2017: cinquantadue suicidi nelle nostre carceri di Andreina Corso La Voce di Venezia, 29 dicembre 2017 Non sempre è utile partire dai numeri per affrontare un problema, ma i 52 suicidi di detenuti nelle carceri italiane sono un conteggio illuminante per capire, verificare questo dato che riguarda il 2017. Una strage vicina e insieme lontana dalla nostra vita, circoscritta da solide e impenetrabili mura che in 17 anni conta 987 persone (dato Ristretti Orizzonti ndr) che si sono suicidate lasciando mute e inascoltate le ragioni che hanno spinto a scelte così tragiche e definitive. È pur vero che chi ha violato la legge e viene condannato da un tribunale, sa che lo aspetta una cella e perde la libertà, che per ogni essere umano (anche quando ha sbagliato) è e rimane un valore insostituibile. Sappiamo cosa ci ha insegnato la Costituzione, quando impone nella sua autorevolezza la necessità di una pena che riesca a migliorare l’uomo che è entrato in una cella e che ne dovrebbe uscire migliorato, senza odio dentro il cuore e con la volontà di ritrovare un senso per la propria vita e quella della sua famiglia. Sa che deve restituire alla società e soprattutto ai suoi figli un esempio di correttezza e un messaggio di cambiamento ispirato alla responsabilità e al Bene, ma il sovraffollamento, il personale insufficiente, il bisogno di salute psicologica che poi affonda sulla salute fisica, sono tutti elementi che non aiutano la persona che vorrebbe cambiare, che si aspetta di poter superare con dignità le azioni della sua vita che vorrebbe non aver mai compiuto. Dal carcere di Benevento l’ultimo suicidio: si è impiccato in cella un ergastolano di 39 anni, e così è avvenuto, solo negli ultimi giorni a San Vittore, Terni, Regina Coeli, consegnandoci una testimonianza drammatica che ci riguarda, perché ogni gesto di disperazione richiama la nostra umanità. Se è vero che a tutti interessa che la persona che uscirà (forse) dal carcere sia migliore di quella che è entrata, bisogna valutare le opportunità che possono favorire questa trasformazione. E quali sono dentro una realtà, un universo difficile di situazioni inadeguate, quando si pensi che sono 58mila i reclusi in strutture che potrebbero ospitarne 50mila. Difficoltà che incontrano anche gli operatori penitenziari che sono in numero insufficiente e che devono farsi carico di problemi che richiedono altre competenze e responsabilità. L’Associazione Antigone attraverso il suo presidente Patrizio Gonnella, ha spiegato che “ogni suicidio è sicuramente una storia a sé un gesto individuale di disperazione, ogni suicidio è anche il fallimento di un processo di conoscenza e presa in carico di una persona”. E fa appello alla necessità di più colloqui individuali, al sostegno psicosociale della persona, al lavoro, all’umanità del trattamento. In queste giornate il Consiglio dei Ministri ha approvato i i decreti delegati previsti dalla Riforma Orlando. E con essi le misure alternative alla carcerazione, la riforma dell’assistenza sanitaria, la semplificazione dei procedimenti, l’eliminazione di automatismi e preclusioni, il volontariato e vita penitenziaria. Restano deboli i provvedimenti su affettività, minori e lavoro (ancora ci sono bambini che vivono in carcere con le loro madri). Riferiremo con un articolo puntuale le tematiche dei decreti votati dal Governo. Quanti “Dell’Utri” sconosciuti ci sono nelle nostre carceri? di Andrea Aliverti La Provincia di Varese, 29 dicembre 2017 Sul giornale di oggi riportiamo una serie di articoli scritti e firmati dai redattori di “VoceLibera”, la redazione giornalistica interna alla Casa Circondariale di Busto Arsizio. Un progetto seguito dalla Cooperativa sociale 3B, nell’ambito dell’Area Trattamentale della struttura di via per Cassano, che si pone l’obiettivo di preparare i detenuti verso la risocializzazione, una volta che usciranno dal carcere. “Quanti Dell’Utri “sconosciuti” nelle nostre carceri. E se pensiamo che almeno un terzo della popolazione carceraria sono detenuti in attesa di giudizio, chiunque di noi potrebbe ritrovarsi in quella situazione”. La voce del garante dei detenuti della città di Busto Arsizio, il consigliere comunale Matteo Tosi, si è levata nell’ultima seduta di consiglio comunale, nel corso degli interventi liberi, per sollevare anche a Busto il “caso Dell’Utri”, che sta tenendo banco nelle ultime settimane nel dibattito politico. A partire dal recente appello del Partito Radicale, che ha sostenuto la richiesta della moglie del già “braccio destro” di Silvio Berlusconi (malato, è detenuto nel carcere romano di Rebibbia dove sta scontando una pena di sette anni per concorso esterno in associazione mafiosa) di essere scarcerato per potersi curare. “Al di là del fatto che ho lavorato “per lui” alla Biblioteca di via Senato, il suo caso è stato sollevato dal Partito Radicale, che presumo non condivida molto della figura politica ed umana di Marcello Dell’Utri - spiega Matteo Tosi - il nome eccellente “serve” per creare il precedente, ma ho ritenuto utile sollevare il problema anche a Busto, per riportare l’attenzione sui tanti detenuti malati che, pur non avendo la cassa di risonanza di Dell’Utri, anche nella nostra Casa circondariale stanno soffrendo e non possono accedere alle cure in maniera agevole. Mi è sembrato giusto farlo sotto Natale, il momento in cui chi è dietro le sbarre sente maggiormente l’assenza della famiglia”. Un problema strutturale, per Tosi, tipico di “un sistema già al collasso” e legato a doppio filo con le ben note problematiche di sovraffollamento che anche a Busto Arsizio recentemente hanno ripreso a generare notevoli preoccupazioni. “Se non si riescono a dare risposte per i casi eccellenti, come quello di Dell’Utri, in cui il costo delle cure sanitarie fuori dal carcere non ricadrebbe sul contribuente, figuriamoci quanto i problemi organizzativi, burocratici ed economici possano frenare analoghe situazioni. È un aspetto molto complesso della vita all’interno degli istituti: è vero che un’infermeria e dei medici sono presenti in tutte le carceri, ma a livello di puntualità di cure e di diete non sempre tutto funziona come dovrebbe. Sì, la Casa Circondariale di Busto da questo punto di vista non è messa malissimo, ma tra sovraffollamento e carenze di personale anche la possibilità di garantire le necessarie prestazioni sanitarie ai detenuti può essere a rischio”. Ecco perché Matteo Tosi sta organizzando per il mese di febbraio, in collaborazione con il Partito Radicale, “un incontro con la politica del territorio sul tema delle condizioni di vita dei detenuti all’interno delle carceri, proiettando il documentario “Spes contra Spem”, proprio allo scopo di sensibilizzare chi è nelle istituzioni nei confronti di chi nel carcere ci vive e ci lavora e delle famiglie dei detenuti. Grazie alla disponibilità della responsabile dell’Area Trattamentale Rita Gaeta inviteremo anche una delegazione di detenuti per ascoltare e parlare dei loro problemi”. Tosi ci crede molto, nella riapertura di un dibattito pubblico sulla “questione carceraria”: “Se riflettiamo sul fatto che un detenuto su tre, forse anche uno su quattro è dietro le sbarre in carcerazione preventiva, quindi da innocente fino a prova contraria, ci rendiamo conto che non è un problema “altro” ma di tutti noi - spiega il garante bustocco - è giusto che chi sconta una pena paghi il giusto, ma chiunque può finire dentro per poi dimostrare la propria innocenza”. Oltre il carcere. Così la giustizia riparativa riconcilia vittime e carnefici di Paolo Viana Avvenire, 29 dicembre 2017 Condivisione e aiuto reciproco per curare le ferite: una sfida culturale che per funzionare ha bisogno di coinvolgere la società civile. L’impegno della Chiesa nei territori. “L’uomo non è il suo reato e il carcere non è l’unico modo per scontare la pena. Anzi, potrebbe addirittura non rispondere in modo adeguato alle indicazioni del dettato costituzionale, la ‘rieducazione del condannato’, se è vero che coloro che vivono l’espiazione della pena solo con la misura detentiva ricadono nella recidiva, per il 70%”. Chi dice queste cose è di parte. Pietro Borrotzu fa il prete. E neanche un prete qualsiasi. Uno di quei sacerdoti che marciano con i lavoratori e accolgono i detenuti; insomma, uno che vive la propria vocazione con le mani sporche di umanità, alternando i modi spicci al silenzio sornione dei barbaricini. Recentemente, con la sua Associazione “Ut Unum Sint” ha promosso un seminario sulla giustizia riparativa che ha lasciato il segno. Come lo lascia, ogni giorno, la cooperativa sociale con cui organizza nel Nuorese l’accoglienza dei familiari dei detenuti, dei detenuti in permesso premio, gli inserimenti lavorativi di ex-detenuti presso aziende agricole e commerciali, con la formula delle borse lavoro e della “messa alla prova”. Al seminario, cui hanno partecipato anche sette detenuti della Sezione Alta Sicurezza del carcere di Badu e Carros e quattro di Mamone, don Pietro ha fustigato la società delle tentazioni, che condanna chi vi cade. Tesi indigeribile per chi alla tentazione ha saputo resistere; perché più solido, o più timido; oppure perché la vita gli ha regalato quel che gli altri devono sudarsi e che alcuni decidono di prendersi con la violenza. Don Pietro fa il prete ma non vive sulla luna: sa bene che le sue idee non sono popolari. Sono le stesse di don Raffaele Grimaldi, ventitré anni nel carcere di Secondigliano. “C’è un lungo percorso da fare - dichiara - e servono gli strumenti idonei. Occorre provvedere alla formazione dei mediatori, che hanno un ruolo fondamentale nella mediazione penale, non sempre facile. Essi si trovano davanti a persone che devono recuperare integralmente la loro vita e hanno bisogno di accompagnatori professionalmente preparati. Solo se si investe in questo processo innovativo, penale, processuale e culturale, c’è la possibilità di facilitare l’incontro tra la vittima e il reo”. Il prossimo ottobre don Raffaele riunirà cappellani carcerari e associazioni di volontariato in un convegno nazionale che si terrà a Napoli. “Parleremo anche di giustizia riparativa, su cui c’è grande fermento, anche se è un cammino in salita e troppo spesso - annuncia - viene frainteso dalla società”. Il riferimento è alla convinzione (errata) che la giustizia riparativa serva a convincere il magistrato di sorveglianza ad essere di manica larga nell’attribuzione dei permessi. “È tutt’altra cosa, è un percorso lungo e laborioso, doloroso, che porta il detenuto a rimettersi in discussione e che abbisogna della disponibilità della vittima o della famiglia della vittima, ma non condiziona il decorso della pena” afferma il cappellano. Di questo percorso esiste anche un racconto, contenuto nel ‘Libro dell’incontro’, richiamato durante il seminario di Nuoro dall’avvocato Mariangela Torrente; ha spiegato che la giustizia riparativa “intende reintegrare nella società sia la vittima che il colpevole, ricomporre la ferita lasciata aperta dagli anni di piombo”. Nelle famiglie delle vittime, anche in quel caso, c’era “una domanda di giustizia non esaurita: avvertivano la sensazione di una insufficienza, nonostante la condanna e le pene inflitte ai terroristi. Nel libro dell’incontro si applica “la giustizia orizzontale” che è quella di reggere lo sguardo dell’altro, di chi mi sta di fronte e lasciarmi interrogare”. In quel caso, ha funzionato. Dell’incontro tra la vittima, con il suo dolore, e il reo, che deve chiamare per nome il male che ha fatto, parla anche padre Francesco Occhetta nel volume La giustizia capovolta. Dal dolore alla riconciliazione. A Nuoro c’era anche il giovane gesuita della Civiltà Cattolica, a sostenere che attraverso un mediatore il reo deve “riparare” ciò che ha rotto: lo chiede l’Europa e anche la legge italiana. Tuttavia padre Occhetta è convinto che il modello possa crescere solo dal basso. Per questo negli ultimi mesi è entrato nelle carceri di Benevento, Campobasso, Nuoro e Trani per incontrare i detenuti e gli operatori della giustizia. “Vedo crescere questo modello attraverso la riflessione, la pratica e soprattutto il dialogo con gli operatori di giustizia e Procuratori della Repubblica, Provveditori, Presidenti dei Tribunali di sorveglianza, Direttori delle carceri, i responsabili della Polizia penitenziaria ecc.” ha spiegato. La Chiesa nelle carceri ispira da tempo la sua azione a questo modello, generando attraverso le associazioni laicali esperienze di grande valore, ma c’è bisogno che le buone azioni si strutturino in cultura condivisa e in leggi: “La riparazione - sottolinea padre Occhetta - è un modello duro e occorre che le parti lo scelgano volontariamente; la mediazione non è negoziazione e l’utilizzo di misure alternative aiuterebbe la macchina della giustizia a diminuire i tempi dei processi e a umanizzare la riabilitazione durante l’espiazione della pena”. La giustizia riparativa è innanzi tutto “un prodotto culturale, capace di promuovere percorsi di riconciliazione senza dimenticare le esigenze della giustizia retributiva (incentrata sul rapporto tra il reato e la pena) e della giustizia riabilitativa (più attenta al recupero del detenuto). Si tratta quindi prima di tutto di un modello culturale, che ha un nobile precedente nelle “Commissioni Verità e Riconciliazione” del Sud Africa, volute da Nelson Mandela, in una fase di superamento del conflitto”, si legge in un testo che richiama l’evento fondativo della giustizia riparativa ai nell’istituzione, in Canada, dei Programmi di riparazione vittima-colpevole. Questi ultimi risalgono alla prima metà degli anni 70 e introdussero nella sentenza di condanna stabilita dal giudice alcuni accordi di riparazione scaturiti da una serie di incontri tra rei e vittime di reato; secondo quest’interpretazione, la giustizia riparativa si inserisce quindi in un contesto di tentativi e di esperienze di soluzione della controversia orientati a una risposta riparativa, possibilmente concordata tra offensori, vittime e comunità civile, e, in prospettiva, potrebbe portare a una riforma. È l’auspicio di chi la coltiva, ci sono già delle sperimentazioni nell’ambito della giustizia minorile e anche l’istituto della “messa alla prova” anche per gli adulti e la possibilità di estinguere il reato con “lavori di pubblica utilità” si inscrivono in questo percorso. Papa Francesco ha detto che bisogna “rendere giustizia alla vittima, non giustiziare l’aggressore”, ma don Pietro non si fa illusioni. Sa che riannodare i fili spezzati con l’atto criminoso non è semplice né scontato, anche se è provato che la società ci guadagnerebbe, se è vero che scontare la pena con misure alternative abbatte la recidiva fino al 5%, mentre il 41bis e l’ergastolo ostativo “non estinguono il danno provocato dal reato e non raggiungono l’obbiettivo di una società riconciliata”. Riannodare i fili è l’immagine che si usa in Sardegna per rappresentare questo percorso, perché non è solo un’immagina ma anche un’attività: “Nei nostri 10 anni di attività nel mondo della detenzione - spiega suor Annalisa Garofalo, della cooperativa “Ut unum sint” - abbiamo sempre fatto riferimento al progetto da cui è nata la nostra storia. “Riannodare i fili spezzati dal reato significa accompagnare coloro che hanno beneficiato del progetto in un cammino di libertà e di inserimento lavorativo e di rielaborazione del reato. Abbiamo sempre intrecciato fili simbolicamente identificati con il vissuto di ciascuna persona inserita nel progetto. Abbiamo utilizzato diversi telai fino ad oggi. Ed ora utilizziamo telai per tessere tutti i tipi di filati e creare degli arazzi”. I colori rappresentano i vissuti dei detenuti e al centro c’è sempre il rosso, il colore delle vittime. Da sapere: una sfida anche culturale che vuole riparare il danno - Con il termine “giustizia riparativa” si intende un percorso che ha l’obiettivo di permettere a chi ha commesso un reato di rimediare alle conseguenze delle sue azioni. Per fare questo è necessario attivare un processo che, grazie all’intervento di mediatori, coinvolga, purché vi aderiscano liberamente, le vittime (o i familiari) i rei, e la società civile. Non è un modo per accorciare la durata della pena, ma per tentare di ‘ripararè un danno. Il crimine, in questo senso, viene visto anche come qualcosa che provoca la rottura di aspettative e legami sociali, e per questo ci si può attivare per tentare di ricomporre questa frattura. Sessualità dietro le sbarre di Vittorio Sgarbi Il Giornale, 29 dicembre 2017 A proposito del carcere, e della tortura, la privazione della libertà e l’obiettivo della rieducazione, spesso mancato, non possono essere anteposti alla natura e agli istinti dell’uomo. Mi riferisco alla sfera sessuale e affettiva, che nessuna pretesa rieducazione, neanche in nome di principi religiosi, può limitare. In nome di quale astratto principio io devo interdire l’istinto e l’esercizio della sessualità, costringendo un detenuto a orientarsi inevitabilmente verso l’omosessualità e alla idealizzazione di una dimensione amorosa impraticabile? Io conosco bene questa condizione, perché, con minor trauma, l’ho vissuta in collegio, nelle sordide camerate, nei bagni alla turca. Lì ho avvertito la frustrazione sessuale dei preti, e ho sfiorato le attrazioni bisessuali di alcuni compagni predisposti. E non era un carcere! E i fine settimana i genitori ti portavano fuori, restituendoti all’aria libera. Ricordo che, una volta, salii su una vetturetta dell’autoscontro, invitando una ragazza con me. Alla fine della corsa, il prete che ci accompagnava pretese di salire al posto della ragazza; e io lo mandai al diavolo, aprendo una stagione di conflitti, che segnò il mio successivo soggiorno (e anche il mio carattere) fino a quando fui cacciato. Ora, come può lo Stato torturare in carcere, fino a deviarne la sessualità, un uomo che si pretende di rieducare, come dispone l’articolo 27 della Costituzione? Come la mettiamo? E i magistrati non ne avvertono la responsabilità? Il processo penale è una fabbrica. Fallita di Bruno Tinti La Verità, 29 dicembre 2017 Procedimenti di sei tipi. Nessuno produce nulla. I politici giocano con carte truccate e hanno nascosto quella più importante: la prescrizione. Per quasi tutti i reati non si può più essere condannati dopo 7 anni e mezzo. E una causa dura in media 8 anni. Immaginatevi una grande fabbrica di automobili. L’ad (amministratore delegato) compra le materie prime e vende le automobili finite; poi incassa i soldi con cui comprerà le nuove materie prime per continuare la sua attività; e che gli serviranno anche per pagare gli operai e le tasse. A un certo punto il padrone gli dice che non è più soddisfatto e che, se non trova il modo di dargli subito molti più soldi, lo licenzierà. Il nostro ad lo sa che, più di così, la fabbrica non rende; ma licenziato no, non se ne parla. Così comincia a vendere le automobili già prodotte a prezzi più bassi della concorrenza. Non guadagnerà abbastanza per comprare quanto gli servirebbe per fabbricare altre automobili, ma poco gliene importa: al momento quello che conta è dare soldi al padrone che così non lo licenzierà. Certo, i nodi arriveranno al pettine; ma ad ha un’altra freccia al suo arco: sa che di altri ad sul mercato non ce ne sono tanti. Anzi, ancora meglio: ce ne sarebbero ma il padrone non si fida; e se rifiutassero di vendere in perdita con la risibile scusa che, in questo modo, si distruggerebbe la fabbrica? Quindi tutti in gloriosa marcia verso il fallimento: quando succederà ci si penserà. Bene, anzi male. Perché la fabbrica di cui voglio parlare oggi è la giustizia penale. Il processo penale è una fabbrica fallita, che non produce niente, che serve a dar da mangiare (sempre meno) a quelli che ci lavorano e a mantenere in sella l’ad (ministri e politici vari) che racconta al padrone (il popolo sovrano) che tutto va bene e che giustizia è fatta. Così il popolo non lo licenzia in tronco e comunque, quando ha qualche dubbio, non sa a che santo votarsi: chi potremmo mandare al posto suo? Vero, c’è un certo Bruno Tinti, ma c’è da fidarsi? Di processo penale non ce ne è uno solo; ce n’è 6: ordinario, immediato, direttissimo, abbreviato, patteggiamento, decreto penale di condanna. Ordinario è quello “normale”: indagini, udienza preliminare, tribunale, appello e Cassazione; è quello da 8 anni di durata media (quindi da 12/14 anni per i processi veri, le guide senza patente durano “solo” 4 anni). L’immediato è uguale: solo che si salta l’udienza preliminare, quindi si risparmia un anno mal contato; però bisogna portare l’imputato davanti al tribunale entro 90 giorni dall’inizio delle indagini. Il direttissimo è uguale all’immediato ma l’imputato deve essere in tribunale entro 48 ore dall’eventuale arresto o entro 30 giorni dalla convalida dell’arresto. L’abbreviato si celebra in udienza preliminare; da qui si va direttamente in appello e Cassazione. Il patteggiamento elimina del tutto il processo, si fa anche solo davanti al PM; poi però, se non viene concesso, ci si può riprovare in tribunale e in appello. Infine il decreto penale: si trasforma l’eventuale pena carceraria in una multa; se l’imputato non la paga, processo ordinario (anche per una guida senza patente!): tribunale, appello e Cassazione. La logica di tutto questo? Risparmiare tempo: il pm lavora in fretta ed è pronto a sostenere l’accusa dopo soli 3 mesi di indagine? Saltiamo l’udienza preliminare. L’imputato è disposto a rinunciare al dibattimento con tutta la trafila di testimoni, periti ed eccezioni e contro-eccezioni ogni giorno? Giudizio abbreviato avanti al gip sulla base di quanto risulta dalle indagini del pm con pena scontata di un terzo in caso di condanna e possibilità di ricorrere in appello e in Cassazione. L’imputato rinuncia al processo e patteggia? Pena diminuita di un terzo rispetto a quella che gli toccherebbe con il rito ordinario. Detta così, non è male. Il popolo (il padrone della fabbrica) crede (o fa finta di credere) che la produzione sia efficiente e remunerativa; i ministri e i politici vari (l’ad) continuano a godersi le loro poltrone. Ministri e politici giocano con carte truccate; prima di tutto perché hanno nascosto quella più importante, la prescrizione. Siccome, per la quasi totalità dei reati, non si può più essere condannati dopo 7 anni e mezzo; e siccome tutti sanno che la durata media del processo penale è di 8 anni (per i processi importanti di 12/14 anni); solo un povero di mezzi e di mente deciderà di abbreviare o patteggiare. Perché facilitare le cose a una giustizia che tanto non riuscirà mai a condannarmi? Sicché, di fumo negli occhi si tratta. Ma c’è di peggio. I processi importanti hanno tanti imputati. E qualcuno, ogni tanto, parla, racconta, confessa. Perché lo fa? Ovvio, gli hanno promesso una pena ridotta: confessa, patteggia, e fuori dalle scatole. Fai l’abbreviato, ci risparmiamo il dibattimento: una messa che non finisce mai... Meno lavoro per noi. Sì, ma della sua confessione e delle accuse che ha rivolto agli altri imputati può tenersene conto nel processo principale? Certo che... no. Il processo funziona sulla base della “oralità”, il patteggiante deve tornare in udienza e raccontare tutto di nuovo per filo e per segno. Il che ovviamente non succede: la legge gli riconosce il diritto di non deporre. E, in base al principio, giuridicamente inesistente ma storicamente fondamentale, del “chi ha avuto ha avuto e chi ha dato ha dato”, il patteggiante o l’abbreviante “si dà”; cioè non viene proprio in udienza e, se ce lo si porta coni carabinieri, “si avvale della facoltà di non rispondere”. Del che gli imputatigli saranno riconoscenti; il processo si trascinerà fino alla sua conclusione naturale: prescrizione o, se proprio va male, assoluzione per insufficienza di prove (non si chiama più così, pudicamente si dice “assoluzione ex articolo 530 secondo comma: manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova”); e (in)giustizia sarà fatta. Naturalmente il rimedio ci sarebbe: puoi patteggiare o abbreviare ma subordinatamente all’impegno di presentarsi nel processo a carico degli altri imputati e confermare la confessione e le chiamate in correità; altrimenti... torni in prigione. E però. Quanti giorni (mesi) di sciopero farebbero gli avvocati? I nostri ad non hanno il coraggio di spiegare al padrone che hanno paura di affrontare questa minaccia (i mezzi giuridici ci sono, ma questa è un’altra storia) e che, soprattutto, gli avvocati sono una parte importante dello stesso padronato e possono facilmente mandarti a casa. Quindi al diavolo la fabbrica, continuiamo così e qualcosa succederà. In realtà, qualcosa è già successo: la fabbrica “giustizia penale” è diventata una fabbrica in cui entrano camion carichi di carta ed escono camion carichi di carta. Però come ammortizzatore sociale è fantastica: giudici, avvocati, personale amministrativo, poliziotti vari, centinaia di migliaia di persone che ci campano sopra. È un po’ come scavare buche di notte e riempirle di giorno (John Maynard Keynes). La giustizia è un’altra cosa. Ma chi glielo dice al popolo/padrone? Intercettazioni ultima chiamata. Oggi il decreto di Giulia Merlo Il Dubbio, 29 dicembre 2017 Passa al fotofinish. Il decreto intercettazioni voluto dal ministro Andrea Orlando è oggi sul tavolo dell’ultimo Consiglio dei Ministri prima dello scioglimento delle Camere, per la sua definitiva approvazione. C’è anche il decreto intercettazioni all’ordine del giorno dell’ultimo Consiglio dei Ministri del 2017. Oggi, in una corsa contro la fine della legislatura, diventerà definitiva la legge sugli ascolti giudiziari, uno strumento investigativo che pesa sul bilancio annuale del ministero della Giustizia per circa 230 milioni di euro. Le nuove norme entreranno in vigore dopo sei mesi dalla pubblicazione in Gazzetta ufficiale. Il testo è un prodotto di mediazione tra il tentativo di limitare la pubblicazione delle intercettazioni, la necessità di disciplinare l’utilizzo dei nuovi strumenti investigativi, come i Trojan, e la necessaria garanzia delle tutele difensive. I difensori - In materia di garanzie di libertà del difensore, è previsto il “divieto di utilizzazione” delle intercettazioni tra avvocato e assistito, il cui contenuto “non può essere trascritto, neanche sommariamente, e nel verbale delle operazioni sono indicate soltanto la data, l’ora e il dispositivo su cui la registrazione è intervenuta”. Il testo sul tavolo del Consiglio dei Ministri contiene, poi, alcune modifiche rispetto al testo licenziato in novembre. I difensori delle parti ricevono avviso della facoltà di esaminare gli atti (annotazioni, verbali, registrazioni e decreti che li hanno disposti) dopo il deposito da parte del pm (che ha l’obbligo di deposito entro 5 giorni dalla conclusione delle operazioni). Gli avvocati possono “prendere visione degli elenchi, nonché ascoltare le registrazioni e prendere cognizione dei flussi di comunicazioni”. Inoltre, i penalisti avranno 10 giorni dalla ricezione dell’avviso (raddoppiati rispetto ai 5 del primo testo), prorogabili fino a 30, per consultare le intercettazioni rilevanti e irrilevanti, trascritte o non trascritte e chiedere “l’acquisizione delle comunicazioni” “non comprese nell’elenco formato dal pubblico ministero, ovvero l’eliminazione di quelle, ivi indicate, inutilizzabili o di cui è vietata la trascrizione”. In materia di estrazione e copia degli atti, i legali avranno diritto a fare copia degli atti considerati utili al processo, ma dopo una prima valutazione di che cosa non sia rilevante svolta da parte del Gip. Viene meno dunque la cosiddetta “udienza stralcio”, in cui tutto il materiale intercettato confluiva direttamente nel fascicolo del pm per essere esaminato e di cui il difensore poteva estrarre copia. Pm - Cambia la procedura di deposito degli atti e di selezione del materiale ascoltato. Prima le conversazioni vengono depositate, poi avviene l’acquisizione di quelle rilevanti e lo stralcio di quelle irrilevanti, che vengono conservate nell’archivio riservato. L’ufficio del pm ha l’obbligo di istituire questo archivio dei verbali e delle registrazioni, il cui accesso e sorveglianza è posto sotto la diretta responsabilità del titolare del fascicolo. Secondo il nuovo testo, il pm potrà riportare nelle ordinanze e nelle richieste di custodia cautelare “soltanto i brani essenziali delle comunicazioni intercettate”. Viene dunque vietata la trascrizione anche sommaria delle comunicazioni considerate irrilevanti ai fini delle indagini e “nel verbale delle operazioni sono indicate, in tali casi, soltanto la data, l’ora e il dispositivo su cui la registrazione è intervenuta”. La trascrizione di queste ultime può avvenire solo con decreto motivato del pm, qualora “ne ritiene la rilevanza”. Polizia giudiziaria - In materia di trascrizione, è stato introdotto il divieto di trascrizione anche sommaria delle conversazioni irrilevanti per le indagini. Ma, a carico della polizia giudiziaria incaricata degli ascolti c’è l’obbligo di “informare preventivamente il pubblico ministero con annotazione sui contenuti delle comunicazioni e conversazioni”. Al momento della trascrizione, dunque, sarà l’agente di pg a scegliere che cosa considerare rilevante o meno, ma dovrà comunque fare un riassunto dell’audio delle intercettazioni considerate irrilevanti, in modo che il pm possa, teoricamente, verificarne il contenuto. I giornalisti - Nel decreto rimane la previsione del nuovo articolo 617sexies del codice penale, che prevede il reato di “Diffusione di riprese e registrazioni fraudolente”, procedibile a querela e che prevede la reclusione fino a quattro anni per chi diffonda “con qualsiasi mezzo riprese audio o video compiute fraudolentemente, di incontri privati o registrazioni anche telefoniche o telematiche”. Il testo, infine, prevede uno speciale tipo di accesso “legittimo” agli atti giudiziari da parte dei giornalisti. A partire dal 2019 (il decreto prevede 12 mesi di adeguamento tecnico-giuridico per gli uffici giudiziari), infatti, i giornalisti avranno il diritto di chiedere copia delle ordinanze del Gip, una volta che esse siano state notificate alle parti. Intercettazioni e giornali: c’è qualcuno che ha letto la Costituzione? di Piero Sansonetti Il Dubbio, 29 dicembre 2017 In questi giorni sono stati molti i giornalisti, i politici, gli intellettuali, le donne e gli uomini pubblici, che hanno esaltato la Costituzione. Se escludiamo qualche giornale di destra, è stato un coro unanime, in occasione del settantesimo anniversario della sua entrata in vigore, che cadrà lunedì prossimo. Giusto un anno fa uno schieramento imponente di forze politiche, di editori, di opinion maker, di magistrati, si unirono per respingere il referendum che aveva voluto Renzi (con lo scopo di abolire il bicameralismo, cioè un aspetto secondario, non di principio, della Costituzione repubblicana) sostenendo che la Costituzione è il bene supremo della nostra democrazia, e dunque va difesa ed applicata. Benissimo. Volevo solo ricopiare qui le due righe delle quali è composto l’articolo 15 della Costituzione. Cioè uno degli articoli contenuti nella prima parte, quella che stabilisce i principi fondamentali. Dice così, quell’articolo: “La libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili. La loro limitazione può avvenire soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge.” I padri Costituenti discussero a lungo su questo articolo, che modificava un principio - contrario alla segretezza - che era contenuto nel precedente Statuto, cioè lo Statuto Albertino del 1848. L’affermazione del diritto alla riservatezza, quale principio essenziale della libertà, fu una grande innovazione. Ora io vorrei capire bene questo: perché se esiste il diritto alla riservatezza della corrispondenza e di tutte le altre comunicazioni (telefoniche, informatiche eccetera eccetera) viene invece considerata una legge “bavaglio”, quindi autoritaria, una eventuale legge che dovesse affermare questo principio costituzionale, e dunque impedire che sui giornali vengano pubblicate le intercettazioni telefoniche o ambientali o telematiche eseguite dalla polizia? Non è piuttosto autoritaria l’abitudine a violare i diritti di libertà e di privatezza dei cittadini, a beneficio della stampa e degli editori? Mi pare una domanda talmente ragionevole e banale, che davvero non riesco a capire chi, in buona fede, potrebbe sostenere che è sbagliata. La Costituzione prevede solo la possibilità di limitare questo diritto (non abolirlo: li-mi-tar-lo) per ragioni giudiziarie evidentemente eccezionali, tanto da dover essere esplicitamente motivate. Mi pare abbastanza evidente che queste ragioni possono essere legate solo ed esclusivamente a necessità di indagine e, probabilmente, dovrebbero essere indagini legate alla difesa della sicurezza pubblica. Non voglio qui entrare nel merito della discussione su quali siano queste necessità e quanto possa essere allargato questo “stato di eccezione”, né su come, molto spesso, le intercettazioni - lette male - possano fuorviare le indagini. Voglio discutere un’altra cosa: l’uso giornalistico delle intercettazioni. Secondo voi, leggendo quell’articolo della Costituzione, si può dedurre che l’autorità giudiziaria possa autorizzare una sospensione di un diritto costituzionale per fornire del materiale ai giornali? Mi sembra un’ipotesi improbabile. Oppure si può pensare che la pubblicazione delle intercettazioni sui giornali possa favorire lo svolgimento delle indagini? Chiaro che non è così, né mai nessuno ha adombrato questa possibilità. Dunque è del tutto evidente che la pubblicazione sui giornali delle intercettazioni è in ogni caso in conflitto inconciliabile con un fondamentale principio costituzionale. Dopodiché ciascuno può continuare a pensare quel che vuole, e chi ha il potere di fare le leggi può decidere finché non interviene la Corte Costituzionale - di fare delle leggi che sono in conflitto con alcuni articoli della Costituzione. Solo che bisognerebbe avere il coraggio di dire la verità: la richiesta di poter usare le intercettazioni sui giornali non risponde a una necessità di difendere la libertà di stampa - che è tutt’altra cosa - ma alla necessità di usare i giornali come strumenti di punizione preventiva dei presunti colpevoli, in attesa del processo. Cioè serve a far funzionare esattamente quel meccanismo che sta alla base di una democrazia mediatico- giudiziaria. Che è una democrazia molto debole, perché in debito assai forte col diritto. Meno segreti sulle intercettazioni: i primi passi (e i dubbi) di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 29 dicembre 2017 Si è ancora ben lungi da un accesso diretto e trasparente del giornalista agli atti non più segreti. Tuttavia l’embrione di norma responsabilizza e alza gli standard deontologici. Su 7.730 cronache giudiziarie di 6 mesi, nel 2016 gli avvocati penalisti rilevarono che solo il 7,3% riportava intercettazioni, a loro volta riguardanti estranei alle indagini solo nel 7,5% dei casi: eppure l’asserita “gogna mediatica” sui “terzi” ha carburato la nuova legge sulle intercettazioni, di cui solo l’esperienza potrà saggiare le farraginosità già segnalate da avvocati e procuratori. Già al momento dell’ascolto la polizia giudiziaria possiederà l’iniziativa di scremare in un archivio riservato le intercettazioni che riterrà irrilevanti, senza trascriverle in brogliacci ma avvisando il pm, che da “veggente” cercherà di intuire se invece tra esse ve ne siano di rilevanti da salvare: poi toccherà al difensore fare l’”esploratore” in cerca di quelle utili all’indagato, ma in molto meno tempo (10 giorni in generale) e molto più alla cieca (potendo il legale solo ascoltare gli audio ma non farne copia, e avendo per orientarsi solo giorno-ora-apparecchio). Il legislatore, sbilanciato sulla carsica idea che vorrebbe schiacciare le cronache sulla sola rilevanza giudiziaria (anziché anche sull’interesse pubblico di notizie vere e proposte con essenzialità e continenza), cerca però di riposizionarsi facendo cadere il segreto dopo l’ordinanza con cui il gip, al termine del contradittorio tra accusa e difesa sullo stralcio delle intercettazioni irrilevanti, acquisisce al fascicolo quelle rilevanti; e prevedendo che dal 2019 l’ordinanza di custodia cautelare sia pubblicabile subito e interamente, non più solo nel contenuto fino all’udienza preliminare (come oggi per tutti gli atti non coperti da segreto). Sfugge il senso del perché sì l’ordinanza d’arresto e non anche i singoli atti (pure non più segreti) su cui si basa; e del perché sì solo l’arresto (che per definizione all’inizio è una foto solo dell’accusa) e non anche le ordinanze successive magari favorevoli alla difesa (come un Riesame che annulli l’arresto). Si è dunque ancora ben lungi da un accesso diretto e trasparente del giornalista agli atti non più segreti, dal 2006 qui più volte proposto come antidoto al Far West del (finto) proibizionismo e come anzi miglior garanzia proprio per le persone al centro di cronache giudiziarie di interesse pubblico. Tuttavia l’embrione di norma responsabilizza e alza gli standard deontologici dei giornalisti. E alla lunga può forse approdare all’accesso diretto se renderà insostenibile l’attuale diniego degli uffici giudiziari a riconoscere ai giornalisti l’”interesse” richiesto dall’art. 116 c.p.p., in base al quale “durante il procedimento chiunque vi abbia interesse può ottenere il rilascio a proprie spese di copie di singoli atti”. Tanto più se di un atto di cui la legge dal 2019 esplicita la piena pubblicabilità. Nelle intercettazioni la falla dell’ordinanza cautelare di Glauco Giostra* Il Sole 24 Ore, 29 dicembre 2017 L’ordinanza cautelare costituisce oggi il più consistente immissario, nel bacino dei mass media, di notizie processualmente irrilevanti, spesso lesive della riservatezza e della reputazione delle persone. Per una deprecabile, ma non illegittima prassi, infatti, vi sono spesso riportate anche conversazioni intercettate assolutamente inutili per l’accertamento dei fatti che il pm, non meno deprecabilmente, ha posto alla base della richiesta. La delega per la riforma delle intercettazioni si fa carico del problema: non potendosi in tal caso far ricorso ad una preventiva selezione nel contraddittorio delle parti del materiale captato, per la natura di atto a sorpresa del provvedimento cautelare, la delega pretende che sia il p.m. ad operare una prima cernita. Prevede, infatti, che questi selezioni il materiale da inviare al giudice a sostegno di una misura cautelare, assicurando la riservatezza dei dati “irrilevanti ai fini delle indagini in quanto riguardanti esclusivamente fatti o circostanze ad esse estranei”. Lo schema di decreto legislativo in via di approvazione prescrive poi, molto opportunamente, che il giudice restituisca al pm “per la conservazione nell’archivio riservato” gli atti concernenti le comunicazioni e le conversazioni intercettate “ritenute non rilevanti”. Questo doppio filtro, tuttavia, rischia di restare ineffettivo o comunque di intervenire tardivamente, perché la richiesta di misura cautelare, per quanto ciò possa risultare incredibile, non è coperta dal segreto ed è quindi pubblicabile. Gli atti coperti dal segreto, infatti, a norma dell’articolo 329 del Codice di procedura penale sono soltanto “gli atti di indagine compiuti dalla polizia giudiziaria e dal pubblico ministero”. La disciplina dell’articolo 329 costituisce attualmente una grave “smagliatura” del sistema, perché non prevede che siano segreti atti non di indagine della polizia giudiziaria e del pm (ad esempio, la richiesta del pm di autorizzare una intercettazione telefonica o di disporre una misura cautelare) e gli atti del giudice (ad esempio, il decreto con cui il giudice autorizza una intercettazione telefonica o l’ordinanza con cui dispone una misura cautelare). Si tratta, peraltro, di una smagliatura non rammendabile a livello interpretativo, costituendo l’articolo329 il contenuto precettivo di norme penali (articoli 326, 379bis e 684 del Codice penale), e in quanto tale insuscettibile di applicazione analogica. Tanto è vero che il legislatore delegato ha apprestato l’unico rimedio possibile, con un intervento additivo sull’articolo 329. Se il decreto legislativo verrà approvato, saranno coperti dal segreto anche “le richieste del pm di autorizzazione al compimento di atti di indagine e gli atti del giudice che provvedono su tali richieste”. Nel tessuto normativo, tuttavia, rimarrebbe un fallo piuttosto vistoso: resterebbero fuori dall’area del segreto e del conseguente divieto di pubblicazione la richiesta di misura cautelare del pm e l’ordinanza che la dispone, anche prima della sua esecuzione o notifica. Su sollecitazione parlamentare si è previsto che l’ordinanza cautelare non soggiaccia ai limiti di pubblicabilità degli altri atti, in base alla considerazione che secondo le nuove regole difficilmente potrebbe contenere dati processualmente irrilevanti. Il problema però è malposto e sarebbe opportuna una correzione di tiro. L’ordinanza cautelare già ora è atto non segreto - lo è, per cosi dire, a doppio titolo: in quanto atto non di indagine e non della polizia giudiziaria o del pm - e quindi pubblicabile. Ed è bene che tale resti, una volta però che sia eseguita o notificata: le ragioni che hanno indotto a restringere la libertà personale di un cittadino debbono essere trasparenti e conoscibili dalla collettività attraverso i media. Quello che si deve invece stabilire espressamente è che prima di tale momento il procedimento cautelare rimanga coperto dal segreto e dal divieto di pubblicazione, con un duplice, irrinunciabile obbiettivo: scongiurare che l’effetto sorpresa sia vanificato da una intempestiva propalazione della richiesta di misura cautelare ed evitare che siano divulgate intercettazioni irrilevanti ad essa eventualmente allegate disattendendo la nuova disciplina, prima che il giudice possa estrometterle ed inviarle all’archivio riservato. *Docente di Procedura penale - Roma La Sapienza È mafia anche se non ci sono armi di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 29 dicembre 2017 Corte di cassazione - Sezione VI - Sentenza 28 dicembre 2017 n. 57896. Sarà pure non tradizionale, non “storica”, ma pur sempre di mafia si tratta. E l’attività criminale del clan Fasciani a Ostia vi rientra a pieno titolo. La Corte di cassazione, con la sentenza 57896 depositata ieri ha accolto il ricorso della Procura generale e ribaltato sul punto la pronuncia di appello. Senza mezzi termini infatti, la sentenza afferma che il mancato riconoscimento del carattere mafioso del clan Fasciani ha violato la norma incriminatrice dell’articolo 416 bis del Codice penale ed è in contraddizione con i dati probatori emersi nel corso del procedimento. Per la Corte, allora, per configurare il reato di associazione di tipo mafioso, la forza di intimidazione espressa dal vincolo associativo può essere indirizzata a minacciare tanto la vita e l’incolumità personale, quanto “anche o soltanto, le essenziali condizioni esistenziali, economiche o lavorative di specifiche categorie di soggetti ed il suo riflesso esterno in termini di assoggettamento non deve tradursi necessariamente nel controllo di una determinata area territoriale”. Nel perimetro dell’articolo 416bis non rientrano quindi solo grandi associazioni di mafia ad alto numero di componenti, dotata di mezzi finanziari imponenti, e in grado di assicurare assoggettamento e omertà attraverso il terrore e la continua messa in pericolo della vita delle persone, ma vi possono essere comprese anche “piccole “mafie” con un basso numero di appartenenti (bastano tre persone) non necessariamente armate, che assoggettano un limitato territorio o un determinato settore di attività avvalendosi, però, del metodo dell’intimidazione da cui derivano assoggettamento e omertà”. Anche una sola condotta può esprimere allora la forza di intimidazione del vincolo associativo. E l’essere armati o utilizzare materiale esplosivo non costituisce un elemento essenziale del reato, visto che si tratta invece di una possibile modalità di azione che aggrava la responsabilità degli appartenenti all’organizzazione. E, venendo all’aspetto dell’omertà, la sentenza mette in evidenza come non serve una generalizata e sostanziale adesione alla subcultura mafiosa e neppure una situazione di esteso terrore tale da impedire qualsiasi tipo di ribellione: basta invece un diffuso, ma non generale, rifiuto a collaborare con gli organi dello Stato, motivato dal timore dell’attuazione di minacce che possono provocare danni importanti alla persona o alle cose, dalla paura di ritorsioni. Il numero effettivo dei soggetti coinvolti come vittime allora non è determinante se è credibile che la diffusività del fenomeno criminale potrà condurre a un’estensione progressiva delle persone coinvolte. Di più, e con riferimento a recenti precedenti, non è neppure necessaria la prova che l’impiego della forza intimidatoria del vincolo associativo sia penetrato in odo massiccio nel tessuto economico e sociale del territorio di riferimento. Stalking per chi perseguita un soggetto con un profilo Facebook e sms telefonici di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 29 dicembre 2017 Corte di cassazione - Sezione V penale - Sentenza 28 dicembre 2017 n. 57764. Stalking per l’uomo che - a seguito della rivelazione alla moglie da parte di altra donna di una relazione extraconiugale - commetta atti persecutori nei confronti dell’amante. Lo precisa la Cassazione con la sentenza n. 57764/2017. I fatti - L’imputato - si legge nella sentenza - aveva creato un profilo Facebook denominato “lapidiamo la rovina famiglie” in cui erano postate foto, filmati e commenti con riferimenti più o meno espliciti alla parte offesa e alla sua relazione con l’imputato. A tal proposito è del tutto irrilevante - puntualizzano i Supremi giudici - che la vittima potesse ignorarli semplicemente non accedendo al profilo, in quanto l’attitudine dannosa è riconducibile alla pubblicizzazione di quei contenuti. Oltre a questo l’imputato aveva posto in essere condotte consistite in sms dal contenuto ingiurioso e minaccioso. Il tutto aveva avuto inevitabilmente notevoli ripercussioni psicofisiche, ingenerando nella donna una forte paura che l’aveva portata dallo psicoterapeuta che le aveva prescritto farmaci ad hoc. Il cambiamento delle abitudini di vita - Tali prescrizioni, peraltro, non avvenivano sulla base di una sintomatologia dichiarata, ma a seguito di una valutazione anamnestica e diagnostica. La parte offesa a seguito di ciò aveva cambiato le proprie abitudini di vita, con un nuovo lavoro, nella decisone di non frequentare più certi luoghi e di non uscire più sola. Come confermato da un orientamento sempre più consolidato di legittimità è sufficiente che il soggetto offeso sia costretto - a seguito di comportamenti persecutori di terzi - a cambiare in negativo il proprio stile di vita per integrare il reato di stalking. Depenalizzazione, non è reato la falsa firma sulla distinta bancaria di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 29 dicembre 2017 Corte di cassazione - Sezione V - Sentenza 28 dicembre 2017 n. 57699. La depenalizzazione del reato di falsa in scrittura privata riguarda anche le distinte bancarie. La conseguenza giuridica è che l’impiegato disonesto si può condannare, come nel caso esaminato, per il furto del denaro di una cliente deceduta, ma non per le false firme dell’erede sui fogli che autorizzavano i prelievi: con un inevitabile sconto di pena. La Corte di cassazione, con la sentenza 57699 depositata ieri, accoglie, sebbene con motivazioni diverse, in parte il ricorso del funzionario e quello della banca coinvolta nel giudizio come responsabile civile. L’imputato era stato ritenuto responsabile della falsificazione di varie distinte, forse fatte firmare da terzi rimastati ignoti, e dei relativi prelievi di denaro, con operazioni fatte sul conto corrente intestato ad una cliente non più in vita. Ordini, siglati con il falso “autografo” dell’ erede della correntista, che gli erano valsi la condanna per furto e per il reato di falso in scrittura privata, previsto dall’articolo 485 del Codice penale. La Suprema corte, analizzando gli atti, considera provato il furto del denaro da parte del funzionario, ma cancella il falso in scrittura privata abbassando la pena. I giudici ricordano, infatti, che l’abrogazione del crimine per affetto del Dlgs 7/2016, non può non riguardare anche le distinte utilizzate per le operazioni bancarie. I giudici sottolineano che, sebbene l’abolizione del reato comporta per il giudice dell’impugnazione anche l’obbligo di revoca delle statuizioni civili, resta salva per la persona offesa la possibilità di promuovere azione di risarcimento e di sollecitare l’applicazione a carico dell’autore della condotta illecita delle sanzioni civili previste dalla norma. La condanna è dunque annullata senza rinvio per quanto riguarda il reato cancellato. Verdetto annullato anche per la banca, “triangolata” nella causa. La celebrazione del rito abbreviato a carico dell’imputato comporta, infatti, l’automatica esclusione da questo del responsabile civile. Anche se il giudice non ha provveduto ad estrometterlo e la banca non ha sollevato eccezione. “Tutti abbiamo servito tutti”: un Natale di volontariato per 4 detenuti di Biagio Campailla Ristretti Orizzonti, 29 dicembre 2017 25 dicembre 2017, quattro detenuti della Casa di Reclusione “Due Palazzi” di Padova escono alle ore 10:15, per percorrere la strada verso la chiesa dell’Immacolata per servire i poveri, là dove la Comunità di S. Egidio prepara il pranzo di Natale. Accompagnati dai volontari della comunità, Maria Ferrari con il marito Massimo, arrivano i quattro detenuti, Antonio, Biagio, Daut e Massimiliano, che incontrano altre volontarie, Silvia, e Maria Cinzia Zanellato. Quest’ultima è anche il direttore artistico del teatro “Due Palazzi”. Tutti entrano in chiesa mentre è in corso la celebrazione della Santa messa natalizia. Oltre trecento persone partecipano a questo importante rito religioso. Alle ore 13:00 s’iniziano a preparare i tavoli dentro la stessa chiesa; un’ottantina di volontari, compresi i detenuti, sono impegnati ad apparecchiare i posti a sedere. Il mio nome è Biagio, sono uno dei quattro detenuti che hanno partecipato come volontari a questa meravigliosa iniziativa. È da tantissimi anni che non festeggiavo il Santo Natale in mezzo alla gente, per anni l’ho passato in cella chiuso dentro quattro mura, ricordo che nel 2014 la regista Silvia Giralucci era stata autorizzata a registrare un video-documentario dentro la mia cella del carcere “Due Palazzi”, per riprendere dei momenti nella giornata di Natale di un ergastolano nella propria cella. Nello stesso tempo altre telecamere riprendevano la mia famiglia a casa, per vedere com’è il Natale per la famiglia di un ergastolano. È stato un documentario triste, che ha fatto vedere dei figli che sono orfani di un padre che è ancora vivo. Oggi mi è stata data la possibilità di fare del volontariato per alcune ore, anche per una mia scelta, perché il mio pensiero è che ad ogni detenuto va data un’altra possibilità nella vita. L’occasione di fare del volontariato penso possa essere una di queste. Ti aiuta a comprendere dove hai sbagliato per la società, soprattutto venendo a contatto con la sofferenza delle persone. Può aiutare il detenuto a capire le proprie responsabilità nel suo reato, a riflettere sul fatto che fare del male alle persone é anche un modo di distruggere se stessi. Oggi poter offrire alle persone la nostra disponibilità ci fa sentire uomini. È un modo per restituire alla società qualcosa che le avevamo sottratto, vedere che noi possiamo donare anche una carezza, un sorriso, un gesto d’amore ci rende felici, di una felicità che non avevamo forse mai provato nella nostra vita. Cos’è stata questa giornata per noi? Ci è stato assegnato il tavolo n. 7; attorno ad esso una trentina di profughi senegalesi, della Sierra Leone, della Repubblica del Congo. Tutte persone fuggite dal loro paese a causa di guerre e conseguenti problemi di sostentamento. Non volevamo parlare della loro sventura che già conosciamo tutti, volevamo donargli un sorriso, un abbraccio, una speranza, parlare la loro lingua, il francese, aiutarli a nutrire fiducia e speranza. Gli abbiamo servito dei pasti caldi, della frutta, il panettone, alla fine dei regali che aveva confezionato la stessa Comunità di S. Egidio. Durante la pausa incontriamo il Vescovo di Padova, Don Claudio Cipolla, e gli portiamo gli auguri dei detenuti del “Due Palazzi”. Lui con un sorriso ci risponde: “Sono felice che oggi ci siete anche voi, spero che sarete sempre di più”. Alla fine manda gli auguri a tutti i detenuti, e ci invita a riferire che a gennaio verrà a trovarci. Nessuno aveva capito che eravamo dei detenuti, anche perché al nostro tavolo c’erano anche due volontari di sostegno, Mattia e Caterina. Arriva la fine del pranzo, e ci presentiamo con le telecamere della nostra Redazione TG 2Palazzi, perché io, Biagio, e Daut, oltre che essere dei detenuti, siamo anche degli operatori della Redazione di Ristretti Orizzonti, addetti alla sala registrazione. Invece Antonio è un volontario della Casa di Accoglienza “Piccoli Passi”, Massimiliano è un operatore del Call Center della Cooperativa Giotto. Iniziamo a intervistare Mattia; nel frattempo gli comunico che siamo dei detenuti. Mattia rimane con la bocca aperta, mi dice “non avrei mai pensato che eravate dei detenuti. Sono felice di avere lavorato con voi!”. I ragazzi del tavolo capiscono che siamo dei detenuti che abbiamo servito il pranzo, iniziano ad abbracciarci. A qualcuno gli escono le lacrime. Intervisto anche Caterina, che ci rilascia la sua testimonianza per i detenuti, le sue parola sono state bellissime: Oggi, Tutti abbiamo servito tutti. Abbiamo intervistato anche dei volontari della comunità di S. Egidio, che ci hanno rilasciato le loro testimonianze. Alla fine ci siamo abbracciati tutti. Il cuore si emoziona quando incontro Giulia, una signora padovana davanti alla porta della chiesa. Mi confida con voce sottile: “Sono felice di trovarmi qui oggi. È la prima volta che vengo, gli altri anni li ho passati con mia figlia. Ora lei non c’è più, e sono rimasta da sola. Ma oggi non mi sento più sola, adesso sono qui con voi”. Incontro Fatma, una donna araba, anche lei con le lacrime agli occhi. Mi confida che era rimasta da sola e dormiva a casa di una sua amica, era rimasta senza lavoro, e non aveva più un tetto. Per lei oggi pranzare insieme ad altri con un pasto caldo la rendeva felice. Sentire delle testimonianze così mi ha emozionato. Noi detenuti abbiamo tradito la società, oggi abbiamo trovato degli amici che ci aspettano fuori, questi sono i volontari e i poveri. La più bella cosa di questo giornata è aver percepito nel profondo che le diverse etnie o la religione non ci potevano separare. Eravamo, ma soprattutto ci sentivamo, tutti uguali. Vogliamo ringraziare tutti per averci dato questa possibilità di farci sentire ancora persone umane. Nessuno nasce cattivo, o ci vuole rimanere per sempre. Ci avete donato qualcosa di speciale che non avevamo mai ricevuto nella nostra vita. Grazie, da Antonio, Biagio, Daut, e Massimiliano. Piemonte: rapporto del Garante regionale dei detenuti sui problemi delle carceri cuneesi di Lorenzo Boratto La Stampa, 29 dicembre 2017 Rapporto sulle principali criticità presentato dal Garante regionale dei detenuti. Il carcere di Alba sovraffollato e con date “poco credibili per riapertura completa”, quello di Saluzzo mezzo vuoto a causa di una cucina fatiscente e del poco personale, a Cuneo il vecchio padiglione giudiziario è chiuso da 10 anni. A Fossano “come già segnalato, resta l’insufficienza degli spazi destinati ai ristretti in regime di semilibertà o ammessi al lavoro esterno, così alcuni di loro sono nelle celle con i detenuti comuni”. E tutte le carceri cuneesi sono “logore per il sovraffollamento grave degli anni passati”. Sono i contenuti del dossier sulle “principali criticità strutturali” dei 13 istituti penitenziari piemontesi, presentato l’altro giorno e curato dal garante regionale Bruno Mellano e dai diversi garanti cittadini (Alessandro Prandi per Alba, Mario Tretola per Cuneo, Rosanna Degiovanni per Fossano e Bruna Chiotti per Saluzzo). Mellano spiega: “Entro un mese sono attesi i decreti attuativi del ministro Andrea Orlando, che riformeranno tutto l’ordinamento penitenziario dopo le condanne europee del 2009 e 2013 al sistema carcerario italiano. Un cambiamento radicale, come non avveniva dagli Anni ‘70, ma anche le migliori riforme si confronteranno con le strutture carcerarie che abbiamo: datate e problematiche. Servono attenzione e investimenti. Quasi ovunque non ci sono spazi adatti per socialità, istruzione, laboratori, lavoro: una costante rilevata in tutte le relazioni dei garanti cittadini. Senza strutture adeguate resta lettera morta l’articolo 27 della Costituzione”. In 14 pagine ci sono rilievi e critiche dettagliate. Per Alba, chiuso a causa della legionella, si legge che “appena riaperta, la sezione ha ospitato 55 detenuti, con un affollamento del 157%”. È vero che “è ripresa, pur in spazi ridotti, la formazione per operatori agricoli, ma nulla si sa di certo sulla completa riapertura della struttura”. A Fossano invece si rileva “la scarsità di spazi destinati alla socialità e alle attività, indispensabili a seguito dell’applicazione del regime detentivo di sorveglianza dinamica”, mentre a Saluzzo “solo 2 delle 4 sezioni della nuova struttura sono state aperte a dicembre 2016” per una “pesante carenza di personale”. Sempre più critica la situazione della vecchia cucina: “impianto elettrico non più adeguato, perdite d’acqua anche dal soffitto” e le cappe rotte che “obbligano a tenere le finestre sempre aperte per disperdere il vapore; paradossalmente a fianco della vecchia cucina è presente un nuovo locale attrezzato e mai attivato”. Infine Cuneo: “Si usa solo il nuovo padiglione e i problemi derivano direttamente da una cattiva progettazione ed edificazione del passato”, inoltre “sarebbe auspicabile un potenziamento dell’attività di floricoltura”. Sul ritorno del 41 bis “risulta che i necessari lavori di adeguamento non siano conclusi” ed è carente la possibilità di lavorare “in un carcere in cui la popolazione reclusa è quasi al 70% straniera”. Tra i direttori, Giuseppina Piscioneri, alla guida di Fossano e Alba, preferisce non commentare, mentre Giuseppe Leggieri, da quasi 10 anni a Saluzzo, spiega: “Ci sono interventi edilizi in corso, altri già programmati. Siamo una delle carceri più complesse del Piemonte, con 360 detenuti e decine di ergastolani in due circuiti differenti che non si devono incontrare. Abbiamo lavorato per non essere un sistema isolato, ma parte della comunità. Ad esempio ci sono oggi 140 posti di lavoro in carcere, un numero che ha pochi eguali”. Avellino: aveva un tumore, niente test per un anno e lui è morto di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 29 dicembre 2017 Giuseppe Ferraro, condannato a 4 anni e arrestato a maggio 2016, aveva un cancro al pancreas. In cella da subito ha presentato sintomi gravi, ma i domiciliari sono arrivati troppo tardi. presentato un esposto all’autorità giudiziaria affinché provveda ad imputare l’unità sanitaria carceraria. Era stato arrestato - già sofferente - nel carcere di Avellino, ma poi una volta messo ai domiciliari, è morto poco dopo con atroci sofferenze a causa di un tumore che gli era stato diagnosticato troppo tardi mentre era recluso. Una storia che riguarda l’ennesimo fallimento del sistema sanitario che vige all’interno dei nostri penitenziari. Una vicenda di incompatibilità carceraria che non gli era stata immediatamente riconosciuta nonostante presentasse sintomi gravi come forti dolori alle gambe, allo stomaco e diarrea, assieme alle varie patologie già diagnosticate come il diabete in stato avanzato e cardiopatia. Ora, grazie alla denuncia presentata dai legali Annibale Schettino e Carolina Schettino, la procura di Avellino ha deciso di vederci chiaro e soprattutto verificare se ci siano state negligenze da parte dei medici del carcere. Sì, perché l’uomo di 66 anni non era stato curato adeguatamente visto che il tumore al pancreas non gli era stato diagnosticato in tempo. Ma andiamo con ordine. Si chiamava Giuseppe Ferraro, 66 anni, e venne arrestato nel maggio del 2016 per una condanna definitiva di 4 anni. Già dal momento dell’arresto, Ferraro presentava varie patologie come il diabete in stato avanzato, cardiopatia, deambulazione ridotta e male all’addome. Per questo motivo, nell’immediatezza, venne depositata istanza di detenzione domiciliare o sospensione della pena al competente magistrato di Sorveglianza di Avellino, che impegnò l’ufficio del sanitario del carcere di Avellino per avere contezza sulle condizioni di salute del detenuto. Nonostante la visibile sofferenza di Ferraro, il sanitario del carcere ritenne compatibili le condizioni di salute e quindi l’stanza venne rigettata. I familiari non era convinti e venne incaricato il consulente medico legale per una visita in carcere: lo specialista aveva subito chiesto di procedere agli esami clinici con tac e altri accertamenti. “Sono stati eseguiti accertamenti clinici - spiegano a il Dubbio gli avvocati Annibale e Carolina Schettino, che richiedevano ulteriori approfondimenti sulle lesioni pericentimetrali al pancreas. Accertamenti eseguiti solo dopo 1 anno in carcere, quando fu diagnosticato il tumore (giugno-luglio 2017) ormai in stato avanzatissimo e non più curabile”. A quel punto, a distanza di un anno dall’arresto, il detenuto Ferraro fu scarcerato e messo ai domiciliari, dove poi morì con atroci sofferenze dopo qualche settimana. I penalisti dello studio legale Schettino hanno quindi inviato un esposto all’autorità giudiziaria affinché provveda ad imputare l’unità sanitaria carceraria “per quanto ad essa ascrivibile e - si legge nell’esposto -, comunque, per omicidio colposo, per omissione degli esami clinici e delle cure che, certamente, avrebbero alleviato e tenuto in vita il Ferraro Giuseppe”. I legali si rifanno all’orientamento espresso da una sentenza della Cassazione che confermò la condanna di alcuni medici per imprudenza e negligenza, rigettando la loro pretesa adesione alle linee - guida per escludere la loro responsabilità. Resta il fatto oggettivo che l’omessa o ritardata diagnosi ha negato sicuramente ogni approccio terapeutico precoce, portando Ferraro alla morte con atroci sofferenze. I penalisti che difendono l’uomo deceduto hanno presentato anche una richiesta di risarcimento al ministero della Giustizia che ha prontamente risposto invitandoli a rivolgersi all’Asl citando un decreto ministeriale del 2008 che sancisce il trasferimento della sanità penitenziaria al Servizio sanitario nazionale e i Servizi sanitari regionali. Con esso, infatti, assieme alle funzioni, sono state trasferite al Fondo sanitario nazionale e ai Fondi sanitari regionali le risorse, le attrezzature, il personale, gli arredi e i beni strumentali afferenti alle attività sanitarie nelle carceri. Certamente si trattò di una grande conquista, ma la riforma della sanità penitenziaria stenta ancora a dare i risultati attesi in termini di effettività del diritto alla salute dei cittadini detenuti. Tanti passi avanti sono stati fatti, ma rimane il discorso del mancato accertamento dell’incompatibilità carceraria o meno di alcuni detenuti, visto che diverse patologie non possono essere curate in carcere. Non di rado i detenuti muoiono per cause naturali che possono essere evitate. Giuseppe Ferraro è morto fuori dal carcere, ma se avessero eseguito subito gli accertamenti necessari quando era detenuto e soffriva di lancinanti dolori, sarebbe stato scarcerato e curato adeguatamente. Enna: morì in carcere per eroina, ricorso del ministero contro condanna al risarcimento di Josè Trovato Giornale di Sicilia, 29 dicembre 2017 Facendo sì che nessuno si accorgesse di niente, all’interno del carcere di Enna dove era detenuto, si iniettò in vena l’eroina e morì, a seguito di un’overdose. Aveva solo venticinque anni. Adesso il ministero della Giustizi dice “no” a pagare un risarcimento danni ai familiari del giovane Salvatore Giglio, quasi un milione di euro che, secondo il Tribunale di Caltanissetta, dovrà sborsare il dicastero di via Arenula, ritenuto colpevole civilmente, per quella che è stata ritenuta una “responsabilità oggettiva”: non aver garantito la salute del ragazzo all’interno delle mura carcerarie. Il risarcimento è stato impugnato in appello dall’avvocatura dello Stato. E la causa di secondo grado, già istruita di fronte alla Corte d’appello di Caltanissetta, andrà in sentenza il 18 febbraio 2018. Lauro (Av): D’Amelio e Ciambriello a pranzo con le detenute dell’Icam Il Mattino, 29 dicembre 2017 “Dedicare due ore qui, stare con voi e con i piccoli, vale di più che stare dieci ore a discutere nelle nostre riunioni”, Rosetta D’Amelio presidente del Consiglio regionale e Samuele Ciambriello, garante dei detenuti a pranzo con le detenute e i loro bambini all’istituto di custodia attenuata di Lauro. La presidente in visita all’unico Icam del Mezzogiorno, si rivolge alle detenute, al termine della visita all’Istituto di custodia attenuata per le mamme con i bambini di Lauro D’Amelio è visibilmente emozionata. “Ero stata qui molti anni fa - ricorda D’Amelio - e non avevo trovato una situazione piacevole. Oggi, con i lavori che sono stati fatti, ho trovato una condizione a dimensione umana, con la quale è possibile lavorare affinché queste ragazze non tornino più qui, una volta scontata la loro pena”. Le risponde a nome di tutte Marcella, 36 anni, detenuta di Casalnuovo, tre figli di cui una, la più piccola di 4 anni, a Lauro con lei. “La ringrazio a nome di tutte, perché per un giorno, non ci ha fatto sentire detenute”. L’Icam di Lauro è l’unica struttura del Mezzogiorno che può accogliere sino a 35 donne detenute con i loro figli. Attualmente ci sono sette donne e nove bambini fino a quattro anni d’età. “È una struttura - aggiunge D’Amelio - che può essere d’esempio anche per altre regioni, solo a Milano c’è un’altra simile, al Sud siamo gli unici e dobbiamo esserne fieri. Come Regione stiamo lavorando per essere ancora più vicine alle detenute e sostenerle nel loro compito di madri, anche con l’aiuto di educatrici e volontarie”. Ieri mattina il Garante dei detenuti, con D’Amelio ha visitato per la seconda volta la struttura da poco ristrutturata. Ad accoglierli Paolo Pastena, direttore del Carcere di Avellino e dell’Icam di Lauro, le volontarie della cooperativa il Quadrifoglio insieme alla responsabile Lidia Ronghi, e alla funzionaria della Polizia Penitenziaria. Una visita che è iniziata con l’incontro con il cappellano Padre Carlo De Angelis che ha celebrato la Santa Messa. “Quella di Lauro è un’esperienza molto significativa. Faccio un appello - dice Ciambriello. Nelle cinque case circondariali femminili, o nei reparti femminili delle carceri della Campania e della Puglia, si possono verificare le condizioni per trasferire qui donne detenute che hanno figli fino a sei anni. È un’azione importante per migliorare le condizioni di vita in carcere. Come Garante sto lavorando su questo aspetto e, come ha detto la presidente D’Amelio, per incentivare la presenza di educatrici e operatori nel carcere”. Poi il dialogo affettuoso con le detenute e i loro figli nel quale la presidente D’Amelio ha voluto sottolineare “la premura di valorizzare l’esperienza di una struttura accogliente soprattutto per i minori”. D’Amelio ha donato ai piccoli i giocattoli, mentre Ciambriello abitini. Infine il pranzo, conviviale, festoso, come si fa in tutte le case in questi giorni natalizi. “Proprio pochi giorni fa - spiega Ciambriello - abbiamo presentato e fatto approvare all’ufficio di Presidenza un progetto che partirà a fine gennaio che prevede l’attivazione di forme di baby-sitting per le detenute che hanno anche bisogno di tempo da dedicare a se stesse”. “Torneremo - hanno promesso D’Amelio e Ciambriello - per aiutarvi e per far sì che i vostri bambini si sentano accolti e seguiti”. Larino (Cb): lunga attesa al freddo per colloqui con detenuti, protestano familiari primonumero.it, 29 dicembre 2017 Proteste ieri mattina 28 dicembre davanti al carcere di Larino da parte di alcuni familiari di detenuti rinchiusi nel penitenziario frentano che attendevano di poter entrare per i consueti colloqui. “Siamo in attesa da quasi due ore - ha spiegato una ragazza poco prima delle 11 del mattino. Non voglio farci entrare, ci hanno detto di aspettare, ma qui fa freddissimo, il vento ha ribaltato una panchina e con me c’è mia madre che è invalida civile. Non è modo di trattarci, è una vergogna”. Dalla direzione del carcere, la dottoressa Rosa La Ginestra ha fatto sapere che “in questi giorni le richieste di colloqui sono molto numerose, per via delle festività. Noi abbiamo 12 posti disponibili per volta e un sistema di prenotazione, ma bisogna arrivare in orario oppure aspettare. C’è chi prenota tardi ma arriva prima o viceversa. Sicuramente oggi fa freddo ma questo non dipende da noi”. Parma: progetto “L’altra città”, vivere la prigione in un pomeriggio d’inverno di Michela Pagano parmateneo.it, 29 dicembre 2017 L’arte nel carcere e sul carcere apre le porte ai giovani grazie al progetto “L’altra città”. Può l’arte rappresentare una via d’uscita e un contatto col mondo esterno per la popolazione detenuta? Quanto incide l’esperienza detentiva sulla vita di una persona? A queste domande ha cercato di rispondere il progetto “L’altra città”, pensato da Giovanni Lamarca, comandante della Polizia penitenziaria di Taranto e presentato alle detenute e ai detenuti lavoratori della casa circondariale “Carmelo Magli” e alle classi quinte del Liceo Ginnasio Statale “Aristosseno” di Taranto. Si è trattato della realizzazione di un laboratorio di storia dell’arte che, attraverso la spiegazione di alcuni principi fondamentali della pratica artistica, ha reso consapevoli i detenuti del valore comunicativo e sociale di un’opera e, allo stesso tempo, ha coinvolto i giovani in una realtà a loro sconosciuta. I detenuti sono stati impegnati nell’allestimento, anche artistico, delle celle detentive immaginarie dove i ragazzi hanno svolto il loro percorso. Essi hanno infatti partecipato ad un laboratorio artistico che li ha portati a trascorrere un pomeriggio “site specific” presso il primo piano della sezione femminile del carcere di Taranto, attualmente destinata a detenute sottoposte a regime di semilibertà, sfruttando una semisezione con quattro camere detentive non occupate a causa del ridotto numero di presenze. Tale iniziativa è consistita in un percorso sensoriale e interattivo, arricchito dalla presenza di alcuni attori, che ha coinvolto il visitatore in un viaggio mentale capace di catapultarlo in una realtà carceraria trasfigurata, ponendolo nelle vesti di un detenuto virtuale. Ad accogliere il visitatore un tappeto lungo circa 20 metri, ricoperto dalle fotocopie anonime delle carte d’identità dei parenti dei detenuti, con l’obiettivo di mostrare come l’ingresso in carcere rappresenti il calpestamento della propria dignità e di quella dei propri cari. Più avanti una cupola di plexiglass interrompe il percorso del visitatore, ponendogli dinanzi una serie di foto delle detenute partecipanti al progetto nell’atto di voler uscire, rendendo così manifesto il desiderio di libertà e contemporaneamente l’ansia di rendersi visibili affinché il mondo non si dimentichi di loro. Tuttavia l’inizio vero e proprio dell’immaginario percorso detentivo ha origine con l’immatricolazione. In una stanza adiacente alla semisezione, in un immaginario ufficio registrazione, l’ospite viene immatricolato mediante una fotografia frontale ed una laterale, l’indicazione del proprio nome e cognome e la rilevazione dell’impronta digitale del pollice destro e sinistro. La macchia d’inchiostro diventa così un ricordo indelebile per il visitatore, costretto in questo modo a portare con sé un segno dell’esperienza vissuta come metafora del marchio che molti ex detenuti ricevono dalla società una volta liberi. “Il momento dell’immatricolazione credo sia il più brutto in assoluto - dice Clara, 18 anni, studentessa del liceo linguistico internazionale di Taranto. In quel momento dici addio alla libertà ed entri in un luogo che, per quanto abbia uno scopo rieducativo, è comunque un luogo di restrizione e costrizione”. Immediatamente dopo l’immatricolazione, un ex appartenente al Corpo di Polizia penitenziaria in uniforme accoglie il visitatore annunciando la sua prima ubicazione: cella nuovi aggiunti. Questa camera rappresenta il passaggio vero e proprio da uno stato di libertà ad uno di restrizione. Il partecipante, isolato per qualche minuto, trova dinanzi a sé una cella arredata in maniera essenziale, con brande e materassi e una serie di pensieri, frasi, racconti, disegni, messaggi da parte delle detenute. La riproduzione alquanto realistica descrive il primo approccio alla vita da recluso, il più traumatico, quello che risuona nella mente umana come una condanna a morte. Un’unica opera appesa alla parete: “The big eletric chair” di Andy Warhol. Subito dopo un nuovo passaggio: la cella ordinaria. Questa stanza rappresenta la stabilizzazione del percorso di prigionia. I muri sono interamente tappezzati da estratti di sentenze e ordinanze cautelari alternati a liste della spesa, insieme ad arredi e suppellettili verosimili realizzati dalle detenute. Anche qui trova spazio una sola opera: “Il tribunale dell’inquisizione” di Goya. Dopo qualche minuto il terzo passaggio, quello alla cella di isolamento. Al visitatore viene fatto vivere uno dei momenti più bui della vita di un detenuto. “Una stanza buia, con scarsissime fonti di luce. Ero solo con me stesso, e mi sembrava di percepire come unico rumore il mio respiro” racconta Marco, anche lui studente liceale. Le pareti completamente nere, un’unica branda, le lenzuola di carta, anti impiccagione. Al muro affissi alcuni capolavori della storia dell’arte rappresentanti il memento mori: il “San Francesco in preghiera” e il “San Girolamo” di Caravaggio, “La Maddalena penitente” di De La Tour, “Il volto della guerra” di Dalì, “L’isola dei morti” di Böcklin. Infine, ultima tappa del viaggio, la cella dimittendi. Il locale che rappresenta l’ultimo passaggio della vita detentiva, un momento carico di speranze e di propositi. Alla parete un poster di una spiaggia esotica, al soffitto una carta da parati raffigurante cielo e nuvole, accanto un orologio a caratteri rossi ad indicare il lento scorrere dei secondi che separano il detenuto dalla libertà. E proprio dopo qualche minuto l’agente annuncia il passaggio alla libertà. “Ogni cella ha le sue caratteristiche, ma il filo conduttore è solo uno: non sei libero, sei costantemente osservato e l’unica libertà che hai sembra essere quella di contare i giorni che mancano al rilascio”, spiega Marco. Il visitatore, uscito dalla cella, ripercorre a ritroso la sezione, osservando con uno spirito nuovo i numerosi capolavori della storia dell’arte con soggetti tratti da un’ambientazione carceraria. Giunti al cancello si legge la scritta “Arte è libertà?” e per poter uscire è necessario attraversare una tenda elastica raffigurante un muro, metafora della fatica che ogni detenuto fa per reinserirsi nella società una volta libero. Il progetto si è posto un triplice obiettivo: l’implementazione di attività culturalmente rilevanti in favore della popolazione detenuta; provocare nei detenuti, attraverso l’apprendimento della storia dell’arte, una riflessione sul proprio percorso di detenzione e più in generale di vita, stimolando anche eventuali talenti e propensioni utili per il percorso di vita successivo alla detenzione; aprire il carcere alla società, per dargli visibilità e alimentare una riflessione sulla condizione dei reclusi. Attraverso il passaggio in un corridoio di transito, l’immatricolazione in un ufficio registrazione artefatto, l’alternarsi di diverse camere detentive trasformate per simulare il ciclo completo di una detenzione, i giovani visitatori hanno infatti vissuto un’esperienza intensa che li ha portati a riflettere non solo sul carcere ma anche sulle personali prigioni nella vita sociale e affettiva. Lo spiega bene Gabriella, studentessa diciottenne partecipante al progetto: “Vivere un’esperienza del genere è stato davvero interessante. Spesso si parla della realtà detentiva ma solo vivendola si può capire cosa si prova effettivamente dietro le sbarre. Sono stata pervasa da un insieme di emozioni impossibili da controllare perché all’interno delle celle il senso di vuoto ti inghiottisce completamente. Sei lì in silenzio, sola con te stessa e a farti compagnia c’è solo il battito del tuo cuore e il suono dei tuoi pensieri che man mano diventa sempre più assordante”. Volterra (Pi): il carcere di ospita la cena di gala della festa della Befana maremmanews.it, 29 dicembre 2017 Chef d’eccezione il gastronomo Leonardo Romanelli. Serata speciale alla Casa di Reclusione di Volterra che farà da cornice alla serata di gala della festa in programma dal 5 al 7 gennaio. In cucina anche una delegazione di ex allievi l’Alberghiero Buontalenti di Firenze. Il ricavato a sostegno della Fondazione Stella Maris di Calambrone (PI). Volterra: Uno speciale fuori programma dell’edizione da poco inaugurata è in arrivo venerdi’ 5 gennaio alla Casa di Reclusione di Volterra: in occasione dell’attesissima Festa della Befana, appuntamento del corpo provinciale dei Vigili del Fuoco di Pisa che dal 5 al 7 gennaio farà tappa proprio a Volterra, sarà il team delle Cene Galeotte a realizzare la tradizionale cena di gala. Con uno chef d’eccezione. A guidare i detenuti ai fornelli ci penserà infatti il giornalista e gastronomo fiorentino Leonardo Romanelli, storico coordinatore degli chef professionisti coinvolti dal 2006 nelle Cene Galeotte. Ad integrare la brigata di cucina Elia Bettarini, Giulio Izzo e Riccardo Porciani, freschi ex allievi dell’Istituto Alberghiero Buontalenti di Firenze la cui presenza rinsalda quel link tra carcere e formazione professionale che nel 2012 ha dato vita ad un altro bellissimo progetto-pilota: l’indirizzo alberghiero dell’istituto cittadino Ferruccio Niccolini interno al penitenziario di Volterra, divenuto subito un punto di riferimento anche per tanti giovani del territorio. Il coinvolgimento di detenuti e personale organizzativo delle Cene Galeotte renderà ancor più unico uno dei momenti clou della festa, una tre giorni che vedrà il corpo provinciale dei Vigili del Fuoco impegnato nella realizzazione di numerose iniziative per grandi e soprattutto piccini (dagli spettacoli di banda e sbandieratori al salvataggio acrobatico della Befana sui tetti di Piazza de Priori, passando per mostre di modellismo e la divertente “Pompieropoli”). L’incasso della cena - aperta al pubblico su prenotazione obbligatoria (allo 0588.87257, Consorzio Turistico Volterratur - 35 euro il costo a persona) - sosterrà la Fondazione Stella Maris (irccs-stellamaris.it) di Calambrone (PI), nata nel 1958 ed impegnata oggi attraverso il suo istituto di ricovero nell’assistenza a bambini ed adolescenti affetti dalle principali e più frequenti patologie del sistema nervoso e della mente. Ad accompagnare il menu i vini del Podere La Regola di Riparbella (PI), cantina fra le più apprezzate del panorama toscano che ha di recente inaugurato la nuova cantina “artistica” ecosostenibile alimentata ad energia pulita. Anche questa serata sarà resa possibile dal sostegno di Unicoop Firenze, che oltre a fornire gratuitamente le materie prime assumerà i detenuti. Il servizio sarà supportato dai sommelier della Fisar-Delegazione Storica di Volterra, dal 2007 partner del progetto impegnato anche nella realizzazione di corsi di avvicinamento al vino tesi a favorire il reinserimento dei carcerati. Le Cene Galeotte riprenderanno il loro corso “naturale” a partire da marzo, con altre cinque imperdibili serate firmate da grandi chef ed importanti cantine. L’antidoto per le fake news? Informare rispettando le regole di Matteo Angioli Il Dubbio, 29 dicembre 2017 Il primo novembre, durante un’audizione in Senato in cui è stato ascoltato il vice-presidente di Facebook Colin Stretch, il senatore statunitense Burr ha citato il caso di due gruppi Facebook, “Heart of Texas” nato “per la fermare l’islamizzazione del Texas” e “United Muslims of America” nato per “salvare la cultura islamica”. Piccolo particolare: entrambi sono fittizi. Non lo sono però le decine di persone che il 21 maggio 2016 si sono ritrovate a Houston nel medesimo luogo e alla stessa ora, su fronti opposti. Le manifestazioni erano state organizzate in qualche ufficio a San Pietroburgo, in Russia, a colpi di spot su Facebook. Costo totale dell’operazione: 200 dollari. L’8 dicembre l’ex vice presidente Joe Biden ha rivelato che la Russia ha interferito e interferisce anche in Italia. È interessante dunque ricordare che pochi giorni prima, il 4 dicembre, ai microfoni di Radio Radicale, il direttore de La Stampa Maurizio Molinari aveva detto che ai colossi digitali si presenta la finestra di opportunità per “rivedere le regole con cui pubblicano le notizie”. Un’affermazione non del tutto dissimile dall’azione di hacking nell’interesse pubblico proposta dal professor Ziccardi, docente di Informatica giuridica all’Università di Milano che, in occasione del convegno “Sos Stato di diritto: verso il diritto alla conoscenza” organizzato dal Partito Radicale ha sottolineato che il fenomeno delle fake news si può contrastare “facendo in modo che i dati veri diventino persistenti e virali”. È sicuro che lo sviluppo delle tecnologie e l’avvento del social media abbiano favorito questa dinamica intrusiva e che la risposta dovrà anche essere di natura tecnica. Ma è sufficiente? Quello delle fake news sembra rimanere un epifenomeno rispetto a un problema centrale, ovvero il perdurante aggravarsi dello stato di degrado delle “democrazie reali” - secondo la definizione con cui Marco Pannella tirava un amaro parallelo con i paesi a “socialismo reale” - iniziato da anni e accelerato nella sua gravità dalle fake news. Per decenni, il Partito Radicale e in particolare il leader Marco Pannella, hanno denunciato con rigore politico-scientifico le violazioni, gli abusi e le censure perpetrati dalle massime autorità dello Stato italiano, attentando ai diritti politici e civili dei cittadini italiani. A mo’ di esempio basta ricordare come Pannella definiva la Corte costituzionale: la “suprema cupola della mafiosità partitocratica”. A livello mondiale, il culmine di questo perdurante comportamento, il cui sedimento negli anni diventa una prassi politico- culturale, è stato la preparazione e l’esecuzione dell’attacco militare all’Iraq nel marzo 2003. Cosa erano le motivazioni dell’invasione se non vere e proprie fake news fabbricate ai più alti livelli dello Stato? Un’operazione fondata interamente sulla manipolazione e la presentazione di informazioni prodotte appositamente per giustificare una linea politica decisa lontano dal Parlamento. Dunque, se le autorità preposte a preservare il bene comune sono le prime a ingannare, a diffondere menzogne sempre più gravi, come stupirsi dell’epidemia di falsità, ambiguità che inondano ogni canale possibile, soprattutto quello apparentemente libero del web? Stiamo pagando adesso il debito intellettuale e morale contratto con lo scellerato attacco militare in Iraq nel 2003 quando i leader del mondo liberal- democratico sacrificarono sull’altare della sicurezza e della democrazia la credibilità loro e della secolare tradizione democratica dei rispettivi paesi. Se non è sufficiente prendere la dichiarazione di guerra come atto che coinvolge e segna il presente e il futuro di un paese, prendiamo le omissioni che hanno causato il crollo finanziario del settembre 2008 sul quale le istituzioni deputate al controllo hanno visibilmente mancato il loro obiettivo fornendo talvolta rassicurazioni truffaldine. Menzogne avvolte in menzogne, imperniate di segretezza. Che dire poi dei grandi temi di attualità che scuotono l’Unione Europea nelle sue fondamenta valoriali, cioè Brexit e indipendenza della Catalogna? I cittadini hanno potuto esprimere una decisione scaturita da una riflessione politica costruita attraverso informazioni, studi e ricerche offerte al pubblico mediante un contraddittorio, un dialogo tra le parti in gioco? O è stata una dinamica in cui hanno prevalso esclusivamente istinto e emozioni? È accettabile che il destino di una comunità di milioni di persone venga lasciato all’improvvisazione? Non è possibile sanzionare amministrativamente o penalmente la menzogna in politica - prendiamo come esempio la promessa, formulata nel Regno Unito in occasione del referendum sulla Brexit, di risparmiare 350 milioni di sterline alla settimana l’alternativa al propagarsi di notizie costruite ad arte è quella di avere dibattiti giusti e accessibili e far sì che l’Onu incoraggi questa dinamica virtuosa riconoscendo formalmente il diritto di ogni cittadino alla conoscenza, alla possibilità cioè di ricevere informazioni da parte delle autorità preposte senza ostacoli di alcun genere fatto salvo per operazioni di chiara sensibilità nazionale. Il 7 dicembre, il ministro britannico per la Brexit, David Davis, ha ammesso in un’audizione a Westminster che non esiste nessun tipo di impact assessment in nessun settore. Nessuna legge ad hoc, o “algoritmo verità”, potrà eliminare le cosiddette notizie false per il semplice motivo che sono sempre esistite e sempre esisteranno. Si tratta di un prodotto sul cui impatto esistono già leggi e norme sulla libertà di espressione, ma la mancanza di dibattito e di regole che lo regolino soffoca la democrazia e fa attecchire la gramigna delle falsità. Il Partito Radicale guarda con preoccupazione alle proposte che rischiano di soffocare ancora la libera espressione dei cittadini, pur di contrastare il fenomeno delle fake news. Chi stabilirà qual è una notizia vera o falsa? Conoscendo come le grande società telematiche agiscono e bloccano certe notizie per volere di regimi autocratici, quale sarà l’algoritmo affidabile? Più che sull’offerta e sulla produzione di fake news, è sulla domanda che occorre concentrarsi, disincentivandola. Se i cittadini oggi non sono più in grado di distinguere una notizia vera da una falsa; se i cittadini in tutto il mondo democratico hanno perso la fiducia non solo nelle istituzioni governative - perdita che si esprime chiaramente nei voti anti- sistema o nell’astensionismo - ma anche nei servizi di informazione che sono già sottoposti a leggi, regolamenti e controlli, il problema non può essere risolto soltanto con la censura. Vanno piuttosto richiamate con urgenza e convinzione queste regole. Occorre sottolineare e rivelare la mancata applicazione delle medesime, proprio come faceva il Centro d’Ascolto Radiotelevisivo che Marco Pannella ha sostenuto per anni. In altre parole è ora di richiamare le regole basilari della democrazia e di affermare il diritto alla conoscenza. In questo senso è utile richiamare le parole del senatore francese André Gattolin, eletto con Lrem ed iscritto al Partito Radicale, impegnato sulla riforma degli aiuti alla stampa in Francia, che ci ricorda che “informare e animare il dibattito fa parte della missione del servizio pubblico”. Soltanto la conoscenza dei nostri sistemi e il rispetto pieno delle regole democratiche può fungere da antidoto alla disinformazione di regime, siano i regimi stranieri o quelli interni. Negli ultimi anni delle loro vite, il prof. Bassiouni e Marco Pannella concordavano su un’inquietante circostanza: il mondo sta sostanzialmente andando nella direzione opposta a quella del 1948, quella cioè che perseguiva i diritti umani universali. Dobbiamo principiare dai principi, che sono le fondamenta dello stato di diritto di cui il diritto alla conoscenza è uno dei pilastri imprescindibili. Questo è ciò che ci vede impegnati e che stiamo perseguendo sotto la guida dei due saggi. Migranti. Fine infausta, niente ius soli e missione in Niger di Filippo Miraglia Il Manifesto, 29 dicembre 2017 Il Governo chiude l’anno e la legislatura con due scelte importanti riguardanti le politiche sull’immigrazione che segneranno pesantemente, in senso negativo, il suo bilancio politico. Da un lato Gentiloni sceglie di non porre la fiducia sul provvedimento che introduce ius soli e ius culturae. Dall’altro sposa fino in fondo la dottrina Minniti, confermando un impegno straordinario nella “guerra ai migranti” in quell’area dell’Africa da cui partono o transitano decine di migliaia di persone in cerca di protezione. In entrambi i casi si tratta di un calcolo elettorale sbagliato e di un regalo alle destre. Infatti, non usare tutti gli strumenti a disposizione per far approvare la riforma della legge sulla cittadinanza, sarà sbandierata come una vittoria in campagna elettorale da Salvini e Meloni (oltre che da Forza Nuova e Casa Pound). Inoltre le destre incasseranno l’assegno firmato da Gentiloni, Minniti e Pinotti con l’invio delle truppe in Niger per fermare i flussi migratori (ma anche per interessi economici e geopolitici) nell’Africa sub sahariana. Una decisione che consolida la retorica dell’invasione, sulla quale si basa gran parte della fortuna elettorale di tutti i movimenti neofascisti in Europa. Diminuiti gli arrivi dopo il vergognoso accordo con il governo di Tripoli Serraj e le milizie libiche (e dopo quello altrettanto vergognoso con Erdogan), l’Ue e l’Italia puntano a impedire ogni possibilità di fuga per i richiedenti asilo, scegliendone soltanto alcune migliaia all’anno da portare in Europa (si parla di numeri che vanno da 10 mila a 50 mila), in sfregio ad ogni principio di solidarietà internazionale, alle convenzioni e alle leggi per il diritto d’asilo. Il 2017 è stato un altro anno terribile per i diritti umani nel mondo e guerre, disastri ambientali, rapina della terra e delle sue risorse provocheranno un aumento delle persone obbligate a lasciare le proprie case. L’Africa sub-sahariana è oggi teatro di conflitti e persecuzioni su molti fronti. Eppure gli accordi con alcuni governi, anche con capi di stato su cui pendono mandati di cattura internazionali per crimini contro l’umanità, come nel caso del dittatore sudanese, vengono giustificati dall’obiettivo di bloccare i flussi. Un risultato da spendere in campagna elettorale, magari rivendicando la diminuzione degli arrivi e quindi dei morti (dimenticando quanti sono uccisi e torturati nell’inferno libico dove vogliono bloccarli) e il presunto successo della guerra al terrorismo. Se proviamo a fare un bilancio di fine anno, oltre che di fine legislatura, la guerra ai migranti non è che l’ultimo di una serie di atti che hanno caratterizzato l’operato di Minniti, che ha criminalizzato e reso impopolare in Italia anche chi svolge attività di solidarietà. Questa “dottrina” in politica estera si traduce in una nuova forma di colonialismo che utilizza l’aiuto ai Paesi d’origine e di transito (“aiutiamoli a casa loro”) per produrre maggiore controllo e repressione, intervenendo in molti scenari già di per sé instabili, aumentando i rischi di conflitto. Un anno nel quale l’Europa ha puntato tutto sui processi di esternalizzazione delle frontiere con il governo italiano a fare da capofila nel trasferire risorse, strumenti e soldati in un numero crescente di Paesi, per attrezzarli a combattere insieme una vera e propria guerra contro i migranti. Sul piano interno ricorderemo il 2017 come l’anno della legge Orlando Minniti, che per la prima volta cancella gran parte delle garanzie giurisdizionali per i rifugiati, con l’eliminazione dell’appello e del dibattimento davanti al giudice ordinario. Lo ricorderemo anche come l’anno del Codice contro le Ong, voluto dal Ministro dell’Interno per alimentare una campagna contro le organizzazioni umanitarie operanti salvataggi in mare, giustificando così il ricorso alla guardia costiera libica. Nella prossima campagna elettorale è necessario affrontare a viso aperto, nel dibattito pubblico, il veleno che è stato diffuso a piene mani, smontare la teoria del nemico, fare una battaglia esplicita e ampia contro il razzismo e i razzisti, per i diritti dei migranti. Senza questa scelta, si rischia di lasciare uno sconfinato campo libero ai discorsi e all’iniziativa elettorale delle destre xenofobe e non solo. *Vicepresidente dell’Arci L’anno nero dei bambini vittime di conflitti. L’Unicef: nessun luogo nel mondo è sicuro di Raphael Zanotti La Stampa, 29 dicembre 2017 In Siria e Iraq vengono usati come scudi umani, in Sud Sudan reclutati dai gruppi armati, nella Repubblica Democratica del Congo in 350.000 soffrono di malnutrizione grave. Cosa succede a un bambino quando finisce coinvolto in una guerra? Chi si deve occupare di loro? Quali diritti vengono loro negati? Il diritto internazionale e il senso di umanità dovrebbero prevedere la tutela di queste vittime, anche nei conflitti armati più cruenti. Ma invece di essere protetti, i bambini sono diventati gli obiettivi principali dei conflitti mondiali. Uccisi, vittime di stupri, rapiti, venduti, mutilati e reclutati per combattere, usati come scudi umani e lasciati a morire di fame: il 2017 è stato un anno terribile per i bambini coinvolti nei conflitti armati. Lo dice l’ultimo rapporto Unicef secondo cui, in questo momento, nessun luogo è sicuro per loro: le parti in guerra hanno palesemente ignorato le leggi internazionali per la protezione dei più vulnerabili. “I bambini sono stati obiettivi e sono stati esposti ad attacchi e violenze brutali nelle loro case, scuole e parchi giochi” ha dichiarato Manuel Fontaine, direttore dei Programmi di emergenza dell’Unicef. Attacchi che continuano ogni anno. Ma - ha detto Fontaine, “non possiamo diventare insensibili. Violenze di questo tipo non possono rappresentare una nuova normalità”. Secondo il rapporto 2017 di Unicef nei conflitti odierni i bambini sono diventati obiettivi in prima linea utilizzati come scudi umani, uccisi, mutilati e reclutati per combattere: stupro, matrimonio forzato, rapimento e riduzione in schiavitù sono diventate tattiche normali nei conflitti in Iraq, Siria, Yemen, Sud Sudan e Myanmar. Oltre alle conseguenze dirette dei conflitti, milioni di bambini soffrono di quelle indirette ma non meno gravi: malnutrizione, malattie e traumi visto che accesso a cibo, acqua e servizi igienici e sanitari vengono loro negati, danneggiati o distrutti durante i combattimenti. L’Unicef è tornata a chiedere a tutte le parti in conflitto di rispettare gli obblighi del diritto internazionale per porre subito fine alle violazioni contro i bambini e all’utilizzo delle infrastrutture civili come scuole e ospedali. Stati Uniti. Marijuana libera in California, è una rivoluzione di Massimo Gaggi Corriere della Sera, 29 dicembre 2017 Tra pochi giorni la cannabis potrà essere usata in cucina e in cosmetica. Si prevede un grande rinnovamento del costume ma anche un enorme giro d’affari. Con il rischio di infiltrazioni della malavita. La cannabis non potrà essere mescolata con l’alcol, la nicotina, la caffeina e i prodotti ittici. Ma potrà essere usata ampiamente in cucina e in cosmetica: sono già pronti biscotti, torte e gelati alla marijuana, e anche creme anticellulite e burro di cacao alla canapa. La cioccolata con cannabis ha molti fan, ma è vietato mettere “erba” nelle caramelle e altri dolciumi per i bambini. Fra due giorni scocca l’ora della marijuana libera in California: per l’America è una svolta nei costumi e nelle regole sociali. Col rischio di nuovi conflitti. Questa sostanza psicoattiva, a lungo al bando al pari di tutte le altre droghe anche se assai più leggera, anno dopo anno è stata parzialmente “riabilitata” man mano che alcuni Stati americani l’hanno dichiarata legale prima per uso medico, poi anche per consumo “ricreativo”. Il governo federale Usa, però, continua a considerarla illegale. Fin qui sono stati evitati conflitti perché gli Stati che hanno legalizzato la marijuana - Oregon, Colorado, Alaska, Washington State - si sono adeguati al voto di un referendum popolare e perché queste regioni, poco popolate, sono mercati abbastanza piccoli, alimentati da attività artigianali. Con la California, il più popoloso e ricco degli Stati dell’Unione, cambia tutto: per gli Usa e forse altrove, visto il peso economico e culturale che l’America ha nel mondo. Secondo i centri di ricerca, già in passato i 40 milioni di californiani spendevano 7,7 miliardi di dollari l’anno per acquistare “erba” illegalmente o per uso medico. Ora si prepara a un boom dei consumi. A Los Angeles sono già di moda i tea party a base di piante di canapa mentre lo Standard Hotel di Hollywood aprirà una dispensa di cibi alla marijuana. Nascono nuovi piccoli imprenditori, soprattutto imprenditrici perché a trasformare l’”erba” in business sono soprattutto donne. Ma è in arrivo la grande industria: l’affare è gigantesco. Con rischi di infiltrazioni criminali che le 276 pagine di regolamenti del governo della California non possono escludere. Il rischio maggiore è il riciclaggio perché in un Paese in cui quasi tutto il denaro si muove elettronicamente, per la marijuana bisognerà usare le banconote: le banche non concedono, infatti, i loro canali temendo di essere punite dal governo di Washington, visto che il commercio a livello federale è ancora reato. E il ministro della Giustizia, Jeff Sessions, promette una linea dura. Afghanistan. Attentati su attentati: ma per l’Europa è un “paese sicuro” di Riccardo Noury Corriere della Sera, 29 dicembre 2017 L’orribile attentato di ieri mattina contro il Tabian Media Center è la conferma ulteriore che l’Afghanistan e soprattutto la sua capitale Kabul sono tutto meno che luoghi sicuri. I dati più recenti compilati dalla Missione Onu per l’Afghanistan parlano chiaro: dal 1° gennaio al 30 settembre le vittime civili degli attentati sono state quasi 1.000 al mese, esattamente 8.019: 2.640 morti e 5.329 feriti. Tra poco usciranno i dati definitivi del 2017, che faranno di quello che sta finendo uno dei più sanguinosi anni della storia recente del paese. Forse, si registrerà un minuscolo decremento rispetto al 2016, quando vennero registrate 11.418 vittime civili. Riassumendo, in due anni, tra morti e feriti, le vittime saranno state certamente più di 20.000. Di fronte a questi numeri spaventosi, i governi europei (Ue e non) non fanno una piega e continuano ad aumentare i rimpatri forzati dei richiedenti asilo afgani, in evidente violazione del diritto internazionale. Secondo dati ufficiali dell’Unione europea, tra il 2015 e il 2016 il numero degli afgani rimpatriati dagli stati membri è quasi triplicato: da 3290 a 9460. Questo aumento corrisponde a un marcato calo delle domande d’asilo accolte: dal 68 per cento del settembre 2015 al 33 per cento del dicembre 2016. Secondo Eurostat, la Norvegia (che non fa parte dell’Unione europea) ha rimpatriato in Afghanistan 760 persone nel 2016 e 172 nei primi sei mesi del 2017. A ottobre Amnesty International ha descritto in un rapporto le storie orribili di afgani rimpatriati da Germania, Norvegia, Olanda e Svezia e che sono stati uccisi, sono rimasti feriti in attentati o sono costretti a vivere nella costante paura di essere perseguitati a causa del loro orientamento sessuale o della loro conversione al Cristianesimo. Tra gli afgani rimpatriati a forza dall’Europa c’erano anche minori non accompagnati, minorenni diventati adulti quando sono arrivati nel continente europeo e persone nate già in esilio. Diverse persone hanno raccontato ad Amnesty International di essere stati rimpatriati in zone dell’Afghanistan in cui non erano mai stati, nonostante la situazione di pericolo e l’impunità per violazioni dei diritti umani come la tortura. Il ricatto dell’Unione europea all’Afghanistan, formalizzato il 2 ottobre 2016 con la firma del “Joint Way Forward”, è evidente: niente soldi se non ti riprendi i tuoi connazionali. In Norvegia Taibeh Abbasi, una coraggiosa ragazza afgana, ha mobilitato la sua scuola, poi la sua città, poi il mondo per mettere a nudo questo vergognoso ricatto. Kenya. Natale in cella, adesso arriva l’acqua di Stefano Pasta Avvenire, 29 dicembre 2017 Nel carcere femminile di Nakuru, in Kenya, il regalo di Natale è l’installazione di una cisterna collegata a un sistema di raccolta dell’acqua piovana. Sarà in grado di rifornire tutta la prigione e per questo l’inaugurazione è stata una vera festa insieme alla Comunità di Sant’Egidio. Era presente anche il vescovo Maurice Makumba, che ha benedetto la risorsa che farà sì che le detenute non soffrano più la sete. Fino ad oggi, infatti, la struttura era sprovvista di una fornitura quotidiana d’acqua, costringendo le donne a condizioni igienico-sanitarie gravi. In diversi Paesi africani, Sant’Egidio visita ogni settimana le carceri, spesso segnate da scabbia, fame, sete e sovraffollamento. A Tcholliré, nel nord del Camerun, ogni settimana si distribuiscono sapone e cibo e incontrano ragazzini, a volte dodicenni, con pesanti catene di metallo ai piedi, che pagano con anni di reclusione il furto di una gallina o di un frutto. Altri sono ragazzi di strada, arrestati a scopo preventivo in un clima di repressione e paura per gli attentati terroristici di Boko Haram nel Nord del Paese. Non ci sono limiti alla custodia cautelare, si può rimanere dietro le sbarre per lunghi periodi prima del processo. Appena può, Sant’Egidio libera ragazzi come Ibrahim. La sua colpa? Aver tagliato un ramo di un albero per scaldarsi. “Sono di famiglie povere - spiegano dalla Comunità - pagando la spesa accumulata (dai 25 ai 100 euro), sarebbero rimasti in carcere ancora per chissà quanto tempo. Ora li aiuteremo a trovare un lavoro e a reinserirsi nella società”. Tibet. Monaco tibetano rischia di morire in carcere asianews.it, 29 dicembre 2017 Arrestato nel 2015. Era già malato. Costretto ai lavori forzati e sottoposto a tortura. I familiari possono vederlo per pochi minuti e non possono portare medicine. Continua la repressione in Tibet. La vita di un monaco tibetano, incarcerato per aver festeggiato il compleanno del Dalai Lama, è a rischio a causa del rapido declino della sua salute. A riferirlo sono fonti tibetane a Radio Free Asia (Rfa). Le condizioni di Choekyi, monaco del monastero di Phurbu nella contea di Serthar (cinese: Seda) in Sichuan, erano già compromesse prima del suo arresto per “attività separatiste” nel 2015. A quanto riferisce Rfa, il monaco soffre di vari disturbi, fra cui problemi renali e ittero, “peggiorati perché è stato torturato in prigione”. La fonte continua sostenendo che ad aggravare il quadro clinico del monaco sono stati i lavori forzati imposti dalle autorità carcerarie. Choekyi è detenuto nella prigione di Mianyang, dove le visite dei suoi familiari sono molto limitate: dopo un iniziale permesso a visitarlo due volte al mese, dall’ottobre di quest’anno le autorità hanno ridotto le visite a brevi incontri di cinque o 10 minuti. Inoltre, ai parenti è vietato portare medicine o cibo al detenuto. In Tibet, la figura del leader spirituale in esilio del Dalai Lama è motivo di dure repressioni da parte della autorità cinesi. Esposizioni di sue foto o pubbliche ricorrenze del suo compleanno sono punite con durezza. Dal 2008, nel 50mo anniversario dell’occupazione militare in Tibet, continuano proteste e auto-immolazioni contro il governo cinese e per il ritorno Dalai Lama.