazione delle strutture del carcere di Treviso e il ministro ha controllato le cose da noi indicate”. Genova: quel “grazie” che arriva dalle carceri ci spinge a riflettere di Alessandra Ballerini La Repubblica, 3 dicembre 2017 “Ringrazio che siamo vivi”. Così inizia una delle molte lettere di detenuti raccolte da Doriano Saracino nel suo libro, con uguale titolo, che racconta, con cura e precisione, il suo viaggio nelle carceri liguri (e non solo). E “grazie”, per assurdo, è una delle poche parole che sussurrano i ristretti quando a vai a fare loro visita, seppure a nessuno di loro in particolare ma, più genericamente, all’istituto dove si trovano reclusi. Come osservatori dell’associazione Antigone godiamo del privilegio di questa odierna esplorazione, sapientemente guidata dalla direttrice e dagli ispettori della polizia penitenziaria, nel più grande e sovraffollato carcere ligure. A Marassi oggi sono ristrette 691 persone, a fronte ed in barba a una capienza prevista di “sole” 450. Il sovraffollamento è evidentemente causa di malessere (che si aggiunge al supplizio della reclusione) ed è palese effetto del crescente disagio sociale e di politiche criminogene. Alla fine della visita, dopo aver preso nota del numero, in triste aumento, di detenuti gravemente malati (tanto che si è resa necessaria una convenzione con la preziosissima associazione Gigi Ghirotti per fornire una terapia del dolore ai più sofferenti), e di quelli psicologicamente “instabili”, dopo aver esperienza diretta della sofferenza dei ristretti e dello sconforto di chi in carcere ci lavora, ma non ha neppure a disposizione uno spogliatoio decente dove cambiarsi, anche noi osservatori restiamo quasi contagiati da questa sorprendente gratitudine. Mentre ridiscendiamo le scale di questo labirintico istituto, dove a sorpresa, da diverse angolazioni, sbuca, immenso, un Cristo in croce, imprigionato insieme agli altri; dove, in ogni corridoio, ad aumentare lo smarrimento del recluso o del visitatore, gli orologi alle pareti segnano tutti un’ora diversa e nessuno quella esatta; dove chiavi e cancelli metallici e ostentati segnano ogni passaggio da un settore all’altro, “grazie” è la parola che sale anche alle nostre labbra di uomini liberi. Chi visita questi luoghi di privazione di libertà e dunque, di per se stessi, di tremendissima pena, ne esce con un bagaglio misto di inquietudine e consapevolezza della propria buona sorte (quella che non ti fa scegliere ma ti regala il paese e la famiglia di nascita, le risorse, i talenti, le possibilità, l’intuizione di sapere cogliere solo le migliori, l’educazione e i sentimenti con i quali viene impartita, la buona salute ecc.). E questa nuova, inquieta, coscienza, ci rende inderogabilmente responsabili. Chi, per ruoli istituzionali, politici o sociali ha l’onore di visitare questo carcere non riesce, terminata la visita, a lasciarsi tutto alla spalle insieme alla consolatoria chiusura dell’ultimo cancello. Resta, con l’odore, attaccato alla pelle, un senso, se non morale, almeno giuridico o istituzionale di solidarietà, un onere da assolvere per tentare di ridurre la pena della quale si è stati temporaneamente impotenti spettatori. Noi di Antigone scriviamo i rapporti e ragioniamo su soluzioni alternative al carcere e sulle cause che ne determinano il sovraffollamento e l’invivibilità. I volontari ascoltano, insegnano, donano tempo, consigli, francobolli, sigarette e cura. L’ex sindaco Doria regalava, con elegante riservatezza, ogni dono commestibile ricevuto dal suo ufficio per il pranzo di Natale organizzato per i detenuti dai volontari della comunità di Sant’Egidio. Siamo certi che il sindaco Bucci, che di recente ha visitato il carcere genovese, non sarà da meno ed esaudirà il desiderio delle centinaia di anime che popolano la casa circondariale di Marassi: concedere ai reclusi (che in carcere non hanno neppure una vera palestra), per un giorno, il confinante, ma per loro inaccessibile, stadio cittadino, per consentire loro, per una volta, di gareggiare ad armi quasi pari, senza altri svantaggi se non la mancanza di allenamento, insieme alla cittadinanza. Sindaco Bucci, si conceda il beneficio di questo regalo! E vedrà che quel “grazie”, che suona come un inno alla vita, contagerà anche lei. Trani (Bat): Daniela e il figlio in cella “lo farei arrestare di nuovo, anche se mi odia” di Elvira Serra Corriere della Sera, 3 dicembre 2017 La mamma del 24enne evaso dai domiciliari: “Non lo giustifico, ma per salvarsi deve andare via da Corato. Vorrei che don Mazzi lo prendesse in comunità”. Non è pentita. “Le conseguenze potevano essere molto più serie. Sapevo che ormai girovagava di qua e di là e questo poteva portarlo verso strade ancora più pericolose”. Ma quello che ha fatto le è costato. “Subito dopo, mi sembrava di aver commesso un tradimento per il quale nessuno mi poteva perdonare, come Giuda”. La telefonata ai carabinieri - Daniela Manzitti ha tradito il patto non scritto che lega una madre a un figlio il 31 ottobre scorso, quando ha fatto arrestare il secondogenito Michael. Ha chiamato i carabinieri mentre lui, latitante da tre mesi, era all’ospedale di Terlizzi per assistere all’ecografia della compagna con cui avrebbe saputo se era in arrivo un maschio o una femmina. Non ci sono state scenate. “Mio figlio non è un selvaggio, è stato discreto e arrendevole, e anche i militari hanno fatto in modo che tutto andasse come doveva andare, senza ulteriori sofferenze”, ci racconta adesso per telefono, alternando commozione a consapevolezza. “Ho seguito Michael in caserma, e non potrò mai dimenticare il suo ultimo sguardo, carico di rancore: “Ti odierò per il resto della vita”, mi ha gridato prima che lo trasferissero al carcere di Trani”. La lettera pubblica - Con quegli occhi impressi come un marchio di infamia, Daniela ha voluto scrivere una lettera pubblica al figlio, che è stata pubblicata dal giornale online della cittadina dove vive, Coratolive.it. “Carissimo figlio mio, ho fatto qualcosa che una madre non vorrebbe e non dovrebbe mai fare: ho tradito la cieca fiducia che tu da 24 anni riponevi in me...”. Cominciava così e in tanti hanno voluto lasciarle un messaggio di solidarietà, riconoscendosi nell’impotenza di un genitore che assiste all’autodistruzione di un figlio. L’appello a don Mazzi - “Non ci siamo più visti da allora”, ammette adesso. “Ai colloqui sono andati la compagna e il mio terzogenito, che ha sedici anni. Lei ha cercato di minimizzare, dice che lui cambiava discorso quando provava a parlargli di me. Ma il piccolo me lo ha detto chiaro: “Mà, sta incavolato nero...”. Tornando indietro, però, lo rifarei. Michael fa uso di stupefacenti, vorrei che don Mazzi lo accogliesse nella sua comunità: se per lui c’è una speranza, è solo andando via dal paese, dove non può essere altro che quello che è stato finora”. Gli errori e l’infanzia difficile - Daniela sa che suo figlio ha sbagliato. Quando è evaso dai domiciliari, stava scontando una condanna per rapina, furto e spaccio. Entra ed esce dal carcere da quando aveva 18 anni. “Non voglio dire che è una vittima o che si è fatto trascinare. Ma l’infanzia è stata quella che è stata e io ho le mie responsabilità: dopo suo padre, ho avuto un compagno molto violento che ho lasciato quando è nato il mio terzo figlio. Poi, ho sempre lavorato di notte, come vigilante, di giorno ero stanca e forse non ho visto quello che avrei dovuto vedere”. Non può fare a meno di guardare Michael con occhi di madre. “In casa è sempre stato un angelo, sbrigava le faccende, mangiava quello che preparavo senza mai protestare. Però quando usciva si trasformava, io gli vedevo proprio cambiare il passo, diventava un altro che a guardarlo di spalle non l’avrei riconosciuto nemmeno io che l’avevo messo al mondo”. La morte del padre - Tre anni fa è morto il padre. “E neppure quello è stato un momento facile, lui era in carcere. Era rimasto un rapporto di fratellanza tra me e il mio ex marito, sono stata io ad assumermi la responsabilità di farlo trasferire dall’ospedale di Matera a Bisceglie, quando era alla fine. Quella mattina alle 7 il medico mi ha detto che era una questione di ore, l’avvocato è riuscito a far uscire Michael che è arrivato alle due meno un quarto, suo padre già non dava più segni di vita. Ma poco dopo ha aperto gli occhi, ha fissato il figlio che gli teneva la mano ed è morto: lo aveva aspettato”. Daniela, che oggi ha 47 anni, nel 2015 è stata licenziata e ora lavora come badante. “Sostituisco quelle che hanno un’emergenza, non è il massimo, ma è meglio di niente. Non posso pagare a Michael un legale, ma da cinque anni lo segue un’avvocatessa molto gentile del patrocinio gratuito. Lui non si lamenta: “È una mia responsabilità se sono qui, devi pensare a te”, dice”. Ma una mamma non smette mai di pensare a un figlio. E, a suo modo, Daniela gli ha voluto dare una seconda possibilità. “Ora spero che gliela diano anche gli altri”. Napoli: “sotto l’albero mettiamo i lavori dei detenuti delle carceri campane” di Emilia Sensale Il Roma, 3 dicembre 2017 Allestita la mostra-mercato con manufatti e prodotti provenienti dalla regione. Regalare un momento di speranza a chi vive la propria esistenza dietro le sbarre: con questo obiettivo è stata promossa la mostra mercato “Artigianato in carcere”, allestita nella Galleria Umberto I, promossa dal provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria e possibile grazie alla collaborazione di istituti penitenziari campani, associazioni e volontari. La mostra ha messo in esposizione e in vendita tutte le opere realizzate all’interno delle carceri regionali, frutto delle attività svolte dai detenuti che fanno parte della volontà di rieducare e reinserire coloro che sono dietro le sbarre attraverso lavoro e formazione professionale. “Le collaborazioni tra più realtà - spiega Giulia Russo, Dirigente penitenziario Prap Campania - hanno permesso la realizzazione di questa iniziativa che regala una speranza a tanti detenuti, che possono imparare un mestiere e mettere in mostra la loro creatività, con uno sguardo fiducioso verso il futuro. Permettere a loro di lavorare in carcere e di appropriarsi di nuove abilità - conclude - per noi è un grande successo ed è soprattutto un’ipotesi di futuro, è qui il vero reinserimento”. In tantissimi si sono avvicinati per chiedere informazioni sulle attività e soprattutto per comprare ciò che era in esposizione. Presenti ad esempio ortaggi e barattoli di miele e tìpiche decorazioni natalizie in ceramica, oggetti in legno, borse e accessori lavorati all’uncinetto, fiori in tessuto, cornici coloratissime, collane fatte a mano e molto altro. “L’augurio è che le persone che hanno commesso errori nella vita - commenta il sindaco di Napoli Luigi De Magistris prima di fare un giro tra i vari stand - possano essere testimoni di legalità, non c’è testimone più forte di una persona che ha sbagliato e che evita che altre persone possano sbagliare”. Capire perché è stato commesso un errore è importante, come ricorda il primo cittadini per il quale “Napoli è sempre stata vicina alle persone fragili”. La manifestazione, presentata da Gabriele Blair, è stata contraddistinta anche da momenti di svago, come la dimostrazione di ginnastica artistica promossa dal Csi Campania. Per l’occasione c’è stata l’esibizione musicale della banda del Corpo di polizia penitenziaria ed è stata inaugurata la serie di eventi denominata “Aperitivo Musicale”. “In viaggio verso Allah”. Don Burgio e il ragazzo jihadista di Zita Dazzi La Repubblica, 3 dicembre 2017 Il cappellano del Beccaria racconta la storia del quindicenne marocchino ospite della sua comunità per cinque anni prima della partenza per la Siria “Non ho capito la sua richiesta di aiuto”. Di ragazzi ne vede tanti, tutti i giorni. Ma don Claudio Burgio, 48 anni, cappellano del carcere minorile Beccaria, con Monsef, 15enne marocchino, aveva un legame speciale. L’aveva preso nella comunità Kayròs e cresciuto con amore. Ma due anni fa Monsef è andato in Siria con l’Isis. L’ultimo messaggio di Monsef, con la foto sua e dell’amico Tariq (morto successivamente in combattimento), è stato inviato dal pullman in viaggio verso Raqqa e recitava: “Ciao Burgio. Stammi bene e prega Allah che ti dia la sua retta via e ci guida verso sé nella sua luce inshallah il paradiso”. Nei mesi successivi il ragazzo marocchino ex ospite della comunità Kairòs è comparso sui siti della milizia terrorista, vestito da militare e armato fino ai denti. Che cosa ha provato in quel momento, don Claudio? “Un totale senso di sconforto e di inadeguatezza. Abbiamo abitato tanti anni assieme e non l’avevo mai capito fino in fondo, nel suo disperato bisogno di essere aiutato. Avevo uno jihadista in casa e non sono riuscito a fare quel lavoro educativo che forse avrebbe potuto salvarlo”. C’erano stati segnali prima della sua fuga? “Era molto solo, rifiutato dalla madre, il padre rimasto in Marocco. Soprattutto all’inizio era molto trasgressivo e violento, puro istinto senza regole, aveva scatti d’ira, una volta ha cercato di accoltellare un compagno di comunità. Ma mai avrei immaginato che avrebbe preso davvero la strada del fanatismo religioso e del terrorismo dell’Isis”. Perché oggi ha deciso di raccontare questa storia in un libro? “Ho dovuto elaborare un lutto. A caldo non se ne poteva parlare, c’erano molti attentati in Europa e il cardinale Angelo Scola mi aveva invitato alla prudenza”. In quanto tempo è avvenuta la radicalizzazione? “Poco: 4-5 mesi. Lui era un duro. Diceva che gli educatori erano inutili, non rispettava le regole. Mi chiedeva le scarpe, le sigarette, i vestiti. Io gli chiedevo di parlare in italiano: il linguaggio ci fa uguali. Ha fatto corsi professionali, ma lui cercava di sapere chi era, cercava un posto nella vita, un’identità. Sento di dovergli chiedere scusa”. Perché? “Non abbiamo saputo cogliere la sua richiesta di aiuto, è stato una vittima delle nostre assenze, lo abbiamo abbandonato mentre diventava più trasgressivo. Alla fine si è rifugiato nel fanatismo. Parlava di Allah, ma in realtà non seguiva i precetti religiosi. Odiava l’Occidente, a causa della crescita della diseguaglianza sociale. Ha cominciato a drogarsi, è finito al a San Vittore. Mi ha chiesto aiuto e io l’ho accolto di nuovo”. E invece? “Non c’era lavoro per lui fuori dal carcere e l’Islam radicale tornò ad essere la sua grande narrazione personale, era ossessionato dall’ideologia, vestiva in modo tradizionale, parlava dello jihad, del martirio, del paradiso. Cercava un’identità nell’integralismo, in Rete ha trovato qualcuno che lo ha adescato. La radicalizzazione è avvenuta sul pc, non in carcere, né in moschea. Mi ha fatto vedere foto raccapriccianti, era vittima della propaganda del Califfato”. A Milano ha mai fatto cose rischiose? “So che ha cercato delle armi. A un amico ha detto che se gli fosse stato chiesto avrebbe potuto anche fare un attentato in Duomo. Credo che adesso sia pentito, che voglia tornare in Italia, ma l’Isis lo punirà con la morte, se non l’ha già fatto”. Che cosa le resta oggi di questa storia? “Credo che il nostro compito, come Chiesa, e il compito della società civile, sia quello di iniziare un dialogo basato su una conoscenza vera, con i ragazzi musulmani al Beccaria. Il nostro dovere è di vivere assieme a loro, non con un atteggiamento interculturale, per cercare facili sincretismi, ma perché nella differenza si trovi il modo di conoscerci, di dialogare davvero”. Come si fa a dialogare con chi vuole la nostra morte? “Il problema non è lo scontro civiltà ma l’educazione. L’Isis per questi giovani rischia di diventare un approdo per resistere alle sfide della vita. Ma bisogna stare attenti ad atteggiamenti fondamentalisti da una parte e dall’altra, guai alla religione dei “duri e puri”, che in nome del presepio e del crocefisso conduce battaglie che di religioso hanno poco. L’ostilità intransigente e l’uso della religione per dare contro all’altro possono fare solo disastri”. Stati Uniti. Quando il carcere è un affare privato di Marta Valier caffe.ch, 3 dicembre 2017 Il giorno dopo l’elezione di Donald Trump il settore delle prigioni private era in festa. Finalmente, dopo un’estate trascorsa a registrare segnali allarmanti per la propria sopravvivenza, il 9 novembre del 2016, le maggiori aziende statunitensi nell’industria della detenzione, come la CoreCivic, ex Corrections Corporation of America (Cca), e il Geo Group vedevano il prezzo delle loro azioni schizzare rispettivamente del 43 e 21 per cento. E pensare che solo qualche mese prima l’amministrazione di Barack Obama aveva compiuto i primi passi verso il loro smantellamento. A distanza di un anno, da quando il settore ha rischiato di vedere evaporare gran parte dei propri profitti, i manager di queste aziende hanno ripreso a firmare nuovi contratti col governo. Contratti che spesso non includono grossi incentivi ad offrire servizi di qualità. Ascesa e scansato pericolo di estinzione delle prigioni private statunitensi - Il boom di queste aziende era avvenuto a partire dagli anni Ottanta, quando il Anti-Drug Abuse Act firmato dall’allora presidente Ronald Reagan aveva fatto fare un passo avanti alla cosiddetta guerra alla droga, instaurando pene molto severe per crimini non violenti. Il fenomeno dell’incarcerazione di massa statunitense ha raggiunto dimensione tali che, nel 2013, un quarto della popolazione carceraria mondiale era “Made in Usa”. Di questa, il 15 per cento era detenuta in strutture private. L’esplosione della popolazione carceraria ha nutrito per decenni il business delle prigioni private tanto che nel 2014, mettendo insieme le due più grandi aziende del settore, Cca e Geo, si arrivava a un fatturato di più di tre miliardi di dollari, il doppio rispetto al 2006. Proprio nel 2014 però, grazie a politiche contro il costo crescente dello stato carcerario e il sovraffollamento penitenziario, il numero dei detenuti era cominciato a scendere. Poco dopo, ad agosto del 2016, in seguito a un report del dipartimento della Giustizia che denunciava problemi di sicurezza nelle prigioni private e una generale peggiore qualità delle condizioni di vita dei detenuti rispetto alle prigioni pubbliche, l’allora ministro della Giustizia, Sally Yates, aveva annunciato lo smantellamento del settore chiedendo di sospendere il rinnovo dei contratti. L’annuncio aveva fatto piombare le azione del settore, che scesero ulteriormente quando, durante un dibattito presidenziale, anche la candidata Hillary Clinton s’era mostrata contraria alle prigioni private. I giochi sembravano fatti. “Inaspettatamente però ha vinto Trump e ha capovolto tutto, o meglio, è continuato tutto come prima”, spiega a Il Caffè Alexander Volokh, professore di giurisprudenza alla Emory University. Subito dopo le elezioni presidenziali infatti, il nuovo ministro della Giustizia, Jeff Session, ha annullato le linee guida del suo predecessore. Secondo Usa Today, la Cca e la Geo hanno ringraziato con un versamento di 250mila dollari ciascuna al comitato inaugurale di Trump. Il presidente Trump e il mercato della detenzione dei migranti - Appena eletto, Trump ha accelerato il processo di espulsione dei migranti irregolari, dando una spinta all’operazione avviata da Barack Obama che, tra il 2009 al 2016, aveva portato all’espulsione dagli Stati Uniti di più di tre milioni di persone. Già prima di Trump, il settore privato era proprietario di nove dei dieci più grandi centri di detenzione per migranti e aveva in gestione il sessantacinque per cento dei migranti detenuti. Durante l’ultimo anno della presidenza Obama, il dipartimento di Homeland Security aveva detenuto più di 352mila migranti, con una media di circa 31mila al giorno. Per farsi un’idea del business, nel 2014, il governo statunitense ha speso più di due miliardi di dollari per mantenere in funzione i centri di detenzione. Trump quindi ha solo dato una spinta a una politica già avviata dall’amministrazione precedente. Una spinta piuttosto forte, che ha ampliato le categorie dei migranti irregolari passibili di arresto e ordinato la loro detenzione. Una spinta che si è subito tradotta, lo scorso aprile, in un nuovo contratto con la Geo per la costruzione in Texas di una nuova struttura con mille letti, un progetto che, secondo le stime della stessa Geo, genererà quarantaquattro milioni di dollari l’anno, e col rinnovo di un contratto per un centro di detenzione a Big Springs, in Texas, dove in dieci anni la Geo (che secondo un articolo del Washington Post ha tenuto per la prima volta la sua conferenza annuale al golf resort di Trump, il Trump National Doral a Miami) prevede di incassare 664 milioni di dollari. In molti centri il personale è sottopagato e al centro di casi di violenza sessuale - La critica maggiore che viene fatta alle prigioni private è quella secondo cui l’incentivo maggiore è quello di tagliare i costi piuttosto che investire sulla qualità dei servizi offerti. Diversi articoli hanno descritto lo stato di abbandono in cui vivono i detenuti delle prigioni private dando una scossa all’opinione pubblica. Il giornalista Shane Bauer si è fatto assumere come guardia carceraria di una prigione privata nello Stato della Louisiana senza rivelare la propria identità. Lì ha lavorato per quattro mesi, assistendo a risse, violenze e facendosi testimone della scarsissima formazione del personale, sottopagato e quasi mai chiamato a rispondere dei propri atti. Il suo articolo e il suo racconto sono usciti poco dopo il resoconto di Seth Freed Wessler pubblicato col cupo titolo “Quest’uomo quasi certamente morirà” in cui Wessler indaga sulla morte di diversi detenuti in un centro di detenzione privato a Big Spring, in Texas. In un editoriale di inizio anno, inoltre, il New York Times ha paragonato l’industria delle prigioni a un parassita che per anni si è nutrito dell’incarcerazione di massa, e gli attivisti dei diritti umani non smettono di protestare. “Le prigioni pubbliche non sono molto meglio di quelle private”, ha detto per telefono a Il Caffè Alex Friedman, giornalista di Prison Legal News diventato attivista per i diritti dei detenuti dopo aver trascorso dieci anni in carcere, sei dei quali in una prigione private nello stato del Tennessee. “Ma nelle strutture private c’è una corsa disperata al taglio dei costi. C’è meno personale ed è pagato meno”. Nel corso degli anni sono stati effettuati diversi studi. Quasi sempre la conclusione è che, per quanto riguarda i costi, il settore privato è più competitivo. Ma sulla qualità non c’è accordo unanime. “Per quel che ne sappiamo, non possiamo dire che siamo di fronte a una crisi umanitaria nelle prigioni private”, ha detto Volokh. “ Le condizioni nelle prigioni private non sono buone, ma non lo sono nemmeno in quelle pubbliche”. A suo parere si dovrebbe cominciare a scrivere contratti migliori, con precisi incentivi a migliorare la qualità di vita nelle prigioni. “Purtroppo non ne siamo ancora stati capaci”. Anche Oliver Hart, premio Nobel e professore di economia all’università di Harvard, pone l’attenzione sul tipo di contratto. “Se non è scritto bene l’azienda privata, soprattutto se si tratta di un’azienda il cui scopo è il profitto, potrebbe non comportarsi nell’interesse pubblico”, ha detto Hart in una email. “Ma a quel punto è troppo tardi”. Per altri invece non esiste un buon contratto, le prigioni private non devono esistere. “Sia la Cca che la Geo hanno un pessimo record, basano i propri profitti sulle sofferenze altrui, non c’è spazio per questo tipo di aziende”, ha detto a Il Caffè il direttore dell’organizzazione Grassroots Leadership Bob Libal che si batte per l’abolizione delle prigioni private. Sia la Geo che la Cca sono state contattate ma non hanno risposto alla nostra richiesta di un’intervista. Qualche giorno fa, il 9 novembre, Grassroots Leadership ha ricevuto una lettera dal centro di detenzione per migranti T. Don Hutto a Taylor, in Texas. Una detenuta, Laura Monterrosa, ha scritto per denunciare un abuso sessuale subito da parte di due guardie. Il centro di detenzione in questione, che porta il nome del fondatore della Cca, è già stato al centro di scandali negli anni scorsi quando alcune guardie sono state accusate, e giudicate colpevoli, di violenza sessuale. Secondo l’organizzazione Grassroots Leadership, tra il 2010 e il 2016, il dipartimento di Homeland Security, l’agenzia che gestisce i centri di detenzione per migranti, ha indagato meno dell’un per cento delle 30mila denunce di abusi fisici e sessuali. Ora spetta allo sceriffo della contea di Williamson, Robert Chody, decidere se indagare sul caso di Monterrosa. Stati Uniti. Trump: “usciamo dall’accordo Onu sui migranti” Corriere della Sera, 3 dicembre 2017 L’ambasciatrice americana a Palazzo di Vetro, Nikki Haley: il Global Compact on migration firmato a settembre 2016 “non è in linea con nostre politiche sull’immigrazione”. Gli Stati Uniti di Donald Trump abbandonano il Patto mondiale sulla migrazione, l’intesa basata sulla Dichiarazione di New York sui migranti sottoscritta e approvata all’unanimità nel settembre dell’anno scorso da 193 paesi dell’Onu. L’annuncio è arrivato nella tarda serata di sabato da parte dell’ambasciatrice Usa all’Onu, Nikki Haley, che ha spiegato come “le nostre decisioni sull’immigrazione devono essere prese dagli americani e solo dagli americani”. Il patto mondiale sulla migrazione - La dichiarazione di New York su cui si basa il Patto mondiale sulla migrazione “contiene molte disposizioni incompatibili con le politiche statunitensi su immigrati e rifugiati e con i principi dell’amministrazione Trump in materia di immigrazione”, ha detto la diplomatica. “Di conseguenza il presidente Trump ha deciso di interrompere la partecipazione degli Stati Uniti nella preparazione del Patto che punta a ottenere il consenso dell’Onu nel 2018. Gli Stati Uniti sono orgogliosi della loro eredità in materia di immigrazione e della loro leadership nell’appoggio di popolazioni di migranti e rifugiati in tutto il mondo - ha continuato Haley - ma la Dichiarazione di New York è incompatibile con la politica statunitense”. Nel settembre del 2016, 193 paesi dell’Onu hanno firmato la Dichiarazione di New York sui rifugiati, con lo scopo di migliorare nel futuro la gestione delle politiche migratorie. Sulla base della Dichiarazione, l’alto commissario Onu per i rifugiati ha ricevuto il mandato di proporre un Patto mondiale sui migranti e rifugiati. Patto dal quale oggi gli Usa si sono sfilati. Turchia. Rilasciata la docente in sciopero della fame da 268 giorni di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 3 dicembre 2017 È finalmente uscita dal carcere Nuriye Gulmen, l’assistente universitaria in sciopero della fame da 268 giorni che era stata arrestata alla fine di Maggio. La donna, 35 anni, aveva iniziato la protesta insieme con Semih Özakça, 28 anni, maestro di scuola elementare, dopo che i due erano stati licenziati nell’ambito delle purghe attuate dal governo in reazione al fallito colpo di Stato del 15 luglio 2016. Semih Ozakca era stato scarcerato un mese fa ma per Nuriye Gulmen la strada sembrava in salita tanto che la scorsa settimana un tribunale di Ankara aveva negato la libertà condizionata. La docente è in condizioni di salute piuttosto precarie e si trovava da due mesi in ospedale senza il suo consenso per monitorarne le condizioni di salute. Dopo essere stati licenziati, nel novembre 2016, Nuriye e Semih avevano intrapreso una protesta pubblica di fronte al monumento ai diritti umani, nel centro della capitale Ankara. Il 9 marzo avevano avviato uno sciopero della fame, ancora in corso, e