Non solo carcere: la giustizia può essere anche riparativa di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 30 dicembre 2017 L’istituto giuridico è previsto in uno dei decreti attuativi della riforma penitenziaria. Nel film “La parte degli angeli” di Ken Loach, ambientato in Scozia, c’è un giovane ragazzo, Robbie, con il passato da teppista, che riduce su una sedia a rotelle un suo coetaneo per un diverbio stradale. Per lui non c’è la punizione carceraria, ma un percorso in comunità per fare lavori socialmente utili che inizia dopo un toccante incontro con la madre della vittima, che in presenza di funzionari della giustizia e dei servizi sociali lo apostrofa disperata: “Vedi come hai ridotto mio figlio? Ti rendi conto?”. A quel punto Robbie ha una reazione disperata, piange, si mette la mano tra i capelli, trema. Robbie si è reso conto del male che ha fatto. Ken Loach punta il suo film su una fase importante della “giustizia riparativa”. Stando agli studi in materia, quest’istituto giuridico, abbatte in modo sensibile il rischio di recidiva. Ma non solo. La giustizia riparativa considera il reato come un danno alla persona e ne pone il rimedio in capo all’autore. Il Garante nazionale per i diritti dei detenuti Mauro Palma aveva spiegato a Il Dubbio che la “giustizia riparativa” “fa in modo che si può rispondere alla commissione di un male predisponendo un percorso che faccia acquisire consapevolezza e si riannodi quel filo sociale che con la commissione del reato si è reciso”. C’è una convinzione collettiva che il crimine sia un’offesa contro lo Stato, che le persone che commettono un reato debbano essere punite esclusivamente con la detenzione carceraria e che le decisioni sul come trattare gli autori di reato debbano essere eseguite da parte di amministratori della giustizia attraverso un procedimento legale formale. Ciò che è incredibile della “giustizia riparativa” è che modifica tutte queste assunzioni: essa vede infatti il crimine non come un’offesa contro lo Stato, ma come un danno alle persone e alle relazioni e, invece di punire gli autori del reato esclusivamente con la galera, si preoccupa di riparare il dolore inflitto dalla commissione del crimine. Non solo viene presa in considerazione la vittima, ma anche tutte le vittime del reato specifico. Sempre Mauro Palma, a il Dubbio, aveva fatto l’esempio di chi si è macchiato di volenza sessuale. L’incontro non deve avvenire necessariamente con la sua vittima, ma con un gruppo di persone vittime di tale violenza. Le vittime e l’autore del reato possono così ricoprire un ruolo attivo, così come la collettività, che può sostenere la vittima e aiutare l’autore di reato ad attenersi agli accordi presi per la riparazione del danno. L’esperienza italiana - La “giustizia riparativa” non è esplicitamente contemplata dall’attuale ordinamento penitenziario, quindi è ancora di nicchia. Per questo c’è un decreto - che intende valorizzarla e inserirla nero su bianco nell’ordinamento - elaborato dalle commissioni, istituite dal ministro della Giustizia Orlando e prontamente visionate dall’ufficio del Garante Nazionale, che dovranno passare al vaglio del Consiglio dei ministri per poi attuare in pieno la riforma dell’ordinamento penitenziario. Se a livello internazionale i riferimenti normativi più importanti sono la Raccomandazione del 1999 del Consiglio d’Europa sulla mediazione in materia penale, la Risoluzione dell’Onu del 2002 e la direttiva europea del 2012, anche in Italia qualcosa si è mosso nel recente passato. Nel 2002 il ministero della Giustizia ha istituito una Commissione di studio sulla “Mediazione penale e la giustizia riparativa” che nel 2005 ha emanato le Linee di indirizzo sull’applicazione della “giustizia riparativa” e della mediazione reo/ vittima nell’ambito dell’esecuzione penale di condannati adulti. In Italia le pratiche di “giustizia riparativa” nell’ambito dell’esecuzione della pena sono ancora in via di sperimentazione. Concretamente, da qualche anno sono in corso alcune sperimentazioni di incontri di mediazione reo/ vittima mediante l’intervento di un terzo indipendente rispetto agli operatori deputati al trattamento, su autorizzazione specifica del ministero attraverso la stipula di convenzioni ad hoc con centri e uffici di mediazione sparsi sul territorio nazionale. Queste attività devono necessariamente conservare le caratteristiche loro proprie legate ai principi di confidenzialità, volontarietà e gratuità degli interventi. Un esempio virtuoso è il “Progetto Sicomoro”, patrocinato dal ministero della Giustizia. Il nome si ispira al brano evangelico in cui Zaccheo si nasconde fra i rami dell’albero, ma viene riconosciuto da Gesù, che lo chiama per nome e suscita in lui un ravvedimento. Parliamo di una iniziativa promossa dalla Prison Fellowship Italia Onlus, che dal 2009 intende supportare migliaia di detenuti di alcune carceri italiane per favorirne il reinserimento sociale. Concetti chiave per una completa descrizione del Progetto sono quelli di avvicinamento e di comprensione reciproca. In concreto, esso si è sostanziato in otto incontri settimanali tra condannati definitivi e vittime non dirette. In ogni occasione è stato promosso l’approfondimento di tematiche quali quella del perdono, del pentimento, della responsabilità, della riparazione e della riconciliazione, che si sono ritenute utili a favorire un sincero confronto tra le parti coinvolte. Le sessioni hanno consentito a vittime e rei di raccontarsi, di mostrarsi nell’intimità delle loro ferite e delle loro debolezze, e dunque di conoscersi e di riconoscersi l’uno nell’altro. Nelson Mandela - Sì è capito che la “giustizia riparativa” supera l’idea della sanzione come pena e mira a ricostruire una relazione tra le persone coinvolte, vittime e colpevole. Il pioniere di questo nuovo modo di fare giustizia è stato Nelson Mandela. Con la sua elezione ne 1994 si segnò la fine della politica di segregazione razziale istituita dalla popolazione bianca (gli afrikaner) nei confronti della popolazione nera, ovvero la fine dell’apartheid. Nonostante la dichiarazione della fine di questo regime, il paese era inevitabilmente diviso e lacerato dalle violenze degli anni passati. Per costruire un nuovo stato, una nuova comunità, era necessario costruire una nuova identità collettiva. Perché questo fosse possibile vennero istituite le Commissioni di Verità e Riconciliazione. La Commissione di Verità e Riconciliazione fu essenzialmente un tribunale (composto da tre comitati) che aveva lo scopo di raccogliere le testimonianze delle vittime e degli autori dei crimini commessi da entrambe le parti durante il regime e concedere il perdono (attraverso l’amnistia) per le azioni svolte durante il periodo dell’apartheid. Andare di fronte alla Commissione post apartheid per confessare azioni commesse e sofferenze subite è stato il modo per riaccendere le relazioni con la comunità di cui si è parte. Quel ristabilire relazioni si fa giustizia concreta, non ha bisogno di pene e indica la determinazione nel tornare a camminare insieme. Intercettazioni, più tutela della privacy di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 30 dicembre 2017 L’Anm: troppo spazio alla polizia giudiziaria - Orlando: preoccupazioni non fondate. Una maggiore tutela della privacy. Senza però compromettere l’utilizzo di uno strumento che era e resta assolutamente fondamentale per le indagini. È su questo doppio binario che si muove la nuova disciplina delle intercettazioni che ieri è stata approvata definitivamente dal Consiglio dei ministri. Un via libera che è però occasione di botta e risposta tra il ministro della Giustizia Andrea Orlando e l’Associazione nazionale magistrati. Così, Orlando, prima spiega che “abbiamo un Paese che utilizza le intercettazioni per contrastare la criminalità e non per alimentare i pettegolezzi o distruggere la reputazione di qualcuno” e poi sottolinea che quella dell’Anm sull’eccessivo potere dato dalla riforma alla polizia giudiziaria “mi pare onestamente una preoccupazione non fondata, anche perché il testo è cambiato nel senso auspicato dall’Anm anche se non esattamente come richiedeva. C’è un’interlocuzione tra pm e polizia giudiziaria per cui alla fine è sempre il pm ad essere il dominus dell’indagine”. Già, perché l’Anm ha messo nel mirino la riforma soprattutto per, parole del presidente Eugenio Albamonte, “strapotere della polizia giudiziaria nella selezione delle intercettazioni”. Infatti, uno dei cardini del decreto legislativo varato ieri prevede il divieto di trascrizione, anche sommaria, delle comunicazioni considerate irrilevanti per le indagini e di quelle che contengono dati personali sensibili; nel verbale dovranno essere indicate solo la data, l’ora e il dispositivo su cui la registrazione è stata effettuata. In questo modo, però, avverte Albamonte, “senza che venga indicato un minimo di contenuto dell’intercettazione ritenuta irrilevante diventa impossibile un vero controllo da parte del pm”. Il pubblico ministero, nella lettura dell’Anm, non potrà dunque evitare che avvengano “errori” di trascrizione, come quelli assurti a loro modo alle cronache, non solo giudiziarie, da ultimo nella vicenda Consip (dove il riferimento è al fraintendimento sulle parole dell’ex parlamentare Italo Bocchino su un incontro mai avvenuto tra il padre dell’ex premier Matteo Renzi, Tiziano, e l’imprenditore Alfredo Romeo). Per l’Anm è uno scivolone che si sarebbe potuto evitare se si fosse voluto restringere l’area dell’irrilevanza, come peraltro era stato chiesto anche dai principali procuratori del Paese, confinando il divieto al solo materiale “manifestamente irrilevante”. Richiesta poi tradotta nelle condizioni messe nero su bianco dal parere approvato al Senato, ma non accolta in sede di redazione finale del decreto da parte del ministero. E per l’Anm, a non funzionare c’è anche la limitazione alle sole inchieste per reati di mafia e terrorismo dell’utilizzo dei virus informatici (o trojan horses). Tuttavia Orlando rivendica che “ora abbiamo un quadro più chiaro delle procedure mediante le quali vanno tolte dai fascicoli le conversazioni che non hanno rilevanza penale, c’è un procedimento di contraddittorio per definire cosa deve andare e cosa non deve andare nei fascicoli e ci sono una serie di responsabilità in riferimento ai capi degli uffici in ordine alla custodia e alla distruzione di ciò che non è rilevante”. Tra l’altro, ricorda il ministro, la riforma agevola le intercettazioni per i reati contro la pubblica amministrazione. Perplessità però sono avanzate anche dall’avvocatura. Con le Camere penali che lamentano la compressione del diritto di difesa. Non convince i penalisti l’esiguità del tempo a disposizione per l’esame del materiale intercettato. Anche dopo l’ultimo intervento che ha elevato da 5 a 10 giorni il termine, con una proroga sino a 30 giorni nei casi di particolare complessità. Al di là degli ultimi emendamenti, contesta l’Unione “il vulnus di questa riforma resta: non dare copie agli avvocati di tutto il materiale intercettato”. Una ferita tanto più grave, visto che oggi “tanti processi si fanno sulla base delle intercettazioni: migliaia di colloqui captati anche nei procedimenti più banali, con numeri che diventano 10-20 volte maggiori nei casi giudiziari di maggiore importanza. Per questo aver corretto i termini per la consultazione del materiale depositato cambia poco, visto che in procedimenti dove “il 98% per cento del materiale intercettato è irrilevante, non bastano 10 giorni” per trovare invece le conversazioni utili alla difesa. Una ricerca che sarà possibile solo ai grandi studi legali. Sarà il Pm a garantire sulla riservatezza Nessun ingresso nel procedimento penale per le intercettazioni su dati sensibili o, comunque, irrilevanti. Era il principio della legge delega ed è stato tradotto nel decreto legislativo con un meccanismo che vede una prima selezione affidata alla polizia giudiziaria. Sarà quest’ultima infatti a dovere predisporre un verbale nel quale dell’intercettazione irrilevante ci sarà una traccia solo sommaria (data, ora e dispositivo dell’operazione). Il pm sarà informato dalla polizia giudiziaria per verificare l’asserita irrilevanza delle comunicazioni: gli ufficiali di pg, cioè, hanno l’obbligo di informare il pubblico ministero in tutti i casi in cui è dubbio se procedere nel verbale alla trascrizione delle conversazioni. Il pm allora potrà disporre la trascrizione delle comunicazioni, anche di quelle che contengono dati sensibili, che a suo giudizio devono essere comunque ritenute significative rispetto ai fatti oggetto d’indagine. Tutto il materiale confluirà comunque in un archivio vigilato dal pm: sarà lui a garantire sulla riservatezza della documentazione, in maniera tale da escludere, fin dalla conclusione delle indagini, ogni riferimento a persone e fatti estranei alla vicenda oggetto di investigazione. Agli avvocati sarà assicurata una “sola” facoltà di ascolto e di esame, ma non di copia. Il decreto mette poi in campo una procedura in due fasi, che prevede il deposito delle conversazioni e delle comunicazioni, oltre che dei relativi atti, e la successiva acquisizione, a cui il giudice provvede sulla base di un contraddittorio tra le parti di tipo cartolare (richieste scritte e memorie); se necessario, il giudice può fissare udienza, con la partecipazione del pubblico ministero e dei soli difensori, per provvedere all’acquisizione e al contestuale stralcio, con destinazione finale all’archivio riservato, delle comunicazioni irrilevanti e inutilizzabili. Ordinanze cautelari, sì alla pubblicazione È la più significativa tra le novità introdotte nell’ultimissima versione del decreto. E, a parziale bilanciamento delle restrizioni al diritto di cronaca, apre all’accesso delle ordinanze cautelari da parte dei giornalisti. Si sottolinea che il divieto di pubblicazione degli atti non più coperti da segreto, fino alla conclusione delle indagini o fino al termine dell’udienza preliminare, non riguarda l’ordinanza cautelare, che, quindi, cessato il segreto, diventa pubblicabile. In questo modo, spiega il ministero della Giustizia, si realizza il necessario equilibrio nel bilanciamento dei valori costituzionali in gioco: tra l’efficienza investigativa direttamente collegata all’obbligatorietà dell’azione penale, la riservatezza delle persone coinvolte dalle operazioni di intercettazione e la libertà di stampa con il connesso diritto all’informazione. “Non v’è allora ragione - si osserva - per sottrarre l’ordinanza cautelare elaborata secondo i nuovi criteri, che impongono cautela nell’inserimento nella relativa motivazione dei contenuti delle intercettazioni, alla possibilità di pubblicazione, in vista proprio del rafforzamento del diritto all’informazione”. Con la sua esecuzione o notificazione viene infatti meno il segreto. Se all’acquisizione ordinaria segue la possibilità di pubblicazione, il meccanismo di acquisizione predisposto per il caso di procedimento cautelare risponde alle medesime esigenze di tutela della riservatezza: esclusione di ogni conversazione irrilevante, di ogni riferimento inutile a terzi estranei o da cui si ricavino dati sensibili Resta la forte perplessità della Fnsi. “Sbaglia chi crede che la tutela del diritto di cronaca possa esaurirsi nel diritto di richiedere copia delle ordinanze del Gip. Questa norma, inserita nel provvedimento approvato dal governo, rappresenta un passo in avanti rispetto al testo iniziale, ma non può limitare il diritto dei giornalisti a pubblicare ogni notizia rilevante per l’opinione pubblica, anche se irrilevante ai fini del processo penale”. Intercettazioni, tutti contro la riforma di Eleonora Martini Il Manifesto, 30 dicembre 2017 A tre anni dall’inizio dell’iter il Cdm dà l’ok definitivo al decreto legislativo. Attacca il M5S, protestano avvocati penalisti, magistrati e giornalisti. A quasi tre anni dall’avvio dell’iter parlamentare (gennaio 2015 alla Camera) ieri il Consiglio dei ministri ha dato il via libera definitivo al decreto legislativo che contiene anche la nuova disciplina sulle intercettazioni, con limitazioni sull’acquisizione, sulla diffusione e sulla divulgazione delle registrazioni ambientali e telefoniche ai fini investigativi. Il cuore della riforma prevede il divieto di trascrivere nelle ordinanze le intercettazioni non rilevanti per le indagini, e udienze filtro davanti alle parti per selezionarle. Le intercettazioni non utilizzabili, e non trascrivibili, faranno parte di un archivio riservato, accessibile solo alla polizia giudiziaria, ai giudici ed eventualmente ai difensori autorizzati, destinato ad essere distrutto. Inoltre, si amplia il parterre di reati per cui è possibile intercettare o intervenire per fermare un crimine utilizzando i “captatori informatici”, i cosiddetti virus trojan, che nel 2016 con una sentenza a Sezioni Unite la Cassazione aveva autorizzato per i soli delitti di criminalità organizzata. Introdotto anche un nuovo reato per chi viola le regole, che prevede fino a 4 anni di reclusione. Una riforma difficile e delicata, di cui si discute accanitamente dai tempi del “bunga bunga” di Berlusconi e che è passata attraverso molte formulazioni (tra le prime quella suggerita dal procuratore capo di Roma Pignatone che prevedeva un sunto delle intercettazioni anziché il virgolettato). E che ora lascia insoddisfatti - e forse non avrebbe potuto essere altrimenti - un po’ tutti gli attori del processo penale: da un lato i magistrati che lamentano lo strapotere della polizia giudiziaria, a loro scapito, e dall’altro gli avvocati che denunciano la violazione del diritto di difesa e di riservatezza dei colloqui tra l’indagato e il proprio legale. “È singolare che dopo la vicenda Consip, per citare la ferita aperta di intercettazioni mal trascritte, non si sia voluto garantire un sistema che consenta di verificare ex post eventuali errori di valutazione commessi dalla polizia giudiziaria”, è uno degli appunti principali del presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Albamonte. E protestano anche i giornalisti, che acquisiscono il diritto di ottenere copie delle ordinanze del Gip ma solo a partire dal 2019, quando le nuove norme che li riguardano andranno a regime, a differenza di tutte le altre che entreranno in vigore tra sei mesi. Per l’Fnsi, che pure considera questo diritto acquisito dai cronisti un piccolo passo avanti rispetto ai testi precedenti, “l’obbligo di non divulgare materiale irrilevante ai fini del processo non può gravare sui giornalisti che, semmai, hanno il dovere opposto: quello di pubblicare ogni notizia di rilevanza pubblica, anche se coperta da segreto. Non tutto ciò che è rilevante per soddisfare il diritto dei cittadini ad essere informati ha necessariamente rilevanza penale - precisano i vertici dell’Fnsi - Per questo, in linea con l’indirizzo consolidato della Corte europea dei diritti umani, i giornalisti hanno il dovere di pubblicare tutte le notizie di interesse pubblico di cui vengono in possesso, a prescindere dal fatto che siano o meno coperte da segreto”. Durissimo anche il giudizio del M5S che addita la “legge-bavaglio” addirittura come un “favore per politici corrotti, funzionari pubblici tangentisti e finti imprenditori mafiosi”. È un modo, attacca Luigi Di Maio, di “salvare una classe politica dai processi: non c’era riuscito Berlusconi, c’è riuscito il centrosinistra facendo un favore a Berlusconi”. Non ci sta, il ministro di Giustizia Andrea Orlando, cui si deve la messa a punto del testo definitivo: “Abbiamo un Paese che utilizza le intercettazioni per contrastare la criminalità - ha affermato - e non per alimentare pettegolezzi o distruggere la reputazione di persone che non sono sottoposte a procedimenti penali. Intercettare un potente dopo questo decreto sarà più facile che intercettare altre persone”. All’Anm Orlando risponde assicurando che “c’è un’interlocuzione tra pm e polizia giudiziaria per cui alla fine è sempre il pm il dominus dell’attività di indagine”. E ai giornalisti spiega che un anno di attesa occorre al governo per verificare che le ordinanze non saranno più “il copia-incolla di oggi, come spesso avviene. Se questo avverrà mi sembra ragionevole che si possa arrivare alla loro pubblicazione”. Insomma, per il Guardasigilli, “senza restringere, anzi autorizzando addirittura a intercettare in modo relativamente più agevole per i reati contro la pubblica amministrazione, senza restringere la facoltà di utilizzare le intercettazioni come strumento di indagine, ci sono una serie di vincoli e di divieti che impediscono invece di utilizzarle come strumento di diffusione di notizie improprie, che colpiscono e ledono la personalità di soggetti che talvolta non sono nemmeno coinvolti nelle indagini”. Migliucci (Ucpi): le norme violano la parità tra accusa e difesa di Gigi Di Fiore Il Mattino, 30 dicembre 2017 “Trascrizioni vietate ma senza sanzioni, una presa in giro”. “La mia resta una valutazione negativa”. Beniamino Migliucci, presidente dell’Unione delle Camere penali, non usa mezzi termini nel giudicare il testo definitivo sulla riforma delle intercettazioni telefoniche approvata dal Consiglio dei ministri. Presidente, neanche le modifiche introdotte nell’ultimo mese soddisfano gli avvocati? “Per nulla. Si tratta di una riforma senza coraggio, che non raggiunge gli obiettivi e le finalità assegnati dalla legge delega”. Su quali passaggi del testo il suo giudizio resta così severo? “Su più parti. Prendiamo il tema delle conversazioni tra difensore e assistito. C’è stata una degenerazione nella divulgazione di quei colloqui, anche nei passaggi non legati alle indagini. Colloqui, del resto, già vietati dal codice. La delega era chiara, nel ribadire il divieto”. Le nuove nonne non introducono il divieto della trascrizione di queste intercettazioni? “Sì, ma si tratta di un divieto privo di sanzioni. Quindi, privo di efficacia. Non si possono trascrivere quelle conversazioni, ma chi assicura che l’ascolto non venga proseguito? E quell’ascolto, poi, può essere tranquillamente oggetto di relazioni della polizia giudiziaria al pm. Siamo di fronte ad una violazione della parità tra accusa e difesa”. Perché? “È chiaro che, questo modo, l’accusa può conoscere in anticipo le strategie difensive e regolarsi”. L’obiettivo dichiarato del governo era impedire la diffusione di conversazioni di persone intercettate occasionalmente estranee alle indagini. Neanche questa finalità pensa sia stato raggiunta? “Anche in questo caso, siamo di fronte ad una soluzione deludente. Si vieta solo la divulgazione e la trascrizione ma, se questo avviene, cosa succede? Ancora una volta, non si prevedono sanzioni per eventuali violazioni della prescrizione. Se su queste conversazioni c’è fuga di notizie, cosa accade?”. Sulle intercettazioni utilizzabili, invece, non crede si garantisca il diritto di difesa? “L’opposto, c’è una compressione del diritto difensivo di cui c’è chi non comprende la portata. Ai difensori non viene più data copia della trascrizione dell’intercettazione. Almeno prima si poteva rileggere un testo, condividerlo con l’assistito per individuare passaggi utili alla difesa. Ora non più, ora bisogna andare ad ascoltare la conversazione. Chissà dove, chissà quando, chissà in quale sala d’ascolto”. Eppure, il tempo a disposizione per l’ascolto è stato aumentato da cinque a dieci giorni prorogabili. Non basta? “Immagini, in un procedimento con decine di indagati e più difensori, che confusione e turni creerà l’ascolto. Come si deve procedere, prendere appunti e fare una sintesi all’assistito che non può accedere all’ascolto? Solo un assistito conosce il vissuto di una conversazione, può indicare e ricordarne dei passaggi. Così, la difesa ha davvero meno strumenti a disposizione. E poi questo passaggio crea disparità tra indagati”. Per quale motivo? “Non tutti gli studi hanno un così alto numero di collaboratori da poter disporre ascolti contemporanei di conversazioni. Un assistito meno abbiente, che ha un avvocato che non può permettersi tanti collaboratori, non viene penalizzato nel suo diritto di difesa?”. Non è una norma che però impedisce la diffusione di conversazioni trascritte? “È una norma che manifesta diffidenza verso il difensore, come se fosse il principale responsabile delle divulgazioni. Non è così”. Cosa pensa della norma che consente ai giornalisti l’acquisizione delle ordinanze cautelari quando sono già a conoscenza degli indagati? “Questa modifica dell’articolo 114 rivela un altro errore di fondo. Nelle ordinanze possono esserci intercettazioni non sancite dal confronto cartolare tra accusa e difesa. Intercettazioni su cui non si sono espressi periti e la possibilità di diffondere esplicitamente il contenuto di un procedimento con le accuse da ai giudici di un eventuale dibattimento, che dovrebbero essere all’oscuro di tutto, la possibilità di conoscere già le accuse sui media”. La ritiene una violazione? “Sicuramente un’alterazione del processo accusatorio, a favore dell’accusa. Volevamo un’udienza stralcio per poter interloquire sulle intercettazioni rilevanti, ma è stato introdotto solo un confronto documentale, su cui decide il gip. E poi il pericolo di ampliamento dell’utilizzo dei virus spia. Resta la nostra bocciatura. E ci riserviamo iniziative di protesta”. Intercettazioni. Se la riforma riduce il diritto di difesa di Massimo Adinolfi Quotidiano di Puglia, 30 dicembre 2017 Ci sono quelli che dicono: con l’esclusione delle intercettazioni non rilevanti, ci sarà una parte di verità che non conosceremo mai. Non si accorgono che, con il loro argomento, legittimerebbero qualunque metodo, compresa la tortura: non è un peccato, infatti, non poter conoscere le verità che potremmo estorcere torturando i malcapitati? Deve essere questa la ragione per cui il decreto legislativo del governo sulle intercettazioni non riesce a porre un rispetto assoluto della segretezza dei colloqui fra l’avvocato e il suo assistito. Magari i due si dicono cose che potrebbero servire alle indagini, si obietta infatti. Certo: potrebbe andare così, e potrebbe essere pure che il torturato riveli qualcosa di altrettanto utile. Che facciamo, allora: torturiamo? Il diritto di difesa è un diritto fondamentale: il suo rispetto viene prima di qualunque esigenza investigativa. Non tenere fermo questo principio, mettere l’accusa in posizione di vantaggio rispetto alla difesa, significa rinunciare a una concezione liberale del sistema penale della giustizia. Il decreto governativo è stato adottato al fine di contenere la diffusione delle intercettazioni, in particolare di quelle irrilevanti. Non so quanto, a tal fine, si rivelerà efficace. Di sicuro non ha alcuna efficacia sulla cultura che sostiene il ricorso sempre più diffuso e sempre più invasivo a un tale strumento di ricerca della prova. Il codice penale richiede che le intercettazioni, per essere autorizzate, siano “assolutamente indispensabili” ai fini delle indagini. In italiano corrente, una locuzione del genere lascia presumere che il ricorso alle intercettazioni sia caso raro. E però: avremo pure i migliori poliziotti del pianeta, e magistrati che tutto il mondo ci invidia, sta di fatto che, al giorno d’oggi, pare non ci sia modo di condurre un’indagine decente che non passi per - anzi: non si fondi su - le intercettazioni. Indispensabili sempre: non è strano? Ci sono quelli che dicono: però, caspita, senza il ricorso alle intercettazioni, come mai faremo a punire reati come il concorso esterno, o il traffico di influenze? Non si accorgono che, di nuovo, così ragionando, assumono che i reati debbano essere puniti a qualunque costo. Anche se nei costi sono inclusi diritti fondamentali, libertà e garanzie dei cittadini. I quali, in genere, pensano che si debba fare di tutto per perseguire i reati. Degli altri. Solo quando ci finiscono di mezzo, si rendono conto che in quel “di tutto” c’è, forse, qualcosa di troppo. Non si accorgono nemmeno che è ben strana questa situazione, per cui le intercettazioni devono essere assolutamente indispensabili, e al contempo lo sono ormai di default per perseguire determinati reati. Dato il reato, è data immediatamente l’assoluta indispensabilità del mezzo necessario a perseguirlo: non è strano? Non ci sarà qualcosa di sbagliato nel modo in cui certe nuove figure di reato vengono introdotte nel nostro ordinamento? In effetti è così. E lo è soprattutto per una tendenza, che sempre più si è affermata negli anni, di investire della rilevanza penale determinate condotte, non già i fatti che ne conseguirebbero. i fatti, anzi, interessano sempre meno, e sempre più interessano gli autori. Non i reati, ma i rei. Così succede che il magistrato trovi naturale far ricorso alle intercettazioni, e altrettanto naturale mettere le più varie e diverse nel numero di quelle rilevanti, dal momento che tutte o quasi possono servire a descrivere non fatti e cir- costanze, ma nientedimeno che la fisionomia dell’indagato. Il decreto del governo, però, non aveva da riscrivere il codice penale; si proponeva semplicemente di tappare le falle dalle quali usciva, per finire sui giornali, la ricca materia delle registrazioni. Ma è come proporsi di chiudere qualche buco, dopo aver consentito di scavare dappertutto. Così si lascia un terreno accidentato, sul quale accusa e difesa non stanno, dinanzi al giudice, su un piano di parità, come dovrebbe essere in un sistema accusatorio. La rilevanza delle intercettazioni e la modalità del loro utilizzo si decidono in un circuito, tra il pm e il gip, nel quale l’avvocato difensore può entrare, chiedendo il permesso, solo in un secondo momento. E siccome si pensa che è dagli studi degli avvocati che vengono le fughe di notizie, si mettono divieti di copiare gli atti, o stretti limiti temporali per l’ascolto del materiale. Col risultato che i diritti della difesa vengono inesorabilmente compressi. Ma poi ci sono pure quelli che dicono che non basta: stabilite pure le regole per l’utilizzo di questo materiale. Ma, una volta stabilite, quando non siano più coperte da segreto consentitene una discovery completa. Perché c’è la rilevanza giudiziaria, ma c’è pure il diritto di cronaca. Non si accorgono, quelli che così dicono, che desiderano un mondo nel quale la diffusione di conversazioni private, carpite grazie alle intercettazioni, invece di essere un male necessario, diventano un bene avidamente desiderato. Che da mezzo interno al processo si riversa al di fuori, per farsi la base del dibattito pubblico, dell’opinione dei benpensanti, e finanche del giudizio delle parti politiche: non vi sono già partiti e movimenti che affiderebbero ai materiali processuali, liberamente circolanti fuori delle aule, la vita o la morte della Repubblica? Già, ci sono. E ci sono fin troppe cose di cui non ci si accorge, in questa implacabile caccia ai ladri e al malaffare, che va avanti da quasi trent’anni. Senza peraltro darci un Paese più giusto, ma solo la convinzione opposta, che siamo sempre più irrimediabilmente sprofondati nella corruzione. Così un sospetto di principio viene elevato su tutte le espressioni dei pubblici poteri, e gli spazi del confronto pubblico ne vengono progressivamente consumati. Intercettazioni. I magistrati: troppo potere alla polizia giudiziaria Gazzetta del Mezzogiorno, 30 dicembre 2017 “Non una bocciatura, ma nemmeno una condivisione entusiastica”. Eugenio Albamonte sintetizza così il giudizio dell’Associazione nazionale magistrati, di cui è presidente, sulla riforma delle intercettazioni, che ieri è stata varata in via definitiva dal Consiglio dei ministri. Perché, spiega, “aver acceso una riflessione molto attenta su intercettazioni e privacy è un passo avanti culturalmente importante che condividiamo. Ma dal punto di vista delle modalità operative scelte si poteva fare meglio, qualche ombra è rimasta”. Su quale sia il “punto di caduta più negativo della riforma” Albamonte non ha dubbi: è “lo strapotere della polizia giudiziaria nella selezione delle intercettazioni”. La norma prevede che quelle giudicate irrilevanti non vengano trascritte ma sia indicato nel verbale soltanto il tempo di registrazione e l’utenza intercettata. Così però, “senza che venga indicato un minimo di contenuto dell’intercettazione ritenuta irrilevante, diventa impossibile un vero controllo da parte del pm”. Con rischi altissimi e incomprensibili anche alla luce di quello che è appena successo nell’inchiesta Consip: “è paradossale che, avendo vissuto da poco il trauma di intercettazioni mal trascritte e gli echi politici e istituzionali che ne sono derivati, si creino le condizioni per ulteriori errori che, diversamente dalla vicenda a cui faccio riferimento, non saranno verificabili ex post”. Albamonte non lo dice esplicitamente ma pensa a quella frase pronunciata dall’ex parlamentare Italo Bocchino e attribuita invece dal capitano del Noe Scafarto, ad Alfredo Romeo come prova di un incontro tra l’imprenditore e Tiziano Renzi, padre del segretario del Pd. Una vicenda scoperta dai pm romani che hanno messo Scafarto sotto inchiesta. Ora invece rimediare a errori del genere da parte dei pm non sarà possibile, spiega il leader dell’Anm, “se non andandosi a risentire tutti i nastri. il che equivarrà a cercare un ago nel pagliaio”. Un modo per risolvere il problema c’era e lo avevano indicato diversi procuratori: attribuire alla polizia giudiziaria il potere di selezionare le intercettazioni “manifestamente irrilevanti”. Un suggerimento che è rimasto inascoltato, così come la richiesta dell’Anm di un ripensamento sulle limitazioni introdotte all’utilizzo dei trojan, cioè dei captatori informatici, nelle intercettazioni ambientali per reati diversi da terrorismo e mafia. È questo l’altro punto dolente della riforma: “c’è una riduzione fortissima dell’uso di questo strumento che provocherà un nocumento molto serio alle indagini”. “Positive” invece le ultime modifiche: “l’allargamento delle maglie della consegna degli atti ai difensori” e la possibilità per i giornalisti di ottenere e pubblicare l’ordinanza di custodia cautelare, “apprezzabile per il suo valore simbolico”. “È una riforma che non possiamo considerare positiva perché per tutelare privacy e riservatezza si è scelto di limitare fortemente il diritto di difesa. Il che crea danni significativi a chi si trova coinvolto il vicende giudiziarie. Già oggi difendere e complicato. Un domani diventerà pressoché impossibile, tanto meno nella fase cautelare”. Resta molto severo il giudizio dell’Unione delle camere penali sulla nuova legge. “Per fare riforma in materia penale ci vuole coraggio, ma questo coraggio non c’è stato” commenta sconsolato Rinaldo Romanelli, componente della giunta dell’Upci. E a cambiare il punto di vista critico dei penalisti non sono bastate le ultime modifiche introdotte: cioè aver innalzato da 5 a 10 giorni il termine attribuito ai difensori per esaminare il materiale intercettato (con una proroga sino a 30 giorni se la documentazione è molto ampia e complessa); e avere vietato, fermo restando il divieto di intercettare i colloqui tra assistito e avvocato, la verbalizzazione di quelle conversazioni occasionalmente captate. “Sono modifiche di dettaglio” taglia corto Romanelli, che se riconosce come sia comunque “meglio aver portato a 10 giorni il termine per l’esame e aver previsto per legge la proroga a 30”, giudica “estremamente negativo” non essersi spinti più in là che vietare la verbalizzazione dei colloqui tra difensore e assistito: “perché cosi quei colloqui non finiranno sui giornali, ma saranno ascoltati dalla polizia giudiziaria”, con la possibilità di mettere a conoscenza anche il pm della strategia difensiva di chi è indagato. Video rubati, si va in carcere. Quattro anni a chi posta senza l’ok dell’interessato di Claudia Morelli Italia Oggi, 30 dicembre 2017 Attenzione a registrare video senza il consenso della persona per poi diffonderli sui social per rovinarne la reputazione: si rischiano quattro anni di reclusione. E stretta sulla divulgazione pubblica del contenuto di intercettazioni giudiziarie irrilevanti ai fi ni della prova o che riguardanti dati sensibili o terzi estranei alla indagine. Ieri - come annunciato - il primo consiglio dei ministri a Camere sciolte, e dunque in “gestione ordinaria”, ha dato il via libera definitivo a una delle riforme più discusse degli ultimi anni: quella delle intercettazioni. Il governo ha così dato attuazione alla delega contenuta nella riforma del processo penale introdotta con legge 103/2017, in vigore da agosto. Per il ministero della Giustizia si tratta di un risultato volto a garantire “maggiore equilibrio fra rispetto delle esigenze investigative, tutela della privacy e diritto all’informazione con l’obiettivo di contemperarne l’importanza strategica a interessi tutelati dalla Costituzione”. Diverse le novità: l’introduzione del reato di diffusione di riprese e registrazioni di comunicazioni fraudolente; la modifica delle norme che sovrintendono alla utilizzabilità e al divieto di pubblicazione di intercettazioni irrilevanti; la disciplina del trojan di Stato come strumento di indagine; la semplificazione per autorizzare le intercettazioni nel caso di reati più gravi contro la p.a.: saranno necessari i sufficienti e non più gravi indizi per ottenere l’autorizzazione. Il delitto di diffusione di registrazioni fraudolente. Nata come norma “D’Addario” (la donna che aveva registrato i festini in casa Berlusconi) la nuova disposizione pare farsi carico anche dei più recenti gravi episodi di “gogna” social spesso a danno di minori e donne. Chi registra fraudolentemente, per immagini o conversazioni, una persona per poi pubblicare il contenuto della conversazione al fi ne di nuocere alla sua reputazione viene punito con la reclusione fi no a quattro anni. Occorrerà tuttavia che la vittima sporga querela (in linea con la scelta di fondo della riforma generale) ma questo forse è un limite all’efficacia sostanziale della previsione che dovrebbe tutelare la privacy e la dignità delle persone coinvolte inconsapevolmente. La punibilità è esclusa se si agisce per scopi difensivi o per fini giornalistici. Intercettazioni tra rilevanza e stralcio. L’archivio riservato. La nuova disciplina ruota intorno all’archivio riservato - che sotto la diretta responsabilità del pm è il luogo della segretezza del contenuto delle intercettazioni - e alla procedura di deposito e acquisizione delle intercettazioni rilevanti. In linea generale e sintetica, la riforma mira a proteggere dal rischio di pubblicazione arbitraria il contenuto di intercettazioni che siano irrilevanti ai fi ni delle indagini, che contengano dati sensibili (queste potranno essere utilizzate solo se rilevanti e necessarie ai fi ni dell’accertamento del fatto), che riguardino soggetti terzi estranei alla indagine. Il codice già copre da segreto le conversazioni con i propri difensori. Ma riforma stabilisce la inutilizzabilità anche di quelle legittimamente realizzate e che occasionalmente coinvolgano l’avvocato dell’indagato. Il giudizio (provvisorio) di irrilevanza è attuato sin dalle prime battute dalla polizia giudiziaria che comunque è tenuta ad informare il pm circa qualsiasi dubbio. La riforma prevede poi meccanismi procedurali atti a rivedere la valutazione di rilevanza nel contraddittorio tra le parti sia se l’acquisizione è avvenuta in maniera ordinaria (cioè con trascrizione peritale nel dibattimento) sia in fase cautelare. I difensori hanno dieci giorni di tempo per consultare tutto il materiale depositato e fare copia del verbale di trascrizione sommaria, già sapendo quali contenuti saranno verosimilmente trascritti perché ritenuti rilevanti dal pm ai fini probanti l’accusa. Si evidenzia anche che con la riforma diventa pubblicabile la ordinanza cautelare eseguita e notificata, visto che è emessa a seguito della procedura di acquisizione al fascicolo di atti rilevanti). Questa novità scatterà però dopo 12 mesi dall’entrata in vigore della legge. Trojan di Stato. Entra nel codice di procedura questo nuovo strumento di indagine, già “sdoganato” dalla Corte di cassazione: si tratta di malware che inserito in dispositivi elettronici può captare conversazioni, fare copie di documenti e foto, a fini di indagine. Due specificazioni: da una parte la regolamentazione è limitata alla sola captazione delle conversazioni e non a tutte quelle altre che per possono essere effettuate a livello tecnologico (per esempio la copia di un hardware o di documenti e immagini); in secondo luogo è una “intercettazione tra presenti” tramite un dispositivo mobile portatile. Può essere attivato solo nelle indagini che hanno ad oggetto gravi reati. Diversamente, il presupposto perché ne sia autorizzato l’uso è che l’attività criminosa sia in atto. Carmelo Cantone: “lasciate l’Anticorruzione fuori dalla campagna elettorale” di Lorenzo Salvia Corriere della Sera, 30 dicembre 2017 Il presidente dell’Autorità, scelto da Renzi: “Sopprimerla sarebbe impossibile. Ma spesso la burocrazia si nasconde dietro di noi per non decidere”. Una candidatura politica? “Nessuno me l’ha chiesto. In ogni caso rifiuterei, sarebbe inopportuno”. “L’Autorità che presiedo è stata creata sostanzialmente con questa legislatura. Nasce da un’idea moderna, e cioè che la corruzione vada combattuta non solo dopo, con il giudice penale, ma anche prima, con la prevenzione. Mi auguro che la prossima campagna elettorale non metta in discussione questo principio”. Raffaele Cantone è dal marzo 2014 presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione. Scelto da Matteo Renzi, che per lui aveva pensato anche al ruolo di ministro, e ratificato all’unanimità dal Parlamento. Il suo mandato scade nel 2020. Non teme che un’eventuale tramonto del renzismo possa travolgere anche lei? “L’Anac è un’autorità indipendente dalla politica, ha colmato un grande vuoto viste le tante segnalazioni che riceviamo anche dagli esponenti di tutti i partiti. Farne a meno significherebbe riavvolgere il nastro della modernità fino al punto di partenza, rinunciare all’idea della trasparenza. Non credo sia possibile”. Ma qualche segnale c’è. Per Matteo Salvini l’Anac alimenta la burocrazia. “Un fondo di verità c’è”. Ma come, la pensa così anche lei? “Non mi fraintenda. Spesso la burocrazia si nasconde dietro di noi per non decidere. Le faccio un esempio. Una prefettura, non le dico quale, ci ha chiesto una valutazione sulle modalità per aprire le buste di una gara. Ma noi non abbiamo mica competenza su queste cose. In questo Salvini ha ragione”. Stefano Parisi, ex candidato sindaco a Milano, dice che l’Anac va abolita. Il suo partito sarà anche piccolo ma l’intenzione è esplicita. “Sono rispettoso delle scelte della politica ma mi viene il dubbio che Parisi non sappia di cosa parla. La soppressione dell’Anac sarebbe impossibile, anche per via di una serie di impegni internazionali. In ogni caso sto ancora aspettando di vedere, carte alla mano, in quale vicenda avremmo bloccato il Paese”. Sulla ricostruzione delle zone terremotate. “Falso. Finora quasi tutta la ricostruzione è stata fatta dalla Protezione civile. E noi in quelle procedure non possiamo entrare. Abbiamo tutto l’interesse a far svolgere le gare rapidamente, con un sistema simile a quello dell’Expo”. Su Expo, però, ci sono diverse inchieste in corso. “Ma sul periodo prima del 24 giugno 2014, quando siamo entrati in campo”. Avete iniziato gli arbitrati sulle quattro banche fallite, compresa Etruria? “Dovevamo aspettare che scadessero i termini per le domande, fissati a novembre. La prima udienza c’è stata il 19 dicembre. Le pratiche sono un migliaio per un valore totale di 80 milioni di euro. La maggior parte riguarda Banca Etruria. Contiamo di chiudere in tempi ragionevoli. Un anno, un anno e mezzo al massimo”. A proposito di banche: le sembra utile oppure no la commissione parlamentare d’inchiesta? “Non entro in una valutazione che spetta alla politica. Ma voglio sottolineare una cosa: l’Italia si è fatta carico di trovare una soluzione a un problema derivato da una normativa europea. Non solo per chi aveva le obbligazioni subordinate ma adesso, con il fondo inserito nella manovra, anche per gli altri risparmiatori che hanno subito un danno. Su vicende simili, in passato, nessuno aveva visto nulla. Pensate a chi aveva comprato i bond argentini”. La legislatura si è chiusa con il decreto sulle intercettazioni. Cosa ne pensa? “Aspetto di vedere il testo. Ho qualche perplessità sul fatto che sia la polizia giudiziaria a dover trascrivere le intercettazioni rilevanti per le indagini. Gli abusi ci sono stati e bisognava intervenire. Ma credo che lasciare al pm il ruolo di garante sia nell’interesse di tutti, anche della polizia. Saluto invece con grande piacere la norma che consente ai giornalisti di avere direttamente le istanze cautelari. È un mio vecchio pallino” Il Pd cerca candidati nella cosiddetta società civile. Hanno cercato anche lei? “No. In ogni caso rifiuterei perché devo portare a termine il mio mandato e interromperlo sarebbe quanto meno inopportuno”. Portò le molotov nella scuola Diaz, ora comanda il centro operativo Polstrada di Roma di Marco Preve La Repubblica, 30 dicembre 2017 Dopo quella di Caldarozzi all’antimafia un’altra nomina choc del Dipartimento di Ps. Pietro Troiani fece introdurre le false prove. Dopo la nomina al vertice della Dia di Gilberto Caldarozzi, condannato a 3 anni e 8 mesi per i falsi verbali della scuola Diaz, a un altro dei condannati eccellenti per la “macelleria messicana” del G8, è stato affidato uno degli incarichi più prestigiosi della polizia italiana. Pietro Troiani, il vicequestore passato alla storia come l’uomo delle false molotov, il 21 dicembre è stato nominato dirigente del Coa, il Centro operativo autostrade di Roma e del Lazio: il più grande d’Italia. Come per Caldarozzi tecnicamente non si è trattata di una promozione. Troiani resta vicequestore proprio come Caldarozzi resta primo dirigente. Questa è stata la precisazione del Dipartimento di pubblica sicurezza dopo che Repubblica aveva pubblicato le critiche delle vittime e dei famigliari dei manifestanti massacrati di botte e arrestati con false prove nella scuola Diaz nel luglio 2001. Ma è innegabile che i due incarichi, vice direttore dell’antimafia e dirigente del Coa di Roma della Polstrada, siano considerati “ruoli apicali” in seno alla stessa polizia. Diverso sarebbe stato assegnare i due funzionari a uffici amministrativi, non di prima linea. Invece, ancora una volta sembra essere totalmente inevasa la precisa indicazione dei giudici della Cedu (Corte europea dei diritti dell’uomo) che nelle condanne all’Italia per l’assenza, all’epoca, di una legge sulla tortura, chiedevano al nostro paese di provvedere anche al blocco delle carriere e sanzioanre i funzionari che coprirono i torturatori materiali di Diaz e Bolzaneto. Pietro Troiani, all’epoca in servizio al reparto celere di Roma, ebbe un ruolo decisivo nella vergognosa operazione Diaz. Sapeva che a bordo della sua jeep c’erano due molotov recuperate ore prima in corso Italia e ordinò al suo autista di portarle nella scuola mentre era in corso la perquisizione. Il sacchetto con le bottiglie incendiarie passò fra le mani dei massimi dirigenti della polizia italiana dell’epoca e venne alla fine sbandierato come la prova regina per l’arresto dei presunti black bloc. Le logiche interne della Ps sorprendono. Poliziotti che “hanno gettato discredito sull’intera nazione” non risulta abbiano subito sanzioni disciplinari e, scontata l’interdizione, rientrano ai piani nobili del corpo. Mentre funzionari che si sono macchiati di colpe assai meno infamanti subiscono durissime sanzioni. Vale la pensa ricordare il caso di Filippo Bertolami vicequestore romano che nella sua veste di sindacalista ha fatto denunce scomode sulla gestione della polizia, specie all’epoca di Gianni De Gennaro, Antonio Manganelli e Alessandro Pansa: sprechi, utilizzo di beni, promozioni di agenti condannati come quelli del G8. Poche settimane fa è stato sospeso per undici mesi complessivi perché non avrebbe stampato un documento e perché non si sarebbe recato nell’ufficio del superiore. “Trovo vergognoso che a persone condannate per reati di quella gravità sia stato consentito di rimanere in servizio, vergogna originale del procedimento disciplinare”. È il commento di uno dei legali di parte civile, l’avvocato Stefano Bigliazzi, dopo la nomina di Pietro Troiani che andrà a dirigere il centro operativo autostradale di Roma. “Trovo ancora più vergognoso - prosegue Bigliazzi - che venga loro assegnato un ruolo di responsabilità, mentre avrebbero potuto assegnare loro un ruolo più defilato. È un insulto alle vittime dei reati, è un insulto ai cittadini italiani e, circostanza che non è mai messa in evidenza, è un insulto ai tanti poliziotti onesti che vengono sopravanzati nelle carriere da persone con questi trascorsi e che si trovano a dover obbedire a loro”. Semilibertà all’ergastolano, anche se è introverso di Angela Pederiva Il Gazzettino, 30 dicembre 2017 Un ergastolano può avere diritto alla semilibertà, malgrado abbia ucciso e sia introverso, al punto da non dare prova di un suo completo ravvedimento. L’ha stabilito la Corte di Cassazione, annullando l’ordinanza del Tribunale di Sorveglianza di Venezia, che aveva rigettato l’istanza di ammissione alla misura alternativa presentata da un detenuto nel carcere di Padova. Ora il caso dovrà dunque essere riesaminato, com’era già accaduto in occasione di una vacanza-premio in Valle d’Aosta, prima ammessa, poi impugnata e quindi concessa, anche se ormai troppo tardi. Protagonista della vicenda è Gianni Piras, condannato all’ergastolo per omicidio e concorso in tentato omicidio, nell’ambito della sanguinosa faida di Siurgus Donigala nella provincia del Sud Sardegna. Una storia di rancori e rappresaglie fra clan rivali, iniziata negli anni ‘80 con due attentati agli allevamenti di maiali e sfociata in una lunga serie di rapine, traffici di armi e assassinii. Fra questi anche l’agguato a Dario Piludu, ucciso con otto colpi di fucile dai fratelli Antonio e Gianni Piras, il 26 maggio 1998. Per quel delitto (e per un secondo sfiorato) il 51enne, all’epoca residente in Emilia Romagna, è incarcerato al Due Palazzi. Fine pena mai, disse la sentenza, passata in giudicato. In realtà negli anni il recluso ha intrapreso un percorso di rieducazione, scandito da inserimento lavorativo e permessi-premio, come sarebbe dovuto essere il soggiorno in hotel a Cervinia programmato dal consorzio Giotto nel luglio del 2013, già oggetto di uno scontro fra Procura e Tribunale. Ora la nuova richiesta, questa volta per la semilibertà. Un’istanza respinta lo scorso 8 marzo dalla Sorveglianza di Padova, secondo cui “pur a fronte di condotta penitenziaria che si manteneva regolare, e dell’impegno profuso nello svolgimento del lavoro esterno”, Piras “aveva solo avviato il processo di revisione critica del passato deviante (e dei gravissimi reati che lo connotavano, inseriti nel più ampio quadro di una sanguinosa faida inter-familiare), mentre l’osservazione psicologica palesava persistenti difficoltà d’introspezione ed interlocuzione, figlie del carattere e della cultura di origine del detenuto”. Un rifiuto contestato dalla difesa dell’ergastolano, anche sulla base del giudizio positivo espresso dal gruppo di osservazione e trattamento, che ha tenuto conto degli indicatori di “progressiva risocializzazione”, tra cui “lo stesso sforzo di riavvicinamento all’opposto clan familiare ed il risarcimento del danno in corso”. Ricorso accolto dalla Suprema Corte, per la quale il Tribunale “può discostarsi dal parere degli esperti” ma deve “offrire di ciò giustificazione adeguata”, senza “limitarsi ad opporre il dato storico dei pur gravi delitti commessi o aspetti personologici, quali la riservatezza di matrice temperamentale e culturale”. Nulla la notifica al difensore se l’imputato ha eletto il suo domicilio di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 30 dicembre 2017 L’irritualità della notifica della citazione a giudizio fatta al difensore di fiducia, malgrado l’imputato abbia eletto il suo domicilio altrove, non può essere sanata solo perché l’avvocato non dimostra che il suo assisto non è stato nelle condizioni di conoscere l’atto. Le Sezioni unite della Cassazione, con la sentenza 58120, si esprimono sulla nullità a regime intermedio della notifica “irregolare”. E lo fanno prendendo le distanze da una precedente pronuncia, resa sullo stesso argomento sempre dal Supremo consesso nel 2008 (sentenza 19602). In quell’occasione le Sezioni unite si erano mostrate favorevoli alla possibilità di “rimediare” in caso di notifica avvenuta nelle mani del difensore anziché nel luogo indicato dall’imputato. I giudici avevano ritenuto sanabile la nullità generale a regime intermedio, se è dimostrato che il “disguido” non ha impedito al diretto interessato di avere notizia dell’atto e di esercitare il diritto di difesa. In ogni caso la nullità era considerata priva di effetti se non dedotta con tempestività. Secondo questo indirizzo, infatti, anche se non si può fare un’acritica equiparazione tra la notifica al legale e quella presso il domicilio eletto, il rapporto di fiducia che lega l’imputato al suo difensore farebbe sorgere una sorta di presunzione di conoscenza, imponendo all’avvocato di fornire una prova contraria. Ora la sentenza 58120 si dissocia da questa tesi. Secondo i giudici in assenza di una sanatoria codificata, non ci si può basare sul solo rapporto fiduciario per generalizzare e decidere che la notifica è nota all’imputato anche se non è arrivata a lui. Addossare all’avvocato l’onere di dimostrare la perdurante esistenza o meno del rapporto con il suo assisto, vuol dire - precisano le Sezioni unite - raggiungere il “risultato paradossale di “sterilizzare” automaticamente un vizio che si ammette integrare una nullità di ordine generale (a regime intermedio proprio in ragione del rapporto fiduciario), ogniqualvolta la notifica pur irregolare sia compiuta a mani del difensore di fiducia”. Chiarito dunque che il legale che intende contestare l’invalidità della notifica non deve provare l’interruzione dei contatti con il cliente, il Supremo collegio precisa che il giudice può comunque desumere dagli atti dei motivi obiettivi di “sanatoria” della nullità. Può accadere nel caso il ricorso sia stato proposto personalmente dall’imputato (facoltà ora esclusa dalla riforma del Codice di rito penale), o nell’ipotesi in cui il difensore di fiducia sia stato nominato al solo scopo di presentare l’atto di introduzione alla fase di giudizio che si sostiene di non conoscere o, per finire, nell’eventualità in cui il domicilio dichiarato sia inesistente. Sardegna: aumentano nelle carceri sarde i detenuti col regime di alta sicurezza linkoristano.it, 30 dicembre 2017 “Il 2017 negli Istituti Penitenziari della Sardegna passerà alla storia con numerose ombre a partire da 3 suicidi (2 a Cagliari-Uta; 1 a Sassari-Bancali), numerosi tentativi di suicidio e atti di autolesionismo. Insufficienti i direttori, uno dei quali (Marco Porcu) con tre incarichi, un’altra (Patrizia Incollu) con due; assenti i Vice Direttori; inadeguati gli Agenti della Polizia Penitenziaria (mancano circa 700 unità); insufficienti gli Educatori per un’organizzazione che è finalizzata al recupero e al reinserimento di chi ha commesso reati”. Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, con riferimento alla situazione nelle strutture penitenziarie isolane dove “le pecche limitano l’applicazione della legge sull’ordinamento penitenziario e il pieno rispetto del dettato costituzionale”. “Mentre sono al minimo storico gli operatori penitenziari, di anno in anno - sottolinea Caligaris - aumentano le persone private della libertà. Al 30 novembre (ultimo dato utile) erano 2.265 oltre un quarto delle quali (683) straniere. Sono anche cresciuti i detenuti in regime Alta Sicurezza (Cagliari, Oristano, Nuoro, Tempio) e quelli in 41bis (Sassari). A Nuoro una sezione è destinata a presunte terroriste islamiche”. Complessivamente le detenute sono una cinquantina. Le problematiche degli Istituti Penitenziari sardi sono fortemente connesse con l’alta percentuale di detenuti in doppia diagnosi, cioè persone che oltre alla tossicodipendenza hanno disturbi mentali. Nelle carceri inoltre sono presenti molti anziani malati e persone afflitte da depressione”. “Il 2018 - conclude la presidente di SDR - dovrà necessariamente essere un anno di cambiamento, così come il Ministro Andrea Orlando ha evidenziato. Ma dovrà registrare anche una maggiore attenzione da parte delle Istituzioni regionali. È indispensabile attivare Case di Accoglienza, a regime di sicurezza meno afflittivo, per quelle persone le cui condizioni di salute mentale non permette loro di reggere la vita in cella. È necessario promuovere attività di formazione all’interno degli Istituti per consentire un reinserimento sociale. I volontari hanno un ruolo importante ma non possono sostituirsi alle Istituzioni. Nel formulare a tutti gli operatori penitenziari gli auguri di buon lavoro per il 2018, auspichiamo quindi una maggiore presenza delle Istituzioni con iniziative concrete anche a sostegno delle cooperative sociali”. Venezia: i volontari del Granello di senape in cerca di una sede “per aiutare i detenuti” Il Gazzettino, 30 dicembre 2017 “Un servizio di assistenza delicato e fondamentale, dedicato agli ex detenuti e alle loro famiglie, è rimasto senza sede. Invitiamo tutte le associazioni a riflettere su un progetto di condivisione degli spazi”. L’appello è del Centro servizi volontariato di Venezia, che punta a trovare una soluzione per l’associazione di assistenza penitenziaria “Il Granello di senape”. Da anni i volontari si ritrovano a dover lavorare da casa, per poi incontrare gli utenti facendosi ospitare per qualche ora da altre associazioni. Quello della sede è un pensiero fisso e una preoccupazione per Maria Voltolina, presidente del Granello di senape. Il Csv di Venezia lancia quindi un appello al mondo del volontariato veneziano, nella speranza di trovare un luogo, in centro storico, dove avere una stanza per sé per promuovere un progetto di condivisione degli spazi e delle spese. “Noi per alcuni anni abbiamo portato avanti l’attività da una sede di campo Santa Margherita, in cui garantivamo uno sportello dedicato agli ex detenuti usciti dal carcere o in misura alternativa e alle loro famiglie - spiega Voltolina. Ma, come altre associazioni, abbiamo dovuto lasciarla per necessità di restauro. Ci avevano assicurato che avremmo avuto una nuova sede, poi l’amministrazione è cambiata e si è rimesso tutto in discussione”. A fine 2015 la municipalità ha proposto all’associazione un nuovo spazio, sempre in Campo Santa Margherita, ma nella sede destinata alle associazioni sono stati trasferiti uffici dell’assessorato alla Coesione sociale. “Non abbiamo le risorse per pagare un affitto e da anni lavoriamo da casa, per poi incontrare gli ex detenuti nella sede della Vetrina del volontariato. Abbiamo bisogno di stabilità, di strumentazione e di ricevere i nostri utenti in un posto riservato e non lontano dal carcere”. Roma: una birra contro lo spreco alimentare, a produrla sono i detenuti Adnkronos, 30 dicembre 2017 Il progetto con i detenuti ideato dalle Onlus EquoEvento e Vale la Pena contro lo spreco alimentare. “Un terzo del pane prodotto ogni giorno viene sprecato. Il 70% dei detenuti che sconta la pena solo in carcere torna a delinquere. E se non fosse sempre così?”. È la provocazione alla base di un progetto che prova a mettere insieme due criticità, quella dello spreco alimentare e quella della recidiva, in cerca di una soluzione unica che può essere riassunta in una sola parola: recupero. Recupero di un alimento prezioso come il pane, sottratto alla pattumiera, e recupero di risorse umane attraverso un percorso di formazione e inserimento lavorativo. Il risultato? Una birra. Si chiama RecuperAle ed è una birra artigianale realizzata utilizzando eccedenze alimentari di qualità destinate a essere buttate via, fatta insieme a detenuti in un percorso di reinserimento. Dietro al progetto ci sono le due Onlus che hanno avuto l’idea: EquoEvento, organizzazione senza scopro di lucro che recupera e dona le eccedenze alimentari di qualità ad enti caritatevoli, case famiglia, poveri e bisognosi, e Vale la Pena, progetto di inclusione sociale ideato e gestito da Semi di Libertà Onlus, un birrificio artigianale dove persone in esecuzione penale esterna, provenienti dal carcere romano di Rebibbia, vengono formate e inserite nella filiera della birra artigianale. Il fine è contrastarne le recidive, al 70% tra chi non gode di misure alternative, al 2% tra chi viene inserito in un percorso produttivo. Il progetto è realizzato nell’Istituto Agrario Emilio Sereni a Roma dove gli studenti sono coinvolti in percorsi di alternanza scuola-lavoro e allenati ai valori dell’inclusione e del rispetto delle regole. Per realizzare questo progetto, però, servono fondi e per questo è stato lanciato il crowdfunding su Eppela. “Abbiamo appena realizzato una piccola produzione pilota da 1800 litri che in parte sarà veduta attraverso la campagna di crowdfunding e abbiamo già pronte due ricette, ad alta e bassa fermentazione, che però non possiamo realizzare nel nostro piccolo impianto, già completamente assorbito dalla produzione delle 16 birre Vale la Pena”, spiega Paolo Strano, presidente della Onlus Semi di Libertà e fondatore di Birra Vale la Pena. “Avremo quindi necessità di affittare un impianto e potremo realizzarne una se raggiungeremo il primo goal di 5.800 euro, entrambe se arriveremo al secondo di 11.600”, spiega. I fondi raccolti saranno interamente impiegati per realizzare produzioni di 1.800 litri ognuna di RecuperAle, e una volta avviata la produzione si potrà rendere stabile il progetto continuando a recuperare risorse, umane e alimentari. Per gli amanti della birra: la RecuperAle Bread è una pale ale chiara, leggermente opalescente, dove le materie prime recuperate esaltano la base maltata conferendo profumi e sapori di crosta di pane, con un finale di bevuta secco ma arrotondato dai luppoli nobili utilizzati, ed una gradazione alcolica di 6.5 ABV. Per questa birra il pane sottratto allo spreco viene utilizzato come uno degli ingredienti e va in parte a sostituire il malto. Per la prima produzione pilota, il pane recuperato ha sostituito il malto nella percentuale del 20%. Per questi primi 1.800 litri sono stati utilizzati 35 kg di pane che, altrimenti, sarebbero finiti nella pattumiera. Quantità che potrebbe arrivare fino a 50 kg per una “cotta” (che nel birrificio artigianale di Semi di Libertà equivale appunto a 1800 litri). In futuro, poi, già si pensa ad allargare il ventaglio degli ingredienti di recupero: la prossima sfida sarà infatti quella di realizzare birra utilizzando la frutta come aromatizzante, sempre grazie alla collaborazione di EquoEvento. Napoli: la violenza si batte col lavoro di Guido Trombetti e Giuseppe Zollo La Repubblica, 30 dicembre 2017 L’ultimo episodio di violenza ha visto vittima un innocente ragazzino. Le reazioni, quelle naturali in un consesso civile. Indignazione. Sgomento. Solidarietà verso la vittima e verso i suoi genitori. Affollato il dibattito sulla genesi di un crimine tanto più ripugnante perché privo di qualsivoglia motivazione. Perché gratuito. Quello che troviamo avvilente è l’insinuarsi nel suddetto pulviscolo di emozioni di tentativi di speculazione politica. Invece di un processo di analisi delle cause di un fenomeno sempre più esteso, ecco in campo una raffica di j’accuse. Superficiali. E probabilmente inutili anche ai fini della conquista di consenso. La colpa è del sindaco, dicono alcuni. Che cosa avrebbe potuto o dovuto fare il sindaco per contrastare il fenomeno della violenza giovanile? La gestione e l’organizzazione delle forze di polizia non dipendono da lui. Il contrasto dei fenomeni malavitosi attiene alla responsabilità del governo. In particolare dei ministri dell’Interno e della Giustizia. Allora sono loro i veri colpevoli? La colpa è dei mezzi di comunicazione che troppo spesso propagano modelli deteriori. Un esempio su tutti la serie “Gomorra”. Ma allora a Kubrick occorreva dare l’ergastolo per la sua “Arancia meccanica”, invece di quattro Oscar ? E così via. La verità è che è facile il tiro al bersaglio sul sindaco o sul ministro. Su “Gomorra” e i suoi sceneggiatori. Tanto per cominciare, evitiamo di guardare solo la punta dei piedi. Alziamo lo sguardo. Ci accorgeremo che la delinquenza giovanile non è prerogativa di Napoli. È comune a tutte le metropoli. Ognuna con le sue peculiarità. Qualche tentativo di mettere in campo rimedi c’è stato. Ad esempio, la prevenzione e la repressione dei piccoli reati, sperimentata con un certo successo dall’ex sindaco di New York Giuliani, in accordo con la teoria del vetro rotto. L’idea è che l’esistenza di una semplice finestra rotta di un edificio abbandonato genera fenomeni di emulazione e di rinforzo, essendo prova di lassismo del potere pubblico. Dando così inizio a una spirale di degrado. Quindi, per controllare ambienti complessi, come quelli urbani, bisogna eliminare gli inneschi. Eliminare “i piccoli reati, gli atti vandalici, la deturpazione dei luoghi pubblici, l’evasione nel pagamento di mezzi pubblici o pedaggi, contribuisce a creare un clima di ordine e legalità e riduce il rischio di crimini più gravi”. È chiaro che si rischia di affrontare i sintomi e non le cause. Ma quando la febbre è alta si prende la tachipirina. In parallelo agli antipiretici, però, occorre individuare le cause del malanno e curarlo. A nostro avviso negli ambienti urbani c’è un gigantesco problema etico. Dal vocabolario Treccani, “complesso di norme morali e di costume che identificano un preciso comportamento nella vita di relazione con riferimento a particolari situazioni storiche”. Dove i tre elementi difficilissimi da coniugare sono “norme morali”, “vita di relazione” e “situazioni storiche”. Le norme etiche non sono scritte nel Dna. Non sono il risultato di un istinto selezionato dall’evoluzione. Nel mondo animale non esistono problemi etici. Le mamme criceto divorano i figli che non sono in grado di allevare. Comportamento che visto con occhi umani è aberrante. Ma dal punto di vista di una selezione che privilegia la specie, e non l’individuo, perfettamente razionale. L’etica nelle relazioni sociali è invece una invenzione umana. Il risultato di una evoluzione non biologica, ma culturale. Che culmina nel valore assoluto che attribuiamo alla vita. Purtroppo le conquiste culturali sono difficilissime da conseguire, facilissime da perdere. Ricordiamo come monito i programmi eugenetici del nazismo: efferati, ma razionalissimi. Il problema è: dove e come si apprendono norme etiche coerenti con una vita di relazione nella società contemporanea? Nella famiglia, la scuola, il gruppo di amici, la politica, i social network? Quali sono i soggetti che diventano fonte di imitazione e di ispirazione per le giovani generazioni? E, soprattutto, come sottrarre l’insegnamento di comportamenti etici a una pedagogia pedante? L’istintiva sfida ai valori dominanti da parte dei giovani è il naturale terreno di coltura dei falsi valori. Dal ritenere che portare il casco sia un segno di viltà, a tirare coltellate per sfizio. Le alternative di comportamenti e di prospettive devono essere garantite da uno Stato autorevole. Autorevolezza che può nascere dall’unica risorsa che i giovani chiedono con drammatica insistenza a chi governa: garanzia del futuro. Che nell’universo meridionale ha un’unica declinazione: lavoro. Senza prospettive di lavoro la società sbanda. E i soggetti più fragili sbandano più di tutti. E siamo al punto di fondo. Chiunque governerà l’Italia nei prossimi anni dovrà assumersi l’onere di rispondere a una domanda cruciale: quale futuro per i giovani meridionali? Napoli: il Partito Radicale in visita a Poggioreale, un inferno ricco di umanità Di Andrea Aversa Voce di Napoli, 30 dicembre 2017 Il racconto di una giornata trascorsa insieme ai detenuti e agli agenti penitenziari, in occasione della visita ispettiva del Partito Radicale. Il nostro appuntamento era fissato per le 10 al bar di fronte al penitenziario. Il locale è un esempio della creatività dei napoletani, infatti, si chiama “L’angolo della libertà” ed è diventato il luogo di ritrovo di tutti i familiari dei detenuti che attendono di fare il loro ingresso nell’istituto per i colloqui. Non solo, ma tra un caffè e l’altro effettua servizio di “deposito telefonino” poiché alla modica cifra di 1 euro li trattiene visto che all’interno non possono essere introdotti. Un bel business considerato che al carcere di Poggioreale c’è un flusso medio di circa 400 visite giornaliere. L’arrivo - Facevo parte della delegazione dell’associazione Penna Bianca che per il Partito Radicale ha eseguito una visita ispettiva all’interno del carcere. Siamo stati in attesa che arrivasse Rita Bernardini, una delle coordinatrici della Presidenza del partito e nel frattempo abbiamo scambiato due chiacchiere con Pietro Ioia, ex detenuto e autore del libro “La cella zero”. Pietro ha iniziato a raccontarci la storia di un detenuto affetto un grave problema alla schiena. Nonostante ciò, è ancora in attesa della decisione del magistrato di sorveglianza in merito alla sua scarcerazione temporanea, affinché possa accedere alle cure necessarie. Rita è arrivata e appena ha fatto il suo ingresso nel bar è stata “accerchiata” da alcuni dei familiari presenti. Questi ultimi le hanno fornito delle segnalazioni sui loro cari da riportare alla direzione del penitenziario. Una, particolarmente struggente, riguarda un rapinatore ferito all’addome da un colpo d’arma da fuoco esploso da una guardia giurata durante un furto. L’uomo è praticamente immobilizzato da un mese su una barella del padiglione San Paolo (la sezione ospedaliera del carcere) e nonostante sarebbe dovuto uscire il 22 dicembre per le cure, è stato raggiunto da una nuova ordinanza di custodia cautelare in carcere che l’ha trattenuto in cella. Un’altra storia molto particolare è relativa ad un giovane di Secondigliano appena 20enne che avrebbe commesso l’errore di infatuarsi della moglie di un ras del quartiere rischiando di diventare vittima di una probabile vendetta. Per questo motivo il ragazzo si sarebbe fatto arrestare, ma si sa in carcere le voci girano e quindi il 20enne sarebbe in pericolo anche tra le mura di Poggioreale. L’entrata e i numeri - Dopo aver raccolto tutte le segnalazioni, insieme a Rita abbiamo lasciato “L’angolo della libertà” ed attraversato la strada pronti per fare il nostro ingresso all’interno del carcere. Come da rito abbiamo consegnato i nostri telefoni cellulari e i documenti di identità. Dopo essere passati attraverso un metal detector siamo stati accolti dalla vice Direttrice Annalaura De Fusco e dal Comandante Antonio Sgambati che hanno comunicato alla Bernardini i principali dati che riguardano il sovraffollamento. Infatti, questo sono i numeri del penitenziario napoletano: 2.157 detenuti su una capienza “massima” di 1.637. Ben 520 in più. 150, invece, sono gli agenti della Polizia penitenziaria in meno rispetto al numero necessario. Secondo quanto riportato dalle autorità del carcere il 90% dei detenuti sono di nazionalità italiana, quelli impegnati in attività lavorative sono appena il 10%. Sono pochissimi quelli che frequentano i corsi scolastici, e non c’è un solo detenuto che fa i percorsi di formazione e i progetti sportivi (la struttura non è provvista di palestra). Uno scenario devastante al quale si è aggiunta la testimonianza del primario dell’ASL Bruno Di Benedetto che ha descritto un quadro clinico negativo e caratterizzato, in particolare, da infezioni, malattie veneree e virus. Nonostante negli ultimi anni il carcere di Poggioreale abbia internalizzato molti reparti specialistici (ad oggi sono 22), la mancanza di risorse, macchinari e strutture adeguate, rappresenta un quadro clinico-sanitario più che preoccupante. Non solo, ma il non aver costruito degli impianti volti ad ospitare i pazienti che prima erano detenuti negli ospedali psichiatrici giudiziari (Opg), ha costretto l’amministrazione a trasferire queste persone in carcere rendendo il contesto in cui vive la comunità penitenziaria ancora più incandescente. L’ingresso nel Padiglione “Salerno” - Terminata la raccolta dei dati, Rita Bernardini ha comunicato alla vice Direttrice Fusco di voler visitare il padiglione Salerno. La disponibilità della dirigente e del Comandante Stabile è stata squisita, l’unica raccomandazione è stata quella di muoverci in blocco e non disperderci per favorire il lavoro degli agenti che ci avrebbero “scortato”. Per la cronaca, il padiglione Salerno è quello al cui interno sono detenute persone per reati legati al traffico e spaccio di stupefacenti e risulta essere tra i “peggiori” da un punto di vista strutturale. Una volta entrati l’impatto è stato di quelli difficili da dimenticare. Salire le scale strette, sentire chiudere alle proprie spalle i cancelli del reparto con quel rumore metallico delle serrature nelle orecchie, è stata una sensazione che ricorderò per tutta la vita. Il padiglione contiene circa 200 detenuti (inutile dire che sono in sovrannumero) divisi in due blocchi uguali formati da tre piani ognuno. Ad entrambi i lati di ogni piano vi sono almeno 4-5 celle. I detenuti del piano terra sono i più “fortunati”, infatti c’è uno spazio più ampio tra la celle. Ai piani superiori essendoci le scale, lo spazio è ridotto al minimo ed è rappresentato da un piccolo corridoio dove a stento è possibile camminare uno dietro l’altro. Ovviamente i livelli non sono comunicanti, per ognuno vi è un cancello esterno che può essere aperto o chiuso soltanto dagli agenti penitenziari. Le celle sono per la maggior parte tutte uguali e grandi circa 10 metri quadri in cui convivono in media 5-6 detenuti. Lo spazio è suddiviso da un’area più grande dove vi sono le brande a castello ed uno più piccolo che funge da “angolo cottura” con l’optional della tazza del water. Muffa ed infiltrazioni d’acqua sono ovunque, l’umidità regna sovrana e se non fosse per qualche piccola stufa la temperatura sarebbe gelida. Ovviamente nei mesi estivi, come ci hanno raccontato i detenuti, la situazione è all’opposto con il caldo torrido e insopportabile che diventa protagonista. L’arrivo della Bernardini, le storie dei detenuti e la visita - Appena Rita ha fatto il suo ingresso nel padiglione è scattata un’ovazione da parte dei detenuti. L’affetto e il rispetto che l’intera comunità penitenziaria prova per il Partito Radicale è evidente ad ogni passo che facciamo all’interno della sezione. Se non fosse per gli agenti che ci hanno accompagnato saremmo stati letteralmente “assediati” dai detenuti. La necessità del contatto con persone che vengono dall’esterno, la voglia di stringere mani diverse dalle solite, di essere informati su quello che accade fuori e di parlare con gente nuova sono emozioni palpabili in ogni istante trascorso in quel padiglione. L’elenco delle segnalazioni è infinito ma sempre lo stesso: le condizioni disumane e degradanti nelle quali vivono i detenuti, stipati in un penitenziario fatiscente e non da paese facente parte dell’Unione Europea. Del resto la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Cedu) ha continuamente sanzionato l’Italia per quanto riguarda l’argomento carceri. Eppure negli ultimi tempi le cose sono migliorate, ad esempio oggi ai detenuti è consentito di stare fuori cella circa 7 ore al giorno (ogni padiglione ha le sue regole). Durante questo lasso di tempo blocchi di detenuti si dividono l’ora d’aria all’esterno. Poi dopo questo orario, devono tornare in cella per restarci fino al giorno successivo. In realtà questi cambiamenti positivi ci sono stati con l’arrivo nel 2014 del Direttore Antonio Fullone, non più in carica dallo scorso mese di maggio (era arrivato per sostituire la Direttrice Teresa Abate travolta dall’inchiesta sulla famosa Cella zero, presunto luogo di tortura). Un altro dramma è rappresentato dai detenuti stranieri a partire dalle difficoltà di comunicazione causata dalla non conoscenza della lingua italiana. Molti di loro vivono la tragedia di non riuscire a comunicare con il paese d’origine per dire ai propri familiari delle proprie condizioni. In questo caso è valida la massima “il mediatore culturale c’è ma non si vede”. Ad un certo punto Rita Bernardini ha chiesto un attimo di attenzione perché ha avuto il bisogno di fare un annuncio a tutti i detenuti. Si è trattato di comunicargli dell’avvenuta approvazione dei decreti attuativi per la riforma del sistema penitenziario. È stato incredibile, nel giro di due-tre secondi il brusio, l’eco, le voci e le urla di tutti si sono trasformate in un unico e grande silenzio. L’attenzione era estrema. Tali disposizioni, che conosceremo nei dettagli alla fine del prossimo mese di gennaio quando saranno pubblicate sulla gazzetta ufficiale, dovrebbero prevedere: una revisione dei concetti di affettività e sessualità in carcere, di concepire più pene alternative alla detenzione, di migliorare le condizioni clinico-sanitarie all’interno dei penitenziari, di sviluppare percorsi scolastici e di formazione, di promuovere progetti culturali e sportivi, migliorare l’accesso al lavoro in carcere, di aumentare la possibilità per i detenuto di ottenere permessi speciali. L’eccitazione dei detenuti era al massimo stato. Ognuno ci ha chiesto quale potrà essere lo sconto di pena o se addirittura ci potesse essere la possibilità di una scarcerazione anticipata in base al proprio caso. Un pò come quelle persone anziane che ripetono sempre le stesse cose a causa dell’età, con la differenza che qui dentro ci sono persone dai 18 ai 60 anni. E noi non abbiamo mai smesso di ripetere la stessa frase: “Per ora possiamo confermare che i decreti sono stati approvati, tra 28 giorni conosceremo nel dettaglio tutti gli aspetti della legge”. Tutti ci hanno ringraziato del fatto che nessun altro partito si è mai occupato di loro, ci hanno detto che per come è concepito oggi il carcere esso rappresenta soltanto una macchina capace di sfornare dei criminali che escono peggiori di come vi sono entrati. Nonostante tutto ci sono stati scampoli di grande umanità, con un gruppo di detenuti che ci ha offerto il panettone e il caffè. Da questo dialogo tra noi e i detenuti, è emersa la capacità di persone come la Bernardini di essere in grado di porsi con loro da pari a pari. Senza compassione o pregiudizio ma con un trattamento nei confronti di persone uguali tra loro e consapevoli del luogo in cui si trovano ed è avvenuto questo confronto. L’ultimo capitolo della visita ispettiva è stato dedicato ai detenuti che per particolari patologie cliniche sono detenuti in un reparto distaccato dal resto del padiglione. Qui abbiamo incontrato persone con serie difficoltà motorie (e non solo) che come tutti gli altri ci hanno tenuto a denunciare le pessime condizioni nelle quali sono costretti a vivere. Una conclusione che ha dimostrato per l’ennesima volta quanto è disatteso l’articolo 27 della Costituzione: “L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. L’uscita e la speranza - A visita terminata, mentre con la vicedirettrice prendevamo un caffè, ci siamo trovati in un silenzio irreale. Non capendo come mai dall’interno della struttura non provenissero rumori abbiamo scoperto che da qualche anno la Curia, grazie al Cardinale Sepe, ha regalato un abbonamento che consente ai detenuti di guardare le partite di calcio in diretta. Ed effettivamente erano le 15, orario in cui i calciatori delle varie squadre erano già in campo e i detenuti incollati ai piccoli schermi presenti nelle loro celle. Una volta recuperati cellulari e documenti il portone si è chiuso alle nostre spalle mentre fuori ci aspettava l’ultimo raggio di sole della giornata, a conferma del fatto che la “speranza è davvero l’ultima a morire”, simbolo di quel comandamento che Marco Pannella ha predicato in modo cristiano fino alla fine dei suoi giorni: Spes contra Spem, dall’avere speranza all’essere speranza. Vercelli: Sant’Egidio e il pranzo della serenità nel carcere di Filippo Simonetti La Stampa, 30 dicembre 2017 Il tradizionale appuntamento di fine anno nella Casa circondariale cittadina. Edizione numero 13 per l’ormai tradizionale pranzo di fine anno organizzato in carcere dalla comunità di Sant’Egidio. Un evento di portata mondiale che in questi giorni ha fatto sedere a tavola circa 200 mila persone in oltre 70 nazioni. Circa 50 i detenuti (del quarto piano e della sezione Arborio) che ieri si sono dati appuntamento nella sala polivalente del penitenziario cittadino per gustare carpaccio di bresaola con sedano e noci, lasagne alle verdure, arrosto di vitello con patate al forno e dolci natalizi. A seguire giochi e musica e per finire i doni. “Non sarete mai soli, Dio non vi ha abbandonato né dimenticato. In momenti come questi riecheggia il vero significato del Natale. Siamo felici di essere qui tra voi per trascorrere qualche ora di spensieratezza”. Con queste parole, pronunciate dalla presidente della comunità di Sant’Egidio Daniela Sironi (accompagnata dal referente per le carceri Paolo Lizzi e dai volontari), si è aperta la festa. La direttrice del carcere Tullia Ardito ha aggiunto: “Ben lieti di aver concesso ancora a tutti i nostri detenuti la possibilità di socializzare in questi giorni di festeggiamenti lontani dalle loro famiglie. Grazie alla Comunità che ci segue sempre anche durante l’anno e onorati di aver fatto da apripista per altre realtà italiane”. Tra i presenti anche l’arcivescovo Marco Arnolfo, il sindaco Maura Forte con gli assessori Paola Montano, Daniela Mortara e Andrea Raineri, la Garante dei diritti dei detenuti Roswitha Flaibani, i responsabili dell’area educativa, il cappellano don Pier Leo Lupano, la vice-presidente dell’associazione Donne & Riso Margherita Rastelli e i volontari. Mercoledì e giovedì saranno organizzati due pranzi con gli altri detenuti, nei giorni scorsi si sono svolte le feste per i detenuti del primo piano e della sezione femminile. L’Italia, la Costituzione e l’impegno per la pace di Andrea Riccardi Corriere della Sera, 30 dicembre 2017 In vigore dal primo gennaio 1948, la Carta sancisce il ripudio della guerra per la risoluzione delle controversie internazionali. Ma il Paese non è disarmato. Il primo gennaio di settant’anni fa entrava in vigore la Costituzione repubblicana. Pochi hanno ricordato, tra i principi fondamentali, quello affermato nell’articolo 11: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni della sovranità necessarie a un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni”. L’articolo si conclude con l’impegno a favorire le organizzazioni internazionali a scopo di pace. I costituenti guardavano alle Nazioni Unite, la cui Carta (approvata nell’ottobre 1945) prevedeva la rinuncia alla forza per risolvere le controversie internazionali. E l’Italia aspirava a entrare all’Onu, come disse chiaramente Leo Valiani nel dibattito. Anche se l’ingresso avvenne solo nel 1955, in buona parte per il veto sovietico. Qualcuno avrebbe ironizzato sulla scelta “costituzionale” italiana per la pace, attribuendola alle scarse capacità belliche o al diffuso spirito dell’8 settembre. La sensibilità ai temi della pace è stata attribuita principalmente alla tradizione cattolica del Paese, che lo avrebbe “disarmato”. C’è un ovvio radicamento in questo sentire che, peraltro si espresse con la creazione nel 1968 della Giornata mondiale per la pace da parte di Paolo VI, ogni primo gennaio, giunta quest’anno alla cinquantesima edizione. Ma proprio nel 1947, ci fu una convergenza impressionante di tutte le parti politiche e ideali nell’approvazione dell’articolo 11, rivelatrice di qualcosa di profondo. I costituenti preferirono parlare di ripudio della guerra da parte dell’”Italia” (come nazione) più che dallo Stato. Non un mero auspicio, ma quasi una caratterizzazione dell’identità italiana come si è visto successivamente. Giuseppe Dossetti, proponente di quello che divenne l’articolo 11, sottolineava come il testo rispecchiasse il sentire generale di allora, dominato dalla memoria dell’”evento guerra”: 55 milioni di morti, una tragedia di gran lunga superiore ai 9 milioni del primo conflitto. Quella era una generazione segnata dall’orrore della guerra, tanto che si volle cambiare il testo iniziale che parlava di “rinuncia alla guerra” in “ripudio” (con “accento energico”, diceva Meuccio Ruini, presidente della commissione dei 75). Era evidente la volontà di segnare la profonda cesura storica dal nazionalismo e dall’imperialismo, incarnati dal fascismo e dalle sue guerre. Eppure erano passati poco più di dieci anni dall’aggressione all’Etiopia, che aveva trovato tanto consenso in Italia, e dalla terribile repressione del viceré Graziani in quel Paese (tra cui i massacri di Debra Libanos, su cui ancora oggi si stenta a fare luce). Si verificò una vasta convergenza dei costituenti sull’articolo 11 (Togliatti parlò di “compromesso” sulla Costituzione, pur in senso alto). Accanto ai cattolici e ai socialcomunisti, si fecero sentire la sensibilità federalista di azionisti e repubblicani, i valori europei e antimilitaristi evocati dal Manifesto di Ventotene. Furono espresse solo poche perplessità, più che opposizioni. Togliatti appoggiò la proposta di Dossetti. Per lui andavano trovate “forme di sovranità differenti da quelle vigenti”. La Pira notò che così si riconosceva, oltre lo Stato, l’esistenza della comunità internazionale. L’articolo 11 apriva una “finestra” sul futuro, come disse in modo fulminante Pietro Calamandrei: “Si riesce a intravedere, laggiù, quando il cielo non è nuvoloso, qualcosa che potrebbero essere gli Stati Uniti d’Europa e del Mondo”. C’è stata, infatti, una storia italiana di lavoro per la pace sui diversi scenari internazionali: dall’immediato dopoguerra segnato dal conflitto e la sconfitta, alla Guerra fredda, all’unificazione europea ed infine al mondo globale e multipolare. Un anno dopo l’entrata in vigore della Costituzione, l’Italia, aderendo alla Nato, avrebbe avuto un saldo ancoraggio occidentale (vissuto con coerenza) in un mondo ormai diviso dalla Guerra fredda. Il che non le avrebbe impedito di ritrovarsi in iniziative originali di ricerca della pace, talune - fin dagli anni Cinquanta - legate alla figura di La Pira, sindaco di Firenze, come i congressi fiorentini per la pace o sul Mediterraneo (e l’allora inedita proposta di dialogo tra israeliani e arabi). Era una simbiosi di iniziativa della società civile e di impegno del governo. Da parte sua, il Partito comunista avrebbe condotto una politica internazionale di attenzione e influenza nei Paesi decolonizzati, non senza collegamenti con il governo. L’Italia ha ritagliato un suo ruolo di pace anche in tempi di Guerra fredda. Si pensi alla pace in Mozambico, firmata a Roma proprio venticinque anni fa, nel 1992. Ma ormai siamo in uno scenario internazionale nuovo, in cui l’impegno italiano assume caratteri diversi. Dagli anni Novanta, l’Italia interpreta un efficace ruolo di pace, di cui le missioni militari (oggi in 22 Paesi) sono uno strumento decisivo. Quella del 1982 in Libano rappresentò la svolta - il primo intervento all’estero dopo la Seconda guerra mondiale - che aprì la strada a una proiezione italiana su scenari vicini come i Balcani o il Mediterraneo, ma anche lontani come l’Afghanistan. Segue, proprio in questi mesi, un nuovo posizionamento italiano nella fascia sahariana-saheliana, di cui fanno parte l’apertura delle ambasciate in Niger e Burkina Faso e l’annunciata missione militare in Niger. Ne emerge il profilo di un Paese non disarmato, ma responsabile in un mondo divenuto complesso e senza “imperi” regolatori. In Niger una missione a ostacoli di Domenico Quirico La Stampa, 30 dicembre 2017 Gli oppositori dell’intervento militare italiano in Niger hanno fatto inutile diga accusando: vedrete, i nostri soldati non andranno a dar la caccia a schiavisti e jihadisti, fine utilissimo, forniranno, gratuitamente, ascari per gli interessi minerari della Francia (le miniere di uranio sfruttate da “Areva”, tra l’altro grande elemosiniere di presidenti d’Oltralpe). Sospetto malizioso ma balordo: la Francia quegli interessi li difende accuratamente e con efficacia da sola, fin dall’epoca delle cosiddette “indipendenze” concesse al suo impero africano. Come dimostra il fatto che nel sobbollire e intricarsi di tempeste, guerre e tumulti in quei Paesi, e nonostante il declino della République, nessuno ha messo in pericolo proprio quell’assettato e locupletato monopolio. Neppure i neo-califfi del deserto. Neppure i cinesi. E Parigi non commette certo l’errore di coinvolgere nell’Affare soggetti che da ausiliari potrebbero diventare concorrenti. Meglio avrebbero fatto, gli sparuti pacifisti, a proporre altri interrogativi, questi sì ardui e cavillosi. Perché quando si decide di ricorrere a uomini armati, a eserciti, anche se son quelli nostri, lillipuziani, per non trovarsi invischiati in micidiali usure “di bassa intensità”, ci sono auree regole strategiche: esser ben informati sulla geografia umana sociale e storica dei luoghi in cui si andrà ad operare, per esempio, su coloro che ti spareranno addosso e soprattutto su alleati e amici. Sì, perché di lì posson venire pericolose sorprese. L’attenzione italiana a questa parte del mondo, il Sahara e il Sahel, è d’altra parte, con provinciale disinvoltura, recentissima. Fino a poco tempo se ne occupava, a qualche migliaio di chilometri di distanza, la ambasciata di Dakar! Ci affidiamo dunque ai francesi, al dinamico Macron: qui da due secoli sono di casa, visto che l’Africa è cortile della loro inestinguibile “grandeur”. Più che geopolitica: un destino. Prima constatazione: tutti i governi francesi, di destra e di sinistra, hanno mantenuto un controllo invulnerabile sulle colonie diventate a parole indipendenti, in particolare quelle della fascia saheliana, Niger, Mali, Ciad. Questo significa che ne hanno il controllo militare (cinquemila soldati francesi presidiano la zona con aerei ed elicotteri e ordigni vari). Danno loro una mano gli obbedientissimi eserciti locali che sono pittoresca dépendance dell’armata francese. Controllano la politica: partiti, presidenti, qualche volta persino gli oppositori in “democrazie” fitte di elezioni un po’ sospette e corrette da qualche golpe per liberarsi, ogni tanto, di proconsoli divenuti troppo pittoreschi o avidi. E poi l’economia, attraverso le risorse minerarie e naturali, la moneta, che nostalgicamente si chiama ancora “franco”. Parigi ha agito indisturbata, con una tacita delega europea, e fino a una certa data americana, ad occuparsi di questi scatoloni di sabbia. Sorge allora la domanda: dove erano gli attentissimi controllori della France-Afrique quando milioni di euro e di dollari dell’assistenza internazionale elargiti a questi capofila del sottosviluppo sparivano nelle tasche dei clan di potere, dei presidenti, dei loro portaborse, benedetti dall’unzione di Parigi? Non è questo sottosviluppo scandalosamente permanente, e non nei tempi preistorici della terza repubblica ma nell’evo di Mitterrand, Chirac, Sarkozy, che ha spinto centinaia di migliaia di disperati che sentono la fame tutti i giorni a mettersi in marcia verso il Mediterraneo e Lampedusa? Non vibra nell’aria una fastidiosa domanda? Ahimè, la Francia ha inventato i diritti umani, ma si è dimenticata di aggiungervi l’anticolonialismo. E poi: i francesi hanno affidato il potere in Niger e in Mali ai neri, sudditi di cui apprezzavano la supinità all’epoca del colonialismo. Le popolazioni tuareg del Nord si erano mostrate invece perennemente ribelli. Già: dividere per imperare. Perché non hanno impedito che negli anni della indipendenza questi loro alleati, a colpi di emarginazione, disoccupazione, colonizzazione etnica e in qualche caso violenza, facessero guerra permanente ai tuareg? Fino a indurli a arruolarsi nel fanatismo jihadista, diventandone micidiali discepoli? Sono quelli che ci spareranno addosso, nel vecchio pittoresco fortino della Légion. La Francia non ce la fa più, da sola e con pochi denari, a far argine al vasto wagnerismo salafita. Per questo vengono utili i soldati degli alleati europei? Erano domande che si potevano porre alla Francia, perché no? in sede europea quando è spuntata la richiesta di dare una mano laggiù: siamo o non siamo amici e tra amici non si parla con franchezza e non con avvilimento adulatorio? Non era forse il momento di chieder conto di questa loro politica imperiale, sudicia e redditizia, in Africa? Prima di fornire nuovi avalli pericolosi: non solo con la disattenzione di questi anni ma anche con bandiere e guerrieri? Pretender qualche seppur tardiva abolizione coloniale, affinché anche in questa parte del mondo l’Europa tutta non diventi sinonimo generico di sfruttamento, arroganza e intrusione. Buona e gratuita propaganda per il troglodismo jihadista. “Meno carceri e più scuole per i poveri. Solo così gli Usa torneranno una società equa” di Aldo Fontanarosa La Repubblica, 30 dicembre 2017 Nel suo ultimo libro, l’economista Temin descrive le profonde disuguaglianze dell’America dove il 20 per cento delle persone detiene soldi e potere. Bianchi poveri, ispanici, neri costretti a vivere in quartieri ghetto, spesso incarcerati senza ragione e ignorati dai media. La soluzione? Cultura e formazione per tutti. Meno carceri, più scuole. L’economista Peter Temin - che lavora al Mit di Boston - suggerisce questa strada per sanare la profonda, strutturale disuguaglianza che affligge la società statunitense, divisa in ricchissimi e poveri. Ma Temin avverte: un piano efficace - che limiti la persecuzione della maggioranza povera puntando sul rilancio del sistema educativo - andrebbe portato a termine per un periodo lungo, di almeno 16 anni e forse di venti. Pena il suo fallimento. Nel suo nuovo libro “The Vanishing Middle Class: Prejudice and Power in a Dual Economy”, Peter Temin descrive l’America come un sistema a due classi. Una piccola classe prevalentemente bianca detiene una quota sproporzionata di denaro, potere e influenza politica; una seconda - molto più grande - è in condizioni di soggezione, esposta ai capricci del primo gruppo. All’interno del gruppo dei “perdenti”, persone di colore, ma anche tanti bianchi (in genere, di origini ispaniche). Gli asiatici invece sono riusciti a entrare nella classe dominante, vincendo le sue resistenze. La cultura è una discriminante. I ricchi prendono la laurea in college di grande prestigio. Lavorano nei settori più vitali, come finanza e tecnologia. Quindi guadagnano moltissimo. Parliamo di un 20 per cento su 320 milioni di cittadini statunitensi. Gli altri sono, in maggioranza, lavoratori poco qualificati e a basso reddito. Gli immigrati che sono arrivati negli Usa prima del 1970, tante volte hanno agganciato il “sogno americano” arricchendosi pur partendo dal basso. Dopo il 1970, gli immigrati sono finiti spesso fuori gioco, anche perché discriminati in ragione della razza. Questa discriminazione, secondo Temin è perseguita scientificamente: i poveri sono costretti a vivere in quartieri degradati, spesso sono incarcerati sulla base di accuse fumose e vengono incoraggiati a non votare. Si cerca anche di escluderli dalla sfera di interesse dei media perché non possano parlare né protestare, I ricchi - grazie a copiosi finanziamenti ai politici - chiedono norme che permettano di sostenere il loro successo economico, escludendo tutti gli altri. Temin suggerisce un piano ventennale per rendere gli Usa un mondo abitabile anche dai poveri. Le sue proposte prevedono: meno investimenti nelle carceri; più investimenti nelle scuole pubbliche (a partire dalla primarie), per riportare in condizioni di agibilità quelle dei quartieri disagiati; più investimenti nei trasporti perché bianchi poveri, ispanici, neri possano uscire dal ghetto; la creazione di agenzie pubbliche che promuovano la mobilità e la crescita sociale; la diffusione di una cultura dell’uguaglianza per supportare i poveri di oggi come i neri degli anni 60 e 70. Le possibilità di attuare questi propositi di uguaglianza? Temin ammette che è arduo sperare nella realizzazione anche di uno solo degli obiettivi che suggerisce. “In Yemen le bombe made in Italy uccidono i civili” di Gianluca Di Feo La Repubblica, 30 dicembre 2017 Farnesina: armi esportate secondo prescrizioni Onu. La denuncia del New York Times. In un video il percorso delle armi prodotte in Sardegna e vendute all’Arabia Saudita. La denuncia del New York Times che in un video di sette minuti mostra il percorso delle armi prodotte in Sardegna e vendute all’Arabia Saudita. Fonti della Farnesina: “L’Italia osserva in maniera scrupolosa il diritto nazionale e internazionale”. “Bombe fabbricate in Sardegna sono state usate dall’Arabia Saudita nella guerra in Yemen, provocando morte e distruzione”. A denunciarlo è una video-inchiesta del New York Times, pubblicata come prima notizia nella homepage del sito Internet del quotidiano americano. Nel filmato viene mostrato il percorso del commercio delle armi che vengono utilizzate in Medio Oriente e che conferma le denunce lanciate da un paio di anni a questa parte dalle associazioni pacifiste. Il quotidiano newyorkese mostra quelle che definisce “le prove” di bombe utilizzate non solo contro i combattenti Houthi sciiti ma anche contro i civili, e cita in particolare una famiglia di sei persone uccisa da una bomba. La replica del governo italiano arriva da fonti della Farnesina: “L’Italia osserva in maniera scrupolosa il diritto nazionale ed internazionale in materia di esportazione di armamenti e si adegua sempre ed immediatamente a prescrizioni decise in ambito Onu o Ue. L’Arabia Saudita non è soggetta ad alcuna forma di embargo, sanzione o altra misura restrittiva internazionale o europea”. Dal ministero degli Esteri si osserva inoltre che “quanto riportato dal New York Times è una vicenda già nota, sulla quale il governo ha fornito chiarimenti più volte nel corso della legislatura, anche in sede parlamentare”. Durante la spiegazione del quotidiano americano forte è il contrasto tra scene della guerra in Yemen e lidi meravigliosi dell’isola italiana. Nel primo fotogramma si vede una bomba che esplode e la voce che ricorda come “lo Yemen sia immerso in un violento conflitto” da anni. Subito dopo, ecco un paesino sardo circondato da un mare cristallino. “L’Italia - riconosce il Nyt - non è l’unico Paese che invia armi all’Arabia Saudita. In base alla nostra inchiesta c’è stato un aumento sostanziale dell’export nel settore solo nel 2017”. Il video mostra le immagini delle visite ufficiali a Riad della premier britannica Theresa May e del presidente americano Donald Trump. Ma ci sono anche Paolo Gentiloni e il ministro della Difesa Roberta Pinotti per sottolineare come i buoni rapporti tra i due Paesi avrebbero favorito anche interessi commerciali legati alle armi. Le armi, fabbricate in Italia dalla tedesca Rwm, partono dall’aeroporto di Cagliari verso l’Araba Saudita. Dal 2015 a maggio del 2017 l’Italia ha fornito armi, bombe e munizioni all’Arabia Saudita per circa 40 milioni di euro. In una nota il senatore del Movimento 5 stelle Roberto Cotti afferma di essere stato lui a fornire il materiale per l’inchiesta: “Dopo mesi di stretta collaborazione con il NYT, a cui ho fornito video, foto, documentazione, contatti, ecco ora l’inchiesta della prestigiosa testata americana”. “La denuncia è forte - continua il parlamentare - le prove schiaccianti, le responsabilità del Governo italiano evidentissime. Un Governo che continua ad autorizzare l’export delle bombe nonostante le mie denunce, con ben 6 interrogazioni parlamentari a cui non si sono degnati di rispondere per cercare di giustificare il loro operato. Un impegno, il mio, finalmente premiato”. A settembre la Camera ha respinto l’ipotesi di embargo relativo alla fornitura di bombe italiane verso l’Arabia Saudita, così come una partecipazione, seppur indiretta, dell’Italia in un conflitto privo di autorizzazione e di mandato internazionale. Il provvedimento restrittivo, oltre che da molte organizzazioni, era stato esplicitamente richiesto dal Parlamento europeo. Egitto. Tre processi agli attivisti simbolo della “generazione carcere” di Pino Dragoni Il Manifesto, 30 dicembre 2017 Alla sbarra Alaa Abdel Fattah e Mahienour el Massry, le voci più note dell’opposizione al regime di al-Sisi. Parte la campagna per il rilascio. Oggi in Egitto tre diversi tribunali si troveranno a dover decidere sulla sorte di numerosi attivisti. È l’ennesima goccia in uno stillicidio continuo di processi, condanne, arresti e denunce che ormai da oltre quattro anni colpisce chi si schiera contro il presidente al-Sisi e in difesa dei diritti umani. Stavolta dall’Egitto è stata lanciata una campagna per tenere alta l’attenzione sui processi e non lasciarli cadere nel silenzio. L’occasione è data anche dal fatto che in due di questi processi sono coinvolti alcuni degli attivisti egiziani più importanti e più noti anche a livello internazionale. Ad Alessandria sarà Mahienour el Massry, avvocatessa trentunenne, a comparire in aula insieme ad un gruppo di altri avvocati, tutti a processo per una protesta contro il trasferimento delle due isole egiziane di Tiran e Sanafir all’Arabia saudita. Insieme a Moatasem Medhat del partito Pane e Libertà, el Massry è stata arrestata il 18 novembre durante un’udienza a cui era stata convocata. Negli anni Mahienour si è sempre distinta per il suo essere in prima linea a difesa dei più deboli. Si è occupata di lotte dei lavoratori, processi militari, bambini di strada e rifugiati siriani e ha già scontato quasi due anni di carcere tra il 2014 e il 2016, ricevendo il premio internazionale Ludovic Trarieux per i diritti umani. E sempre nella giornata di oggi è atteso anche un’altro importante processo contro Alaa Abdel Fattah, attivista simbolo della rivoluzione egiziana del 25 gennaio 2011, in carcere ormai da oltre tre anni. Abdel Fattah era stato imprigionato e condannato in base alla famigerata legge sulle proteste emanata dai militari golpisti nel 2013. Oggi però, a 18 mesi dal suo fine pena, rischia un’ulteriore condanna con l’accusa di aver “insultato” la magistratura. Definito il “detenuto di tutte le epoche”, Abdel Fattah è stato incarcerato sotto tutti i regimi che hanno governato l’Egitto negli ultimi anni (da Mubarak passando per Morsi fino ad al-Sisi). Sono processi simbolici, che mettono alla sbarra alcune delle icone di quella che Amnesty International definiva “generazione protesta” e che oggi invece è stata ribattezzata “generazione carcere”. Ma l’invito a continuare a resistere e lottare arriva proprio da loro, dalle celle in cui sono rinchiusi. Scriveva Mahienour alcune settimane fa dal carcere: “In realtà sono sicura e vedo che la rivoluzione per cui milioni di persone stanno pagando il prezzo, è ancora nel cuore di ognuno/a di noi ed è ancora in grado di minacciarli e terrorizzarli… Nonostante tutto siamo ancora forti!”. India. Fotografa uno sgombero: a processo per istigazione alla violenza di Riccardo Noury Corriere della Sera, 30 dicembre 2017 Se volete scoprire un motivo (solo uno dei molti, in realtà) per cui l’India vanta la poco onorevole posizione n. 136 su 180 nella classifica della libertà di stampa stilata da Reporters sans frontiéres, leggete questa storia. Priyanka Borpujari, una freelance di 26 anni che collabora assiduamente col quotidiano “The Hindu”, è stata arrestata dalla polizia di Mumbai il 26 dicembre mentre stava riprendendo con la sua macchina fotografica lo sgombero forzato di una baraccopoli del quartiere di Vakola, sulla base di un’ordinanza del 2009, e l’accanimento degli agenti contro dei bambini che cercavano di ostacolare i movimenti delle ruspe. ù Le hanno sequestrato gli scatti e l’hanno tenuta dalle 13.30 alle 16 in un commissariato, impedendole di fare telefonate. Poi l’hanno rilasciata, dandole appuntamento in tribunale. Qui dovrà rispondere di una incredibile serie di reati, per cui è stato scomodato l’intero codice penale indiano: aggressione e uso della forza per impedire a un pubblico ufficiale di svolgere il suo dovere, inflizione volontaria di danni fisici per impedire a un pubblico ufficiale di svolgere il suo dovere, favoreggiamento, esibizione della forza, riunione illegale e complicità in azioni criminali. Secondo la polizia, Priyanka Borpujari stava facendo l’attivista, non la giornalista. Lei ha commentato così: “La polizia dice che avrei istigato i residenti a compiere atti di violenza? Io sono una giornalista, mi occupo di diritti umani e non ho mai istigato alla violenza in vita mia. Continuavo a ripetere: lasciatemi fare il mio lavoro”. Che è esattamente quello che ci si aspetta da una giornalista in una situazione come quella che stava documentando.