“I mostri non esistono”. Ala del carcere di Padova rifatta da detenuti (e agenti) di Angela Tisbe Ciociola Corriere del Veneto, 2 dicembre 2017 “Non volevamo parlare solo di carcere, ma più in generale dell’intera società, e così facendo abbiamo proprio stravolto il modo di raccontare l’esperienza dei detenuti”. Ornella Favero riassume così l’esperienza a Ristretti Orizzonti, la rivista pubblicata dai detenuti del carcere Due Palazzi di Padova che in questi giorni festeggia i suoi primi vent’anni di vita, fondata e diretta proprio dalla Favero, giornalista e presidente da due anni dei volontari italiani che ruotano attorno alle carceri e riuniti nella Conferenza nazionale volontariato e giustizia. Ieri il carcere ha aperto le porte e ha festeggiato con ospiti prestigiosi, dal magistrato Gherardo Colombo allo scrittore Carlo Lucarelli, la ristrutturazione del primo piano dove sono ospitati i laboratori e la biblioteca. Spazi ai quali detenuti e agenti hanno lavorato per un anno, fianco a fianco, improvvisandosi muratori e pittori, e diventati ora colorati e luminosi. Come è nata l’idea di fondare la rivista Ristetti Orizzonti? “Per puro caso. Ero stata invitata per una lezione ai detenuti sull’informazione. Alcuni di loro mi hanno chiesto se volessi aiutarli a mettere in piedi una rivista. E così abbiamo fatto”. Perché i detenuti scelgono di lavorare con voi? “Molti ammettono di rivolgersi a noi solo per ottenere un permesso premio. Ma va bene così. L’importante è dare loro un’opportunità per mettersi in discussione. Ci sono stati successi e ci sono state anche molte cadute. Ma almeno il tentativo c’è. È un percorso doloroso. In genere i detenuti cercano di non affrontare il passato. Poi però…”. Però cosa? “Però iniziano a confrontarsi con quanto fatto. Una volta un detenuto mi ha detto che, ogni volta che si trova di fronte uno studente, vede i suoi figli e pensa con paura al momento in cui sarà costretto a spiegare loro tutti i guai combinati, senza più alibi”. E lei è cambiata dal rapporto con loro? “Ho la responsabilità di essere l’adulto credibile. E poi c’è la consapevolezza di quanto poco ci voglia per passare dalla parte del torto. Ricordo un genitore che aveva seguito la figlia durante un incontro con gli studenti. A fine giornata ha confessato di non essersi mai reso conto di quanto lui, facile alla rabbia, fosse stato vicino a oltrepassare il limite e a rovinarsi”. Nel Due Palazzi sono passati molti detenuti, tra cui Felice Maniero, Tommaso Buscetta, Giuseppe Salvatore Riina. C’è una storia che le è rimasta particolarmente impressa? “Ce ne sono state tantissime. Forse una di queste è quella di Marino Occhipinti (che sta scontando l’ergastolo per uno degli omicidi della Uno bianca, ndr). È una persona che ha fatto un percorso faticoso e sta cercando di riprendersi. Perché non esistono mostri, ma persone che hanno compiuto cose mostruose”. Come è cambiato il carcere in questi venti anni? “Questo è un argomento che mi provoca sempre un po’ di scoramento. Oggi è ancora diffusa l’opinione che il carcere sia una cosa “altra” che non ci riguarda. E quindi è una realtà da tenere chiusa, possibilmente gettando via le chiavi delle celle, e ogni volta che si fa un passo in avanti, se ne fanno tre indietro”. Ultimamente il Due Palazzi è stato al centro di inchieste. L’ex direttore Salvatore Pirruccio è indagato per falso in atto pubblico perché avrebbe favorito alcuni detenuti che lavoravano nelle coop. Telefonini e droga sono stati fatti arrivare tra le mani dei detenuti. Le associazioni di volontariato sono state tirate in ballo. Come risponde a queste critiche? “Molti ci hanno attaccato perché un carcere più aperto non è sicuro. Ma non è così. L’apertura che creiamo noi non c’entra nulla e anzi, se le condizioni fossero più umane, allora non ci sarebbero questi episodi”. Al carcere “Due Palazzi” boom di detenuti che vogliono lavorare di Luisa Morbiato Il Gazzettino, 2 dicembre 2017 Presentati i nuovi laboratori colorati per le attività di legatoria, confezione del the e assemblaggio. “Abitare ristretti” è il progetto, avviato lo scorso maggio, che ha reinventato all’interno del carcere Due Palazzi, i laboratori di confezionamento del tea, legatoria e della Fischer Italia, dove sono impiegati alcuni detenuti nell’assemblaggio di minuterie metalliche. Ed è in particolare quest’ultimo luogo che ha visto gli interventi maggiori, non solo tinteggiatura delle pareti con colori accesi come il giallo ma, soprattutto, il ridisegno degli spazi per dar vita a un posto di lavoro più efficiente ma, soprattutto, più accogliente, dove i detenuti lavorano per 4 ore e mezzo al giorno. A gestire le attività la cooperativa sociale “AltraCittà” (27 le persone detenute impiegate) e “Ristretti Orizzonti - Granello di Senape” che ieri festeggiava una presenza ventennale, che si occupa della redazione della rivista, del Centro documentazione e del Tg Due Palazzi. L’esigenza di ristrutturare gli spazi è stata dettata dall’aumento delle richieste di lavoro da parte dei detenuti. A realizzare il progetto, nato durante la Biennale di Architettura di Venezia nel 2016, studenti, tirocinanti e docenti, dopo un periodo di ascolto e condivisione con le persone che vivono e lavorano negli spazi rivisitati. All’inizio di quest’anno al ripensamento architettonico si è aggiunto quello del colore grazie al colorificio Ard-Raccanello che ha dato la disponibilità tecnica. Nel confronto con i detenuti infatti era emerso che il colore è un elemento essenziale nella fase di cambiamento che ha favorito ed entusiasmato una nuova energia e dinamica: la scelta è caduta sul giallo, abbinato alla creatività della legatoria; dell’arancione, colore pieno e vitale che ricorda il tuorlo dell’uovo centro della vita per l’assemblaggio; il bianco, utilizzato per lo studio del Tg e per il corridoio, perché considerato un colore da cui partire. Al taglio del nastro, benedetto da don Marco Pozza, erano presenti numerose autorità ed i rappresentanti Fischer Italia. “L’attività con le persone detenute è stata avviata nel 2014, e comprendeva la rielaborazione manuale di alcuni prodotti, ma il laboratorio risultava troppo piccolo - ha spiegato Stefano Marzolla direttore generale Fischer Italia - ora le persone si occuperanno anche di confezionamento ed imballaggio per prodotti che prevedono tempi brevi di risposta come, ad esempio, confezioni speciali o articoli promozionali. Sono impiegate 12 persone ma si sta valutando l’incremento del personale”. Il Censis: questa è l’Italia, ricca, ingiusta e rancorosa di Piero Sansonetti Il Dubbio, 2 dicembre 2017 L’odio ha sostituito la lotta. E la politica è fuggita via. Il Censis ha presentato il suo cinquantacinquesimo rapporto annuale. Ci dice tre cose. Una bella e due brutte. La cosa bella è che in Italia la ripresa c’è: vola l’industria, spalla a spalla con quella tedesca; vola il turismo, numero 1 d’Europa; vola l’export. In questi campi l’Italia del 2017 ha superato i livelli del 2007, cioè del periodo d’oro precedente alla crisi. Poi viene la notizia negativa, che apparentemente è in contrasto con quella positiva: aumenta, e aumenta in modo esponenziale, la povertà. In particolare la povertà assoluta. Nel nostro paese vivono oltre quattro milioni e settecentomila persone sotto la soglia di povertà. Cioè che non hanno risorse economiche per sopravvivere dignitosamente. Rispetto al 2007 l’aumento della povertà è stato un turbo- aumento: 165 per cento. Vuol dire che i poveri sono più che raddoppiati, quasi triplicati. è un disastro. Naturalmente l’aumento dei poveri in presenza di un aumento del Pil vuol dire anche un aumento dei ricchi. è un effetto della matematica. La seconda notizia negativa è che lo spirito pubblico italiano del 2017 si alimenta soprattutto di un sentimento: il rancore. Cioè l’odio. E che questo rancore è alimentato soprattutto dalla sfiducia e dalla paura di prendere iniziative. E la sfiducia, principalmente, è nella politica. Nell’Italia prima della crisi prevaleva il conflitto. Il conflitto sociale, il conflitto politico. Il conflitto è scomparso ed è stato sostituito dall’odio. Proviamo a capire quale nesso c’è tra queste tre notizie, che apparentemente contrastano tra loro. E invece sono perfettamente complementari. L’analisi economica è piuttosto semplice. Della crisi hanno approfittato - come succede quasi sempre nella storia - i ceti più forti, i quali hanno operato bene, hanno ristrutturato le loro finanze e le loro imprese, hanno ottenuto vantaggi dalla riduzione del costo del lavoro, quando è stato necessario hanno ridotto il personale. Di conseguenza gli indici economici sono tutti positivi ma gli indici sociali vanno in rosso. L’Italia diventa un paese con un tasso di disuguaglianza sempre più alto (nell’Occidente è seconda solo agli Stati Uniti in questa speciale classifica) e questo è un problema politico, non economico. La crisi ha prodotto un paese più ingiusto. Dove i rapporti di forza, sia in termini economici che in termini politici, si sono spostati a favore dei più ricchi e delle grandi imprese. L’analisi politica è più complicata. Il Censis ci dice che dalla crisi esce un paese meno sereno e dove il rancore è il sentimento prevalente. Si tratta di capire se il rancore - che poi produce il linguaggio del rancore, o dell’odio, la cultura del rancore, il sistema relazionale del rancore - è una causa della crisi economica o si sovrappone alla crisi. Probabilmente tutte e due le cose. Il rancore è la risposta più semplice al senso di ingiustizia sociale che si avverte e al quale non si riesce a reagire. L’Italia della prima metà dello scorso decennio era un’Italia dove il conflitto sociale era ancora alto, e il conflitto produceva, seppure in modo contrastato e diseguale, difesa dei diritti, o almeno produceva l’idea che esistesse la possibilità di difendere i diritti. La crisi ha raso al suolo il conflitto sociale, e l’idea che lo sosteneva, seppellendolo sotto la convinzione che la gravità della crisi renda il conflitto un lusso. E così dalla crisi è nato l’odio che ha sostituito il conflitto. Ma questo processo è avvenuto parallelamente a un processo politico più concreto e tangibile. La fine della politica come la intendevamo una volta. E cioè la politica come di rappresentanza degli interessi e delle idee. La politica - inseguita dalla crisi economica, dal prevalere dei grandi potentati economici, dall’azione devastante della magistratura - si è ritirata nelle retrovie, ha deciso di accontentarsi di una attività di piccolo cabotaggio che consiste essenzialmente nella difesa di piccole porzioni di potere. Ha rinunciato a organizzare il conflitto, sia quello sociale, o economico, sia quello delle idee. Ha rinunciato a un compito di guida della società. In questo modo i partiti e sindacati hanno perso la loro presa sulla società e la loro capacità di dirigere e orientare lo spirito pubblico. E così hanno finito per alimentare quel sentimento di sfiducia nella politica che ormai dilaga nell’opinione pubblica e che è il carburante del risentimento, del rancore, della religione dell’odio. Chi dovrebbe opporsi a questa tendenza? Naturalmente il compito spetta alle classi dirigenti, intese nel senso più vasto. Ma il problema è proprio quello: in Italia le classi dirigenti, e in modo particolare l’intellettualità, hanno sempre avuto un rapporto di subalternità verso la politica. Talvolta anche dialettico, talvolta molto dignitoso, ma sempre subalterno. L’idea è sempre stata quella che le classi dirigenti possono creare delle idee, ma poi queste devono passare al vaglio della politica e tocca all’organizzazione politica certificare, approvarle, diffonderle. La crisi della politica ha comportato quasi una scomparsa della classi dirigenti e in particolare dell’intellettualità E questo ha causato il cortocircuito del rapporto tra opinione pubblica e - diciamo così, approssimativamente - “Stato”. Esiste una possibilità di riparare il guasto e eliminare il cortocircuito? Probabilmente bisogna ripartire dal punto centrale toccato da questo rapporto Censis. E cioè l’aumento del grado di ingiustizia sociale. Per ricreare un circuito virtuoso, di fiducia, di scambio, che è il solo possibile punto di partenza di un risanamento civile, occorre ridurre le diseguaglianze e l’ingiustizia sociale. Questo giornale nelle settimane scorse si è molto occupato del tema dell’equo compenso. Tema posto in modo drammatico dagli avvocati, e sul quale le resistenze sono state fortissime. Magari voi potete avere l’impressione che la battaglia per l’equo compenso possa essere una battaglia corporativa. Non è vero. L’idea dell’equo compenso è un passo piccolo piccolo, forse, ma esattamente nella direzione della rivalutazione del lavoro. In questi anni il lavoro, e la sua retribuzione, era tornato ad essere considerato una variabile dipendente del profitto. Secondo i criteri più antichi del liberismo esasperato. E la dignità del lavoro una variabile dipendente della prosperità del mercato. La battaglia per l’equo compenso, alla quale si sono opposti in molti (proprio per salvare l’idea di fondo della variabile dipendente, carissima ai mercatisti) ha finalmente rovesciato questo principio. E lo ha fatto sicuramente grazie all’impegno dell’avvocatura - che ha avuto un ruolo inedito nella battaglia politica nazionale - ma anche grazie all’impegno di un pezzo rilevante della politica, che ha scelto, per una volta, la strada della buona politica e non quella del calcolo di potere. Non voglio certo dire che la vittoria sull’equo compenso risolve il problema dell’ingiustizia sociale. No, però indica una strada, che riguarda le professioni, soprattutto, ma più in generale il lavoro autonomo. E che è comunque la strada giusta per tutti i lavoratori. Se l’Italia deciderà di iniziare a percorrere questa strada forse sarà possibile tornare a sostituire l’odio con la politica. E verificare nei fatti cos’è la modernità. Altrimenti, qualunque sia il destino della ripresa, il rapporto del Censis 2018 sarà peggiore di quello che ci hanno consegnato ieri. Le disuguaglianze esplodono. Le risposte nella Costituzione di Francesco Pallante Il Manifesto, 2 dicembre 2017 Sistema fiscale e spesa pubblica. Nel complesso, più di un italiano su cinque è povero o rischia di diventarlo. Tra i bambini il rapporto sale a uno su tre. Come invertire la rotta? È questione di rapporto tra risorse e diritti. La Costituzione indica due vie. La soddisfazione per la vittoria referendaria dello scorso anno non può far dimenticare il problema della mancata attuazione di parti importanti della Costituzione. A destare allarme è, in particolare, la crescita della diseguaglianza: le politiche legislative degli ultimi decenni sono servite a incoraggiarla invece che a contrastarla. Il 20 per cento delle famiglie italiane più ricche è oramai cinque volte più benestante del 20 per cento di quelle più povere, certifica l’Istat, mentre per Oxfam i sette italiani più facoltosi possiedono la stessa ricchezza dei 18 milioni più indigenti. Negli ultimi cinque anni, nonostante la crisi, le risorse affidate ai gestori di fondi privati sono sempre aumentate, sino a toccare la cifra record di 1.937 miliardi di euro nel 2016: mille miliardi in più che nel 2011. Nel contempo, 4,7 milioni di italiani versano in condizioni di miseria, in dieci anni sono più che raddoppiati, e siamo al terzo posto in Europa per numero di poveri (sono ancora dati Istat). Altri 9,3 milioni di persone sono sulla soglia dell’indigenza, non di rado nonostante abbiano un lavoro. Nel complesso, più di un italiano su cinque è povero o rischia di diventarlo. Tra i bambini il rapporto sale a uno su tre. Come invertire la rotta? È questione di rapporto tra risorse e diritti. La Costituzione indica due vie. La prima, sul lato delle entrate, è ritornare a un sistema fiscale realmente progressivo. Quando nel 1973 venne istituita l’Irpef, l’imposta era articolata su trentadue scaglioni, dai 2 ai 500 milioni di lire, con aliquote che andavano dal 10 per cento al 72 per cento. Oggi, dopo la riforma Visco del 1998 (primo governo Prodi), gli scaglioni sono cinque - il più basso a 15mila euro, il più alto a 75mila euro - con aliquota minima al 23 per cento e massima al 43 per cento. Negli anni, sono state aumentate le tasse ai poveri per diminuirle ai ricchi. Il discorso vale anche per i patrimoni, a iniziare dall’imposizione sugli immobili che persino l’Unione europea ritiene inadeguata (specie se si pensa alla mole di abitazioni inutilizzate). E non si può dimenticare la vergogna dell’imposta di successione: in una società dominata dalla retorica del merito, è inaccettabile che l’aliquota italiana più elevata sia equivalente alla più bassa aliquota tedesca. Il discorso sull’insostenibilità della pressione fiscale è mistificatorio. Le tasse vanno abbassate a chi versa oltre la propria capacità contributiva: ai redditi bassi e ai redditi medi. Agli altri vanno aumentate. Senza dimenticare il recupero dell’evasione fiscale, oltre 100 miliardi all’anno. Le risorse per fare politiche sociali ci sono, eccome. La seconda via, sul lato delle uscite, è riconoscere che non tutte le spese pubbliche sono uguali. Alcune sono necessarie, altre facoltative, altre ancora vietate. Non è accettabile che 4,1 miliardi di euro siano stati spesi nell’acquisto di aerei da guerra e che altri 14 stiano per esserlo. L’Italia “ripudia la guerra”, dice la Costituzione: l’acquisto di armamenti idonei a “proiettare” le nostre forze armate oltre i confini nazionali è incostituzionale. Altre spese non incontrano questo limite assoluto, ma vanno ritenute ammissibili solo a condizione che prima siano state soddisfatte tutte le esigenze di attuazione, quantomeno, del nucleo essenziale dei diritti costituzionali. Così, per fare un solo esempio, l’impiego di oltre 10 miliardi di euro nel Tav Torino-Lione deve essere considerato incostituzionale, se poi mancano i 7 miliardi necessari a combattere la povertà assoluta. Analogo discorso vale per salute, casa, assistenza, istruzione, università, lavoro, previdenza: tutte spese prioritarie. Diversi sono gli strumenti utilizzabili per imporre il rispetto della giusta priorità: dal controllo di ragionevolezza sulle leggi di bilancio prefigurato da Lorenza Carlassare, all’introduzione di una riserva di bilancio in favore dei diritti sociali proposto da Gianni Ferrara su questo giornale alcuni anni fa. Rovesciare le politiche che producono diseguaglianza: questa la sfida che va raccolta per festeggiare davvero la Costituzione uscita vittoriosa dal voto popolare di un anno fa. Verso il traguardo al Senato la legge che mette ordine tra chi collabora con la giustizia di Carlo Valentini Italia Oggi, 2 dicembre 2017 Sono 6.525 quelli sotto tutela. Primi firmatari Pd-M5S. Nasce il Referente dello Stato Un’altra legge si affaccia a questo finale di legislatura per ottenere la promulgazione. È già stata approvata (all’unanimità) dalla Camera e adesso tocca al Senato fare la sua parte. Tra l’altro è l’unico provvedimento che ha trovato alleati nella stesura e nell’iter Pd e 5stelle. Infatti i primi firmatari sono Rosy Bindi (Pd) e Luigi Gaetti (5stelle). Per una volta l’asse piddino-pentastellato ha funzionato e adesso è alla prova del rush finale. In marzo la Camera ha votato la “legge di riforma della normativa in materia di trattamento dei testimoni di giustizia”. Il provvedimento trae spunto dai lavori della Commissione parlamentare antimafia e migliora la condizione di vita dei testimoni, rendendo per altro il sistema più rigoroso e trasparente. La faccenda di chi aiuta la giustizia in condizioni difficili è oggi piuttosto aggrovigliata e spesso confonde il testimone con il collaboratore. Perciò la premessa alla proposta di legge specifica che tra le finalità vi è “la distinzione della posizione dei testimoni di giustizia (di norma semplici cittadini, ad esempio imprenditori oggetto di racket o di usurai, che danno uno specifico apporto alle indagini della magistratura e che per questo possono essere perseguitati da gruppi criminali) da quella dei collaboratori di giustizia (che fanno invece parte di organizzazioni criminali e che proprio per questo sono in grado di fornire informazioni utili per lo svolgimento delle indagini, ottenendo in cambio benefici di varia natura)”. Attualmente i testimoni censiti dal ministero e sotto protezione sono 78, con 255 familiari, mentre i collaboratori sono 1.277 con 4.915 familiari. “I testimoni di giustizia - continua la relazione che accompagna la legge - sono cittadini con un alto senso dello Stato che hanno denunciato mafiosi, corrotti e persone dedite al malaffare, assumendosi in prima persona la responsabilità di contribuire a cambiare in meglio il nostro Paese, liberandolo dalle tossine della criminalità e dell’illegalità”. Alcune organizzazioni, tra le quali Acli, Arci, Libera, Cgil, Cisl e Uil hanno indirizzato un appello al presidente del Senato, Pietro Grasso, che per altro dovrebbe essere sensibile al tema in virtù dei suoi trascorsi in magistratura, perché inserisca la discussione della legge nel programma dei lavori subito dopo la ripresa post-natalizia. “I testimoni di giustizia e l’Italia onesta stanno aspettando da tempo questo provvedimento - è scritto nell’appello. Chi ha messo in gioco la propria vita e quella dei propri familiari, dovendo spesso cambiare identità e luogo di residenza e di lavoro per evitare di essere intimidito e assassinato, ha diritto di sentire forte che le istituzioni e la società civile responsabile sono schierate chiaramente dalla sua parte”. Il rischio è che, nonostante l’unanimità della Camera, il provvedimento subisca qualche modifica al Senato: basta l’approvazione di un emendamento e la legge non riuscirà a superare la boa della fi ne della legislatura (poiché dovrà tornare alla Camera). Esiste (anche se può apparire piuttosto singolare) l’Associazione testimoni di giustizia. Ha un suo presidente, Ignazio Cutrò, imprenditore siciliano che nel 2006 denunciò i suoi estorsori e per questo rischiò la vita. Ottenne protezione ma dovette chiudere la sua impresa edile perché nessuno più si rivolgeva a lui. Adesso lavora alla Regione Sicilia (al Centro per l’impiego) grazie a una legge del governo Letta (2013) che permette ai testimoni di giustizia di essere assunti nella pubblica amministrazione, come avveniva fi no ad allora per le vittime del terrorismo e della criminalità organizzata. Dice Cutrò: “Siamo come i condannati a morte ma a differenza di loro non sappiamo il giorno in cui la mafia ha deciso di ammazzarci, ci ritroviamo rinchiusi nella nostra cella e ogni volta che sentiamo dei passi nel corridoio pensiamo: oggi è il nostro giorno”. E a proposito della legge, afferma: “Pensare di modificare, anche con un solo emendamento, il testo di riforma significa gettare alle ortiche tutto il lavoro svolto finora”. C’è una galassia di associazioni impegnate sul fronte antimafia, con un pullulare di siti Internet e pagine Facebook, a volte in disaccordo tra loro. Tra le tante associazioni vi è il Movimento per la lotta alla criminalità organizzata, che ha indetto una manifestazione per il 5 dicembre a Roma. A presiederlo è Luigi Coppola, che gestiva una concessionaria d’auto vicino a Pompei e venne taglieggiato fino a ritrovarsi al collasso. Di qui la decisione di denunciare. Rivendica: “Manifesteremo a Roma perché il ministro dell’Interno non ci vuole incontrare, cioè non riceve chi ha denunciato la criminalità organizzata e non riesce a collocare al lavoro i testimoni di giustizia ma pensa ai profughi”. Coppola ha anche il dente avvelenato con Gomorra, la fiction co-sceneggiata da Roberto Saviano: “Non ci si rende conto della cosa più grave, che i giovani ignoranti emulano le stronzate camorristiche che vengono mostrate”. La proposta di legge, nel testo licenziato dalla Camera, definisce in modo stringente la fi gura del testimone di giustizia, prevede specifiche misure di vigilanza, tutela fi sica e sostegno economico nella località di origine (da privilegiare rispetto al programma di protezione in località protetta) e il reinserimento sociale e lavorativo. È introdotta anche la fi gura del referente del testimone, volto ad assisterlo nei suoi rapporti con le istituzioni. Commenta Rosy Bindi (Pd): “È una riforma importante e molto attesa, con la quale si supera l’impropria sovrapposizione con la fi gura del collaboratore di giustizia e che rende più garantista, trasparente e personalizzato il trattamento riservato al testimone”. Aggiunge Luigi Gaetti (5stelle): “È la prima volta che ai testimoni, ovvero coloro che denunciano il crimine e il malaffare, viene dedicata una legge su misura”. Confisca allargata applicabile alla corruzione privata di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 2 dicembre 2017 Più spazio per la confisca allargata. Per quella confisca cioè che può essere disposta, nei confronti del condannato e anche in fase cautelare, in tutti quei casi di sproporzione tra reddito dichiarato e disponibilità dei beni. In questa fattispecie non è richiesta la provenienza illecita del bene, che è invece alla base della confisca di prevenzione; si mette in evidenza invece la sproporzione tra reddito dichiarato e valore dei beni, ponendo a carico del soggetto interessato l’onere di fornire la documentazione sulla legittima provenienza del bene stesso. Disposta originariamente come misura di contrasto per alcuni gravissimi reati (associazione per delinquere di stampo mafioso, traffico di stupefacenti, riciclaggio), la misura si è poi progressivamente ampliata. E in questo senso procede anche la disposizione inserita nel decreto fiscale, che peraltro risponde a una preoccupazione espressa dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella al momento della promulgazione delle norme che hanno modificato il Codice antimafia. Allora Mattarella, era il 17 ottobre 2017, scrisse al presidente del Consiglio, rilevando come nel nuovo Codice non fossero state riproposte alcune ipotesi di reato, tra quelle che rendevano possibile la confisca, già inserite dall’articolo 5 del decreto legislativo n. 202 del 2016, di attuazione della direttiva 2014/42/Ue sul “congelamento e alla confisca dei beni strumentali e dei proventi da reato nell’Unione europea”. Così, non era prevista la misura della confisca allargata in seguito a condanna per i reati di associazione a delinquere finalizzata alla commissione delle fattispecie di falso nummario, di indebito utilizzo di carte di credito o di pagamento, dei delitti commessi con finalità di terrorismo internazionale e di alcuni reati informatici, quando le condotte di reato riguardino tre o più sistemi informatici. Adesso, con la disposizione inserita nel decreto fiscale, si rimedia alla “svista”, inserendo nel perimetro della confisca allargata i reati in precedenza esclusi. La misura si estende anche alla corruzione tra privati e, a esserne colpite saranno alcuni figure particolari visto che il reato scatta quando “gli amministratori, i direttori generali, i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, i sindaci e i liquidatori, di società o enti privati che, anche per interposta persona, sollecitano o ricevono, per sé o per altri, denaro o altra utilità non dovuti, o ne accettano la promessa, per compiere o per omettere un atto in violazione degli obblighi inerenti al loro ufficio o degli obblighi di fedeltà”. La pena della reclusione, salvo che il caso costituisca più grave reato, si applica anche a chi ricopre funzioni direttive, dell’impresa o dell’ente privato, diverse da quelle ricordate. Colpito anche l’uso indebito di carte di credito o di pagamento, oppure di qualsiasi altro documento analogo che abiliti al prelievo di denaro contante o all’acquisto di beni o prestazione di servizi. Inoltre, la confisca scatterà per condanna, anche dopo patteggiamento, per alcuni reati informatici, tra cui installazione di apparecchiature per intercettare comunicazioni, falsificazione di comunicazioni, danneggiamento di informazioni, dati e programmi informatici. Il condannato non può giustificare la legittima provenienza dei beni sul presupposto che il denaro utilizzato per acquistarli sia provento o reimpiego dell’evasione fiscale, salvo che l’obbligazione tributaria sia stata estinta nelle forme previste dalla legge. Il risarcimento non cancella il reato di stalking di Selene Pascasi Il Sole 24 Ore, 2 dicembre 2017 Decisa stretta del Governo sullo stalking: il reato non si potrà più estinguere con “condotte riparatorie”, ossia pagando una somma di denaro. A prevederlo, è il comma 1 dell’articolo 2 della legge di conversione del Dl 148/2017 che innesta un ultimo comma all’articolo 162-ter del Codice penale. E specifica come la norma - che prevede l’estinzione del reato nel caso in cui l’imputato abbia riparato interamente al danno cagionato (entro il termine massimo della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado salvo proroghe), tramite le restituzioni o il risarcimento, e ne abbia eliminato, ove possibile, le conseguenze dannose o pericolose - non valga per gli atti persecutori. La giustizia riparativa - Il divieto, teso a sanzionare con maggiore fermezza un crimine gravissimo, viste le subdole ripercussioni sofferte dalla vittima, costretta, di fatto, a modificare abitudini di vita e fronteggiare un perdurante stato di ansia, si lega al più ampio intento del legislatore di evitare lo smantellarsi di una delle più insidiose figure delittuose. Di qui, lo stop ai rimedi previsti dalla cosiddetta giustizia riparativa per condotte, quali quelle moleste oggi non più riparabili con una semplice offerta risarcitoria, come di recente accaduto in seno a una recente vicenda in cui i giudici hanno dichiarato l’estinzione del reato dietro offerta, rifiutata dalla vittima, di 1.500 euro. La procedibilità - Occorre, tuttavia, annotare come la novella abbia inciso solo in parte sul divieto di riparare con esborsi pecuniari le conseguenze pregiudizievoli del reato, laddove la possibilità di ricorrere alle condotte riparatorie per puntare all’estinzione del reato era già circoscritta ai soli delitti procedibili a querela soggetta a remissione. E il delitto di stalking, preme ricordarlo, è punibile a querela soggetta a remissione, proponibile entro sei mesi, soltanto nell’ipotesi base, essendone prevista, invece, l’irrevocabilità nel caso di molestie commesse con minacce reiterate e aggravate, e la procedibilità d’ufficio per talune forme aggravate. Ad appesantirne la pena, la circostanza che a perpetrarlo sia il coniuge, anche separato o divorziato, o una persona che sia o sia stata legata alla vittima da relazione affettiva. Ancora, l’essersi avvalsi di strumenti informatici o telematici, aver diretto la condotta criminosa a danno di un minore, di una donna in stato di gravidanza o di un disabile, l’aver fatto uso di armi o aver agito travisando il proprio aspetto. Divieto a tutto campo Emerge, quindi, all’esito di tali specifiche, la reale portata della novella. Nel precedente assetto normativo, difatti, l’imputato poteva “intascare” l’estinzione del reato se, avanzata un’offerta reale (consegna materiale del denaro), il giudice avesse ritenuto la somma congrua, a prescindere dall’eventuale dissenso della vittima. Non solo. Nelle evenienze di incolpevole inadempimento della riparazione pecuniaria, il codice gli consentiva anche di chiedere al giudice la fissazione di un ulteriore termine, non superiore a sei mesi, per poter mantenere fede alla promessa di assolvere al pagamento, anche rateale, di quanto dovuto alla persona offesa a titolo di risarcimento. E il giudice, accolta la domanda, poteva ordinare la sospensione del processo e fissare una successiva udienza, imponendo, se necessario, puntuali prescrizioni. Iter benevolo, oggi non più ammesso per il delitto di atti persecutori, indipendentemente dalla minore o maggiore gravità del reato. Detenuto in isolamento e responsabilità del medico del carcere di Aldo Antonio Montella (Avvocato) responsabilecivile.it, 2 dicembre 2017 Commento alla sentenza della Corte di Cassazione, Sezione 4°, n° 53150/2017. Prima di addentrarci nell’analisi della sentenza in esame, risulta opportuno ad avviso di chi scrive illustrare brevemente la normativa dettata dal Legislatore, in materia di diritto alla salute del soggetto detenuto. Orbene, la figura del soggetto detenuto-condannato, all’esito della trattazione del processo penale a suo carico, definito con sentenza divenuta irrevocabile, risulta disciplinata dalla Legge n° 354 del 26 luglio 1975, definita Legge sull’Ordinamento Penitenziario (d’ora in poi O.P.), che enuncia diritti, doveri e benefici del medesimo. Ebbene, l’art. 39 co. 2 O.P. sancisce espressamente l’obbligo di sottoporre a costante controllo sanitario il soggetto detenuto, garantendo, di tal guisa, la propria tutela alla salute. In particolare, la norma de qua sancisce la regola cautelare dell’obbligo in capo al sanitario di una certificazione, attestante il regime di compatibilità del detenuto con il sistema carcerario nonché la regola cautelare di sottoporre a costante controllo sanitario il detenuto, nel corso del periodo di espiazione della pena. Ne consegue, dunque, che il sanitario del carcere deve sottoporre a visita medica il detenuto sia all’atto dell’ingresso in carcere, sia nel corso della detenzione, anche se manca una espressa richiesta del detenuto, e segnalare l’eventuale sussistenza di malattie che richiedono particolari cure, anche in strutture esterne all’istituto penitenziario. Ancora, il diritto alla salute della persona in carcere risulta garantito anche dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e dalla Convenzione Edu, che sancisce espressamente il divieto di sottoporre i detenuti a trattamenti disumani e degradanti; dalle Regole penitenziarie Europee e dalla deliberazione approvata dall’Onu nel dicembre del 1982, relativa ai “principi di etica medica per il personale sanitario in ordine alla protezione dei detenuti”, che sancisce l’obbligo in capo al personale medico in servizio presso l’istituto carcerario di prestare le dovute cure ai soggetti reclusi, proteggendo la loro salute fisica e mentale, affinché nei confronti dei medesimi venga assicurato il medesimo trattamento che sarebbe adottato nei riguardi di un soggetto libero. Infine, risulta opportuno segnalare che, nell’ambito della elencazione delle fonti normative poste a fondamento del diritto inviolabile della salute del condannato, vi è altresì la Riforma della Medicina Penitenziaria, operata dal D.Lgs. n° 230/1999, che ha disposto il trasferimento della sanità all’interno degli istituti carcerari dal Ministero della Giustizia al Servizio Sanitario Nazionale. Dunque, fatto questo breve excursus in tema di fonti normative che disciplinano il diritto alla salute del soggetto detenuto, analizziamo, ora quanto sottoposto al vaglio degli Ermellini. Tizio, ferito da colpi di arma da fuoco esplosi dai carabinieri veniva dapprima ricoverato e poi, allorquando le sue condizioni di salute miglioravano, veniva trasferito presso il carcere ove scontava la propria pena in isolamento. Improvvisamente, poi, il suo quadro clinico mutava in negativo e Tizio, all’esito di uno shock emorragico, decedeva. Dunque, ai sanitari in servizio presso l’istituto di pena veniva ascritto in rubrica il delitto di omicidio colposo, in quanto nell’ottica accusatoria costoro avrebbero omesso di effettuare i dovuti accertamenti tecnici, cagionando la morte del detenuto (Tizio). Il medico del carcere, pertanto, all’esito della celebrazione di un processo penale a suo carico, veniva dapprima condannato in primo grado e poi la Corte di Appello, in riforma della sentenza del Tribunale, assolveva l’imputato. I parenti del detenuto, costituiti parte civile nel processo penale celebrato a carico del sanitario del carcere, adivano per i soli effetti civili la Suprema Corte che annullava la sentenza e rimetteva gli atti al giudice civile competente per valore, ritenendo che il medico, in ragione della storia clinica del detenuto, avrebbe dovuto monitorare con attenzione e visite approfondite il paziente e segnalare, in caso di necessità, al direttore del penitenziario la necessità di trasferire il detenuto presso un nosocomio specializzato. Segreto professionale. Sequestro degli atti illegittimo se il reato non è riconducibile di Debora Alberici Italia Oggi, 2 dicembre 2017 La Cassazione rilancia ancora una volta l’importanza del segreto professionale (anche dei giornalisti), della privacy e della vita familiare rispetto ai dati informatici. È infatti illegittimo il sequestro di tutti i documenti dello studio legale, in questo caso relativi agli ultimi 30 anni di attività, senza una riconducibilità precisa all’ipotesi di reato contestato. Lo ha sancito la Corte di cassazione che, con la sentenza n. 53810 del 29 novembre 2017, ha accolto il ricorso di un avvocato presentato contro il sequestro dell’intero archivio informatico, copiato e trattenuto dagli inquirenti. A pesare molto sulla decisione favorevole al legale la giurisprudenza della Cedu, sposata in pieno dalla Suprema corte, che sottolinea “la necessità di una adeguata tutela alla libertà di espressione, secondo quanto disposto dall’articolo 10 della Convenzione (con riferimento alla segretezza delle fonti giornalistiche) e del diritto al rispetto della vita privata e familiare”. Nella vicenda sottoposta all’esame della Corte la vittoria del legale si fonda sul fatto che, per quanto gli inquirenti avessero estratto copia dell’archivio, lui aveva interesse a essere l’unico a potervi accedere, tanto più che riguardavano trenta anni della sua vita professionale, coperta da segreto, e che non era ben chiara la correlazione con il reato contestato al legale, neppure in termini temporali. Di diverso avviso la Procura generale del Palazzaccio. Friuli Venezia Giulia: l’Ass. Panariti “più formazione, per occupabilità ex detenuti” Il Gazzettino, 2 dicembre 2017 La Regione rafforzerà i numerosi interventi di formazione nei confronti delle persone detenute, integrandoli con quelli a favore degli operatori impegnati nel contrasto all’esclusione sociale delle persone maggiormente vulnerabili. Lo ha annunciato l’assessore regionale Loredana Panariti intervenendo oggi a Udine al convegno “Dal carcere al territorio, opportunità e risposte inclusive” organizzato dall’Unione territoriale intercomunale del Friuli centrale e dal Ministero della giustizia. Panariti ha ricordato che la Regione, nel 2018, calendarizzerà un programma di interventi formativi rivolti a tutti gli operatori del sistema territoriale; l’obiettivo è quello di contrastare l’esclusione sociale e rafforzare conoscenze, abilità e competenze di quanti operano in questo settore nonché di favorire la diffusione di buone prassi e migliorare il coordinamento degli interventi e le relazioni inter-istituzionali. “In questo modo - ha ricordato l’assessore - la rete territoriale potrà farsi carico con maggiori possibilità di successo delle persone che, uscite dal carcere, cercano un lavoro”. Nel suo intervento, a conclusione della prima giornata di lavori, Panariti ha ricordato l’attività svolta dalla Regione “che negli ultimi due anni ha investito oltre due milioni di euro in questo settore, coinvolgendo circa 400 dei 675 detenuti presenti nei penitenziari del Friuli Venezia Giulia”. L’assessore ha inoltre evidenziato come la formazione deve essere sempre più orientata al lavoro. “Ed è per questo motivo - ha detto - che la formazione congiunta di tutti i soggetti pubblici e privati è centrale. Abbiamo bisogno che la qualificazione degli ex detenuti si trasformi in lavoro, ed è necessario che si integri con le necessità e le professionalità richieste dalle aziende. Gli sforzi vanno concentrati proprio su quest’ultima fase, attraverso un maggiore coinvolgimento del sistema produttivo. L’intento è quello di fare in modo che queste persone, terminata la fase di formazione, possano poi trovare un’occupazione capace di ridare loro dignità e umanità”. Infine Panariti ha ricordato che la Regione valorizzerà quelle aziende che dimostrano di avere una sorta di responsabilità sociale e che quindi si dichiarino disponibili ad assumere quanti hanno compiuto un percorso di qualificazione professionale. Toscana: i detenuti prendono la laurea, nelle carceri regionali 400 iscritti all’Università Redattore Sociale, 2 dicembre 2017 Oltre mille gli esami sostenuti e 42 laureati nel progetto portato avanti dal 2000 dalla Regione. L’assessore Saccardi: “Il nostro Polo universitario è l’unico a livello nazionale sostenuto anche con fondi della Regione e con estensione regionale”. Quattrocento iscritti, 42 laureati e mille esami sostenuti. Sono i numeri dell’Università in carcere, esperienza partita nel 2000 in Toscana che si svolge dentro alcuni istituti penitenziari della regione. “Siamo stati una delle prime regioni ad avviare un progetto compiuto sulla formazione Stefania Saccardi. E il Polo universitario attivato qua è l’unico a livello nazionale sostenuto e universitaria in carcere - ha detto l’assessora regionale alle politiche sociali St anche con fondi della Regione e con estensione regionale”. Nell’ambito del progetto, tanti docenti, laureati, laureandi, tutor, dottorandi e volontari si sono recati nella varie strutture penitenziarie. Nel 2017, limitatamente all’Ateneo fiorentino, gli iscritti sono 43 con 13 nuove immatricolazioni, dato in linea con il trend degli ultimi anni (10-15 nuove immatricolazioni l’anno per ciascun Ateneo). Toscana impegnata in prima linea “Forse non è un caso che questo convegno si faccia proprio a Firenze e che la Toscana possa giocare un ruolo centrale nel costituendo coordinamento nazionale dei Poli Universitari. Siamo stati una delle prime regioni ad avviare un progetto compiuto sulla formazione universitaria in carcere. E il Polo universitario attivato qua è l’unico a livello nazionale sostenuto anche con fondi della Regione e con estensione regionale”. Lo ha detto l’assessore regionale Stefania Saccardi stamani intervenendo al convegno nazionale “L’Università in carcere - l’esperienza dei poli universitari penitenziari” organizzato dalla Regione, dalle tre Università di Firenze, Pisa e Siena e dall’Università per stranieri di Siena, oltre che dal Garante regionale dei diritti dei detenuti della Toscana, dal Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria della Toscana e dell’Umbria, dall’Associazione volontariato penitenziario Onlus e dal Cesvot. “Il compianto professor Margara - ha proseguito Saccardi - fu uno dei primi a introdurre questa possibilità ed il progetto ha via via preso corpo inserendosi in quello che è il dettato costituzionale. Per un paese ed una regione che vogliono garantire a tutti le stesse opportunità in questi ambiti credo sia doveroso avere un progetto come questo. E credo sia anche dovere della Regione, e delle altre istituzioni, occuparsi di questi spazi, le carceri, che sono un pezzo del proprio territorio”. Saccardi ha poi ricordato alcune delle azioni che uscivano anche direttamente dalle competenze regionali, come il percorso di lunga data dei Teatro in carcere, la fornitura di materassi, quella dei ventilatori, dei libri di testo per la scuola e di narrativa in dieci lingue straniere più presenti. “La Regione - ha quindi detto - rispetto al diritto alla formazione universitaria in carcere, è sempre stata presente in tutte le fasi in cui è stato concepito e avviato l’accordo che lo prevede. Nello sviluppo del progetto va sottolineata la condivisione degli obiettivi con gli altri soggetti coinvolti, a partire dal volontariato, dei tre Atenei toscani e dell’Amministrazione penitenziaria. Senza questa collaborazione non avremmo potuto muovere passi fondamentali”. Il progetto ha una doppia valenza: puntare al reinserimento sociale dei detenuti che decidono di frequentare l’università e fornire loro un bagaglio formativo fondamentale una volta usciti dal carcere. Per accompagnare questo percorso, sarà aperto presto un bando con risorse FSE per facilitare il reinserimento lavorativo delle persone che escono dal carcere. “Credo che l’interesse ad avere una crescita ordinata della società - ha concluso Saccardi -, che coincide con la possibilità di dare a tutti le stesse opportunità, sia un obiettivo possibile, nel quale la Regione crede. Diamo seguito a tutto questo con l’auspicio che il numero dei detenuti impegnati in percorsi di formazione universitaria possa aumentare”. Le caratteristiche del progetto Dall’avvio del progetto, nel 2000, il numero di iscritti in Toscana è di oltre 400. Oltre la metà riguarda il polo universitario fiorentino. Poi vengono Pisa e Siena. I laureati finora sono stati 43, numero che non va messo in relazione stretta col numero di iscritti perché i percorsi per arrivare alla laurea in carcere sono molto complessi. A tutto questo va poi aggiunto il numero altissimo, e al momento non facilmente quantificabile, di docenti, laureati, laureandi, tutor, dottorandi e volontari che in tutti questi anni si sono recati nella varie strutture penitenziarie. Nel 2017, limitatamente all’Ateneo fiorentino, gli iscritti sono 43 con 13 nuove immatricolazioni, dato in linea con il trend degli ultimi anni (10-15 nuove immatricolazioni l’anno per ciascun Ateneo). Prima esperienza in Italia è il carcere delle Vallette a Torino, nel 1998. Firenze è partito nel 2000, quando a capo dell’amministrazione penitenziaria c’era Alessandro Margara che stimolò l’avvio del progetto che poi si è esteso agli altri Atenei. La Regione Toscana, cui spettano il coordinamento, la promozione lo stanziamento di risorse, è sempre stata presente anche con la firma degli aggiornamenti dell’accordo nel 2010, 2014 e 2017. Santa Maria Capua Vetere (Sa): il Garante regionale “in carcere l’acqua è gialla” Il Mattino, 2 dicembre 2017 “Si può costruire un carcere senza condotta idrica?”, A sollevare il caso è il garante dei detenuti della Regione, Samuele Ciambriello, che ha visitato la struttura di Santa Maria Capua Vetere, dove sono ristretti 960 detenuti, di cui 60 donne. “Ad oggi il Comune ha provveduto solo alla progettazione per l’impianto idrico”, spiega. “Da gennaio partirà la realizzazione dell’appalto, quindi ancora tempi lunghi e la certezza che nel periodo estivo anche dell’anno prossimo ci saranno problemi idrici in tutto l’istituto. In molti casi, dai rubinetti escono residui di impurità che la rendono scura, gialla, certamente non potabile. L’amministrazione penitenziaria approvvigiona quotidianamente due litri d’acqua al giorno per uso personale e per cucinare”. Lo fanno, significa che l’interesse del minore non è la priorità e occorre proporre un modello alternativo. Per questo, c’è anche il progetto Liberi di scegliere”. Quali tutele ci sono invece per i figli di detenuti? “Abbiamo siglato un protocollo con il ministero di giustizia e le associazioni per sensibilizzare le autorità giudiziarie a incentivare contatti e creare spazi in carcere dedicati ai più piccoli e ai ragazzi. Un programma prevede partite calcio tra genitori e figli. E ogni tre mesi un tavolo tecnico monitora l’attuazione dei progetti”. Risultati? “Stiamo registrando un incremento degli spazi per colloqui, quindi il protocollo nella prima fase di attuazione si sta rivelando proficuo. Ovviamente, resta tanto da fare”. Un altro tema è quello di garantire sostegno ai figli dei migranti, più a rischio se non sono accompagnati. “Ora c’è una legge importante, la 47, prima in Europa, che dà garanzie e chiama a raccolta i cittadini: abbiamo promosso una campagna di sensibilizzazione con cui a tutti chiediamo di diventare tutori volontari dei diciannovemila ragazzi che hanno affrontato mare e deserto e hanno bisogno di aiuti nel nostro paese. Qualsiasi cittadino può fare la domanda: basta andare sul sito dell’autorità a aderire all’attività, al momento totalmente gratuita”. Poi ci sono gli orfani di femminicidio: è attesa una legge per tutelare questi bimbi. “Misure decisive. Per questo motivo, abbiamo appena inviato una nota riepilogativa al presidente della commissione d’inchiesta in Parlamento e più volte caldeggiato una rapida approvazione della proposta di legge necessaria per affrontare problemi enormi, dalle relazioni familiari alle pensioni di reversibilità”. Fermo (Ap): Antigone Marche “il carcere di tra problemi strutturali e apertura” viverefermo.it, 2 dicembre 2017 Sovraffollamento e mancanza di spazi adeguati, i punti deboli. Più interscambio con l’esterno e una sorveglianza dinamica che dà buoni risultati, gli elementi di forza. È la fotografia dell’istituto penitenziario visitato, il 24 novembre, dalle volontarie dell’associazione regionale Sovraffollamento, carenze strutturali, ma maggiore apertura ad una città che si dimostra a sua volta più accogliente e una sorveglianza dinamica che, nella parte della reclusione, dà riscontri positivi. È la fotografia scattata dalle volontarie dell’Osservatorio di Antigone Marche che, lo scorso 24 novembre, hanno effettuato la visita nella Casa di Reclusione di Fermo. I detenuti presenti al momento della visita erano 59, quando i posti regolamentari sono 41 (per la capienza regolamentare la fonte è il Ministero di Giustizia). Un tasso di affollamento che nelle settimane passate era addirittura ben più alto, con una popolazione reclusa arrivata a toccare le 73 presenze. Gli spazi ridotti e le geometrie irregolari rappresentano una delle maggiori criticità dell’Istituto in quanto ogni attività della vita quotidiana, dalle attività ricreative alla scuola, dai colloqui con i parenti a quelli con avvocati e magistrati, fino alle visite mediche, risente dei rilevanti limiti strutturali dell’ex convento del fermano adibito a carcere negli anni 30. Un elemento, questo della carenza di adeguati spazi, che però non è nuovo, purtroppo. Quello che, invece, è cambiato rispetto al passato, assumendo contorni del tutto positivi, è l’apertura più accentuata della struttura al territorio, con una maggiore integrazione tra la comunità ristretta e libera e un buon numero di volontari e corsi all’interno del carcere. Altro elemento importante da sottolineare, così come emerso dalla visita, è quello relativo alla sorveglianza dinamica, ovvero un approccio basato meno sul controllo continuo e costante della persona reclusa e su una sua maggiore autonomia all’interno della sezione. Applicata per la “sezione reclusione”, la sorveglianza dinamica sta dando riscontri positivi ed è, per questo, ormai metabolizzata dagli operatori, mettendo d’accordo sia l’area educativa sia gli operatori della sorveglianza. Diversa, invece, è la situazione delle persone che si trovano nella sezione circondariale che, ad oggi, vista la collocazione delle camere di pernottamento, non fruisce di questo tipo di sorveglianza più aperta. Carinola (Ce): accordo con “Mutti”, le conserve di pomodoro saranno prodotte in carcere Il Mattino, 2 dicembre 2017 Coltivare pomodori per produrre poi conserve di pomodori. Un modo per rieducare in carcere. Così, il capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Santi Consolo e l’amministratore delegato della Mutti spa, Francesco Mutti, hanno siglato un protocollo d’intesa per la creazione di un laboratorio per la produzione e confezionamento di pomodori nella casa circondariale di Carinola. L’accordo, si legge in una nota del Dap, prevede la coltivazione di pomodori nel campo agricolo dell’istituto e la trasformazione in conserve. Inoltre, la progettazione del laboratorio, la definizione dei cicli e dei tempi di produzione e un percorso finalizzato a formare persone detenute, per ciascuna fase di lavorazione. Il marchio Mutti mette a disposizione ai soli fini sociali oltre al proprio know how, il personale specializzato per la realizzazione e la supervisione dei prodotti realizzati dal lavoro delle persone detenute nella casa circondariale di Carinola. “Con la firma del protocollo d’intesa - spiegano i protagonisti - si aggiunge un tassello per la promozione e il sostegno del lavoro penitenziario, per l’accrescimento delle competenze delle persone detenute ai fini della loro riabilitazione e della prevenzione della recidiva”. Il progetto è stato realizzato dalla “Struttura Organizzativa di Coordinamento delle attività lavorative” istituita nell’ufficio del capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Vercelli: diventare cuochi dietro le sbarre di Andrea Zanello La Stampa, 2 dicembre 2017 Sono quattordici i partecipanti: avranno un diploma dopo 3 anni di lezioni. Dal 2004 si diventa cuochi dietro le sbarre. Anche quest’anno è partito il corso dell’alberghiero Soldati di Gattinara nel carcere di Biliemme. Siamo al 14° anno: confermata la collaborazione con Coop che fornirà le materie prime per le lezioni degli aspiranti cuochi. Il patto tra scuola e supermercato, suggellato l’anno scorso, è stato rinnovato nel punto vendita vercellese di largo Chatillon e presentato dal preside Alberto Lovatto e Carla Bezzegato, referente area Coop per il Vercellese. Con loro Paolo Baltaro, professore referente del progetto. Importante il contributo dell’associazione Donne e Riso e il lavoro dell’area educativa del carcere coordinata da Valeria Climaco. Il progetto è nato nel 2004 quando il preside era Alessandro Orsi: da allora sono una trentina i detenuti che sono riusciti a diplomarsi. Per il 2017 i detenuti coinvolti sono 14: sette italiani e sette stranieri, il più giovane ha 22 anni, il più vecchio 49. Sono al loro secondo anno, dopo il percorso iniziato nel 2016. Ogni anno le classi cambiano: più che le bocciature a ridisegnare l’assetto dei registri sono trasferimenti in altre carceri o fine della pena, con i detenuti che possono tornare in libertà. Dal 2004 i corsi completati sono stati quattro: per 24 ore a settimana a rimanere chiusi in cella sono i pensieri dei detenuti, la cui concentrazione è sulla cucina. Il monte ore è lo stesso di quello che affrontano gli studenti e l’attività pratica si svolge nella cucina del carcere. Dietro al progetto c’è anche un lavoro oscuro non da poco del personale carcerario, a partire dalla selezione dei candidati al corso che non è aperto a tutti: chi è dentro per un reato violento è tagliato fuori, perché in cucina per ragioni didattiche si maneggiano i coltelli. Durante le lezioni in aula o in cucina insieme al docente c’è una guardia: “Per i detenuti è l’occasione di imparare un mestiere dignitoso e ben pagato. È un’opportunità di formazione soprattutto per gli stranieri: una volta che tornano nel loro paese, a pena scontata, sono cuochi con un diploma italiano. Qualcuno dei ragazzi che ha terminato il ciclo di studi e ottenuto il diploma una volta libero ha aperto un ristorante”. Coop ha diversi progetti in carcere: a Verbania ha attivato il progetto di formazione per detenuti “Banda Biscotti”, poi ci sono iniziative legate a caffè e birra e pane. Reggio Calabria: in cella per una foto su Fb, ma era tratta da “Romanzo Criminale” di Simona Musco Il Dubbio, 2 dicembre 2017 Quattro uomini con i volti nascosti da un passamontagna. Nelle loro mani altrettante armi, tra le quali una micidiale pistola mitragliatrice Beretta M12/ s, in dotazione alle forze di polizia. Una foto che la polizia stessa rintraccia sul profilo Facebook di un ragazzo di 28 anni su cui sta indagando la Dda di Reggio Calabria e che i pentiti della Locride descrivono già come “un uomo d’onore”, con in mano la dote di “malandrino”. E quella foto è stata ritenuta grave indizio del possesso di quelle armi infallibili. Sull’identità di quegli uomini la polizia non ha dubbi: è lo stesso titolare della pagina Facebook a svelarla, “laddove identificherà (per utilizzare un termine tecnico taggherà) le persone armate, individuandole con tanto di nome e cognome”. Ma quella foto pubblicata anni fa, scrive oggi il giudice per le indagini preliminari, è in realtà un fotogramma della serie “Romanzo Criminale”. Il giudice ha così revocato quel singolo capo d’accusa, mandando gli atti “all’ufficio di procura perché si accertino eventuali responsabilità in merito ai soggetti che avrebbero effettuato il riconoscimento”. I quattro protagonisti della vicenda sono Paolo Benavoli, titolare del profilo incriminato e presunto “malandrino” di Brancaleone e i suoi amici Alessio Falcomatà, Francesco Patea e Vincenzo Toscano. Tutti finiti nell’inchiesta “Banco Nuovo”, i primi tre in carcere, l’ultimo ai domiciliari e accusato solo per quella foto, che ha portato però al ritrovamento, al momento dell’arresto, di una pistola con matricola abrasa. Per gli altri tre cade ora l’accusa legata all’immagine, ma rimangono in carcere con l’accusa di associazione mafiosa. Tante le armi ritrovate nel corso delle indagini, riconducibili, secondo la procura antimafia, al “Banco Nuovo”, ovvero la nuova locale nata dalle ceneri della faida tra i “Palamara-Scriva” e i “Mollica- Morabito” e che si occupava principalmente di appalti e droga. Osservando quella foto la polizia aveva ricondotto ai quattro ragazzi le armi utilizzate dai personaggi che nel celebre film interpretano i componenti della banda della Magliana. “Toscano - si legge nell’ordinanza di custodia cautelare - imbraccia una pistola mitragliatrice Beretta M12/ s; Falcomatà impugna una pistola a tamburo presumibilmente in calibro 38 o 44, Benavoli stringe nella mano destra una pistola semiautomatica marca Beretta modello 92 in calibro 9 parabellum (militare) o in alternativa il modello 98 in calibro 9x21 (civile), Patea altra pistola a tamburo, una micidiale 357 magnum”. Alla “taggatura” si era aggiunto il riconoscimento effettuato dagli uomini del commissariato, che nonostante i passamontagna, sarebbero riusciti ad individuare i giovani “anche grazie ai diversi caratteri antropometrici che li caratterizzano”. Sembrava tutto chiaro. Ma è stato lo stesso pm a sollevare dubbi sulla loro identificazione “e sulla stessa sussistenza del reato in questione”. “Sia nella richiesta cautelare sia nell’informativa del commissariato di polizia veniva indicata dalla pg la certezza del riconoscimento degli indagati - scrive il gip Antonino Foti. In data odierna, lo stesso commissariato sostiene che un’attenta e scrupolosa disamina, per il tramite della diffusione della stessa immagine nell’ambito dei più comuni motori di ricerca ha consentito di evidenziare che la stessa immagine appariva quale foto rievocativa pubblicitaria della nota fiction televisiva “Romanzo Criminale” e che era circolante in rete dal 2005, indicando, pertanto, l’esistenza di un errore nel riconoscimento antropometrico, a suo tempo, effettuato in fase di indagini”. Da qui la necessità di revocare quell’accusa. Ma la Dda non si è limitata a quella foto, individuando nel gruppo una nuova cellula della criminalità organizzata, quella dei “Cumps”, i compari, come si definivano a corredo di quelle immagini che li ritraggono sempre in compagnia. Appellativo, si legge nell’ordinanza di custodia cautelare del 7 novembre scorso, “indicativo del legame tra i ragazzi tanto da essere inserito nei profili Facebook di alcuni di essi, unitamente alle foto da cui, come sopra accennato, è stato possibile cogliere la circostanza che il sodalizio era armato. Inoltre, l’utilizzo di questo linguaggio convenzionale e allo stesso tempo “riservato”, mette in rilievo la volontà dei sodali di distinguersi dagli altri e di evidenziare il loro particolare legame”. Per la distrettuale antimafia, quel legame è la colonna vertebrale di un gruppo di aspiranti ‘ndranghetisti “di nuova generazione” attivi in un lembo di terra da sempre considerato nelle mani dei clan di Africo. Una cellula che si sarebbe occupata, per l’appunto, di armi e stupefacenti, nonostante la giovane età dei suoi componenti. E quella foto, anche se inutile ad accertare qualsiasi tipo di reato, rappresenta per la Dda comunque un modo di pensare - e stando alle accuse di agire - di quei giovani. Tanto che viene richiamato in causa sempre il social network: “la stessa attività svolta sul profilo Facebook di Falcomatà, permetteva poi di trarre il convincimento investigativo che quest’ultimo unitamente a Benavoli ed agli altri indagati avessero di fatto costituito un sodalizio, caratterizzato da un’elevata propensione all’uso delle armi e pertanto dotato di un elevato potere di deferenza”. Palermo: quei bimbi costretti a fare i criminali di Francesco Patanè e Giusi Spica La Repubblica, 2 dicembre 2017 Spacciatori a sei anni, parcheggiatori abusivi a dieci, ladri di rame a dodici, borseggiatori sugli autobus a tredici. Sono sempre di più i bambini e i ragazzini con meno di 14 anni che commettono reati, molto spesso spinti dagli adulti che sfruttano il loro non essere perseguibili dalla legge. Quello del bimbo di sei anni che a Catania spacciava marijuana e cocaina, immaginando che fosse un gioco, è solo l’ultimo episodio di under 14 assoldati dalle organizzazioni criminali: “I minori vengono sfruttati perché non destano sospetti - conferma la procuratrice del tribunale dei minori, Maria Vittoria Randazzo - sono facili da convincere e non pagano conseguenze penali. Sono dei collaboratori perfetti, specie se fanno parte del nucleo familiare di chi li avvia al crimine”. Spesso agiscono in baby gang formate da ragazzi di 16 e 17 anni a cui i più piccoli si aggregano. Alcuni mesi fa la polizia ha scoperto una banda che svaligiava appartamenti nella zona di piazza Marina. Nella banda di cinque ragazzini, il più piccolo faceva da palo e avvisava i compagni del possibile pericolo. Ma è sugli autobus che gli under 14 diventano protagonisti: sono decine i ragazzini pizzicati sulla linea 101 a borseggiare i passeggeri. Salgono in zona stadio ed entrano in azione lungo via Libertà. “Alcuni anni fa - racconta la procuratrice Randazzo - nella zona della Stazione centrale fu persino scoperta una vera e propria scuola di borseggiatori dove gli adulti insegnavano ai bambini le tecniche per sfilare borse e portafogli ai passeggeri del 101”. Dallo Zen a Brancaccio, da Ballarò al Cep, il fenomeno è molto diffuso. A Brancaccio la polizia ferroviaria lo scorso anno ha sgominato una baby- gang di ragazzini tutti sotto i 12 anni che si era specializzata nel furto di cavi di rame. Due di questi ladri vennero sorpresi mentre stavano rubando 30 metri di cavi vicino alla stazione di Brancaccio. Furono portati in commissariato dove non dissero una parola fino all’arrivo dei genitori a cui vennero riconsegnati. I ragazzini vennero segnalati agli assistenti sociali. “Accade spesso che genitori senza scrupoli sfruttino i loro figli per compiere azioni simili, confidando sulla loro non imputabilità”, spiegano dalla questura. Un fenomeno diffuso anche nelle città più piccole. “Quando ero in servizio a Marsala - racconta la procuratrice dei minori - abbiamo scoperto una banda che usava i bambini come corrieri di droga perché non davano nell’occhio”. L’unica possibilità di salvarli - secondo gli esperti - è riportarli a scuola. Il Comune di Palermo ha creato un ufficio ad hoc, che si occupa di giustizia riparativa e di mediazione penale. In servizio ci sono 14 mediatori tra assistenti sociali, psicologi e avvocati che si occupano di minori autori di reato ma non imputabili segnalati dalla procura. “Il nostro lavoro - spiega la responsabile Dorotea Passantino - consiste nel cercare l’incontro tra il minore e le vittime. Al momento seguiamo circa venti bambini, ma c’è grande turn over”. Ma la vera sfida è la prevenzione nelle scuole: “Spesso i presidi degli istituti dove ci sono situazioni a rischio ci chiamano per fare incontri sulla legalità. Quest’anno siamo stati allo Zen, allo Sperone, a Brancaccio”, spiega la psicoterapeuta. Spesso per salvare i bambini bisogna sottrarli al contesto familiare di provenienza. A deciderlo è la procura dei minori che invia la segnalazione ai servizi sociali del Comune di appartenenza. “Le strade - spiega l’assessore al Sociale del Comune di Palermo, Giuseppe Mattina - sono due. La prima è inserire il minore in una comunità alloggio, ma questo avviene solo per i reati più gravi e i contesti familiari più degradati. La seconda via, più battuta, è affidare ai servizi sociali l’intero nucleo familiare in cui vive il bambino”. I casi di under 14 che arrivano alla Procura per i minorenni sono solo il 10 per cento di tutte le segnalazioni, nonostante la criminalità organizzata continui a pescare le nuove leve fra i giovanissimi, soprattutto nelle periferie. Firenze: i Radicali in vista a Sollicciano “problema anche fare una doccia calda” ilsitodifirenze.it, 2 dicembre 2017 Delegazione Radicale in visita al carcere di Sollicciano di Firenze insieme a una delegazione dell’associazione per l’iniziativa radicale “Andrea Tamburi” e dell’Osservatorio Carcere della Camera Penale. Presenti Rita Bernardini, Massimo Lensi e i rappresentanti delle associazioni. “Il carcere fiorentino di Sollicciano sta peggiorando - ha spiegato Lensi - al suo interno è sempre più difficile intraprendere seri e proficui percorsi rieducativi, o anche solo scontare la pena senza mortificare la dignità del ristretto. Ostacoli enormi di natura strutturale e organizzativa minano in partenza qualunque sforzo di quanti, agenti di polizia penitenziaria, educatori, volontari, si trovano a lavorare e operare nel carcere di Sollicciano”. “Il sovraffollamento è ormai cronico - prosegue Lensi - e ieri c’erano 715 detenuti (di cui circa 70% stranieri) a fronte di una capienza regolamentare di 494 posti, alcuni dei quali peraltro indisponibili per varie ragioni”. “Da lungo tempo noi radicali - ha aggiunto l’esponente radicale - insieme al cappellano Don Vincenzo Russo e al consigliere comunale Tommaso Grassi, chiediamo alle istituzioni fiorentine di stringere e rafforzare l’integrazione del carcere di Sollicciano con la città. “Occorre - ha proseguito Lensi elencando alcuni aspetti “pratici” - che Comune di Firenze e Regione Toscana potrebbero affrontare subito, ripristinare un decente collegamento Ataf con il carcere per facilitare le visite ai detenuti da parte dei familiari, spesso indigenti, o attivare una agenzia di lavoro per ex detenuti e inserire nei bandi per la manutenzione del verde pubblico o dell’edilizia pubblica l’obbligo di assunzione di due o tre detenuti. “Ci sono poi aspetti più complessi sui quali pure le istituzioni locali possono fare molto: concorrere a ripristinare la sorveglianza dinamica, garantendo ai detenuti almeno qualche ora fuori dalla cella, a rifare i passeggi interni e porre mano in modo serio ai sistemi di riscaldamento e ai servizi sanitari (fare una doccia calda è ancora problematico a Sollicciano). Prendiamo atto che finalmente si è riusciti ad aprire il nuovo reparto di Transito, inaugurato ieri in nostra presenza, ma ci occorre l’obbligo di rimarcare che esso è ancora privo di passeggio per garantire l’ora d’aria”. Secondo Lensi servirebbe “creare un fronte operativo e civico di persone che intendono occuparsi del rispetto della legalità costituzionale nel carcere, per far sì che la rieducazione e il reinserimento sociale non siano solo vuoti concetti, ma una realtà - ha concluso - un fronte che deve partire spontaneamente dalla società, da chi nel carcere opera e lavora e dal mondo della politica, dell’avvocatura e della magistratura”. Ancona: i detenuti sceglieranno il vincitore del premio “Ristretti Oltre le Mura” di Valentina Stella Il Dubbio, 2 dicembre 2017 Inizia oggi ad Ancona - e si concluderà il 9 dicembre la 14° edizione del Corto Dorico Film Festival, il primo ad essere dedicato al mondo dei cortometraggi italiani. Quest’anno si aggiunge la novità di una pre-finale al carcere anconetano di Barcaglione, dove i detenuti potranno votare uno dei corti finalisti - in anteprima sulla serata del 9 dicembre - e consegnare a esso il premio del pubblico della Casa di reclusione di Barcaglione. “Corto Dorico è da sempre un Festival profondamente legato al sociale - commentano al Dubbio i co-direttori del Festival Daniele Cipri e Roberto Nisi - Dal premio Amnesty International al lavoro con i migranti, quest’anno, questo progetto mirato all’integrazione dei mondi sommersi o marginali, presenti nella nostra società, si espande, creando una vera e propria Sala delle Comunità, nell’ultimo cinema di un quartiere ad alta densità di immigrati. Al contempo, Corto Dorico, supererà le mura del carcere, per portare i cortometraggi finalisti, in anteprima assoluta, alla Casa di Reclusione di Ancona-Barcaglione dove, i detenuti stessi avranno modo di vedere e decretare il film favorito al quale verrà assegnato il 1° premio “Ristretti Oltre le Mura”. Un’occasione unica ed ulteriore per continuare quell’opera di unificazione, anche simbolica, di realtà sociali tenute sempre più ai margini o totalmente escluse. Fa loro eco l’avvocato Andrea Nobili, Garante per i diritti dei detenuti delle Marche che si è fatto promotore di quattro appuntamenti nella carcere marchigiano, diretto dal dottor Maurizio Pennelli: “Stiamo cercando di costruire relazioni tra eventi culturali, manifestazioni importanti come questa che si svolge nella città di Ancona e gli istituti penitenziari, con l’obiettivo di ridurre la distanza tra il carcere e la società. Il cinema è visto dunque come elemento di un percorso trattamentale che però ha anche un valore politico: il detenuto non si confronta solo con un elemento culturale ma c’è anche la costruzione di una relazione con la società che vive fuori dal carcere. In questa occasione, infatti, sarà possibile entrare in carcere per un numero ovviamente limitato di persone che al termine della proiezione saranno protagoniste di un dibattito”. Altri tre appuntamenti che il Garante regionale dei diritti ha voluto nella sua agenda riguardano direttamente le tematiche legate all’immigrazione. Per l’occasione il “Cinema Italia” di Piano San Lazzaro, uno dei più rappresentativi in quanto a presenze multietniche, si trasformerà in una grande “Sala delle Comunità”. Il 6 dicembre proiezione di “Street Opera” di Haider Rashid, a cui farà seguito un incontro con l’autore, mentre per il 7 è in programma “Banksy does New York” di Chris Moukarbel. Nella stessa giornata, infine, arriva “Piazza Vittorio”, il film documentario del regista Abel Ferrara, presentato fuori concorso alla Mostra del Cinema di Venezia. Protagonista il quartiere romano di cui fa parte l’omonima piazza, diventato nel corso del tempo il crocevia di diverse etnie e il luogo di residenza di artisti e personalità legate al mondo del cinema. Ferrara: volontariato, un percorso di formazione per aiutare l’inclusione dei detenuti estense.com, 2 dicembre 2017 Un impegno concreto per il percorso umano di riscatto e inclusione sociale dei detenuti. È questo l’obiettivo del percorso di formazione che Comune di Ferrara, casa circondariale di Ferrara, Agire Sociale Csv e garante dei diritti dei detenuti promuovono per tutti i volontari e cittadini interessati ad avvicinarsi alle buone pratiche di solidarietà e giustizia riparativa. L’iniziativa si articolerà in cinque incontri dal 17 gennaio al 13 febbraio a Ferrara, con la partecipazione tra i relatori di referenti di Comune, Comitato Carcere, Csv, Asp, Ufficio Esecuzione Penale Esterna di Bologna, di direttore, comandante ed educatrici del carcere, garante, Uepe e Azienda Usl, Fabian Lung mediatore interculturale e portavoce del gruppo “Una Via”, volontari e operatori attivi in carcere. I contenuti del corso mirano a offrire una prima conoscenza dell’istituto penitenziario di Ferrara, dalle normative e regolamenti alle misure di esecuzione penale esterna. Nel corso degli incontri i potenziali volontari riceveranno indicazioni e conosceranno buone prassi utili per essere presenti in modo competente nel contesto carcerario che non è di immediata comprensione, ma anche per contribuire a tessere ponti e relazioni dentro e fuori dal carcere tra casa circondariale e comunità ferrarese. Dopo la fase teorica, i volontari saranno affiancati da altri operatori e volontari con pregressa esperienza. In seguito chi lo vorrà potrà aderire alla proposta di accompagnamento in esterno dei dimittendi e di detenuti che possono godere di permessi o partecipare ad attività esterne. Il corso fa parte del progetto “Cittadini sempre” finanziato dal Comune di Ferrara all’interno dei progetti dei Piani di Zona e su indicazione del Comitato Carcere locale e viene proposto nell’ambito dell’Università del Volontariato di Ferrara. Iscrizioni aperte fino al 13 gennaio ad un massimo di 30 partecipanti: segreteria@agiresociale.it - tel. 0532.205688. Programma dettagliato sul sito www.univol.it/corsi/percorso-formativo-volontariato-carcere Forlì: tre giornate a per il Festival Human Rights Nights magazine.unibo.it, 2 dicembre 2017 Spettacoli teatrali, proiezione di film, mostre, incontri e testimonianze per portare al centro dell’attenzione i diritti umani, le migrazioni, le donne, le memoria e la Palestina. Torna a Forlì, dal 4 al 6 dicembre, il Festival Human Rights Nights di cinema arte e musica dei diritti umani, organizzato da Human Rights Nights, promosso dal Campus di Forlì dell’Università di Bologna con il patrocinio dell’Assessorato alla Cultura del Comune di Forlì e la collaborazione del Centro Diego Fabbri e diverse associazioni impegnate a Forlì sui diritti umani e l’integrazione. L’iniziativa, che si terrà al Teaching Hub (Viale Corridoni, 20) e per una serata di teatro alla Fabbrica delle Candele (Piazzetta Corbizzi, 9/30), prevede la proiezione di oltre 15 film sul tema dei diritti umani in diversi formati - lungometraggi e corti, documentari e fiction, una mostra di fotografia, performance di teatro e musica, accompagnati da incontri di approfondimento con artisti, esperti ed attivisti, in previsione del contest fotografico previsto per studenti universitari. Si apre la sera di lunedì 4 dicembre, alle 8, nella Sala Teatro della Fabbrica delle Candele, con lo spettacolo teatrale Acqua di Colonia. Zibaldino Africano della Compagnia Teatrale Frosini/Timpano, realizzato con la regia ed interpretazione di Elvira Frosini e Daniele Timpano e con la consulenza di Igiaba Scego. Uno sguardo alla nostra storia coloniale, dimenticata o rinnegata ma attualissima nell’influenza su questioni contemporanee in Italia, tra razzismi, tensioni e pregiudizi. All’inaugurazione saranno presenti Felix San Vicente e Raffaella Baccolini (Università di Bologna) e Giulia Grassilli (Human Rights Nights). Lo spettacolo sarà seguito la mattina seguente da un incontro con attori e registi, insieme allo scrittore Antar Mohamed Marincola e Anna Luisa Sentinelli. Al Teaching Hub si svolgerà il cuore della rassegna, anticipata lunedi 4 dicembre alle 18, con l’apertura della mostra fotografica Humans of Human Rights di Gianluca Iarlorio e l’installazione video Conflitti e Resistenze. Nei giorni seguenti, il 5 e 6 dicembre, seguiranno proiezioni di film accompagnate da dibattiti e incontri, per affrontare i temi dell’integrazione, le migrazioni, le questioni di genere e violenza, il business delle carceri in USA. Tra i film, Les Sauters, una testimonianza di Abou Babar Sidibè sulla situazione dei migranti al confine con Ceuta e Melilla, I Am not Your Negro di Raoul Peck sulla figura di James Baldwin, 13th di Ava du Vernay sul business delle carceri in USA, i cortometraggi Hymenee, Ali Velate e Good News sui tema dei diritti delle donne e delle bambine, una selezione dei migliori film del Nazrat Palestinian Short Film Festival e i corti sulla migrazione Displaced - Calais dal progetto AMITIE, su migrazioni diritti umani e co-sviluppo, Borders sul flusso umano ai confini e Looking for Odisseo sui salvataggi in mare. Il festival è stato realizzato grazie alla partecipazione attiva di un comitato scientifico di docenti dell’Università di Bologna e i docenti dell’Università di Bologna del Campus di Forlì - Raffaella Baccolini, Francesca Biancani, Sam Whitsitt, Sandro Bellassai, Laura Lanzillo, Rachele Antonini, Alessandro Martelli, Renata Lizzi, Marco Balboni, Marco Borraccetti, Federico Ferri, Patrick Leech, Arrigo Pallotti, Benedetta Siboni. Agli incontri saranno presenti inoltre l’Assessore alla Pace e ai Diritti Umani Raoul Mosconi e la regista Nadia Kibout. Durante il festival sarà infine comunicata l’apertura del bando contest fotografico Migrazioni e Diritti Umani a Forlì, dedicato agli studenti delle scuole e dell’Università, per il concorso al HRNs Photo Award che sarà assegnato in primavera 2018. Sempre sul tema saranno presentati insieme a Welcome Onlus e a Forlì Città Aperta i film documentari prodotti da MMP WebTV, la webtv del Campus di Forlì, Emigrare a Forlì e sul Child Language Brokering. Il festival si conclude mercoledì 6 dicembre alle 19 in presenza del Sindaco di Forli, Davide Drei, nei nuovi spazi della Mensa Universitaria (Piazzale Igino Lega) con una performance di danza a cura di Semi-Interrati e il concerto Seeds I Play with Mozart- A Seed of Hope for Syria, parte di un progetto realizzato nei campi profughi sui Balcani e in Grecia. Massa Carrara: Festa della Toscana in carcere, per i diritti di ieri e di oggi di Libero Red Dolce Il Tirreno, 2 dicembre 2017 Proiettato un documentario sui desaparecidos in Argentina. Un detenuto: perché in infermeria le celle sono chiuse? Parlare in carcere di diritti umani e celebrare la Festa della Toscana e l’abolizione della pena di morte voluta da Pietro Leopoldo nel 1786 può sembrare esercizio retorico. E forse lo è. Se non fosse che proprio la situazione costrittiva del carcere dà modo di ascoltare parole che ricordano che la battaglia per i diritti non è mai decisa una volta per tutte. “Chiedo alla dottoressa Martone, e mi scuso se lo faccio in pubblico, perché se il carcere è un luogo di riabilitazione le celle del reparto di infermeria restino chiuse e non si possa cucinare”. Parla un detenuto della sezione infermeria. Di fronte ha cinquanta ragazzi delle scuole, i consiglieri comunali di Massa in seduta straordinaria dentro al carcere, il sindaco Alessandro Volpi. Ma la sua interlocutrice è la dottoressa Maria Martone, direttrice della struttura. Che lo ascolta e applaude alla fine del suo intervento. È una postilla quella di Bartoni a un intervento complessivo sul documentario “Una generazione scomparsa. I mondiali in Argentina del 1978”alla presenza degli autori e registi Daniele Biacchessi e Giulio Peranzoni. Mentre le immagini scorrono, un po’ soporifere, sulla tela bianca, nella mente del carcerato si formano delle associazioni. Diritti negati, torture, detenzioni, lanci di corpi sedati nell’oceano. Per lui però il carcere è vita reale, non solo immaginario. Giusto dirsi contro la pena di morte, mette d’accordo tutti. Lo dicono anche i ragazzi delle scuole in un video prequel al documentario vero e proprio: “Perché dico no alla pena di morte”. Ma il detenuto vuole parlare anche dei limiti attuali del nostro diritto. Interrogata dai cronisti a margine dell’evento, la dottoressa Martone preferisce non rispondere all’interrogativo posto: “Non perché il tema non mi tocchi o non sia degno di risposta, è l’occasione che non è adatta. Ci saranno altri momenti per affrontarla”. I diritti sono un campo di battaglia. Si arretra, perlopiù, si avanza, ogni tanto. E con il sacrificio di tanti. Lo ricorda a suo modo anche il sindaco nell’intervento di apertura: “Importante ricordare la figura di Pietro Leopoldo, ma fu comunque un sovrano illuminato. Non bisogna scambiare il 700 per un anticipo di democrazia. L’abolizione della pena di morte è un’acquisizione stabile con la Costituzione dopo la Seconda guerra mondiale”. Prima fu tolta e abolita diverse volte, sempre sospesa tra il fine pedagogico e quello punitivo. Oggi in Italia la limitazione più coercitiva è quella del carcere. E è da qui che la Festa della Toscana parte per parlare di diritti. E la giornata ha un valore simbolico anche per un altro motivo. Ieri a Buenos Aires, dopo cinque anni di udienze,, si è chiuso con 48 condanne il processo sui desaparecidos. Per 29 dei condannati è stato ci sarà da scontare l’ergastolo. Tra loro c’è anche Alfredo Astiz, oggi 67enne, noto come l’angelo della morte, uomo della marina sotto copertura infiltrato in vari gruppi di attivisti. Il suo volto e la sua attività sono ben ricordati nel documentario di Biacchessi e Peranzoni e sembra quasi che la storia abbia voluto chiudere una brutta pagina in una strana quanto significativa convergenza massese argentina. Ad assistere al documentario, oltre ai vari consiglieri comunali, c’erano anche il sottosegretario alla giustizia Cosimo Ferri, il procuratore generale Aldo Giubilaro, la presidente del tribunale Maria Cristina Failla, i vertici dei carabinieri e della polizia. Sul palco è anche intervenuto il vescovo Giovanni Santucci, che ha voluto sottolineare il suo “orgoglio di essere toscano, anche per questo merito sulla pena di morte. Che fu però reintrodotta e quindi ci chiama a essere protagonisti per creare una società dove sia bello vivere”. Venezia: marionette in carcere, il maestro burattinaio Mariano Dolci alla Giudecca veneziatoday.it, 2 dicembre 2017 Mercoledì alle 16 il burattinaio incontrerà le donne detenute nell’ambito del progetto “Passi Sospesi” di Balamòs: “Favorire l’espressione, la comunicazione e la relazione”. Marionette in carcere. Il maestro burattinaio Mariano Dolci sarà alla casa di reclusione femminile della Giudecca mercoledì, nell’ambito del progetto teatrale “Passi Sospesi” di Balamòs, alle 16, quando incontrerà le donne detenute del penitenziario. Da tempo i burattini, le marionette e le sagome del teatro d’ombre, tutti strumenti per rappresentazioni teatrali, non si incontrano esclusivamente nelle mani degli artisti dello spettacolo, ma anche in diversi altri contesti come le comunità infantili, le scuole, i musei, le carceri, i luoghi del disagio (non sempre riservati soltanto all’infanzia), o dove si svolgono diverse attività di cura. In questi contesti, pur non escludendo a priori momenti spettacolari, ci si propone piuttosto di consegnare un linguaggio espressivo, per favorire l’espressione e la comunicazione promuovendo la relazione, la presa di coscienza, la costruzione o il rafforzamento dell’identità. La scelta del dialogo è riconducibile al desiderio di far emergere dallo scambio di idee, un’esperienza unica sia dal punto di vista umano che dal punto di vista artistico, quello della ricerca espressiva e pedagogica: quella di Mariano Dolci, che per più di trenta anni ha coordinato il Laboratorio di Teatro di Animazione “Gianni Rodari” a Reggio Emilia, dove ha collaborato alle sperimentazioni pedagogiche di Loris Malaguzzi per le scuole comunali dell’infanzia e non solo. “Passi Sospesi”. Il progetto teatrale attraverso una serie di iniziative, incontri, conferenze, spettacoli, dentro e fuori la casa di reclusione femminile di Giudecca, ha come obiettivo quello di ampliare, intensificare e diffondere la cultura teatrale dentro e fuori gli Istituti Penitenziari ed è inserita all’interno di una rete di collaborazioni che comprende il coordinamento Nazionale di teatro in carcere, l’Associazione Nazionale dei Critici di Teatro, il Teatro Stabile del Veneto, l’Università Cà Foscari di Venezia, il Centro Teatro Universitario di Ferrara e la Regione del Veneto. Milano: con Bambinisenzasbarre il 5 dicembre torna “La partita con papà” agensir.it, 2 dicembre 2017 Il 5 dicembre, per il terzo anno consecutivo, ritorna “La partita con papà”, la giornata di calcio dei papà detenuti coi loro figli, negli istituti penitenziari italiani. La partita si giocherà in contemporanea nelle tre carceri milanesi di Opera, San Vittore e Bollate, e sul territorio nazionale, aprendo alla comunità e alla stampa l’intero circuito penitenziario cittadino, per raccontare il carcere in modo diverso e mettere in luce il tema dei bambini figli di detenuti. Organizzata da Bambinisenzasbarre con il sostegno del Ministero di Giustizia-Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, un’iniziativa unica in Europa, per sensibilizzare le istituzioni, i media e l’opinione pubblica sulla situazione dei 100 mila bambini in Italia (2.1 milioni in Europa) che vivono la separazione dal proprio genitore detenuto offrendo loro un momento speciale d’incontro. “Il contesto milanese è particolarmente significativo perché sono proprio le carceri milanesi, città dove nasce Bambinisenzasbarre, la base di partenza della progettualità dell’Associazione e costituiscono un osservatorio permanente sull’applicazione del Protocollo-Carta dei figli di genitori detenuti da parte del sistema penitenziario”, si legge in una nota. Testimonial dell’evento sarà Regina Baresi, capitano dell’Asd Inter femminile, che arbitrerà la partita nel carcere di Bollate. “La partita con papà” si inserisce nella Campagna “Dona un abbraccio”, che pone l’attenzione sulla necessità di preservare il legame con il genitore, fondamentale per la crescita del bambino e per la sua stabilità emotiva. “Un legame che si fonda sugli aspetti affettivi della relazione che vengono salvaguardati. Il padre in carcere continua ad amare il figlio e viceversa - afferma Lia Sacerdote, presidente dell’associazione. Il mantenimento del legame tra il genitore e il figlio, durante la detenzione, svolge un’importante funzione preventiva rispetto a fenomeni di devianza giovanile, abbandono scolastico, illegalità, più frequenti in presenza di un’interruzione del rapporto genitori figli”. La campagna “Dona un abbraccio” supera i pregiudizi di cui sono spesso vittime questi bambini, che si trovano a pagare per un crimine che non hanno commesso, perché troppo spesso stigmatizzati ed emarginati, e per ricordare che il figlio di genitori detenuti è innanzitutto un bambino con i suoi bisogni e i suoi diritti. Genova: al carcere di Marassi torna “La partita con papà”, con i figli dei detenuti Il Secolo XIX, 2 dicembre 2017 Il 5 dicembre 2017, per il terzo anno consecutivo, ritorna “La partita con papà “, la giornata di calcio dei papà detenuti coi loro figli, negli istituti penitenziari italiani. Organizzata da Bambinisenzasbarre con il sostegno del ministero di Giustizia-Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, un’iniziativa unica in Europa, per sensibilizzare le istituzioni, i media e l’opinione pubblica sulla situazione dei 100mila bambini in Italia (2.1 milioni in Europa) che vivono la separazione dal proprio genitore detenuto offrendo loro un momento speciale d’incontro. Anche la Casa Circondariale di Marassi aderisce all’iniziativa del 5 dicembre alle 16. L’evento si inserisce nella Campagna “Dona un abbraccio”, che pone l’attenzione sulla necessità di preservare il legame affettivo con il genitore, fondamentale per la crescita del bambino e per la sua stabilità emotiva. Un legame che svolge un’importante funzione preventiva rispetto a fenomeni quali devianza giovanile, abbandono scolastico, illegalità, molto più frequenti in presenza di un’interruzione del rapporto genitori figli. Una campagna per superare i pregiudizi di cui sono spesso vittime questi bambini, che si trovano a pagare per un crimine che non hanno commesso, perché troppo spesso stigmatizzati ed emarginati, e per ricordare che il figlio di genitori detenuti è innanzitutto un bambino con i suoi bisogni e i suoi diritti. Proprio su questo si impegna da 15 anni l’Associazione Bambinisenzasbarre Onlus che ha firmato il Protocollo-Carta dei diritti dei Figli di genitori detenuti - la prima in Europa nel suo genere, col ministro di Giustizia e il Garante dell’Infanzia e dell’adolescenza - che riconosce formalmente i diritti di questi bambini, in particolare il diritto alla continuità del legame affettivo con il proprio genitore in attuazione dell’articolo 9 della Convenzione Onu. In linea con la Carta dei Diritti, Bambinisenzasbarre, per un processo di trasformazione degli istituti penitenziari, ha realizzato lo Spazio Giallo all’interno delle carceri, ambienti protetti di attenzione e ascolto. Grazie agli Spazi Gialli Bambinisenzasbarre intende attenuare l’impatto del bambino con il carcere e, contemporaneamente, garantire la continuità del rapporto affettivo con il genitore. Attualmente gli Spazi Gialli sono presenti negli istituti di Lombardia, Piemonte, Toscana e Campania, ma l’obiettivo dell’Associazione è di dotare ogni carcere italiano del proprio Spazio Giallo. Per questo, i fondi raccolti dalla Campagna “Dona un abbraccio” verranno destinati alla realizzazione di nuovi Spazi Gialli nelle carceri italiane, al fine di garantire a tutti i 100 mila bambini che fanno visita al genitore un luogo fatto su misura per loro. Como: sport in carcere, al Bassone parte il progetto di Coni e Regione giornaledicomo.it, 2 dicembre 2017 Al carcere di Como ieri sera è stato presentato il progetto per lo sport dietro le sbarre. Proprio ieri sera infatti è partito il 1° corso di metodologia dell’insegnamento e dell’allenamento per tecnici sportivi di base. Ad organizzarlo il Coni Comitato regionale Lombardia e la Scuola dello sport. Il corso è riservato agli agenti di polizia penitenziaria. Alla casa circondariale per presentare il progetto il consigliere regionale Daniela Maroni, il comandante della Polizia penitenziaria Maria Cristina Cobetto, il delegato Coni di Como Katia Arrighi e la rappresentante del Coni Lombardia Paola Pietrobelli. Quattro donne unite nei loro differenti ruoli per un progetto pilota. È infatti la prima volta che viene proposto un corso del genere a degli agenti della Polizia penitenziaria. “Il progetto è nato quest’estate in occasione di un quadrangolare organizzato con i consiglieri regionali, i detenuti, gli avvocati e gli agenti della polizia penitenziaria - ha spiegato il consigliere Maroni - Da lì l’idea di fare qualcosa non solo per i detenuti ma anche per le persone che ogni giorno portano avanti la gestione del carcere”. “Il progetto nasce su iniziativa del Coni nazionale che ha chiesto ai vari delegati sul territorio di portare lo sport in carcere - ha sottolineato il delegato comasco Katia Arrighi - Avevamo due opzioni: lo sport per i detenuti e per la Polizia penitenziaria. Così abbiamo deciso di dare dei benefici attraverso lo sport a chi è in carcere perché ci lavora. Nei prossimi mesi porteremo anche degli attrezzi per l’allenamento”. ù “Questo corso per i nostri agenti è molto importante perché per la prima volta si vede un’attenzione al loro benessere - ha sottolineato il comandante Cobetto - Finalmente hanno potuto avere anche una divisa che potranno sfruttare nelle partite ufficiali della squadra”. “Sport in carcere è un progetto nazionale che a Como ha trovato la sensibilità giusta di tutti i soggetti per crescere - ha spiegato la Pietrobelli - e speriamo sia il primo di una lunga serie”. Napoli: ArtigiaNato in Carcere, la mostra mercato dei detenuti in Galleria Umberto I di Antonella Ambrosio Il Mattino, 2 dicembre 2017 Gli istituti penitenziari della Campania, la collaborazione delle associazioni, la volontà, il riscatto, la sorpresa di essere riusciti in una piccola impresa. Ritorna, per la settima volta, l’edizione di “ArtigiaNato in Carcere” l’evento che si svolgerà il 2 dicembre nella Galleria Umberto I. Esposizione e vendita dei manufatti realizzati all’interno delle carceri regionali, con lo scopo di sensibilizzare l’opinione pubblica sulle attività svolte dai detenuti, dando risalto ad una delle missioni fondamentali dell’Amministrazione Penitenziaria, ovvero rieducare e reinserire attraverso il lavoro e la formazione professionale. Una manifestazione che negli anni è diventata occasione di incontro e verifica tra gli operatori penitenziari e la rete territoriale, contribuendo a solidificare rapporti e a creare nuove sinergie. Alla mostra mercato, in programma dalle 10 alle 18, oggetti creati con pazienza e originalità, ideali anche per diventare un regalo da mettere sotto l’albero. Previsti anche momenti di svago con esibizione musicale della banda dell’amministrazione cittadina, aperitivo offerto dall’associazione Scugnizzi e dimostrazione di ginnastica artistica promossa dal Csi Campania. Ma l’invito è a partecipare, acquistare e regalare un momento di speranza a chi vive la propria esistenza dietro le sbarre. “L’insulto”, di Ziad Doueiri. Il dramma giudiziario nato da un litigio di Giovanna Branca Il Manifesto, 2 dicembre 2017 Il regista libanese parla del suo “L’insulto”, nei cinema dal 6 dicembre e Coppa Volpi al miglior attore a Venezia. Come accade ai protagonisti del suo ultimo film “L’insulto”, il regista libanese Ziad Doueiri - e il suo lavoro - è stato al centro di un’escalation di proteste, incomprensioni, reciproci pregiudizi. Passato in concorso a Venezia, L’insulto ha vinto la Coppa Volpi al miglior interprete maschile, la prima per un attore arabo: Kamel El Basha, che nel film interpreta un capo cantiere palestinese che vive in un campo profughi di Beirut, e per riparare una grondaia litiga con Toni - libanese cristiano. Un’animosità che sfocia in una battaglia giudiziaria e riaccende così nella popolazione i rancori mai sopiti della guerra civile. Al suo ritorno in Libano dopo il Festival di Venezia, Doueiri è però stato inaspettatamente trattenuto dalle autorità, che gli hanno anche sequestrato il passaporto, per poi rilasciarlo poco dopo: la sua colpa il “collaborazionismo con il nemico israeliano” - il film precedente di Doueiri, The Attack, è infatti girato a Tel Aviv con maestranze e attori israeliani. Per questo motivo, su ordine del sindaco, L’insulto è stato anche ritirato dalle sale di Ramallah. In quelle italiane uscirà invece il 6 dicembre. C’è un elemento autobiografico nella storia del film? L’idea nasce di un incidente che mi è successo circa quattro anni fa. Stavo innaffiando le piante nel terrazzo di casa, e dell’acqua è caduta su uno degli operai palestinesi che lavorava per strada: abbiamo finito per dirci delle cose molto pesanti. Io poi sono sceso a scusarmi, ma da quel momento ho cominciato a pensare a una trama che prende avvio proprio da uno stupido incidente come questo, che però si complica sempre di più. Quando ho finito il trattamento l’ho fatto leggere alla mia ex moglie (Joelle Touma, anche co-sceneggiatrice del film, ndr) e lei ha detto che si immedesimava in quello che avevo scritto, nonostante venga da una famiglia cristiana di estrema destra - profondamente anti-palestinese durante la guerra civile - e io da una famiglia musulmana, laica e di sinistra - alcuni dei miei parenti sono anche morti combattendo con l’Olp. Il suo film precedente le ha però creato dei problemi proprio a causa della questione palestinese. The Attack è stato bandito in Libano e in tutto il mondo arabo per le pressioni del BDS (il movimento per il boicottaggio di Israele, ndr). Per questo ho riscritto la sceneggiatura di L’insulto, a cui lavoravo già da anni, proprio come risposta alle persone che avevano fatto bandire il mio film senza averlo neanche visto, sennò saprebbero che simpatizza con la causa palestinese. Quando poi sono tornato da Venezia, hanno cercato di far bandire anche L’insulto - ma non ci sono riusciti perché girandolo non avevo infranto la legge libanese. Per questo hanno tirato fuori un vecchio file su di me, risalente al film precedente, e mi hanno arrestato. Ma non sono state le autorità a sporgere denuncia: è stato ancora una volta il BDS. Stavolta però sono riusciti a bloccare la proiezione del film solo a Ramallah. “L’insulto” è un dramma giudiziario, come ha lavorato con questo genere? Ho studiato cinema negli Usa e ho lavorato per moltissimi anni come assistente nel cinema americano, quindi sono stato influenzato dai film giudiziari hollywoodiani. Durante le riprese ho rivisto molte volte “Il verdetto” e “La parola ai giurati” di Lumet, “Philadelphia” di Demme, e quello che per me è uno dei film più belli di tutti i tempi: “Vincitori e vinti” di Stanley Kramer. Sapevo sin dal principio di voler fare un dramma giudiziario, perché c’è un elemento legale alla radice stessa della storia: può essere considerato un crimine insultare la cultura di una persona? La violenza “generica”, neutrale di Sarantis Thanopulos Il Manifesto, 2 dicembre 2017 Bisogna distinguere tra razzismo politico che si può combattere con la legge e razzismo culturale che può essere combattuto solo con il senso di responsabilità. Tra il 22 e il 24 Novembre si è svolto alla Corte di Cassazione a Roma un corso della Scuola Superiore della Magistratura dedicato alla violenza contro le donne. Il corso, organizzato in modo molto accurato dalla consigliera Elisabetta Rosi, ha usufruito della partecipazione di esperti di vari campi. Di grande interesse è stato l’intervento di Francesco Palazzo, autorevole penalista, ordinario dell’Università di Firenze, che ha affrontato una questione costantemente in ombra: l’affidamento eccessivo allo strumento legislativo può indebolire l’efficacia della difesa della donna. Come Palazzo ha lucidamente argomentato, la legislazione a protezione della donna nel campo dei danni a “beni neutri” - cioè non specificamente legati alla sessualità -, che dispone una maggiore punibilità del danno compiuto nei suoi confronti rispetto a quello nei confronti dell’uomo, può avere due motivazioni. La prima è la difesa della donna come soggetto più “debole” (come lo può essere un bambino, un disabile, o un anziano). La seconda è la manifestazione della volontà del legislatore di colpire una cultura di discriminazione nei confronti della donna. Se si tiene conto di queste considerazioni, sorgono delle questioni. Quando il legislatore segue la strada della prima motivazione, la protezione delle donne scivola in una logica di compassione che sancisce una loro debolezza costitutiva. Non sarebbe più equo e funzionale che la legislazione operasse nella direzione del superamento delle condizioni che le indeboliscono come soggetti sociali e le rendono più vulnerabili alla violenza? Anche quando la via imboccata è quella della lotta alla discriminazione “culturale” il dubbio sembra d’obbligo. Si può contrastare legalmente una “politica” di discriminazione, ma si può fare altrettanto con una “cultura” di discriminazione senza, indirettamente, legittimarla? Qui si inseriscono le forme di violenza socio/psico culturali, sfuggenti sul piano probatorio, le forme di “ricatto” che fanno parte del “costume”. Piuttosto che essere direttamente inserite nel contesto dell’azione legale, dovrebbero essere affrontate sul piano delle condizioni politiche che le favoriscono, l’unico spazio in cui il legislatore può, quando può, intervenire. Bisogna distinguere tra razzismo politico che si può combattere con la legge e razzismo culturale che può essere combattuto solo con il senso di responsabilità, quindi con la diffusione del senso di giustizia che la legge può favorire, ma non può imporre. Il procedere contro la violenza nei confronti della donna rendendola neutrale, generica, nega la sua genesi: l’attacco sociale alla sessualità femminile. Rende opaca la sua vera cultura e rischia di limitare l’azione contro di essa in un’operazione cosmetica che insegue regole di correttezza espressiva, linguistica. L’uomo sessualmente sano non rappresenta un pericolo per la donna. Se la violenza maschile nei confronti di essa fosse interpretata in termini sessualmente neutrali, di “genere”, e non come malattia del suo desiderio erotico, non si capisce cosa potrebbe farle da argine. Il rispetto per i deboli? Se la donna non fosse un oggetto desiderato l’uomo non avrebbe motivo di trattarla diversamente da un altro uomo (la violenza tra uomini è di gran lunga superiore alla “violenza di genere”). Esiste una pressione anonima sulla donna che la invita a rinunciare alla sua identità sessuale in cambio di “immunità”. Ma ammesso che ciò portasse da qualche parte e non, invece, a un’uniformazione, molto insidiosa, delle differenze e delle identità, non è proprio questa di per sé la forma più pesante della violenza? Migranti. L’Europa scrive il nuovo piano per i campi nascosti in Libia di Alberto D’Argenio La Repubblica, 2 dicembre 2017 Sarà un lavoro titanico svuotare i campi di detenzione in Libia. Sono le cifre a dirlo. Secondo l’Unione africana i migranti detenuti (“in condizioni disumane”) sono tra i 400 e i 700mila. A Bruxelles sono consapevoli della sfida e lo staff dell’Alto rappresentante Federica Mogherini lavora a tempo pieno per predisporre il piano che l’Europa ha concordato al vertice di Abidjan con partner africani e Onu. Sono almeno 42 i campi sparsi sul territorio libico, di molti di questi non si sa nulla, nemmeno la posizione precisa. Tanto che l’Organizzazione mondiale dei migranti, insieme agli esperti Ue, si sta attrezzando per andare a cercarli. Si partirà evacuando 15mila persone entro febbraio. Sono i detenuti dei campi ufficiali nella zona di Tripoli. I soli dei quali c’è conoscenza certa. Per farlo serviranno 60- 80 milioni. Una prima fase del piano di per sé complessa considerando che l’Europa ha rimpatriato dalla Libia 13mila migranti da gennaio a oggi. Ora una cifra superiore andrà rimandata nel proprio paese, reintegrata (anche con un lavoro) entro tre mesi. Certo, dopo il video della Cnn sui lager libici i governi africani hanno deciso di aprire le porte alle persone di ritorno (alcuni come il Ruanda allestiranno anche campi di transito) e grazie all’expertise e ai soldi Ue l’obiettivo è raggiungibile. Il denaro arriverà dal Trust Fund Africa da 2,9 miliardi varato nei mesi scorsi ma ora Bruxelles sprona i governi a mettere più soldi: l’Italia è il primo contributore con 92 milioni, poi la Germania con 33 ma ci sono capitali che pur rifiutando di ospitare i richiedenti asilo e chiedendo che i migranti vengano bloccati in Africa non hanno praticamente messo un centesimo (l’Ungheria di Orban: 50mila euro). Si spera in nuovi contributi entro il summit Ue di metà dicembre. Anche perché la seconda parte del piano umanitario sarà ancora più complessa e costosa. Gli europei per ora non confermano i numeri dell’Unione africana (fino a 700mila) sui migranti detenuti in Libia. Si limitano a parlare di decine di migliaia, se non centinaia, di persone da trovare e salvare. I campi andranno cercati - anche in zone poco sicure - e svuotati uno ad uno. I migranti verranno rimpatriati, chi avrà diritto alla protezione internazionale potrà invece contare sul programma di ingresso in Europa già varato da Bruxelles per 50mila persone. Intanto si proverà a chiudere le rotte che portano alla Libia e si andrà in pressing sulle autorità locali perché chiudano i campi cambiando la legge che prevede la detenzione per tutti i migranti illegali, altrimenti si corre il rischio di trovarli di nuovo pieni dopo che sono stati svuotati. C’è infine il piano Marshall per l’Africa: si parte con i 44 miliardi di investimenti raccolti da Bruxelles per creare un’economia africana capace di trattenere i giovani. Poi si punta, nel bilancio Ue post 2020, a trovare 30- 40 miliardi che grazie ai privati lievitino a 350- 400 miliardi per rilanciare il continente nei prossimi decenni e bloccare i flussi. Questa è la scommessa. Vitale per Africa ed Europa. Migranti. “Sono stato in Libia 15 mesi e mi hanno torturato ogni giorno” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 2 dicembre 2017 I drammatici racconti di chi è stato nei campi di detenzione consegnate al Ministro dell’Interno. Le testimonianze sono state raccolte negli ultimi mesi dai team Medu, una organizzazione umanitaria, negli hotspot di Pozzallo, i Cas di Ragusa e il Cara di Mineo. “Sono entrato in Libia 15 mesi fa e in questo tempo non ho mai avuto un giorno di libertà. Per tutta la mia permanenza sono stato venduto e comprato e trasferito, di prigione in prigione, fino all’ultimo campo di raccolta prima della partenza per l’Italia. I primi sei mesi li ho passati a Sabha, in una prigione terribile. Mi hanno torturato ogni giorno, soprattutto mi picchiavano e mi frustavano”. Questa è la testimonianza di un ragazzo di 18 anni che viene dalla Nigeria, ed è arrivato in Italia dopo un periodo di detenzione nei campi in Libia. Parliamo di una delle quasi tremila tragiche testimonianze raccolte dai medici, dagli psicologi e dagli operatori negli ultimi tre anni consegnate al ministro degli Interni Marco Minniti. Una lettera che riassume, attraverso alcune emblematiche testimonianze, le gravissime violazioni dei diritti umani che i migranti subiscono in Libia. A consegnare la missiva sono stati i medici per i diritti umani (Medu), una organizzazione umanitaria e di solidarietà internazionale, senza fini di lucro, indipendente da affiliazioni politiche, sindacali, religiose ed etniche. Dal 2004, Medu, opera a tutela del diritto alla salute delle popolazioni più vulnerabili in Italia e nel mondo. In particolare, nelle città di Roma, Firenze e nelle provincie di Ragusa e Catania, Medu opera attraverso team e cliniche mobili che prestano assistenza medica e psicologica ai migranti forzati, riscontando negli ultimi 3 anni un dato particolarmente allarmante: oltre l’ 85 per cento dei pazienti visitati ha subito torture e trattamenti crudeli, inumani e degradanti nei Paesi di origine e di transito, in particolare la Libia. Medu ha così potuto raccogliere oltre 2600 testimoniane dirette che hanno usufruito di prima assistenza medica o di un percorso di riabilitazione clinica e psico-sociale per i gravi e spesso invalidanti esiti fisici e psichici prodotti da tale violenze. Le testimonianze raccolte negli ultimi mesi dai team Medu presenti presso l’hotspot di Pozzallo, i Cas di Ragusa e il Cara di Mineo, continuano ad evidenziare gravissime violazioni dei diritti umani, al pari di quelle raccolte nei mesi e negli anni precedenti. Secondo i medici per i diritti umani, la situazione sembra anzi essersi ulteriormente aggrava in seguito agli scontri a Sabratha e all’impossibilità di uscire dalla Libia, che ha determinato un aumento delle persone detenute. Le ultime drammatiche testimonianze sono state raccolte il 23 novembre scorso a Pozzallo, in occasione del drammatico sbarco di 294 persone, tutte in stato di profonda astenia e denutrizione. Tra queste, oltre 100 minori non accompagnati, di cui una bambina di 9 mesi, portata via in elisoccorso. Nella lettera, alla luce di quanto esposto, i membri del Medu chiedono un incontro con Minniti per poter illustrare nel dettaglio le evidenze raccolte dal team di medici e psicologici. “La nostra costante preoccupazione resta quella di comprendere quali iniziative il Governo italiano, l’Unione europea e la Comunità internazionale intendano porre in atto con urgenza per fermare le gravissime violazioni dei diritti umani descritte e per porre fine ad uno dei capitoli più bui e atroci della storia recente”, conclude la lettera. Ricordiamo che recentemente, il comitato delle Nazioni Unite contro la tortura (Cat), durante la sessantaduesima sessione del Comitato stesso organizzato a Ginevra, ha attaccato duramente l’Italia per gli accordi fatti con quei Paesi dove si pratica la tortura, in particolare la Libia. “Il patto con Tripoli è disumano e la sofferenza dei migranti detenuti nei campi in Libia è un oltraggio alla coscienza dell’umanità, ovvero si tollerano le torture pur di gestire il fenomeno migratorio ed evitare gli sbarchi”, aveva tuonato l’alto commissario Onu per i diritti umani Zeid Raad Al Hussein durante la riunione del comitato delle Nazioni Unite. Il Comitato, infatti, definisce esplicitamente le milizie libiche come gruppi irregolari finanziati per detenere migranti, i quali subiscono violenze e torture, e afferma che gli accordi in questione hanno istituzionalizzato una politica di sequestri e riscatti. Arabia Saudita. Ecco il “centro di cura” per la riabilitazione degli ex jihadisti Dire, 2 dicembre 2017 Un seguace di Osama bin Laden davanti la televisione? Non è fantascienza, ma vita quotidiana in un centro di riabilitazione per fondamentalisti islamici a Riad. “Benvenuti nell’oasi della saggezza”: così sono stati accolti i giornalisti della ‘Bbc’ nell’istituto, denominato “Centro di cura e consulenza Mohammed Ben Nayef”. Dentro l’apparente villaggio turistico con palme e prati curatissimi, una piscina e una palestra, circolano ex detenuti talebani e militanti di Al-Qaeda che sulla base della legge anti-terrorismo possono ricevere cure per tornare alla vita normale. “Evitiamo di chiamarli detenuti” ha detto il direttore Abu Maghayed, che poi ha spiegato: “Ci concentriamo nella correzione delle convinzioni errate, non possiamo combattere il terrorismo con la forza, le idee si combattono con le idee, anche se non è facile riportare la gente a smettere di odiare la società e le proprie famiglie”. Attraverso l’incontro con i familiari e l’invito a intraprendere la via del matrimonio, religiosi e psicologi del centro incoraggiano gli “ospiti” a reintegrarsi e ad abbandonare la vita da estremisti. Anche l’arte-terapia ha un ruolo di rilievo. Oltre a esser uno strumento catartico, è il metro di misura dell’evoluzione psicologica: all’inizio i dipinti sono brutali e con colori accesi, in seguito più pacati e tenui. “Ci sentiamo persone nuove grazie a questo posto. La preoccupazione è che la gente del Paese possa non accettarci” ha spiegato un ex detenuto della prigione di Guantánamo ospite dell’istituto. Dal 2004, quando l’ex vice primo ministro Mohammed Ben Nayef ha voluto l’apertura del Centro in seguito a un’ondata di attentati, più di 3.300 individui sono tornati alla vita normale, con “un tasso di riabilitazione pari all’86%” afferma il direttore del Centro. È di pochi giorni fa l’annuncio del principe saudita Mohammad bin Salman dell’avvio di una coalizione di 40 Paesi musulmani col fine di “eliminare l’estremismo dalla faccia della terra”. Vietnam: 10 anni di carcere all’attivista che denunciò il disastro Formosa Group asianews.it, 2 dicembre 2017 Nguyen Ngoc Nhu Quynh colpevole di “propaganda contro lo Stato” per le critiche nella gestione dell’emergenza. Uno dei legali della donna privato della licenza prima dell’udienza. La madre non ha potuto assistere al dibattimento in aula. Allarme di attivisti e Ong: Hanoi aumenta la repressione. Un tribunale vietnamita ha confermato ieri in appello la condanna a 10 anni di prigione nei confronti della 38enne blogger cattolica Nguyen Ngoc Nhu Quynh, meglio nota come “Mother Mushroom”. La donna era già stata riconosciuta colpevole in primo grado di “propaganda contro lo Stato”, nel contesto di una campagna di repressione da parte delle autorità comuniste di Hanoi contro attivisti, dissidenti e voci critiche. Un giovane interpellato da AsiaNews, dietro anonimato, sottolinea che “il governo comunista [del Vietnam] non accetta alcuna decisione contraria al proprio punto di vista”. Nguyen Ngoc è madre di due figli che vivono con la nonna dal giorno dell’arresto. L’attivista cattolica, vincitrice di diversi premi e riconoscimenti per la sua opera in difesa dei diritti umani, era già stata reclusa per nove giorni nel 2009 per aver denunciato i danni causati dalle miniere di bauxite nel nord del Vietnam. In passato si era anche scagliata contro l’imperialismo cinese nei mari, le morti in cella ed è una delle molte donne rinchiuse ancora oggi nelle carceri vietnamite per aver manifestato a difesa della libertà, dei diritti civili e dell’ambiente. Il nuovo arresto è avvenuto nel giugno scorso nella provincia di Khánh Hòa (sud del Paese) secondo l’articolo 88 del codice penale, che punisce la “propaganda contro la Repubblica socialista del Vietnam”. Le prove sarebbero i suoi articoli contro il disastro ambientale dell’azienda taiwanese Formosa Group, che ha colpito le province centrali-settentrionali del Paese nell’aprile dello scorso anno e ha sollevato grande scandalo e indignazione. Fra i titoli incriminati vi sono: “Il pesce ha bisogno dell’acqua pulita, il governo sia trasparente”, “Condannate il Formosa Group”, “No al gruppo Formosa”, “No all’espansionismo cinese”. Per questa stessa vicenda nei giorni scorsi il Tribunale del popolo della provincia di Ha Tinh ha condannato a sette anni di carcere, più altri tre di domiciliari, il 22enne attivista 22enne Nguyen Van Hoa. Commentando la conferma in appello della condanna, Ha Huy Son - membro del collegio di difesa della donna - parla di “sentenza non obiettiva” e procedimento “ingiusto”. “Quynh è innocente - ha aggiunto il legale - e ha solo fatto valere i propri diritti in quanto cittadina”. Fonti locali contattate da AsiaNews affermano che le autorità “hanno impedito alla madre” di assistere all’udienza e all’esterno del tribunale la polizia ha malmenato e arrestato diverse persone, mentre agenti in borghese hanno sequestrato i telefoni cellulari. Persone vicino alla famiglia riferiscono che il 27 novembre scorso il governo ha revocato la licenza a uno dei più importanti avvocati del Vietnam, anch’egli parte del team di legali che avrebbe dovuto difendere l’attivista cattolica in aula. Una decisione giunta a pochi giorni dall’appello e tesa a indebolire le armi di difesa a disposizione di M? N?m. Durante l’udienza l’attivista cattolica ha ribadito la propria innocenza, ammettendo di aver scritto articoli ma il cui contenuto “non costituisce un crimine”. Attivisti e Ong internazionali pro diritti umani ricordano che Quynh è una delle sei persone condannate quest’anno in Vietnam per aver esercitato il diritto di espressione, associazione o assemblea pacifica. Con una tendenza in continua crescita e preoccupante dall’inizio del 2016. Secondo Human Rights Watch (Hrw) ancora oggi vi sono oltre 100 prigionieri politici nel Paese del sud-est asiatico; accuse respinte da Hanoi, secondo cui non vi sono detenuti per reati di opinione ma solo criminali puniti per aver violato la legge.