Aumentano i suicidi dei detenuti: uno a settimana si toglie la vita di Azzurra Noemi Barbuto Libero, 31 dicembre 2017 Quasi mille morti dal 2000 ad oggi. Sono 919 i detenuti che hanno scelto di togliersi la vita in carcere dal gennaio del 2000 ad oggi. Quest’anno si è registrato un aumento dei suicidi nei nostri istituti penitenziari, passati dai 45 del 2016, ai 52 del 2017. Ed era dal 2012, quando i carcerati che si sono uccisi sono stati 60, che non si vedevano dati così elevati. Si tratta di una media di 54 suicidi l’anno, ossia quasi 5 al mese, più di uno alla settimana. Un vero e proprio bollettino di guerra, che fa dell’Italia il Paese europeo in cui è maggiore lo scarto tra i suicidi nella popolazione libera e quelli che avvengono nella popolazione detenuta, con un rapporto da 1,2 a 9,9 ogni 10mila persone, che significa che in galera le morti autoinflitte sono circa 9 volte più frequenti. Dagli anni 60 ad oggi l’indice di suicidi in cella è aumentato del 300%. Da questi numeri emerge l’invivibilità del nostro sistema penitenziario, ormai al collasso soprattutto a causa del fenomeno del sovraffollamento, del cui tasso il Bel Paese detiene il record assoluto in Europa. Un altro primato di cui non andare fieri. Esiste una correlazione tra sovraffollamento, invivibilità del carcere ed alto numero di suicidi. Il primo fenomeno rende insostenibile la vita all’interno di celle sempre più anguste perché sempre più piene. In esse mancano dunque i vitali spazi di movimento, l’intimità, persino l’ossigeno. Spesso per i detenuti uccidersi diventa l’unico modo per liberarsi del fardello di una detenzione che dovrebbe rieducare ma che finisce con l’abbrutire. Il nostro sistema penitenziario imprigiona e non redime, punisce e non riabilita. Eppure in uno Stato democratico gli istituti di pena dovrebbero essere non luoghi in cui si decide di morire, bensì strutture da cui rinascere scegliendo una strada diversa dalla devianza. Le violenze - Nelle 190 prigioni italiane, a fronte di una capienza massima di circa 45 mila persone, sono presenti 58.115 detenuti, quasi 20 mila dei quali sono stranieri, e gli eventi critici tra le sbarre, come atti di autolesionismo, risse, colluttazioni, ferimenti, tentati suicidi, aggressioni ai poliziotti penitenziari, si verificano quotidianamente. “L’aumento dei suicidi è indice del fatto che il sistema penitenziario si sta sgretolando ogni giorno di più a causa soprattutto delle fallimentari scelte del ministero della Giustizia”, dichiara Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria (Sappe). L’insofferenza aumenta ed esplode in modo tragico, spargendo sangue, persino durante le feste. La vigilia di Natale due detenuti, padre e figlio, sono stati pestati con violenza da alcuni compagni nel reparto di alta sicurezza del carcere salernitano. Nel carcere di Avellino, nella notte del 25 dicembre, è morto nel sonno un giovane detenuto di 24 anni, arrestato poche ore prima per rapina. Si presume che abbia fatto uso di alcol o sostanze stupefacenti prima dell’arresto. L’autopsia chiarirà la vicenda. “La morte in carcere è una sconfitta per tutti e crea malessere anche negli agenti della polizia penitenziaria, sempre in prima linea nel fronteggiare queste drammatiche emergenze”, afferma Emilio Fattorello, segretario regionale Sappe campano. I recidivi - A proposito dell’aumento dei suicidi in cella, questi “possono dipendere da diversi fattori, dalla perdita di un congiunto a problemi psichiatrici non curati in modo adeguato. Ecco perché bisogna rafforzare attività di natura sanitaria, psichiatrica e riabilitativa del soggetto detenuto, al fine di accompagnarlo in un percorso di sostegno in grado di attenuare il rischio di un gesto estremo. La responsabilità di tali tragedie è dello Stato, che fallisce perché non garantisce il supporto dovuto anche all’interno dell’esecuzione penale nonché il rispetto dei diritti fondamentali”, spiega Agostino Siviglia, Garante dei diritti dei detenuti di Reggio Calabria. Insomma, in galera si muore per diverse ragioni: perché ci si sente falliti, o soli, o inadeguati, per il lacerante senso di colpa, per problematiche pregresse, o persino perché si ha paura di uscire fuori e di non essere accettati. “Anche il sovraffollamento incide sul malessere del detenuto, rendendo la sua condizione disumana, ecco perché bisognerebbe ricorrere alle misure alternative alla detenzione, la cui applicazione in Italia, Paese all’ultimo posto in Europa per l’accesso a tali strumenti, è ostacolata da alcuni automatismi restrittivi dell’ordinamento penitenziario a cui si sta cercando di porre rimedio attraverso i decreti delegati approvati in via preventiva nell’ultimo consiglio dei ministri”, continua Siviglia. Non è costruendo istituti, infatti, che risolveremmo la piaga del sovraffollamento. “Più ne crei più detenuti avrai, occorrerebbe piuttosto prevedere il carcere come estrema ratio. Lo confermano studi e statistiche: la repressione carceraria non ha prodotto una diminuzione dei delinquenti e dei reati. È quando funzionano attività trattamentali rieducative che si riducono i detenuti: essi, scontata la pena, non rientrano in cella”, mette in luce Siviglia. La recidiva del reato si abbassa del 20% quando funzionano percorsi alternativi; quando questi non funzionano, invece, la possibilità che un ex detenuto torni a delinquere appena uscito dal carcere si alza sopra l’80%. Le strutture - E poi ci sono le strutture: spesso vecchie, fatiscenti, grigie, troppo fredde m inverno, troppo calde in estate. Veri e propri inferni dove il tempo si cristallizza. “Lo scenario desolante ed opprimente del luogo dentro il quale uno espia la sua pena acuisce il male di vivere. Se mancano le attività, se i congiunti stanno a centinaia di chilometri di distanza, la carcerazione diventa un’agonia. Si può privare un essere umano della libertà, ma non della dignità e del suo ruolo di padre, madre, fratello, figlia”, sottolinea il garante. A non essere applicato m Italia è anche il principio della territorialità della pena sancito dall’ordinamento penitenziario, il cui rispetto aiuterebbe il carcerato, quasi sempre sradicato dal suo territorio per esigenze di sicurezza o per i vincoli imposti dal sovraffollamento, a mantenere il contatto con i familiari. “Sostenere il rapporto con la famiglia potrebbe incidere sulla riduzione dei suicidi, salvaguardando la condizione psichica e sentimentale del detenuto. Lontani dagli affetti ci si ammala. Si tratta di una sofferenza inutile, non è qualcosa di educativo”, continua Siviglia, che ricorda commosso diversi detenuti che in questi anni, non intravedendo nessuna via d’uscita da un’esistenza priva di prospettive e di scopo, hanno deciso di farla finita. “Mai dimenticherò un bellissimo ragazzo napoletano di 20 anni: aveva problemi di tossicodipendenza e, avendo violato qualche prescrizione, venne trasferito dalla comunità terapeutica in carcere. Dopo pochi giorni si suicidò con il gas. Provo una grande amarezza: quando una vita si spezza è perla mancanza di attenzione nei confronti di quella singola persona. Intorno a noi c’è tanta fragilità, eppure siamo incapaci di vederla”, conclude Siviglia. Tenere in cella chi è in attesa del processo costa 500 milioni l’anno Il Giornale, 31 dicembre 2017 Un terzo dei detenuti nelle carceri italiane è lì in attesa di giudizio. Ma questo si sa. O, almeno, si dovrebbe sapere. Per numero di persone in attesa di giudizio l’Italia è al vertice della classifica europea. E anche questo si sa. O, almeno, si dovrebbe sapere. Tenere in carcere migliaia di persone molte delle quali potrebbe risultare innocenti, costa al Paese 500 milioni l’anno. E questo non si sa. Ma si dovrebbe sapere. A dare, finalmente, i dati è la direzione generale che si occupa di diritti umani che fa capo al Consiglio d’Europa. E i dati, elaborati dal sito di data journalism Truenumbers.it, per l’Italia, sono deprimenti. Anzi, sconvolgenti. Prendiamola alla larga: secondo l’Eurostat, nel 2014, il 20% dell’intera popolazione carceraria europea era in attesa di giudizio. Complessivamente gli Stati europei spendono 1,6 miliardi di euro per mantenere in carcere persone che attendo il giudizio definitivo. Una cifra che, secondo il Consiglio europeo, potrebbe essere ridotta addirittura ad appena 162 milioni se solo i sistemi giudiziari fossero più efficienti e se si armonizzassero a livello europeo le leggi che regolano la detenzione preventiva. E adesso veniamo a noi. Secondo i dati dell’Annual Penal Statistics (2015) del Consiglio d’Europa, l’Italia è il Paese europeo con più persone in carcere in attesa di giudizio: battiamo Paesi molto più popolosi di noi, come la Germania. Ne teniamo dietro le sbarre 17.169, poco più della Francia e circa 3.500 in più rispetto ai tedeschi. Quello che colpisce è che la Germania ha 20 milioni di abitanti in più dell’Italia e questo significa che il numero dei detenuti in attesa di giudizio nelle carceri tricolori è assolutamente sproporzionato rispetto al numero degli abitanti. Lo stesso ragionamento vale per il confronto Italia-Francia dato che i francesi sono circa 67 milioni e noi 60,6. Insomma: c’è qualcosa che evidentemente non funziona. E, anzi, peggiora. Secondo i dati aggiornati al 31 marzo di quest’anno, infatti, (dati del Ministero della Giustizia) le persone detenute erano 56.289 rispetto ad una capienza massima di 50.211 posti. Le persone in carcere in attesa di giudizio sono aumentate a quota 19.390 considerando sia quelle in attesa del primo giudizio sia quelle condannate in via non definitiva. Ovviamente tra questi ultimi ci sono anche colpevoli che hanno fatto ricorso contando che sulla Ruota della fortuna che è la giustizia italiana esca il codicillo giusto che li faccia uscire dal carcere, ma è lo stesso Consiglio d’Europa a chiedere che lo strumento della carcerazione preventiva venga usato solo in casi eccezionali, quando non è oggettivamente possibile utilizzare altri strumenti per rendere inoffensive le persone pericolose. L’intoppo che rende le carceri sovraffollate è sempre l’eterno problema della lentezza della giustizia. Basta guardare quanti giorni un presunto innocente passa in carcere prima di essere giudicato. Alcuni Paesi europei gli fanno trascorrere in galera un anno. Ma è una media: significa che molti trascorrono dietro le sbarre anche più tempo. Si tratta di Paesi come Lettonia, Portogallo, Grecia, Ungheria. La media di detenzione di una persona in attesa di giudizio in Italia è di 180 giorni. La Francia, che, come detto, ha quasi lo stesso numero di presunti innocenti in carcere, li tiene dietro le sbarre solo 116 giorni e la Germania 120. Con una giustizia efficiente probabilmente si potrebbe arrivare magari non ai 30 giorni svedesi, ma almeno ai 60 britannici. Anche perché l’inefficienza, qualsiasi inefficienza, costa. E quella della giustizia costa tantissimo: tenere in carcere 17.169 persone per, mediamente, 180 giorni pesa sul bilancio dello Stato quasi 500 milioni l’anno, 489,3 per la precisione. Una cifra incredibile se si considera che la Francia, con poche meno persone in carcere di noi, spende molto meno della metà: 216,1 milioni l’anno. Significa che ogni giorno spendiamo 158,3 euro per mantenere dietro le sbarre una persona presunta innocente rispetto ai 109,4 euro che spende Parigi con la differenza che noi siamo sopra la media europea (111,5) e loro sono sotto. Il Paese che, al giorno, spende di più per i propri detenuti è la Svezia: ben 429,7 euro pro capite. L’Olanda è seconda con 278,6 euro. Quei quasi 500 milioni sono oggettivamente uno spreco che potrebbe essere eliminato con nuove norme sulla carcerazione preventiva e l’utilizzo di strumenti alternativi al carcere. Con lo snellimento del sistema, in altre parole, la spesa totale per il sistema carcerario italiano potrebbe scendere dagli attuali 2,7 miliardi di euro l’anno. Basterebbe più efficienza. Il tema tortura non appassiona i magistrati italiani e non è una loro priorità di Enrico Zucca La Repubblica, 31 dicembre 2017 Sul sito “Questione Giustizia” di Magistratura Democratica, a novembre, Enrico Zucca, uno dei pm del processo Diaz, ha scritto un lungo articolo sullo spunto delle sentenze Diaz e Bolzaneto della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Ne riportiamo qui un passaggio. “Il caso Bolzaneto, come quello della Diaz, consente alla Corte di risparmiare una censura allo svolgimento dell’indagine e all’accertamento giudiziale sotto il profilo temporale, nonostante l’obiettiva dilatazione dell’iter processuale, già a limite ultradecennale. Non si dubita infatti, come in pochi altri casi, né dell’impegno dello zelo della magistratura inquirente, né della fermezza dimostrata dalle corti giudicanti. Il quadro della magistratura che emerge tuttavia dalle diverse e non poche condanne della Corte Edu sotto il profilo procedurale dell’art. 3 è affatto diverso, forse più rappresentativo della reale situazione di tutela dei diritti umani in relazione al divieto convenzionale in questione, nessuno ha mai censurato lo scarso impegno dei magistrati o li ha mai richiamati a responsabilità. L’appiattimento sulle versioni ufficiali delle forze di Polizia e la rinuncia a priori nell’attivazione dell’indagine, quello che la Corte Edu non si stanca di denunciare, è anzi la scorciatoia che evita problemi e tensioni con le forze dell’ordine. Si aprirebbe in questa direzione altro profilo di riflessione, relativo al palese conflitto d’interessi che può caratterizzare l’ufficio del pubblico ministero in relazione alle denunce contro la polizia giudiziaria, proprio a cause dell’ordinaria e quotidiana collaborazione. La simbiosi degli organi inquirenti assume aspetti anche più complessi, se si analizzano i rapporti di vertice. Il mancato adempimento degli obblighi di sospensione dal servizio e di rimozione dei funzionari e agenti coinvolti amplifica questa situazione, come i casi del G8 hanno evidenziato. Occorre esserne consapevoli e trovare adeguati rimedi istituzionali, se non v’è, come pare, alcun messaggio di chiarezza da parte della magistratura nei casi concreti. In realtà proprio il ruolo di garanzia del pm è stato sollecitato dallo stesso Comitato europeo per la prevenzione della tortura, in occasione di un recente rapporto nel quale s’invitavano le autorità italiane, per assicurare pronta ed efficace indagine nei casi di maltrattamenti, a istituire un servizio specializzato, sotto la direzione del pubblico ministero, per la trattazione delle denunce concernenti agenti delle forze di Polizia o dell’Amministrazione penitenziaria. Nonostante l’attivismo organizzativo dei dirigenti degli uffici di procura, non risulta che alcuno si sia attivato in questa direzione, né abbia mai dato priorità con la dovuta enfasi a procedimenti per fatti asseritamente in violazione dell’art. 3 della Convenzione. Un criterio di priorità legislativo, convenzionale e costituzionale, che non ha mai troppo appassionato la magistratura. Teniamone conto nell’ormai trita discussione sui criteri di priorità. Così come dovrebbe tenersi conto dell’assenza della voce della magistratura nel dibattito sull’approvazione della legge n. 110/ 2017, salvo sporadici comunicati a cose in gran parte fatte e ancor più rari interventi individuali”. Torture alla Diaz: l’interrogazione desaparecida sui poliziotti Marco Preve La Repubblica, 31 dicembre 2017 Nel 2013, 17 deputati di Sel chiesero al ministro se fossero stati sanzionati i condannati: mai ottenuta risposta. Questa è la storia di una figuraccia politica della sinistra. Perdipiù, su un tema assai sensibile per i suoi elettori: il G8 di Genova, le violenze, le torture, gli abusi e le impunità poliziesche. Si dà il caso che il 17 maggio 2013 - un anno dopo le condanne definitive della Cassazione nei confronti dei funzionari e degli agenti di polizia responsabili della macelleria messicana nella scuola Diaz e poi dei falsi verbali per coprire i responsabili delle torture - ben 17 deputati del partito Sel (Sinistra Ecologia e libertà) presentarono una polemica interrogazione con risposta scritta all’allora ministro dell’Interno Angelino Alfano. I 17 chiedevano conto di un alloggio di servizio ancora pagato all’epoca dal Ministero a Francesco Gratteri, l’imputato numero uno della Diaz, e soprattutto chiedevano di sapere se, e in quale modo, tutti i condannati fossero stati sottoposti a sanzioni disciplinari dal Dipartimento di Pubblica Sicurezza. Quattro anni e mezzo dopo sul sito della Camera lo “stato iter” dell’interrogazione a risposta scritta riporta la dicitura “In corso”. Né Alfano né il suo successore Marco Minniti si sono degnati di rispondere a 17 rappresentanti del popolo italiano. Ma va anche detto che i 17 appassionati parlamentari, a parte un sollecito dell’ottobre 2013, si sono poi scordati di quella interrogazione. Fa quasi sorridere notare che molti di loro a ogni promozione dei condannati (in questi giorni i contestatissimi casi di Gilberto Caldarozzi diventato numero 2 della Direzione Investigativa Antimafia e Pietro Troiani, l’uomo delle molotov, fresco dirigente del Centro operativo autostrade del Lazio della Polstrada) diramano alle agenzie durissime accuse contro il governo e annunciano interrogazioni. Mai che a qualcuno venga in mente di chiedere di rispondere a quella del 2013. E con le Camere ormai sciolte non c’è da aspettarsi un sussulto di orgoglio da parte del manipolo che nel frattempo si è pure dissolto come partito e come linea. Val la pena ricordare i nomi di questo storico flop. Il primo firmatario è Gennaro Migliore, poi passato al Pd e oggi sottosegretario al ministero della Giustizia (basterebbe che telefonasse al suo pari grado del Viminale per ottenere l’attesa risposta) e a seguire: Nicola Fratoianni, il genovese Stefano Quaranta, Ileana Piazzoni, Erasmo Palazzotto, Fabio Lavagno, Arcangelo Sannicandro, Donatella Duranti, Giovanni Paglia, Luigi Lacquaniti, Michele Piras, Nazzareno Pilozzi, Serena Pellegrino, Annalisa Pannarale, Marisa Nicchi, Arturo Scotto, Celeste Costantino. Una nuova interrogazione al ministro Minniti è stata nei giorni scorsi annunciata dai deputati Andrea Maestri, e Luca Pastorino, esponenti di Liberi e Uguali. Oggetto del loro intervento, la nomina ai vertici dell’antimafia vicedirettore operativo - di Caldarozzi uno dei dirigenti più alti in grado durante l’irruzione nella scuola Diaz. “Indecente” secondo i due parlamentari la nomina avallata dal ministero. Una nota del Dipartimento di Ps ha spiegato che non si è trattato di una promozione bensì di un’assegnazione legata alle competenze e al grado di Caldarozzi, rimasto lo stesso di quello che aveva ai tempi della condanna. Quello che la Polizia non dice è che Caldarozzi negli anni in cui è stato prima indagato, poi imputato, quindi condannato in secondo grado, ha ottenuto - e lui come quasi tutti i suoi colleghi un normale avanzamento di carriera. E questo in barba alle direttive internazionali, più volte ribadite dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nelle sue sentenze che parlano di sospensione già in fase istruttoria e, addirittura, di radiazione, o comunque di assegnazione a uffici non di primo piano, in caso di condanne. Nei casi Caldarozzi e Troiani, invece, gli incarichi prestigiosi sono stati vissuti anche a livello interno come una precisa volontà dell’amministrazione. Come se, in Italia, non ci fossero per quei ruoli altri funzionari di polizia degni di ricoprirli ma privi di precedenti penali. Quante volte il Gip dice di No al Pm? Mai di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 31 dicembre 2017 I casi in cui il Gup dispone il non luogo a procedere sono rarissimi. Quasi sempre preferisce far valutare gli atti ai colleghi del dibattimento. Il Pubblico ministero ha sempre ragione. Il dato emerge con chiarezza dalle statistiche dell’ufficio Gup e Gip. Davanti alle richieste di rinvio a giudizio formulate dalla Procura, i casi in cui un giudice dell’udienza preliminare disponga l’archiviazione con sentenza di non luogo a procedere sono infatti rarissimi. Come del resto sono rarissime le decisioni di andare a processo lì dove il pm chieda l’archiviazione. Le conseguenze di questo “appiattimento” del giudice sul pubblico ministero sono particolarmente evidenti nelle indagini sui “colletti bianchi” dove il rinvio a giudizio è ormai una certezza. Quello che decide il pm è giusto. Sempre. Il dato emerge con chiarezza leggendo le statistiche dell’Ufficio gip/gup. Davanti alle richieste di rinvio a giudizio formulate dalla Procura, i casi in un il giudice dell’udienza preliminare disponga l’archiviazione con sentenza di non luogo a procedere sono rarissimi. Le conseguenze di questo “appiattimento” del giudice sul pubblico ministero sono particolarmente evidenti nelle indagini sui “colletti bianchi” dove il rinvio a giudizio è ormai una certezza. A tal proposito, per evitare il clamore mediatico che una decisione del genere inevitabilmente avrebbe, da tempo gli amministratori pubblici coinvolti in un procedimento penale preferiscono saltare l’udienza preliminare, dall’esito scontato, per chiedere il giudizio immediato. Questa strada, che ha di fatto lo scopo di allontanare per qualche mese i riflettori dei media, è stata recentemente scelta dal presidente della Regione Lombardia Roberto Maroni, dal suo vice Mario Mantovani e dal sindaco di Milano Giuseppe Sala, tutti indagati a vario titolo dalla Procura del capoluogo lombardo. Restando a Milano, le statistiche sul punto sono impietose. In un anno le uniche archiviazioni ai sensi dell’art. 425 del codice di procedura penale, cioè quelle del giudice in udienza preliminare, sono relative al comma 1. Quindi per motivi strettamente formali come la mancanza di una condizione di procedibilità, ad esempio la querela da parte della vittima del reato. Inesistenti le archiviazioni in base al terzo comma, quando gli elementi acquisiti dal pm siano “insufficienti, contraddittori o comunque inidonei a sostenere l’accusa in giudizio”. Le cause per cui l’udienza preliminare da “filtro” che doveva essere nelle intenzioni del legislatore del codice del 1988 sia diventata un passaggio dall’esito più che prevedibile sono essenzialmente due. La prima riguarda la Cassazione che negli ultimi anni ha sempre accolto i ricorsi presentati dalla Procura e ha annullato sistematicamente le sentenze di non luogo a procedere emesse dai gup. I giudici, per evitare di essere continuamente “smentiti” hanno dunque iniziato di default a rinviare tutti a giudizio. La seconda è di tipo “pratico”. Per archiviare il giudice deve scrivere comunque una sentenza e motivare la decisione presa. Per rinviare a giudizio è sufficiente un rigo. Nell’attuale sistema di valutazione dei magistrati dominato dai numeri, ai fini statistici un procedimento definito con una sentenza di archiviazione equivale ad uno per il quale è stato invece disposto il rinvio a giudizio. La conseguenza è che i giudici dell’udienza preliminare preferiscono far valutare gli atti ai colleghi del dibattimento. Certamente non una bella prospettiva per l’imputato che dovrà affrontare un processo lungo e costoso prima di poter giungere ad una assoluzione che poteva, in molti casi, essere disposta giù in sede di udienza preliminare. Per chi si sente pronto ed ha estrema fiducia nel sistema giustizia per evitare il dibattimento l’unica possibilità resta il giudizio abbreviato. Con tutte le conseguenze che questo rito comporta, in particolare sotto il profilo dell’appello in caso di condanna. Il discorso vale anche al contrario. Sempre a Milano nell’ultimo anno sono state oltre diecimila le richieste di archiviazione da parte della Procura, quasi tutte accolte senza problemi. Rari i casi in cui il giudice per le indagini preliminari abbia ordinato di formulare l’imputazione non accogliendo la richiesta di archiviazione disposta dal pm. Talmente rari questi casi da finire sui giornali, come il procedimento a carico di Marco Cappato per istigazione al suicidio nei confronti di dj Fabo. In considerazione di ciò, sarebbe forse il caso di eliminare l’udienza davanti al gup per una migliore economia processuale. In sostanza uno stravolgimento del processo accusatorio di cui va inevitabilmente preso atto. Perché usare Falcone per giustificare le proprie idee estreme? di Piero Sansonetti Il Dubbio, 31 dicembre 2017 Polemica con Caselli e Travaglio. La decisione della Procura di Caltanissetta di chiedere la scarcerazione di Marcello Dell’Utri, in attesa che la Corte europea si pronunci sul suo caso, ha scatenato una campagna di “opposizione molto aggressiva guidata dal “Fatto Quotidiano”. Ieri Giancarlo Caselli, giorni fa Marco Travaglio, sono intervenuti con molta foga per contestare la competenza giuridica della Corte europea ( e anche della Procura generale di Caltanissetta). Perché usare a sproposito Falcone per giustificare le proprie idee? E per sostenere che i dubbi sulla colpevolezza di Dell’Utri e la fondatezza della sentenza Contrada sono improponibili. Travaglio ha intitolato il suo articolo “È rimorto Falcone”, riprendendo un vecchio titolo strepitoso dedicato, nel 1978, da “Lotta Continua” alla morte di Papa Luciani (avvenuta un paio di mesi appena dopo la morte di Paolo VI). La tesi di Travaglio è che la definizione del reato di concorso esterno in associazione mafiosa (quello per il quale sono finiti in carcere prima Contrada e poi Caselli) spetta a Falcone, che immaginò questo reato negli anni 80. E dunque negare che quel reato esistesse prima del 1994 è un’offesa al magistrato ucciso da Cosa Nostra. Caselli a sua volta sostiene che il reato di concorso esterno esiste da quando esiste il codice Rocco (1932) perché è in quel codice che viene previsto il reato di concorso esterno (che oggi è stabilito dall’articolo numero 110), e dal 1982 (quando nel codice viene inserito il 416 bis che punisce l’associazione mafiosa) esiste il concorso esterno in associazione mafiosa. Hanno ragione Travaglio e Caselli? No. vediamo perché. Prima un brevissimo riassunto dei capitoli precedenti. Contrada fu condannato per questo famoso concorso esterno per fatti risalenti agli anni 80. E così pure Dell’Utri. Contrada fece ricorso alla Corte europea, la quale sostenne che il reato di concorso esterno, in Italia, fu definito dalla giurisprudenza solo a partire dal 1994, e perciò non era prevedibile prima, e perciò non era punibile. L’Italia ora dovrà risarcire Contrada per ingiusta detenzione. Dell’Utri aspetta la sentenza. Perché ha torto Caselli e ha ragione la Corte europea? Vediamo innanzitutto cosa dice l’articolo 110 del codice penale: “Quando più persone concorrono nel medesimo reato, ciascuna di esse soggiace alla pena per questo stabilita”. Benissimo: c’è scritto “concorrono”, non “concorrono dall’esterno”. L’introduzione del concorso esterno non è stata decisa dal legislatore ma dall’interpretazione della legge da parte della magistratura. Del resto basterebbe chiedere questo a Caselli: come mai il reato di concorso esterno in banda armata non è stato mai né invocato né applicato? Eppure negli anni della lotta armata c’era una grande parte della magistratura, impegnata nella lotta al terrorismo, la quale sosteneva che intorno alle formazioni terroristiche ci fosse una retroguardia “esterna” di intellettuali e politici e giornalisti, che sostenevano le formazioni sovversive, pur senza farne parte, e erano a loro indispensabili. Lui stesso, mi pare, aveva questa idea. Mi ricordo bene persino l’espressione che si usava: “bisogna togliere l’acqua ai pesci”. Eppure nessuno pensò al concorso esterno. Anche perché la logica ha una sua autonomia: il reato associativo già di per se prevede il concorso; come si fa a concorrere a un concorso, e per di più da fuori? Perché ha torto Travaglio a farsi scudo con Falcone per difendere la sua convinzione che il concorso esterno sia sacrosanto? Perché Falcone ipotizzò il concorso esterno prima del 1989. Poi, in quell’anno, ci fu la riforma del codice penale. E nel 1991, poco prima di morire, Falcone scrisse: “Col nuovo Codice di procedura, non si potrà ancora a lungo continuare a punire il vecchio delitto di associazione in quanto tale, ma bisognerà orientarsi verso la ricerca della prova dei reati specifici. Con la nuova procedura, infatti, la prova deve essere formata in dibattimento. Il che rende estremamente difficile, in mancanza di concreti elementi di colpevolezza per i delitti specifici, la dimostrazione dell’appartenenza di un soggetto a un’organizzazione criminosa”. Addirittura Falcone metteva in discussione il reato associativo. Altro che concorso esterno! Povero Falcone, usato, a sproposito, come un santino! La crisi che fa cambiare lingua a Cosa Nostra di Vincenzo Vasile La Repubblica, 31 dicembre 2017 Il ritornello suppergiù è: “la mafia fa schifo”. E fa impressione ascoltare le parole di apparente disprezzo che alcuni boss come Francolino Spadaro o certi super-favoreggiatori come Totò Cuffaro hanno dedicato alla mafia. La mafia ha cambiato strategia di comunicazione, dai tempi della “mafia non esiste”? Nella mia memoria c’è ‘u ‘zu Tano di un quartiere di Palermo di piccola e media borghesia che trovavi sempre pronto a intervenire per qualunque dissidio, e sapevi che era lui l’uomo giusto per recuperare una refurtiva, ottenere un certificato, chiamare gli spazzini, dilazionare un debito o un affitto. Nessuno conobbe il timbro della voce o l’inflessione della parlata di questo mafioso, capozona della “Vaselli” (l’impresa di un aristocratico romano amico di Vito Ciancimino che ebbe per decenni la concessione del servizio dei rifiuti ripartito per mandamenti come Cosa Nostra), finché zio Tano non apparve nella “gabbia” di uno dei processi quando ero ai miei primi passi di cronista giudiziario. E lì scoprimmo che dietro i sorrisi gli ammiccamenti e i loquaci silenzi c’erano un’impressionante balbuzie e una voce in falsetto non consona con gli stereotipi “machisti” e il rango mafioso dell’imputazione. Ma a parte qualche correzione di tono, frutto delle batoste giudiziarie, delle carcerazioni e dell’impopolarità crescente che almeno dalle stragi del 1992 ha assediato l’organizzazione criminale che deteneva il record del radicamento sociale e politico, non mi sembra che si possa parlare di una vera svolta nel linguaggio e nella comunicazione di Cosa Nostra. O meglio: non sono così sicuro che la rottura del silenzio e della negazione dell’esistenza stessa della mafia si tratti di una sofisticata strategia, quanto piuttosto dei segni e dell’effetto di una crisi strutturale, di valori, e quindi di linguaggio. Chi trionfava nei giorni pari della mafia si adatta ai giorni dispari: il sindaco democristiano di Corleone negli Anni Settanta diceva ad Alfonso Madeo (giornlista prima del “Corriere” e poi direttore dell’Ora) che la mafia non esiste, mentre il suo mafioso di riferimento, Luciano Liggio, che amava parlare con la stampa, ormai in catene, dieci anni dopo concesse a Enzo Biagi che “se esiste l’antimafia vorrà dire che anche la mafia esiste” Ci sono poi altre mafie, e altri mafiosi. E dagli atti giudiziari come dalle interviste ricavo la convinzione che rispetto al passato, proprio per via della crisi e dei rovesci giudiziari, la legge del silenzio o quanto meno della riservatezza sia stata a volte contraddetta, e sia divenuto più frequente l’uso della comunicazione come strumento criminale, che era caratteristica ben più tipica della camorra, sin dal secolo scorso. Ricordo a Napoli negli Anni Ottanta a una conferenza stampa indetta nel salone di un grand hotel a Santa Lucia da Pupetta Maresca leader della Nuova Famiglia, e si poteva interloquire spesso dentro ad aule di giustizia assai meno controllate di adesso o per via epistolare con Raffaele Cutolo: lì l’uso anche smodato e logorroico della parola era una regola, ciò che a Palermo era un’eccezione. Da tempo anche i boss siciliani sono diventati abbastanza loquaci, i “pentiti” come gli “irriducibili”, contraddicendo la vecchia solfa della “meglio parola” che nella cultura popolare è (o era?) “quella che non si dice”. Affermare che “la mafia fa schifo” in fondo non costa niente, se invece intanto va in porto la ricostruzione del tessuto organizzativo, il ricompattamento di Cosa Nostra. Il brand “Cosa Nostra” è in declino, anzi non sappiamo bene se i commissari liquidatori abbiano mantenuto i diritti su quel marchio. Del resto, non è chiaro se la mafia siciliana mantenga ancora quel nome: i diversi tentativi via via abortiti di ricostruire la struttura unitaria dell’organizzazione, la Commissione e la stessa leadership, hanno forse consigliato qualche rinnovo di codici interni, qualche rispolveratura di vecchi linguaggi, incrostazioni e comportamenti. Più interessante sarebbe capire come nel Terzo Millennio i mafiosi parlino tra loro di se stessi e della mafia, della loro “cultura”, e dei loro “valori”, come ne percepiscano la crisi. Il codice destinato all’esterno, quanto differisce dalle comunicazioni interne? Il più recente spiraglio è aperto dal caso del capomafia di Bagheria, Pino Scaduto, membro della residua Commissione: “Tua sorella s’è fatta sbirra”, dice al figlio, informandolo di una vietatissima relazione sentimentale della donna con un carabiniere. E in una lettera indirizzata a una parente: “Questo regalo quando è il momento glielo farò - scrive - tempo a tempo che tutto arriva”. La traduzione di “regalo” è: “morte”. Il mandato di uccidere non va in porto perché il figlio si rifiuta, ma è importante leggere con quali parole. Dalla trascrizione di una conversazione di Scaduto jr. con un amico (approfittiamone finché il decreto Orlando non toglierà l’accesso ai virgolettati): “Io non lo faccio, il padre sei tu e lo fai tu... io non faccio niente... mi devo consumare io? Consumati tu, io ho trent’anni, non mi consumo”. Sicché il valore dell’”onore” mafioso sbandierato dal mafioso più anziano, non riesce a prevalere sull’argomento più concreto e prosaico della pellaccia: “consumarsi” in siciliano, significa “rovinarsi”. E onore famiglia religione sono parole che acquistano significati sorprendenti, come sappiamo, ben prima di Buscetta, nella cultura e nello slang dei mafiosi. Sul finire del 2000 uno dei tentativi di rifondazione di Cosa Nostra attorno al superlatitante Salvatore Lo Piccolo di San Lorenzo prevedeva il ripristino di un vecchio decalogo con terminologia immutata e condita degli stessi strafalcioni: “Non ci si può presentare da soli ad un altro amico nostro - se non è un terzo a farlo”. “Non si guardano mogli di amici nostri”. “Non si fanno comparati con gli sbirri”. “Non si frequentano né taverne e né circoli”. “Si è il dovere in qualsiasi momento di essere disponibile a Cosa Nostra. Anche se c’è la moglie che sta per partorire”. “Si rispettano in maniera categorica gli appuntamenti”. “Si ci deve portare rispetto alla moglie”. “Quando si è chiamati a sapere qualcosa si dovrà dire la verità”. “Non ci si può appropriare di soldi che sono di altri e di altre famiglie”. “Chi non può entrare a far parte di cosa nostra: chi ha un parente stretto nelle varie forze dell’ordine, chi ha tradimenti sentimentali in famiglia, chi ha un comportamento pessimo e che non tiene ai valori morali”. Ma oggi, nel 2017 il codice linguistico associato al decalogo mafioso richiama ancora ambiguamente il rispetto dei “valori morali” da parte di un’accolita di pluriassassini? Se davvero sono tornati più o meno in sella, i trecento ex detenuti della nuova rifondazione mafiosa riusciranno a risorgere e a comunicare con i linguaggi di quelli che hanno tenuto loro il posto? Tutto dipende dalla loro energia e dalle loro risorse, oltre che da una cosa che non sappiamo prevedere: se quelli di fuori hanno mantenuto l’imprinting di quelli che stavano dentro, come la figlia di Totò Riina che s’affaccia alla tribuna di Facebook per pubblicare il selfie con il dito sulle labbra in segno di invito al silenzio e al “rispetto”, l’operazione potrebbe rivelarsi meno complicata di quanto possiamo immaginare. Sulle presunzioni la Cassazione ancora fuori linea di Enrico De Mita Il Sole 24 Ore, 31 dicembre 2017 Con riferimento alla rinata presunzione legale prevista dall’articolo 32 Dpr 600/1973, relativa ai versamenti effettuati su conto corrente bancario intestato a professionisti o lavoratori autonomi, ad avviso della Cassazione (sentenza 19806/2017) permane l’obbligo, da parte del contribuente, di provare analiticamente l’estraneità dei versamenti alla formazione del proprio reddito. Diverse pronunce di Cassazione (23041/15, 16440/16, 12779/16, ordinanze 24862 e 19970/16) hanno ritenuto essere venuta meno la presunzione di imputazione ai “compensi” dei lavoratori autonomi o dei professionisti intellettuali sia dei prelevamenti che dei versamenti operati sui conti bancari. Al contrario, la recente sentenza di Cassazione 19806/17 oppone il diverso orientamento secondo cui, in tema di accertamento, resta invariata la presunzione legale posta dal Dpr 600/73, articolo 32, con riferimento ai versamenti effettuati su un conto corrente dal professionista o lavoratore autonomo. Sicché questi ha l’onere di provare in modo analitico l’estraneità di tali movimenti ai fatti imponibili. Infatti, è venuta meno, dopo la sentenza della Corte costituzionale 228/14, l’equiparazione logica tra attività imprenditoriale e professionale limitatamente ai prelevamenti sui conti correnti. Per quanto maggior numero di sentenze non significhi necessariamente maggior peso, è indubbia la spaccatura della Suprema Corte che può portare a una nuova deriva interpretativa, in contrasto con la pronuncia della Corte Costituzionale 228/14. Nell’intervenire su una sentenza regionale del 2011, quindi anteriore alla pronuncia della Consulta, la Cassazione illustra il proprio orientamento interpretando e salvando - a suo dire - la coerenza della sentenza costituzionale. Anzitutto si richiama la norma previgente. L’articolo 32, comma 1, n. 2, Dpr 600/73, prevedeva, in relazione ai rapporti e alle operazioni (anche) bancarie, che “sono altresì posti come ricavi o compensi a base delle stesse rettifiche e accertamenti, se il contribuente non ne indica il soggetto beneficiario e sempreché non risultino dalle scritture contabili, i prelevamenti o gli importi riscossi nell’ambito dei predetti rapporti od operazioni”. Tale norma è stata oggetto di intervento della Consulta, certamente applicabile retroattivamente, quale ius superveniens, ai rapporti non ancora definiti da giudicato. Con sentenza n. 228/14 la Corte Costituzionale, dichiarando l’illegittimità costituzionale della sopra riportata disposizione limitatamente alle parole “o compensi”, ha rilevato, infatti, la contrarietà della norma al principio di ragionevolezza e di capacità contributiva, ritenendo “arbitrario ipotizzare che i prelievi ingiustificati da conti correnti bancari effettuati da un lavoratore autonomo siano destinati a un investimento nell’ambito della propria attività professionale e che questo a sua volta sia produttivo di un reddito”. Secondo la Cassazione vi sarebbe una sorta di discrasia tra motivazione e dispositivo nella sentenza del giudice delle leggi. Spiega la Cassazione che nella motivazione della sentenza 228/14 si fa riferimento ai soli prelevamenti dai conti bancari e nel dispositivo, invece, viene sancita in maniera perentoria l’illegittimità costituzionale della disposizione censurata (l’articolo 32, comma 1°, n. 2, secondo periodo, Dpr 600 / 73 citato), “limitatamente alle parole o compensi”, che nell’architettura della disposizione è posta con riferimento ai prelevamenti, ma anche “agli importi riscossi nell’ambito dei predetti rapporti od operazioni”, che potrebbero far pensare ai versamenti. La Cassazione individua e limita la portata della sentenza della Corte Costituzionale, segnata da un apparente contrasto tra motivazione e dispositivo. Quindi, il dispositivo della sentenza 228/14 va integrato con la motivazione che precede: la Corte Costituzionale ha inteso escludere l’operatività della presunzione legale basata sugli accertamenti bancari, nei confronti dei lavoratori autonomi, solo ed esclusivamente ai prelevamenti e non anche ai versamenti in conto. La Suprema Corte si profonde in un’opera di salvataggio della coerenza della sentenza della Corte Costituzionale che, in concreto, appare una ultronea, oltre che indebita, limitazione della portata formale e sostanziale di tale ultima pronuncia. La parola dovrà necessariamente passare alle sezioni unite, per sanare il contrasto in seno alla Cassazione, e, in ultima istanza, alla Corte Costituzionale, non essendo delegabile alla Corte di Cassazione l’interpretazione autentica delle proprie sentenze. Sicilia: il Partito Radicale in visita alle carceri di Palermo, Trapani e Castelvetrano Giornale di Sicilia, 31 dicembre 2017 Dopo le visite effettuate nei giorni scorsi negli Istituti penitenziari di Reggio Emilia, Roma-Rebibbia, Palermo-Ucciardone, Napoli-Poggioreale, Milano-San Vittore, Foggia, Napoli-Secondigliano, Catanzaro, Lucera, Palermo-Pagliarelli, Castelvetrano e Trapani, durante le festività il Partito Radicale sarà ancora presente in alcune carceri italiane secondo programma riportato di seguito. “In questi giorni di festa - ha dichiarato Rita Bernardini della presidenza del Partito Radicale - è particolarmente importante essere vicini alla comunità penitenziaria tenuta ancora così lontana dai principi costituzionali basati su una pena che non umili la dignità della persona e che sia improntata alla rieducazione e al reinserimento sociale. Oggi, dopo l’approvazione da parte del Governo della Riforma dell’Ordinamento penitenziario, riforma che dovrebbe essere meno carcerocentrica e più indirizzata alle pene alternative, possiamo forse portare un po’ di speranza in quei luoghi dove spesso la disperazione prende il sopravvento”. Programma di visite del Partito Radicale Nonviolento Transnazionale Transpartito: sabato 30 dicembre Carcere di Milano-Opera, delegazione guidata da Mauro Toffetti (ore 10:30). Domenica 31 dicembre: Carcere di Roma Rebibbia-Nuovo Complesso, con Rita Bernardini, Sergio D’Elia, Elisabetta Zamparutti (ore 18:00). Lunedì 1 gennaio 2018: Carcere di Roma - Regina Coeli, con Rita Bernardini e Claudio Moreno (autore del libro “Un ambasciatore a Regina Coeli) (ore 10:00). Martedì 2 gennaio 2018: Carcere di Palmi (RC), delegazione guidata da Gianpaolo Catanzariti (ore 9:00). Mercoledì 3 gennaio 2018 Carcere di Reggio Calabria-Arghillà, delegazione guidata da Gianpaolo Catanzariti (ore 9:00). Giovedì 4 gennaio 2018 Carcere di Laureana di Borrello, delegazione guidata da Gianpaolo Catanzariti (ore 9:00). Lucca: carcere di San Giorgio, la situazione migliora Il Tirreno, 31 dicembre 2017 Visita ispettiva dei parlamentari Pd Marcucci e Mariani: “adeguati spazi comuni e infermeria”. San Giorgio, la situazione migliora: rischio sovraffollamento quasi eliminato (82 detenuti su una capienza di 77), effettuati lavori di manutenzione all’infermeria e alle aree comuni. Per la prima volta in giardino spunta un presepe, opera di un detenuto. E con il miglioramento delle condizioni di vita in carcere, diminuisce anche il pericolo di radicalizzazione dei detenuti. È questo, in sintesi, il racconto fatto dal senatore Andrea Marcucci e dalla deputata Raffaella Mariani, al termine della tradizionale visita ispettiva al carcere lucchese. Il sopralluogo, avvenuto ieri mattina attorno alle 10, ha dato modo ai due parlamentari di confrontarsi con il direttore della struttura e di fare il punto sulla condizione in cui vivono i detenuti. “In questi cinque anni di visite al carcere San Giorgio, per la prima volta in modo marcato abbiamo riscontrato una situazione molto migliorata. I detenuti sono scesi (sono attualmente 82) in modo sensibile, le aree in comune sono state ristrutturate, l’infermeria, grazie ai recenti finanziamenti, è operativa”. I due parlamentari Pd hanno incontrato i detenuti e i rappresentanti della polizia penitenziaria, il cui organico è poco sotto le 112 unità previste. “La diminuzione del numero di persone recluse - hanno sottolineato Marcucci e Mariani - è frutto di alcune leggi dei governi dem, in modo particolare la revisione della custodia cautelare e delle misure alternative al carcere”. Con 82 detenuti il San Giorgio è poco sopra la capienza prevista: 77 persone. Siamo comunque assai lontani dal periodo in cui il sovraffollamento era concreto, con punte di 220 detenuti rinchiusi in celle che ospitavano quattro e più persone in spazi ridotti. Oggi quelle stesse celle se le dividono uno, massimo due detenuti. Negli ultimi anni il numero delle presenze è andata poco a poco diminuendo: 88 detenuti nel 2016, 115 nel 2015, 131 nel 2014, 155 nel 2013. Gli altri dati forniti dai parlamentari riguardano la nazionalità delle persone attualmente presenti nella struttura: si tratta di 46 cittadini italiani e 36 stranieri, prevalentemente marocchini, tunisini, albanesi. Quarantotto carcerati si trovano nella casa circondariale a seguito di condanne definitive, 34 sono in attesa di giudizio (di cui 25 in attesa del primo grado di giudizio). “La struttura - dicono i parlamentari - è stata oggetto di importanti interventi di manutenzione e registriamo un’attenzione costante da parte di tutto il personale per migliorare la qualità della permanenza all’interno del carcere, dove ci sono progetti di formazione professionale rivolti alla meccanica e all’informatica. Sono utili soprattutto per i giovani, che una volta usciti dovranno cercarsi un lavoro. Ci sono poi le attività portate avanti assieme alla Caritas e ad altre associazioni. Abbiamo visitato anche il giardino interno - sottolineano i due dem - È tenuto molto bene e per la prima volta abbiamo trovato un bel presepe, realizzato e curato direttamente da un detenuto”. In tempi di terrorismo le carceri sono uno dei luoghi a più alto rischio di radicalizzazione. “C’è attenzione su questo tema - spiegano Marcucci e Mariani - Di certo la diminuzione delle presenze e la separazione degli ambienti, permette di tenere sotto controllo i detenuti. Episodi di autolesionismo? Purtroppo ci sono ancora ma si registrano soprattutto tra i detenuti che fanno uso di sostanze e che nella prima fase della detenzione faticano ad allontanarsi da queste sostanze”. In chiusura una battuta sul destino di questo vecchio carcere, costruito in pieno centro storico con i problemi che una simile collocazione si porta dietro. Da anni si parla di realizzare una nuova e più moderna struttura fuori dalle Mura urbane, e forse anche fuori dal perimetro del Comune di Lucca. Ma non è questo il momento di affrontare l’argomento: “Per ora lo lasciamo qui - dicono sorridendo Marcucci e Mariani - Se ne occuperà la prossima legislatura”. L’Aquila: infermieri in difficoltà con i detenuti della Rems di Vittorio Perfetto Il Centro, 31 dicembre 2017 Da quando è stata inaugurata la Rems (Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza), che ospita detenuti a Barete, il 4 aprile 2016, i problemi non sono mancati, come denunciato più volte, sia a livello di amministrazioni locali, che di politica regionale. Un argomento spinoso, del quale in molti sembrano restii a parlare. Ma oltre ai problemi sollevati anche dal presidente della Commissione Vigilanza in Regione, Mauro Febbo, poco più di due mesi fa, che ha chiesto di “verificare, monitorare e conoscere la reale situazione dei pazienti/detenuti presenti presso la struttura”, molti di questi problemi si riversano nel reparto di Psichiatria del San Salvatore. Dove medici e infermieri annaspano, perché la coperta è corta e spesso la situazione diventa poco gestibile. Soprattutto per il personale infermieristico: sono in tre, raro quattro, a turno a doversi occupare dei pazienti. E nei turni ci sono anche donne che, almeno dal punto di vista della forza fisica, hanno qualche problema a volte a tenere a bada i pazienti della Rems. “Il problema nasce anche dalla chiusura del Cim (Centro di igiene mentale) di Sulmona”, spiega Edoardo Facchini, responsabile del Tribunale del malato. “I detenuti che prima venivano al Cim di Sulmona, ora vanno a quello dell’Aquila, con aggravio di lavoro per il reparto di Psichiatria del San Salvatore. In realtà il servizio, per quanto riguarda Sulmona, non sta funzionando”, conclude Facchini. Si tratta di un servizio borderline, nel senso psichiatrico, ma anche perché alla Rems ci lavorano medici e infermieri non ospedalieri e la struttura è gestita dalla Regione; però alla fine i pazienti psichiatrici violenti vanno a finire nel reparto del San Salvatore. E per questo nessuno - tra sindacalisti medici e di altro personale ospedaliero - vuole pronunciarsi apertamente sul problema. Dopo un episodio di violenza, è stata messa nel reparto di Psichiatria anche una guardia giurata, per garantire l’incolumità del personale. “Abbiamo già potenziato l’organico degli psichiatri della Rems come prima misura preventiva, finalizzata ad alleggerire l’ospedale dell’Aquila nei trattamenti dei pazienti-detenuti, ospiti della struttura di Barete”, è la risposta del manager della Asl, Rinaldo Tordera. “La nostra Azienda, come noto, si accolla, per Abruzzo e Molise, la delicata e difficile assistenza di pazienti, con reati alle spalle, sottoposti a misure di sicurezza. Un compito assai impegnativo”, aggiunge Tordera, “svolto in collaborazione con il reparto di Psichiatria dell’ospedale San Salvatore che, dovendo talora seguire pazienti con questo tipo di patologie, vive comprensibili momenti di tensione. Difficoltà a noi ben note e ampiamente monitorate, per attenuare le quali, in questa fase, abbiamo prorogato il contratto di lavoro di uno degli psichiatri in servizio a Barete. Un provvedimento-tampone”, conclude Tordera, “che contribuirà ad agevolare il lavoro della psichiatria dell’ospedale dell’Aquila, in attesa di completare la valutazione sulle effettive necessità di organico del reparto, sulla cui attività manteniamo la massima attenzione”. Porto Azzurro (Li): l’università in carcere, un contributo per il recupero di Nunzio Marotti tenews.it, 31 dicembre 2017 Da circa 15 anni, i detenuti ospiti della Casa di reclusione di Porto Azzurro hanno la possibilità di affrontare gli studi universitari. Il progetto è nato dalla collaborazione fra l’associazione di volontariato Dialogo e l’area educativa del carcere elbano, con il contributo economico della Fondazione Livorno. Universazzurro, questa la denominazione, dà la possibilità ai detenuti che hanno conseguito il diploma di continuare gli studi universitari senza doversi trasferire altrove. Come è noto, dalla metà degli anni Novanta esiste una sezione carceraria del liceo scientifico “Foresi”, a cui si è aggiunto lo scorso anno l’indirizzo Agrario “Cerboni”. Spiega Licia Baldi, presidente di Dialogo: Il progetto si fonda sulla convinzione che lo studio, insieme al lavoro, offre ai condannati l’opportunità per una sincera revisione critica del proprio vissuto, un percorso di crescita personale e un cambio di prospettiva che allontana dalla commissione di nuovi reati. La cultura è libertà, impegno, momento di dialogo, fatica che richiede senso del dovere, e la crescita culturale è un patrimonio sociale da incrementare a beneficio di tutti. Il possesso di maggiori capacità critiche favorisce certamente una collocazione più consapevole all’interno della società, con cognizione dei diritti e dei doveri e senso di responsabilità nei confronti dei cittadini e delle istituzioni. L’iniziativa apre il carcere all’esterno, creando un contatto, un ponte con la società nella convinzione che chi ha deviato debba ritornare in essa più consapevole, dotato di qualche strumento in più. È un contributo, forse non importante da un punto di vista numerico, ma sicuramente significativo per l’impatto con la società civile, per il recupero, la riabilitazione, la risocializzazione di persone che hanno sbagliato ma non per questo devono vedere sminuiti i loro diritti di uomini e cancellate le loro potenziali capacità intellettuali. Dare ai detenuti - aggiunge Daniele Palmieri, da anni volontario referente del progetto - la possibilità di intraprendere, sia pure tra tante difficoltà, un percorso di studi universitario, fa si che il carcere possa venir visto non solo in funzione della pena ma anche e soprattutto in funzione della rieducazione di uomini più liberi e consapevoli. E ricorda le fasi principali del progetto: dal colloquio con gli educatori alla predisposizione del materiale, dall’orientamento all’iscrizione, ai contatti con i docenti di Pisa e Firenze, fino al servizio di tutorato per il sostegno allo studio. Il tutor è una figura decisiva perché lo studio, come ogni altra attività umana, può andare incontro a errori ed è facile cadere nello sconforto ed essere tentati di abbandonare il campo, specie in un contesto quale quello carcerario dove le condizioni non sono certo le più ottimali. Attualmente, gli universitari sono quattro, a cui stanno per aggiungersene altri quattro. Nei giorni scorsi l’esperienza elbana è stata presentata al Convegno nazionale “L’Università del carcere. L’esperienza dei poli universitari penitenziari”, che si è svolto a Firenze. Era presente la volontaria di Dialogo Loredana Pugliese che collabora nel progetto Universazzurro, insieme ad Annarosa Valencich che, sebbene trasferita a Pisa, continua a dare una mano agli studenti di Porto Azzurro. Nella due giorni si sono confrontati esponenti dei diversi mondi che si incrociano in questo settore: accademico, penitenziario e del volontariato. Tutti hanno mostrato disponibilità a continuare e consolidare l’esperienza dell’università del carcere. Ma la strada è ancora in salita, tanto da chiedersi se sia possibile veramente per i detenuti esercitare il diritto allo studio? gli spazi, all’interno del carcere sono adeguati allo studio? Possono i detenuti usufruire dei supporti informatici? e il dopo carcere? La burocrazia, il servizio di tutoraggio, le agevolazioni economiche. Sono tutti aspetti che ancora presentano delle difficoltà. “La vera sfida è la nascita di un polo universitario in ogni carcere”, ha detto il Sottosegretario alla giustizia Cosimo Maria Ferri. Da parte sua, il garante regionale dei diritti dei detenuti Franco Corleone ha affrontato il tema della quotidianità del carcere: la conformazione delle celle, le biblioteche (spesso non accessibili) non sono adeguate alle esigenze dei detenuti studenti: occorrerebbe ripensare l’architettura del carcere per garantire veramente il diritto allo studio. Il tema della quotidianità del carcere è stato ripreso da Nedo Baracani, sociologo e docente. La quotidianità in carcere - ha sottolineato - è scandita nella quotidianità della mattina, del pomeriggio e della sera; certo, la quotidianità più terribile in carcere è quella notturna quando spenta la tv si sente il peso del vuoto esistenziale; durante la notte queste persone sono sole con i loro pensieri: chissà se l’istanza è stata inoltrata, chissà se i familiari stanno bene; ci sono le telefonate, persone che sentono i familiari una volta alla settimana che se tardano un solo minuto e perdono il turno dovranno rimandare alla settimana successiva; ci sono i colloqui e c’è l’elenco dei cibi proibiti. Ecco, la quotidianità in carcere è fatta di queste cose. Bisogna avviare una riflessione vera sulla quotidianità. Francesco Palazzo (docente di diritto penale nell’Università di Firenze) è intervenuto sul temaLa pena carceraria tra vecchi e nuovi riformismi. Attraverso un excursus sull’evoluzione della pena, ha sottolineato che oggi la pena carceraria vive una contraddizione: da una parte si coglie la novità che i magistrati ipotizzano “il fine pena ora”, dall’altra il legislatore ricorre sempre più al carcere. Si è in bilico tra il rifiuto del carcere e l’indulgere al carcere, anche se negli ultimi anni è cresciuta l’attenzione verso la giustizia riparativa (che richiede l’esercizio della difficile arte della mediazione), un modello che si oppone a quello della giustizia punitiva. Molti altri sono stati gli interventi, dai rettori delle Università alle segretarie amministrative del polo penitenziario, agli educatori, ai rappresentati della politica, agli studenti detenuti i quali hanno portato la loro esperienza diretta dello studio in carcere. Il Convegno - commenta Loredana Pugliese - ha costituito un primo fondamentale appuntamento nazionale per confrontarsi sulla formazione universitaria in carcere. Esso ha messo in evidenza i punti critici su cui lavorare: gli spazi, la burocrazia,il reale esercizio del diritto allo studio in carcere, la quotidianità del carcere, la difficoltà di un autentico lavoro di rete. Ma i poli universitari penitenziari ormai sono una realtà in forte espansione nel nostro Paese. Si dà così la possibilità ad un numero crescente di persone in detenzione di proseguire gli studi e di fare della cultura uno strumento di risocializzazione e di cambiamento. Al termine dell’appuntamento fiorentino è stato presentato il nuovo accordo interistituzionale per il polo universitario penitenziario della Toscana e promossa l’attivazione di un coordinamento nazionale delle esperienze universitarie in carcere. Como: ricorso al Tar contro l’ordinanza anti clochard “non rispetta i diritti umani” di Oriana Liso La Repubblica, 31 dicembre 2017 Un gruppo di giovani avvocati e l’associazione Civitas hanno depositato il ricorso: chiedono che l’ordinanza venga sospesa al più presto. Un ricorso al Tar Lombardia contro l’ordinanza del sindaco di Como che multa clochard e mendicanti nel centro città durante le feste natalizie. E che ha portato all’estremo, con i volontari che al mattino distribuiscono la colazione ai senzatetto comaschi allontanati dalla polizia locale per evitare di creare bivacchi. A presentarlo - contestando all’ordinanza del sindaco Mario Landriscina l’eccesso di potere - alcuni giovani avvocati milanesi che, gratuitamente, hanno scritto e seguiranno il ricorso sostenuto anche dall’associazione comasca Civitas, legata al consigliere di opposizione Bruno Magatti. Il ricorso è stato depositato ieri a Milano - che ha la competenza su Como - dall’avvocata Damiana D’Errico e dai colleghi Francesco Viceconte e Ilaria Rudisi, per conto di Civitas e di un singolo cittadino, Guido Rovi. Che la scorsa settimana hanno seguito con attenzione la questione di Como, partita con l’ordinanza con multe fino a 3mila euro per i senzatetto e finita con un bivacco solidale in centro organizzato dalle associazioni di volontariato, con la stessa Caritas che ha chiesto al sindaco il ritiro dell’ordinanza. “Quell’ordinanza viola la Convenzione europea dei diritti dell’uomo e diversi diritti costituzionali”, spiega Viceconte. Per questo hanno deciso di impugnare l’ordinanza anti-degrado, chiedendone la sospensione cautelare prima ancora dell’annullamento: l’atto firmato dal sindaco di centrodestra - che ha spiegato di non avere alcuna intenzione di ritirarlo - dura 45 giorni, quindi fino al 25 gennaio, e quindi serve che i giudici amministrativi si muovano in fretta. Per il ricorso il gruppo di avvocati lavorerà gratuitamente: l’associazione Civitas chiede comunque a tutti di contribuire alle spese vive della causa, considerando che soltanto la marca da bollo per depositare il ricorso costa 650 euro. “Riteniamo - scrivono i promotori del ricorso - che sia nostro dovere di cittadini batterci per il rispetto dei diritti costituzionalmente garantiti e impedire che il potere politico mal esercitato possa agire con dispotismo e palese ingiustizia”. Cremona: efficientamento energetico per il carcere, in arrivo fondi da Regione Cremona Oggi, 31 dicembre 2017 Riqualificazione e isolamento termico del manto di copertura dell’edificio caserma del carcere di Cremona: questo l’intervento di riqualificazione energetica che la Regione Lombardia ha finanziato al carcere di Cremona, nell’ambito dello schema di protocollo d’intesa sottoscritto tra Regione Lombardia, Ministero della Giustizia - Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria - Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria e Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti - Provveditorato interregionale alle Opere pubbliche per la Lombardia e l’Emilia-Romagna. “Abbiamo approvato lo stanziamento di oltre 4 milioni di euro per realizzare interventi di efficientamento energetico nelle case circondariali di Opera (Mi), San Vittore di Milano, Bollate (Mi), Pavia e Cremona” ha spiegato l’assessore regionale all’Ambiente, Energia e Sviluppo sostenibile Claudia Terzi. “La delibera prevede uno stanziamento in attuazione del Por Fesr 2014-2020, per la realizzazione di interventi dedicati alla riduzione del fabbisogno energetico per la climatizzazione e la produzione di acqua calda sanitaria in alcune strutture penitenziarie della nostra Regione”. L’intervento prevede azioni finalizzate al miglioramento delle condizioni di abitabilità, di alcune strutture penitenziarie, mediante soluzioni impiantistiche a elevata efficienza energetica, anche con interventi sull’involucro edilizio. L’obiettivo è quello di diminuire la dipendenza da combustibile fossile, ridurre le emissioni climalteranti, valorizzare le risorse energetiche disponibili e ottenere un risparmio sui costi di gestione delle strutture. “Alcune strutture di detenzione presenti sul territorio regionale sono interessate da gravi carenze sia per quanto riguarda lo stato degli involucri edilizi sia per gli aspetti impiantistici, in particolare, la climatizzazione invernale” evidenzia l’assessore. “Queste criticità comportano, da un lato, il peggioramento delle condizioni generali di vita dei detenuti e la sicurezza della loro custodia, dall’altro, limitano fortemente l’utilizzo delle strutture causando la perdita di spazi destinati alla detenzione, con conseguente sovraffollamento degli spazi rimanenti. Sono convinta che debba sempre prevalere l’assunto per cui chi sbaglia paga. La detenzione, però, deve avvenire in condizioni che siano definite umane e che consentano di estinguere il debito, di chi ha commesso il reato, verso la giustizia e la società. Occorre, quindi, garantire anche una sorta di riscatto per il detenuto che, una volta pagato il suo debito, può rientrare a pieno titolo nella società. Condizioni ambientali come: mancanza di spazio, assenza di acqua calda, insufficiente illuminazione e ventilazione delle celle non favoriscono, di certo, il riscatto dell’individuo”. Milano: pugni chiusi al carcere di Bollate di Gian Luca Pasini La Gazzetta dello Sport, 31 dicembre 2017 Incassare per ripartire. Un po’ come sbagliare prima di capire, quindi riprendere la retta via. Pugni “Chiusi” nel carcere di Bollate è il progetto pugilistico nato nel 2016, rivolto a detenuti e polizia penitenziaria. “Parlare di pugilato è sempre difficoltoso, parlarne in termini di crescita umana e professionale ancora peggio - spiega Mirko Chiari, l’ideatore del progetto per cui collabora anche il maestro Bruno Meloni, soprattutto quando devi raccontare a chi non ha mai preso uno schiaffo il perché la boxe può aiutare molte persone”. Il via a ottobre 2016. “Da settembre svolgiamo anche 2 allenamenti a settimana, di un’ora ciascuno, al personale di polizia penitenziaria. Per i detenuti - oggi in 20 sono coinvolti nel progetto - abbiamo un giorno fisso alla settimana, il venerdì dalle 17 alle 19. Provengono dai quattro dei sette reparti presenti al carcere di Bollate, circa la metà hanno un’età compresa tra 19 e i 30 anni. Abbiamo anche qualche anzianotto di 51 anni che si difende molto bene”. E subito spunta il desiderio più grande: “Il nostro sogno nel cassetto è poter far allenare insieme detenuti e polizia penitenziaria. Sappiamo che sarà un percorso molto lungo e gran parte di questo cammino sarà dedicato alla sensibilizzazione delle parti, verso un contatto fisico più consapevole e puro. Secondo noi non esiste pratica sportiva più nobile del pugilato per raggiungere un obiettivo così ambizioso. Ad ogni modo, per il 2018 prevediamo di inserire almeno altri tre docenti di sport all’interno del progetto, sempre che ci venga data la possibilità di ampliarsi come spazi, per fornire un servizio sempre più completo sia ai detenuti che alla polizia penitenziaria. Di recente ho scritto una lettera al direttore del carcere chiedendo uno spazio tutto nostro per la pratica del pugilato, visto che siamo ospiti nella palestra del primo reparto preclusa all’utilizzo dagli altri detenuti che non fanno parte del progetto boxe in carcere. Abbiamo chiesto anche se ci sono interesse e disponibilità per consentire ai detenuti più meritevoli, sia sotto l’aspetto sportivo che di condotta, di poter combattere all’interno del penitenziario contro pugili esterni”. Mirko racconta il percorso per arrivare fin qui: “Siamo riusciti con il tempo a crearci un percorso parallelo nel sociale, collaborando con cooperative supportate dal Comune di Milano che operano sui territori considerati pericolosi in zone periferiche. Così facendo abbiamo potuto testare le nostre capacità didattiche non solo come insegnanti di pugilato ma anche come formatori ed educatori. Per questi progetti, i ragazzi legati al territorio, tutti minorenni, hanno risposto molto bene dimostrando interesse e predisposizione per il pugilato tra fatica e apprendimento. Ovviamente i parametri di riferimento con cui ci si interfaccia a questi giovani sono differenti da quelli che si usano nelle palestre nel quotidiano. Anche se, poi alla fine, alcune problematiche risultano più frequenti in persone considerate agiate”. E si sofferma su un retroscena: “A giugno 2016, attraverso eventi legati alla promozione dello sport per tutti abbiamo incontrato alcuni esponenti del carcere di Bollate fino al responsabile dell’area trattamentale, Roberto Bezzi, e l’ispettore di polizia del primo reparto. A quel colloquio ci siamo accordati per un progetto pilota di 6 mesi e siamo rimasti d’accordo che se in questo periodo di tempo i detenuti non si fossero azzuffati tra loro in palestra, il progetto sarebbe durato senza una scadenza. L’allenamento che si fa è più concentrato dei soliti allenamenti delle palestre di pugilato perché in un solo corso di 2 ore siamo costretti a inserire molti aspetti tecnici e pratici del pugilato. Si parte con un riscaldamento veloce, poi procediamo con lavori di tecnica in coppie, quindi di passate - figure, infine fanno sparring tra di loro”. Infine, un auspicio: “Ci piacerebbe, anche solo dalle nostre parole, che la gente conoscesse di più l’ambiente carcerario perché crediamo aiuti anche a starne lontano e a seguire una condotta di vita più omogenea. Vorremo però che cadessero certi pregiudizi appiccicati come un’etichetta a chi ha avuto un passato da detenuto. È proprio questa etichetta di ex detenuto la cosa più complicata da superare, che poi prevede quasi una minima possibilità di recidiva. A conti fatti abbiamo capito che spesso, per una serie di circostanze che consideriamo quotidiane, è molto facile essere incarcerati: almeno il 30% delle persone che abbiamo conosciuto nella vita di tutti i giorni hanno rischiato un percorso simile”. Papa Francesco e la foto del bambino di Nagasaki: “il mio messaggio contro la guerra” di Valentina Santarpia Corriere della Sera, 31 dicembre 2017 Bergoglio sceglie una fotografia tristissima, dello statunitense Joseph Roger O Donnel, per lanciare il suo messaggio di pace: nel volto tirato del bambino solo che aspetta di cremare il corpo del fratellino, c’è tutta la disumanità della guerra. Papa Francesco ha scelto una foto tragica, delle conseguenze del bombardamento atomico a Nagasaki del 1945, per un suo messaggio di pace, contro ogni guerra. Lo riferisce l’Osservatore Romano. “Nagasaki, 1945. Un ragazzo con in spalla il fratellino morto nel bombardamento atomico, attende il suo turno per far cremare il corpicino senza vita. L’obiettivo del fotografo statunitense Joseph Roger O Donnell - si legge sul giornale della Santa Sede - fissò, nel vivido realismo del bianco e nero, quel momento insieme drammatico e composto. Un’immagine” che “ha colpito molto Papa Francesco, il quale ha voluto farla riprodurre su un cartoncino, accompagnandola con un commento eloquente, “il frutto della guerra”, seguito dalla sua firma autografa”. La tristezza del bambino solo - viene spiegato nel retro del cartoncino - si esprime nel suo gesto di mordersi le labbra che trasudano sangue”. I bambini del mondo - Tornano alla mente le parole del Papa nel messaggio “Urbi et Orbi” di pochi giorni fa: “Oggi, mentre sul mondo soffiano venti di guerra e un modello di sviluppo ormai superato continua a produrre degrado umano, sociale e ambientale, il Natale ci richiama al segno del Bambino Gesù, e a riconoscerlo nei volti dei bambini, specialmente di quelli per i quali, come per Gesù, “non c’è posto nell’alloggio”. Lo vediamo in quelli del Medio Oriente, che continuano a soffrire per l’acuirsi delle tensioni tra Israeliani e Palestinesi. (...) Vediamo Gesù nei volti dei bambini siriani, ancora segnati dalla guerra che ha insanguinato il Paese in questi anni. (...) Vediamo Gesù nei bambini dell’Iraq, ancora ferito e diviso dalle ostilità che lo hanno interessato negli ultimi quindici anni, e nei bambini dello Yemen, dove è in corso un conflitto in gran parte dimenticato”. Il Pontefice ha proseguito ricordando i bambini dell’Africa, soprattutto in quelli che soffrono in Sud Sudan, in Somalia, in Burundi, nella Repubblica Democratica del Congo, nella Repubblica Centroafricana e in Nigeria, “i bambini di tutto il mondo dove la pace e la sicurezza sono minacciate dal pericolo di tensioni e nuovi conflitti”, quelli del Venezuela, del Myanmar e del Bangladesh, quelli che patiscono il conflitto in Ucraina, “i bambini i cui genitori non hanno un lavoro e faticano a offrire ai figli un avvenire sicuro e sereno”, “quelli a cui è stata rubata l’infanzia, obbligati a lavorare fin da piccoli o arruolati come soldati da mercenari senza scrupoli”, “i molti bambini costretti a lasciare i propri Paesi, a viaggiare da soli in condizioni disumane, facile preda dei trafficanti di esseri umani”. La posizione contro il nucleare - La foto scelta da Bergoglio ricorda anche il discorso pronunciato in occasione del convegno “Prospettive per un mondo libero dalle armi nucleari e per un disarmo integrale”, tenuto lo scorso novembre in Vaticano. “Le armi di distruzione di massa, in particolare quelle atomiche - disse Francesco in quest’ultima occasione -, altro non generano che un ingannevole senso di sicurezza e non possono costituire la base della pacifica convivenza fra i membri della famiglia umana, che deve invece ispirarsi a un’etica di solidarietà”. E l’immagine del fotografo O Donnell lo ricorda con molta efficacia. Le bombe italiane sono illegali. E il governo lo sa di Giorgio Beretta* Il Manifesto, 31 dicembre 2017 Al reportage del Nyt la Farnesina risponde parlando di rispetto della legalità. Non è così: l’Italia viola la sua stessa legge e le convenzioni internazionali che vietano di armare Paesi coinvolti nella violazione del diritto umanitario. C’è voluto un reportage del New York Times per far sapere agli italiani che cosa ne pensa il nostro ministero degli esteri e della cooperazione internazionale delle bombe che l’Italia fornisce all’Arabia saudita per bombardare lo Yemen. In un comunicato rabberciato in fretta e furia date le festività natalizie, la Farnesina ha infatti riciclato quanto i ministri Gentiloni e Pinotti avevano già detto negli anni scorsi in risposta ad alcune interpellanze parlamentari: “L’Italia - scrive la Farnesina - osserva in maniera scrupolosa il diritto nazionale ed internazionale in materia di esportazione di armamenti e si adegua sempre ed immediatamente a prescrizioni decise in ambito Onu o Ue. L’Arabia saudita non è soggetta ad alcuna forma di embargo, sanzione o altra misura restrittiva internazionale o europea”. Il ministero si è ovviamente guardato bene dal dire che la legge italiana che regolamenta le esportazioni di armamenti non vieta solamente le forniture a Paesi sottoposti a misure di embargo, ma anche “verso i Paesi i cui governi sono responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani, accertate dai competenti organi delle Nazioni Unite, dell’Ue o del Consiglio d’Europa” (Legge 185/1990). E che, come ha certificato il “Rapporto finale del gruppo di esperti sullo Yemen” trasmesso già nel gennaio scorso al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite - che ha ampiamente documentato l’utilizzo da parte dell’aeronautica militare saudita di bombe fabbricate dalla Rwm Italia per bombardare zone civili in Yemen, non solo questi bombardamenti sono vietati dalle convenzioni internazionali ma “possono costituire crimini di guerra”. Non solo. La Farnesina ha continuato a tacere riguardo alle tre risoluzioni adottate dal Parlamento europeo che hanno chiesto all’Alta rappresentante dell’Unione per gli Affari esteri e la politica di sicurezza e vicepresidente della Commissione, Federica Mogherini, di “avviare un’iniziativa finalizzata all’imposizione da parte dell’Ue di un embargo sulle armi nei confronti dell’Arabia saudita”. Un’iniziativa sulla quale l’Alta rappresentante finora non ha proferito parola. Eppure nell’ultima risoluzione, del settembre scorso, l’europarlamento ha chiaramente dichiarato di ritenere che “le esportazioni all’Arabia saudita violino almeno il criterio 2 della Pozione Comune europea visto il coinvolgimento del Paese nelle gravi violazioni del diritto umanitario accertato dalle autorità competenti delle Nazioni Unite”. Ed ha ribadito “la necessità urgente di imporre un embargo sulle armi nei confronti dell’Arabia Saudita”. Ma c’è di più. Nella medesima risoluzione, il Parlamento europeo, dopo aver evidenziato che “la situazione nello Yemen si è ulteriormente deteriorata anche a causa delle azioni militari portate avanti dalla coalizione guidata dai sauditi”, ha ricordato che “alcuni Stati membri hanno interrotto la fornitura di armi all’Arabia saudita in ragione delle azioni da essa perpetrate nello Yemen, mentre altri hanno continuato a fornire tecnologie militari in violazione dei criteri 2, 4 6, 7 e 8 (della Posizione Comune europea, ndr)”. A fronte di queste parole si comprende l’imbarazzo che l’inchiesta del New York Times ha provocato alla Farnesina. Il governo Gentiloni, e prima di lui il governo Renzi, hanno infatti deciso di ignorare non solo queste risoluzioni europee ma hanno chiaramente rinunciato a esercitare un ruolo propositivo e attivo in sede di Consiglio europeo: la parola d’ordine è sempre stata “adeguarsi immediatamente”. Una posizione che manifesta, ancora una volta, l’inconsistenza della politica estera dei recenti governi che, a partire dell’intervento militare in Libia nel 2011, hanno sempre sostanzialmente deciso di adeguarsi alle disposizioni decise da altri. Si comprende perciò anche il costante imbarazzo della ministra della difesa, Roberta Pinotti, a rispondere riguardo alle esportazioni di ordigni militari ai sauditi. “Si tratta di materiali prodotti su licenza tedesca che transitano nel nostro Paese”, aveva detto qualche anno fa ai giornalisti. Ecco perché l’inchiesta del Nyt che, in sette minuti di video, ha mostrato a tutto il mondo l’utilizzo da parte dell’aeronautica militare saudita nei bombardamenti sulle zone abitate da civili in Yemen di ordigni fabbricati dall’azienda Rwm Italia, ordigni esportati su autorizzazione dei nostri governi, ha fatto finalmente breccia anche nei quotidiani e nelle reti televisive nazionali. In questi anni il manifesto è stato tra i pochi quotidiani a documentare tutta questa materia. Anche gli esperti di politica estera e gli analisti strategici, a fronte dell’indagine dell’autorevole quotidiano americano, hanno cercato di correre ai ripari affermando che era una questione già nota. Mostrando così ancora una volta il loro provincialismo. *Analista dell’Osservatorio permanente sulle armi leggere e politiche di sicurezza e difesa di Brescia Niger. Le strategie necessarie per frenare i flussi migratori di Alessandro Orsini Il Messaggero, 31 dicembre 2017 Il governo italiano è oggetto di critiche per avere deciso di inviare 400 soldati in Niger, un’ex colonia francese. L’obiettivo della missione è ridurre il flusso di migranti verso la Sicilia controllando il confine tra Niger e Libia, che è una rotta strategica per i trafficanti di esseri umani. La critica più diffusa è che il governo Gentiloni sarebbe privo di intelligenza strategica: l’invio dei militari - dicono i critici - avvantaggerebbe la Francia, le cui truppe stazionano in Niger da anni. Grazie ai soldati italiani, la Francia potrà ritirare una parte dei propri militari e risparmiare risorse. Ammesso e non concesso che l’Italia stia facendo un favore alla Francia, non sarebbe di per sé una cattiva notizia giacché Gentiloni ha assoluto bisogno di andare d’accordo con Macron per stabilizzare la Libia, che andrà al voto nel 2018. Vale la pena ricordare che la Libia è divisa in due governi rivali. Il primo, che ha sede a Tripoli, è appoggiato dall’Italia; il secondo, che si trova a Tobruk, è appoggiato da Francia, Egitto e Russia. L’Italia non può permettersi uno scontro con un gruppo di alleati così potente, tanto più che Trump non intende impegnarsi in Libia. Riguardo alla Libia, queste sono state le parole testuali di Trump pronunciate durante una conferenza stampa con Gentiloni, il 20 aprile 2017 alla Casa Bianca: “Non vedo un ruolo in Libia. Penso che gli Stati Uniti abbiano abbastanza ruoli per ora”. Tanto per chiarire i rapporti di forza: o l’Italia va d’accordo con Macron oppure litiga con Francia, Russia ed Egitto, senza poter contare sull’aiuto di Trump. Visto che siamo in tema di chiarimenti, sia chiaro che l’Italia invia i soldati in Niger per curare i propri interessi, non quelli altrui. Vi sono infatti tre modi di arrestare i flussi migratori verso la Sicilia. Il primo è quello dei respingimenti in mare, impediti dal diritto internazionale e dai sentimenti umanitari. Il governo Berlusconi effettuò un respingimento verso la Libia, il 6 maggio 2009, quando Maroni era ministro dell’Interno, ma fu condannato nel 2012 dalla Corte Europea dei diritti umani di Strasburgo per violazione dell’articolo 3 della Convenzione sui diritti umani, quello sui trattamenti degradanti e la tortura. Lo Stato italiano dovette pagare un risarcimento di 15 mila euro a ognuno dei 22 migranti respinti, oltre alle spese processuali. Il secondo modo di arrestare i flussi migratori consiste nell’inviare l’esercito a presidiare la costa libica. Questa soluzione è semplicemente impraticabile perché si risolverebbe nell’invasione di un Paese straniero. Il generale Haftar, che guida l’esercito di Tobruk, ha già detto di essere pronto a sparare sui soldati italiani. Haftar non può impensierire l’esercito italiano, data l’enorme sproporzione di forze. Il problema non piccolo è che dietro di lui ci sono Macron, Putin e al-Sisi, presidente dell’Egitto. Oltre a ricevere la condanna dell’Onu, il finale è facilmente immaginabile: la disintegrazione di quel che resta della Libia, con danno incalcolabile per il nostro sistema- Paese. Il terzo modo per arginare gli sbarchi è quello di elaborare una strategia. Una strategia è un insieme di mosse interconnesse per risolvere un problema complesso. I problemi semplici, come l’arresto di un individuo radicalizzato, si risolvono con una singola mossa. I problemi complessi, come la distruzione dell’Isis, si risolvono con una molteplicità di mosse interconnesse che implicano il ricorso a strumenti politici, giuridici, economici, sociali, militari, diplomatici, mediatici e culturali. Ne consegue che all’Italia resta un solo modo per contenere i flussi migratori che è quello di controllare i confini con i Paesi a sud della Libia, tra cui il Niger. L’Italia, mese dopo mese e con fatica enorme, ha dovuto predisporre una strategia che ha dovuto far accettare a Francia, Germania, Spagna, Ciad e Niger. Alla fine, il successo è giunto. “Grazie all’Italia - hanno detto in coro Macron, Merkel e Rajoy - abbiamo finalmente una strategia per contenere i flussi migratori”. A ben vedere, l’accusa di incapacità contro il governo Gentiloni ha una radice psicologica e non politica. Essa sgorga dagli enormi complessi d’inferiorità che gli italiani hanno interiorizzato dopo la seconda guerra mondiale. Il fatto che, durante la seconda guerra mondiale, abbiamo dato pessima prova sotto il profilo militare (con una repentina sconfitta), morale (con la fuga del re) e strategico (con i calcoli inadeguati di Mussolini), non significa che siamo condannati a fallire sempre o che siamo incapaci di guidare processi internazionali complessi. Se gli italiani acquisissero la consapevolezza dei limiti psicologici che si portano dietro come popolo, la scelta di inviare soldati in Niger assumerebbe un significato meno distorto. Ma questo richiede di liberarci dei pregiudizi che abbiamo verso noi stessi. E un problema complesso che richiede mosse interconnesse. Brasile. Scarcerato Pizzolato, un’altra beffa per l’Italia di Emiliano Guanella La Stampa, 31 dicembre 2017 Venne estradato da Roma con la speranza di uno scambio con Battisti. Cesare Battisti libero, Henrique Pizzolato pure, con buona pace di chi pensava che l’estradizione verso il Brasile del secondo potesse, nel corto raggio, favorire il ritorno del primo in Italia. Mentre Cesare Battisti aspetta a Cananeia, sul litorale di San Paolo, la decisione della Corte Suprema brasiliana sulla sua estradizione in Italia, la stessa Corte ha scarcerato l’ex banchiere italo-brasiliano Henrique Pizzolato, condannato per corruzione e riciclaggio in patria, scappato in Italia a fine del 2014 ed estradato pochi mesi dopo su decisione del governo italiano. I due casi non hanno nulla in comune dal punto di vista giudiziario, se non fosse che il ministro che ha concesso la libertà a Pizzolato è quel Luiz Roberto Barroso che, prima di far parte del massimo tribunale brasiliano, ha difeso il latitante Cesare Battisti. Storie che si incrociano quindi, proprio quando è aumentato il pressing italiano per riavere l’ex terrorista latitante da 30 anni. Il caso di Pizzolato, come quello di Battisti, è da romanzo. Nato nello stato di Santa Catarina da genitori italiani, ha fatto politica nelle fila del Partito dei Lavoratori, partecipando nella raccolta fondi per l’elezione del 2002 che portò per la prima volta Lula alla conquista della presidenza. Fu premiato con il posto di direttore di marketing del Banco do Brasil, la più importante banca pubblica del Paese. Nel 2005 viene coinvolto nello scandalo del “mensalão”, la compravendita di voti di parlamentari dell’opposizione per appoggiare il governo Lula: lo si accusa di aver sottratto alla banca oltre 18 milioni di euro per le mazzette da pagare. Il processo si è concluso nel 2013 con la condanna a 12 anni di reclusione per corruzione, peculato e riciclaggio. Pizzolato tenta diversi ricorsi legali, ma quando ogni possibilità si esaurisce si dà alla macchia e riesce con una rocambolesca fuga a finire in Italia, usando il passaporto italiano di un fratello morto 30 anni prima. “Sto sfuggendo - dichiarò - a una persecuzione politica orchestrata dai nemici di Lula e sono pronto a sottomettermi, come cittadino italiano, alla giustizia locale”. Il Brasile chiede l’estradizione, il governo Renzi la concede pensando, in sostanza, anche all’affaire Battisti; un “do ut des” che non si tradusse, allora, in un sostanziale cambiamento di postura da parte del governo di Dilma Rousseff, erede politica di Lula. Il giudice Barroso ha giustificato la scarcerazione di Pizzolato per la buona condotta nel carcere di Papuda, nei pressi di Brasilia, e per il fatto che ha scontato già più di un terzo della pena. Paradossalmente, per la fuga in Italia e la seppur breve latitanza Pizzolato non ha dovuto scontare un giorno in più rispetto alla condanna del 2013. L’ex banchiere è uscito dal carcere sorridente giovedì scorso e adesso dovrà limitarsi a pagare la multa di 500 mila euro, rateizzata in quote da 700 euro mensili. Cesare Battisti, intanto, resta a Cananeia in attesa che il suo caso torni sul tavolo del plenario della Corte Suprema. Ma adesso scatta la pausa estiva di gennaio e poi quella per Carnevale; se ne riparlerà, quindi, da fine febbraio. Sudan. Attivista per i diritti umani arrestata per abbigliamento indecente, rischia 50 frustate di Antonella Napoli La Repubblica, 31 dicembre 2017 Wimi Omer è stata dichiarata colpevole del reato previsto dall’Articolo 52 del Codice penale sudanese, altre 24 donne in attesa di un processo con l stessa accusa. Rischiare un anno di carcere e 50 frustate per aver indossato un abito non tradizionale e ritenuto incedente per una donna musulmana. Accade in Sudan, soprattutto se sei un’attivista per i diritti umani del popolo del Darfur, insanguinato da un conflitto che dura da oltre quattordici anni. L’attivista si chiama Wimi Omer ed è accusata di aver indossato un abito troppo osé. Pochi giorni fa, un giudice del Tribunale di Khartoum ha dichiarato colpevole Wimi Omer, personaggio molto noto nel Paese, del reato previsto dall’Articolo 52 del Codice penale sudanese, ovvero di indossare abiti considerati troppo osé per la morale pubblica del Paese africano guidato da un governo islamico. La sentenza, su richiesta della difesa dell’attivista, è stata rinviata alla prossima settimana nell’attesa delle testimonianze di due persone che hanno assistito all’arresto della Omer e di Nahid Jabrallah, il direttore di Seema, un centro per la formazione e la protezione delle donne e dei diritti dei bambini. Fermata dopo una festa privata. L’episodio risale allo scorso 10 dicembre. La giovane donna, assieme ad alcune amiche aveva appena lasciato una festa privata con decine di ospiti. Un agente di polizia si è avvicinato e l’ha fermata vicino al club di El Osdra, in una zona centrale della Capitale, dove stava aspettando un taxi per tornare a casa. Prima di essere portata in cella, le sono stati sequestrati il telefono e il computer portatile. Questo fa pensare che il suo arresto non sia principalmente dovuto ai suoi vestiti, ma alle sue attività a favore dei diritti umani nella regione in cui il presidente sudanese, Omar Hassan al Bashir, combatte i ribelli che si oppongono al suo potere. Vietati pantaloni e abiti corti. È però un dato di fatto che le donne in Sudan non possano indossare pantaloni o abiti corti. Gli agenti del servizio di Ordine pubblico possono arrestare chiunque non sia vestito in modo considerato appropriato, secondo le indicazioni della Sharia, la legge islamica. In attesa di essere giudicate per lo stesso reato, solo a Khartoum, altre 24 donne che magari hanno anche la colpa di non voler piegarsi a una tradizione che le relega in ruoli subordinati e imporre regole ingiuste e opprimenti. Il caso di Lubna, la giornalista condannata a 40 frustate. Il primo caso che ha portato alla ribalta mondiale questa usanza fu quello di Lubna Ahmed al Hussein, una giornalista sudanese e collaboratrice delle Nazioni Unite, arrestata in un ristorante di Khartoum nel 2009 perché vestita con un abbigliamento “sconveniente”, ovvero un largo pantalone, un lungo camicione e un foulard in testa? La vicenda divenne in poche ore mediatica e sfuggì al controllo delle autorità sudanesi. A suo sostegno si animò una mobilitazione internazionale, e anche Ban Ki-Moon, segretario generale delle Nazioni Unite, intervenne per chiedere la sua liberazione. Ma il massimo che ottenne fu la commutazione della pena in una multa, che lei non ha mai pagato per disobbedienza civile e ha lasciato il Paese. Ma non tutte sono fortunate come Lubna. Se Lubna si è difesa strenuamente e pubblicamente, sfidando le regole islamiche di fronte all’opinione pubblica mondiale, molte donne si dichiarano colpevoli nella speranza di subire una quantità minore di frustate. Le pressioni familiari e sociali sono ancora troppo forti in un Paese come il Sudan perché una donna possa decidere di ribellarsi. Dopo il caso di Lubna si sperava che l’interesse e la condanna della comunità internazionale potesse portare a un atteggiamento più morbido da parte del governo, a una riforma di un ordinamento che punisce in modo spropositato le donne. ?Ma così non è stato. La legge in Sudan non è cambiata, né il numero di donne arrestate e condannate è diminuito.