Il Garante nazionale dei detenuti: “questa riforma ha reso più umano il carcere” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 28 dicembre 2017 È una delle persone che più si è battuta per portare a termine l’iter per l’attuazione della riforma dell’ordinamento penitenziario. Parliamo di Mauro Palma, Garante nazionale delle persone detenute o private della libertà personale. Attraverso il suo ufficio, composto da Emilia Rossi e Daniela de Robert, ha potuto visionare i decreti e formulare delle proposte prese poi in considerazione dall’ufficio tecnico di Palazzo Chigi. All’indomani dell’approvazione preliminare da parte del Consiglio dei ministri del decreto legislativo di riforma dell’ordinamento penitenziario, Mauro Palma ha espresso soddisfazione, auspicando che le modifiche introdotte, fortemente volute dal ministro della Giustizia, Andrea Orlando, e definite attraverso un’ampia consultazione, trovino al più presto una concreta attuazione. Il Garante ha commentato con Il Dubbio i punti principali della riforma. È stata approvata in via preliminare dal Consiglio dei ministri una prima parte importante dei decreti delegati. Quali sono? Il primo testo approvato riguarda l’assistenza sanitaria. Il punto caratterizzante di questa disposizione è l’equiparazione tra malattie fisiche e psichiche. Ci sono una serie di norme riguardanti il trattamento sanitario in carcere. Ad esempio c’è la previsione di sezioni specificatamente riferite all’infermità psichica sopravvenuta durante la detenzione, in questa maniera si rafforza la gestione sanitaria del carcere con un ruolo determinante delle Asl. Un altro aspetto fondamentale è che il medico non farà parte della commissione di disciplina e avrà quindi la libertà di chiedere l’interruzione di un eventuale situazione di isolamento che non sia compatibile con lo stato psichico fisico della persona. Poi ci sono le misure alternative. Sì, per quanto riguarda il testo sulle misure alternative c’è da dire che vengono messi in atto una serie di cambiamenti. Parliamo ad esempio dell’affidamento in prova. Secondo l’ordinamento attuale questa misura alternativa viene applicata alle persone che non hanno superato i tre anni di pena. Con il nuovo ordinamento la soglia si allarga a quattro, relativamente a quella da eseguire. Sempre per l’affidamento in prova, ci sono diverse indicazioni sull’esecuzione. Ad esempio coloro che non hanno una dimora propria, possono accedere a un luogo pubblico di cura, assistenza o accoglienza, oppure a un luogo di dimora sociale appositamente creata per l’esecuzione della pena. Poi, altro elemento importante, c’è anche il discorso relativo alla responsabilizzazione. All’atto dell’affidamento ci sarà un piano di trattamento individuale in cui ci sono i rapporti con l’Uepe (Uffici per l’esecuzione penale esterna) e con altri soggetti pubblici o privati con finalità di cure e sostegno. Viene considerato anche attraverso l’assunzione di specifici impegni per attenuare le conseguenze del reato e, cosa molto importante, l’adoperarsi anche a favore della vittima. È interessante sottolineare che verrà istituita anche una specie di affidamento in prova per le persone con infermità psichica e sarà una sorta di presa in carico terapeutica. Ma le misure alternative riguardano anche i reati ostativi? Sì, ma vengono esclusi coloro che sono accusati di criminalità organizzata e terrorismo. Però rimangono tutti gli altri reati che rientrano nel 4bis per i quali i magistrati hanno la possibilità di rivalutare un percorso. Secondo lei è giusta questa esclusione? Io sono contro il concetto teorico di ostatività. Sono dell’idea che la preclusione automatica toglie al giudice la possibilità di valutazione. Si tratta di una questione di cultura giuridica. Il giudice deve avere la possibilità di valutare, magari non concederà i benefici, ma è giusto che abbia potuto valutare il cambiamento o meno di una persona. Penso al libro “Fine pena ora” del magistrato Elvio Fassone. Lui aveva condannato all’ergastolo un mafioso, ma poi ha potuto osservare il cambiamento: perché togliere al giudice la possibilità di valutazione? Per quanto riguarda invece la valorizzazione della giustizia riparativa? Ancora non l’hanno approvata perché è un decreto a se. Questa misura, su base volontaria, è già esistente nel nostro ordinamento e ha avuto risultati positivi, ma di nicchia. Secondo me il risultato culturalmente più importante è che la giustizia riparativa ha introdotto il principio che non necessariamente a un male bisogna reagire con un altro male: in fondo la privazione della libertà è un altro male. La giustizia riparativa, invece, fa in modo che si può rispondere alla commissione di un male predisponendo un percorso che faccia acquisire consapevolezza e si riannodi quel filo sociale che con la commissione del reato si è reciso. Affettività e lavoro penitenziario: altri due capitoli importanti della riforma. Ancora non sono stati approvati perché richiedono risorse finanziarie e ancora deve essere approvata la legge di bilancio. In alcuni istituti penitenziari europei sono autorizzati gli incontri tra partner, ma ci sono delle situazioni che lasciano molto a desiderare. È necessario perciò predisporre dei mini-moduli sufficientemente attrezzati nei quali accogliere adeguatamente le coppie. Per questo servono risorse finanziarie. Intercettazioni, un’inutile mini-riforma di Carlo Nordio Il Gazzettino, 28 dicembre 2017 Come abbiamo scritto a suo tempo, la mini riforma sulle intercettazioni che il Governo si accinge a varare “in limine vitae” costituisce il massimo degli sforzi consentiti con il minimo dei risultati prevedibili. Massimo sforzo, perché la legge delega è vincolante, e la maggioranza politica vacilla. Minimo risultato perché rimarranno sempre i problemi di fondo. Il primo che, anche limitando la trascrizione ai brani essenziali, si attribuirà al Magistrato l’insindacabile giudizio di ciò che è rilevante e ciò che non lo è. Il secondo, che si comprimono i tempi e i modi di accesso, per la difesa, all’ascolto della globalità delle intercettazioni. Se infatti il Pm usa una frase “rilevante” contro l’imputato, il difensore deve poter ascoltare anche tutto il resto, per la semplice ragione, ribadita fino alla noia, che estrapolare una battuta da un discorso vuol dire alterarne il significato: e questa facoltà degli avvocati rischia di essere vanificata. Il terzo, che la conservazione della documentazione nella cassaforte del Pm contro interferenze importune ne consente comunque l’accesso non solo ai difensori ma anche agli ausiliari, periti, consulenti ecc. allargando così la base dei sospettati in caso di divulgazione impropria, e rendendo vana, proprio come oggi, l’individuazione del colpevole. Il quarto, che nella semplificazione delle procedure per i reati dei pubblici amministratori si segue la via tracciata dal recente codice antimafia, che assimila la corruzione ai reati di terrorismo e associazione mafiosa. Una scelta illogica, inutile e forse dannosa. Infine la mancata disciplina delle intercettazioni che coinvolgono i terzi. Quelle, per intenderci, in cui Tizio e Caio parlano di Sempronio, che non può nemmeno difendersi dalle insinuazioni dei due compari. E poiché un criminale serio sospetta sempre di essere ascoltato, se vuole eliminare un nemico può facilmente attribuirgli, in una conversazione, qualche generica nefandezza, confidando che l’insinuazione finirà presto in Procura, e quindi sui giornali. Queste difficoltà non saranno mai superate fino a quando non ci sbarazzeremo di un pregiudizio funesto: che esista un diritto del cittadino “ a sapere” e che questo diritto prevalga sul quello della riservatezza delle conversazioni private. Il “diritto a sapere” è infatti un mito evanescente, che non ha alcun riscontro normativo. Esso è stato creato ad arte dalla perversa combinazione di stampa strumentale e di politica debole (con il concorso sacrilego di qualche toga) per screditare gli avversari quando non si riesce a batterli sul terreno aperto e leale dei programmi e dei contenuti. Per di più è scorretto e ingannevole, perché si limita a rivelar gli affari di chi ha avuto la sventura di esser intercettato, lasciando indenni tutti gli altri suoi pari che, affrancati per varie ragioni dalle indagini e dalle interferenze invasive, hanno potuto tener nascoste conversazioni più compromettenti e sciagurate. Il secondo diritto, cioè la tutela della segretezza, è invece solennemente garantito dall’art 15 della Costituzione ed è, o dovrebbe essere, direttamente vincolante per tutti. Mentre molti, a cominciare da alcuni magistrati, gli hanno reso solenne ossequio nella forma solo per il gusto di poterlo tradire nella sostanza. Per questo, una volta ribadita l’attestazione quantomeno di buon volontà del governo in un terreno così minato, non c’è da farsi alcuna illusione. Tutto, temiamo, resterà come prima. Intercettazioni, stretta a metà. Ma la privacy è più tutelata di Sara Menafra Il Messaggero, 28 dicembre 2017 Oltre il fotofinish, nel corso del Consiglio dei ministri che domani segnerà lo scioglimento delle camere, diventa definitiva la sempre rimandata e mai unanime legge sulle intercettazioni. Il ministro della giustizia Andrea Orlando - dal cui dicastero proviene un terzo dei provvedimenti proposti dal governo e poi approvati - ha premuto molto per concludere in tempo utile sia questo, sia il decreto legislativo sul carcere che sarà addirittura approvato definitivamente a Camere sciolte. Il testo che emerge è una versione mediata tra la voglia di limitare la pubblicazione di qualunque audio tout court, almeno fino alla prima sentenza, e il rischio, denunciato dai penalisti, di comprimere il diritto alla difesa. La stretta, quella vera, è solo sulle cosiddette intercettazioni “personali” o non attinenti al processo (che spesso sono quelle che provocano i danni peggiori una volta finite sui giornali). Obiettivo perseguito sia rafforzando il ruolo della polizia giudiziaria a discapito dei pm, sia limitando, in una prima fase, l’accesso agli atti degli avvocati. Gli uni e gli altri, infatti, si dicono solo parzialmente soddisfatti del risultato finale. La strada per distinguere gli audio non rilevanti, o perché personali o perché relativi a soggetti o argomenti che non c’entrano con l’inchiesta, ha binari stretti fin dal principio. Al momento della trascrizione delle intercettazioni, sono gli agenti di pg a scegliere se trascrivere oppure no quelle che considerano irrilevanti. Su quelle espunte saranno però comunque obbligati a fare un sunto dell’audio, così che il pm possa ritrovare la traccia e verificarla. La limitazione più forte riguarda gli avvocati, che nel cambiamento tra i due testi hanno però incassato una conquista importante: resta il diritto di accedere agli atti allegati alla richiesta di ordinanza di misura cautelare, una volta accolta. La regola più limitante è, anche qui, relativa alla selezione tra atti essenziali per l’indagine e non essenziali. Gli avvocati avranno diritto di far copia degli atti considerati utili al processo solo dopo una prima valutazione del gip su cosa eliminare dal fascicolo. Su questo punto rispetto al testo di novembre c’è qualche ulteriore modifica: i penalisti avranno 10 giorni (e non più 5) prorogabili fino a 30 in casi particolarmente complessi, per consultare le intercettazioni rilevanti e irrilevanti sia in audio sia trascritte. Ma al momento dell’udienza stralcio e, dunque, al momento di discutere davanti al giudice di quali ascolti possano essere considerati utili e quali no avranno potuto solo consultare e prendere appunti sugli atti, ma non fare una copia da valutare fuori dalle stanze della procura. Anche nel corso delle indagini ci sono più regole per gli atti considerati inutili: presso l’ufficio del pm viene istituito un archivio riservato dei verbali e delle registrazioni sotto la “direzione e la “sorveglianza” - dunque anche la responsabilità diretta - del pm titolare del fascicolo. C’è una stretta significativa pure sulle conversazioni effettivamente riportate nell’ordinanza di custodia cautelare e nella richiesta. Gli articoli 291 e 292 del Codice di procedura penale saranno modificati in modo che sia già il pm titolare delle indagini, fin dai primi documenti inviati al gip, a “riprodurre soltanto i brani essenziali delle comunicazioni intercettate”; allo stesso modo il gip, nell’ordinanza, riproduce solo quelle comunicazioni che contengono i passaggi indispensabili a giustificare l’eventuale misura. Non è la formula che avevano chiesto i vertici di alcune procure, a cominciare dal titolare di Roma Giuseppe Pignatone, che premeva perché gli audio fossero riprodotti solo “in sintesi”, ma anche qui ha prevalso la mediazione. Una decisione destinata effettivamente a cambiare il futuro delle cronache giudiziarie è l’apertura all’accesso “legittimo” dei giornalisti agli atti giudiziari: dal 2019 avranno diritto di fare copia delle ordinanze del gip una volta che queste siano state rese note alle parti (oggi, i giornalisti accedono a quei documenti solo sulla base di accordi informali e con una legge che parla comunque di atti sottoposti a segreto). C’è chi già immagina uno sportello. Si vedrà. Intercettazioni. Nel tritacarne le vite degli altri di Gaetano Insolera Il Mattino, 28 dicembre 2017 Nella convulsa fase di fine legislatura vede la luce il decreto legislativo “in materia di intercettazioni di conversazioni e comunicazioni”, in attuazione della parte dedicata a questo tema dalla legge delega, il cosiddetto pacchetto Orlando. Si può ironizzare sul fatto che la legge delega in questione, dedicata a “Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario”, nel suo complesso, ben poco corrisponda all’intitolazione dell’originario testo approvato dalla Camera dei deputati il 23 settembre 2015: infatti le modifiche avrebbero dovuto operare per il “rafforzamento delle garanzie difensive e la durata ragionevole dei processi, nonché all’ordinamento penitenziario per l’effettività rieducativa della pena”. Ma ormai ci siamo abituati a un uso della legislazione penale poco attenta ai diritti civili fondamentali e alle loro garanzie, proiettata piuttosto a dare soddisfazione a contingenti istanze rigoristiche puntualmente interpretate e condotte dalla magistratura. In questa vicenda poi ha forse giocato l’idea del ministro della Giustizia, rafforzatasi in coincidenza della sua salita sulla giostra dei possibili leader del suo tormentato partito: l’idea ambiziosa di presentarsi come il gran riformatore efficientista della scassata macchina della giustizia penale. Ecco il ricorso alla fiducia, ma anche, e soprattutto, l’intento di non scontentare anzitutto due puntelli fondamentali: lo spazio assegnato al cosiddetto diritto vivente (cioè la supremazia dell’interpretazione dei giudici sul testo della legge) e il preponderante potere della magistratura requirente. Lotta a mafia e corruzione. Rosy Bindi: “quest’anno importanti risultati” di Gigliola Alfaro agensir.it, 28 dicembre 2017 “Nel 2018 necessari ulteriori passi per attrezzarsi a vincere la sfida”. Nel 2017 sono state approvate la riforma del Codice antimafia e la legge sui testimoni di giustizia: per la presidente della Commissione avranno ricadute positive per il nostro Paese. Presentata anche la Relazione sulle infiltrazioni mafiose nella massoneria in Sicilia e Calabria. Il 2017 è stato un anno importante per la lotta a mafia e corruzione in Italia? Lo abbiamo chiesto a Rosy Bindi, presidente della Commissione parlamentare antimafia, con uno sguardo rivolto anche al 2018 che si affaccia. Quali sono stati i risultati più rilevanti, presidente? Quest’anno ci sono stati due risultati molto importanti: la riforma del Codice antimafia e la legge sui testimoni di giustizia, che hanno visto la Commissione parlamentare antimafia impegnata sin dall’inizio del loro percorso nella legislatura. Abbiamo svolto due inchieste ascoltando tutte le realtà istituzionali e associative interessate da misure di sequestro, confisca, riutilizzo dei beni confiscati alle mafie e testimoni di giustizia, inchieste che si sono tradotte in progetti di legge sui quali il Parlamento ha lavorato a lungo. La legge sui testimoni di giustizia è stata approvata proprio alla fine di quest’anno, il 21 dicembre… I testimoni di giustizia finalmente hanno un loro statuto che li distingue dai collaboratori di giustizia. Era giusto che nel nostro ordinamento trovassero un loro posto originale perché il testimone di giustizia è vittima di mafia, non è mai stato parte del mondo mafioso, come il collaboratore. Ha un profilo molto importante di testimonianza civile. Sappiamo quanto sono preziosi anche per motivare alla lotta alla mafia le giovani generazioni e non solo. Come giudica il Codice antimafia? Il Codice antimafia è una riforma di sistema molto importante perché il tema della sottrazione dei beni alle mafie è stato considerato uno degli strumenti più efficaci fin da quando ci siamo dati questo strumento, tra l’altro siamo gli unici al mondo ad averlo. Uno strumento che aveva subito varie riforme nel tempo, ma nessun intervento davvero strutturale, come abbiamo fatto in questa legislatura. E questo renderà più veloci e più garantite le procedure giudiziarie e soprattutto più efficace l’utilizzo dei beni attraverso il rilancio dell’Agenzia. Credo che il Codice potrà essere un volano di crescita e soprattutto di giustizia sociale, oltre che un grande motore di legalità per il nostro Paese. Ci sono state alcune critiche, ma noi le consideriamo strumentali, perché prevedere l’applicazione di misure di prevenzione come la confisca dei beni anche a corruttori e corrotti seriali, nel tempo in cui le mafie più che sparare corrompono, significa prima di tutto bruciare ancora di più il terreno nel quale le mafie crescono e anche privare le stesse mafie di interlocutori che spesso sono loro complici. Perciò, è un gran risultato che ci auguriamo consentirà allo Stato di investire in una prima fase, perché sottrarre un immobile alla mafia significa spesso doverci investire delle risorse per renderlo fruibile, ad esempio, nelle politiche della casa. Ugualmente riuscire a portare un’azienda mafiosa nella legalità significa investire, togliendo dal nero il personale, trovando una rete di clienti e fornitori non compromessi con il potere mafioso. L’obiettivo è poi rendere questo immenso patrimonio redditizio per tutta la comunità. Allargando lo sguardo alla legislatura che si sta per concludere che giudizio può dare nel contrasto a mafie e corruzione? In questa legislatura ci siamo dotati di un apparato normativo che aiuta a combattere le mafie in quegli ambienti di vita dove loro amano insediarsi. Penso, ad esempio, aver individuato il reato di caporalato oppure aver tipizzato i reati ambientali, il reato di voto di scambio, la riforma sugli appalti, l’istituzione dell’Autorità anticorruzione. Penso che complessivamente si siano fatti dei passi positivi. Certo, non poteva che essere così: un momento come quello che stiamo vivendo è particolarmente propizio. Il presidente della Repubblica è fratello di una vittima di mafia; il presidente del Senato è stato procuratore nazionale antimafia; abbiamo un Papa come Francesco che scomunica i mafiosi e si parla anche di scomunica per i corrotti. Il 22 dicembre la Commissione antimafia ha presentato la Relazione sulle infiltrazioni mafiose nella massoneria in Sicilia e Calabria. Quali sono i risultati più interessanti emersi? Sono 193 i nominativi di appartenenti alle logge massoniche con 350 processi in corso, alcuni dei quali si sono già conclusi con sentenze di condanna per reati di mafia. Per l’indagine ci siamo soffermati sulle infiltrazioni mafiose nella massoneria solo in Calabria e Sicilia, ma riteniamo che un’inchiesta del genere debba riguardare tutto il Paese perché la massoneria e le mafie sono presenti ormai in tutta l’Italia. In questa nostra inchiesta abbiamo sperimentato la resistenza, in nome della privacy, da parte delle organizzazioni massoniche, che, in questo modo, non hanno offerto collaborazione. Appongono la questione della privacy, ma sono delle vere e proprie società segrete. Un dato allarmante, inoltre, è la presenza di appartenenti alle organizzazioni massoniche in persone con un ruolo dirigenziale nei Comuni e nelle Asl sciolti per mafia. Tutto questo è reso possibile anche dal regime di segretezza che è consentito alle organizzazioni massoniche. Occorre, perciò, intervenire sulla legge Spadolini-Anselmi del 1982 e pretendere soprattutto da chi riveste incarichi pubblici una dichiarazione sull’appartenenza ad altre realtà associative, soprattutto quando queste richiedono un giuramento. Quali auspici per il 2018? Dobbiamo aspettare, innanzitutto, i risultati dell’imminente consultazione elettorale, ma sicuramente ci sono alcuni aspetti che necessitano d’interventi legislativi. Uno riguarda la legge sullo scioglimento dei Comuni. È stato uno strumento preziosissimo, ma questa legge è stata pensata per piccole comunità, mentre oggi siamo arrivati a sciogliere e commissariare per mafia Reggio Calabria, Ostia e Comuni al Nord. Bisogna pensare che non tutti i Comuni sono uguali, quindi occorre una legislazione più flessibile. Poi è molto importante che si diano maggiori poteri, si chieda maggior impegno e presenza nelle comunità a chi fa il commissario di Comuni sciolti per mafia. Serve intervenire soprattutto nella pubblica amministrazione perché non viene contaminata dalla mafia solo la classe politica, ma anche funzionari e dirigenti; quindi, bisogna bonificare anche a questo livello. In alcune realtà è inutile mandare a casa un Consiglio comunale senza poter intervenire sui dirigenti che magari presiedono punti chiave come l’urbanistica. Quando ci sono delle amministrazioni comunali che rischiano di essere compromesse, l’alternativa non può essere lo scioglimento o l’abbandono a se stesse: possono essere monitorate e accompagnate dalle prefetture senza delegittimare completamente la politica. Inoltre, bisognerebbe impedire che almeno per un certo numero di anni coloro che sono stati causa dello scioglimento si possano ricandidare. Infine, bisogna formare una classe dirigente adeguata alla sfida costituita dalle mafie. Dalla Diaz alla Dia, quella nomina inopportuna di Riccardo Noury Corriere della Sera, 28 dicembre 2017 Secondo la sentenza della Corte di Cassazione del 5 luglio 2012, è uno di coloro che “hanno gettato discredito sulla Nazione agli occhi del mondo intero”. Ha avuto una condanna in via definitiva (andata in prescrizione) a tre anni e otto mesi per “falso”, ossia aver preso parte alla creazione di prove false finalizzate ad accusare decine di persone torturate (il terribile participio lo usa la Corte europea dei diritti umani) durante l’irruzione alla scuola Diaz di Genova, nel luglio 2001. Motivi trascurabili per il ministro dell’Interno Marco Minniti, che ha nominato Gilberto Caldarozzi vice direttore tecnico operativo della Direzione investigativa antimafia, la struttura-chiave della lotta alla criminalità organizzata. Una decisione risalente addirittura all’11 settembre e all’epoca passata inosservata e che il Comitato verità e giustizia per Genova ha scoperto alla vigilia di Natale. In questi anni, i dirigenti di polizia condannati per i fatti della Diaz non andati nel frattempo in pensione hanno avuto incarichi esterni (ad esempio Gianni de Gennaro, nel 2011 capo della polizia, è oggi presidente di Finmeccanica) o sono rientrati in polizia, in alcuni casi anche promossi. Quello di numero 2 della Dia è un ruolo di primissimo piano. Vero: il 5 luglio di quest’anno sono scaduti i “cinque anni di interdizione ai pubblici uffici” disposti dalla Cassazione nel 2012. Resta la questione dell’inopportunità. Resta soprattutto la sensazione che se all’epoca dei processi fosse stato già in vigore il reato di tortura - magari con una formulazione migliore di quella approvata dal parlamento italiano solo quest’anno - le cose in generale sarebbero andate diversamente. Scrive Enrica Bartesaghi, presidente del Comitato che rappresenta le vittime della Diaz e di Bolzaneto: “In questi lunghissimi anni ho assistito a numerose promozioni indecenti di buona parte dei condannati per le violenze e le torture alla Diaz e a Bolzaneto, da parte di tutti i governi che si sono succeduti. Non c’è mai stata alcuna sospensione, nessun allontanamento dei colpevoli, nessuna legge o riforma volta a prevenire e condannare quello che è successo a Genova, luglio 2001”. Il segnale che arriva alle vittime di Genova è che nel capoluogo ligure, 16 anni e mezzo fa, non c’è stata una “macelleria messicana”: tuttalpiù, un innocuo mercatino di Natale fuori stagione. Condannato per la Diaz all’Antimafia. Interviene il Garante dei detenuti di Eleonora Martini Il Manifesto, 28 dicembre 2017 Gilberto Caldarozzi numero due della Dia. Ha scontato tre anni e otto mesi di reclusione per aver attestato il falso. Per la Cassazione agì come “nei peggiori regimi”. Condannato in via definitiva a 3 anni e otto mesi di reclusione per aver attestato il falso e coperto omertosamente le violenze e le torture inferte dalle forze dell’ordine ai manifestanti che dormivano all’interno della scuola Diaz, durante il G8 di Genova del 2001. Di più: secondo la Cassazione che nel febbraio 2014 respinse la sua richiesta di affidamento ai servizi sociali (sentenza 6138), confermando la decisione della magistratura di sorveglianza, si tratta di un personaggio che si “è prestato a comportamenti illegali di copertura poliziesca propri dei peggiori regimi antidemocratici”. Eppure, Gilberto Caldarozzi, ex capo della sezione Criminalità organizzata della polizia (Sco), è diventato il numero due della Dia, la Direzione investigativa antimafia. Non appena decaduta l’interdizione dai pubblici uffici per il dott. Caldarozzi (che naturalmente ha tutto il diritto di essere reinserito nel tessuto sociale, come ogni altro ex detenuto), il ministro dell’Interno Marco Minniti ha deciso di non evitare una scelta politica che non tiene in alcun conto i pronunciamenti del potere giudiziario italiano né le condanne della Corte europea dei diritti umani (l’ultima appena sei mesi fa). E francamente non ha nulla di garantista. Tanto che il Garante nazionale dei diritti dei detenuti, Mauro Palma, se ne sta occupando da tempo, in un colloquio istituzionale con i massimi vertici dello Stato. La nomina risale al settembre scorso ma la notizia è stata scoperta recentemente dal “Comitato giustizia e verità per Genova” ed è stata resa pubblica solo negli ultimi giorni. A sollevare polemicamente la questione per primo è stato il pm del processo Diaz, il sostituto procuratore Enrico Zucca. E dal pool di avvocati genovesi che avevano difeso le vittime - come da più parti, nella “società civile” - si è levata la protesta: “Lo dovrebbero rimuovere, è bizzarro che il ministro lo ritenga all’altezza di un ruolo così importante - è stato il commento dell’avvocata Laura Tartarini che aveva difeso le vittime di Bolzaneto - Ma del resto tutti i condannati per quelle vicende si sono sempre comportati come se avessero fatto il loro dovere, come se fossero loro le ingiuste vittime. La cosa che fa ancora più specie è che nessuno dei politici pronto a battersi per la legalità abbia detto nulla su questa nomina”. Una vicenda che colpisce al cuore soprattutto coloro che in quei giorni del 2001 manifestavano democraticamente nelle strade di Genova. Come Nicola Fratoianni: “Quello che si temeva nell’estate scorsa si sta piano piano concretizzando - ha detto il segretario nazionale di Si - gli alti dirigenti delle forze dell’ordine condannati per i depistaggi, le menzogne, le infamie compiute in quei drammatici giorni tornano ad assumere incarichi di direzione negli apparati dello Stato. Evidentemente a questo governo non bastano le prove, le sentenze della giustizia italiana, le inchieste giornalistiche, le condanne e i durissimi giudizi delle corti europee”. Anche Francesco Laforgia, capogruppo di Mdp alla Camera ed esponente di Leu, era tra coloro che a Genova protestavano contro “un mondo che cambiava con troppe disuguaglianze e contraddizioni”: “Il ministro Minniti ha il dovere di spiegare le ragioni di questa nomina, di cui siamo venuti a conoscenza soltanto ora - ha commentato - Non si può impedire il ritorno alla carriera di chi ha esaurito l’interdizione dai pubblici uffici, ma chi porta una responsabilità come quella della scuola Diaz credo meriti di farlo in tono decisamente minore”. Un punto di vista non condiviso dal Dipartimento della Pubblica sicurezza che ieri ha negato “alcun tipo di promozione” a nessuno dei funzionari e dei poliziotti coinvolti nelle violenze di Genova: “Dopo aver scontato interamente le pene inflitte, anche nella forma accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici, nonché i provvedimenti disciplinari irrogati, sono stati riammessi in servizio, come previsto dalla legge”. Perché, spiega il Dipartimento, “non è possibile allo stato attuale procedere ad alcuna forma di destituzione”. Men che meno “è stata conferita alcuna promozione” a Caldarozzi, che tra due anni “cesserà dal servizio per raggiunti limiti di età” e che ha maturato - è l’assicurazione, inconfutabile per certi versi, del Dipartimento - “specifiche esperienze” “nella lotta alla criminalità organizzata, con particolare riferimento a quella di stampo mafioso”. Peccato che neppure sei mesi fa, all’indomani dell’ennesima condanna di Strasburgo per quelle torture mai riconosciute come tali, il capo della polizia Franco Gabrielli dichiarò: “A Genova, un’infinità di persone incolpevoli subirono violenze fisiche e psicologiche che hanno segnato le loro vite. In questi16 anni la riflessione non è stata sufficiente. Né è stato sufficiente chiedere scusa a posteriori”. L’Unione europea apre al sequestro e alla confisca di prevenzione di Alberto Perduca Il Sole 24 Ore, 28 dicembre 2017 I profitti illeciti - Crime does not pay. Presa alla lettera, la formula è ben lontana dalla realtà posto che l’esperienza dimostra il contrario e cioè che il crimine, tanto più quello organizzato, continua a generare profitti. Profitti, è il caso di sottolineare, ingenti ed anche sicuri se si considera che, stando a ricerca di Europol pubblicata nel 2015, nella sola Ue i mercati illegali producono annualmente circa 110 miliardi di Euro -pari all’1% del PIL dell’Unione nel 2010- e che, dato ancor più preoccupante, il 98,9% dei profitti illeciti rimangono nelle mani, e tasche, dei criminali. Dunque, è giocoforza intendere il crimine non paga quale obbiettivo da perseguire, ed ancora quasi tutto da raggiungere. Ma affinché ciò non rimanga wishful thinking, ovvero semplice buon proposito, è alla confisca ed al congelamento (sequestro) dei beni, che va fatto il ricorso più ampio possibile. E ciò per almeno tre, note, ragioni: perché privare definitivamente i criminali delle loro ricchezze significa logorarne motivazione e forza; perché per tale via si contribuisce alla bonifica dell’economia ed il mercato legali; e perché con il restituire quanto accumulato con il crimine alle Istituzioni ed alla società - vittime comprese-, rappresenta un modo affatto concreto e visibile per riaffermare il primato della legge. Il sistema ad hoc per gli Stati membri - Da tempo tale consapevolezza ha iniziato a far presa nella comunità internazionale. Lo attesta l’attenzione dedicata alla questione dai principali strumenti adottati in ambito planetario per il contrasto delle forme più insidiose di crimine. In particolare, è il caso tanto della Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale (Palermo, 2000) che della Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione (Merida, 2003) che impegnano gli Stati contraenti ad irrobustire i loro dispositivi di confisca sui complementari piani del diritto sostanziale, del diritto processuale e della cooperazione giudiziaria. Nell’Unione Europea, a partire dal Trattato del 2007 sul suo funzionamento che mira a realizzare lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia, lo stato dei lavori in tema di confisca risulta ancor più avanzato. Qui si punta alla costituzione di un vero e proprio sistema normativo ad hoc, in grado di consentire in modo uniforme l’aggressione dei patrimoni criminali sull’intera area degli Stati membri. Le norme Ue - Limitando lo sguardo a quanto prodotto dall’inizio del millennio, prima e dopo l’entrata in vigore nel 2008 del Trattato di Lisbona, è agevole vedere che le iniziative dell’UE rispondono innanzitutto alla duplice priorità di armonizzare le legislazioni penali sostanziali nazionali nonché di facilitare quanto più la mutua assistenza giudiziaria. Così, da un lato si adottano la Decisione Quadro 2005/212 Gai in tema di confisca di beni, strumenti e proventi di reato e la Direttiva 2014/42 relativa al congelamento e alla confisca dei beni strumentali e dei proventi da reato. Dall’altro, si interviene con la Decisione Quadro 2003/577 Gai e con la Decisione Quadro 2006/783 per il mutuo riconoscimento rispettivamente del blocco dei beni e del sequestro probatorio nonché delle decisioni di confisca. Sul piano più propriamente operativo - ma non meno importante di quello normativo- si colloca poi la Decisione 2007/845 sulla costituzione in ogni Stato membro di un Ufficio - l’Asset Recovery Office - cui spetta la mutua cooperazione per il reperimento e l’identificazione dei proventi di reato o altri beni connessi. La spinta al sistema integrato - La spinta europea a creare un dispositivo integrato - di regole e di strutture - volto a contrastare l’accumulo di ricchezze di origine delittuosa, ovunque esse siano allocate, appare tutt’altro che esaurita. Lo conferma la notizia sull’accordo, in termini di orientamento generale, che l’8 dicembre 2017 il Consiglio dell’UE ha raggiunto sulla proposta di Regolamento per il riconoscimento reciproco dei provvedimenti di congelamento e di confisca. Trattasi di iniziativa che la Commissione europea ha preso nel dicembre 2016 ed il cui testo, così come appena approvato dal Consiglio, costituisce la base per i prossimi negoziati con il Parlamento Europeo. Quando si saranno tradotti in diritto positivo, gli oltre 40 articoli meriteranno l’analisi approfondita per valutarne appieno coerenza ed efficacia. Quel che peraltro è chiaro sin d’ora è che la proposta intende dotare l’UE di un unico strumento -il Regolamento appunto- che, in quanto vincolante per (e direttamente applicabile in) ciascun Stato membro, dovrebbe far superare i ritardi e le asimmetrie di adattamento nazionale. E ciò con l’obbiettivo ultimo di semplificare ed accelerare quanto più l’esecuzione dei provvedimenti di congelamento e confisca allorché i beni si trovano in uno Stato membro diverso da quello in cui le misure sono state decise. Il mutuo riconoscimento delle decisioni - Nel merito, la disciplina è ispirata dall’idea-cardine del mutuo riconoscimento delle decisioni giudiziarie assumendosi che in ogni Stato dell’UE queste vengano prese nel rispetto dei principi di legalità, sussidiarietà e proporzionalità nonché nel rispetto dei diritti delle persone interessate. Secondo un formato ormai collaudato la disciplina viene poi declinata in molteplici regole di cui vale ricordare le principali: per l’esecuzione dei provvedimenti di congelamento e confisca non occorre la verifica della doppia incriminabilità se i fatti per cui si procede sono punibili con pena privativa della libertà non inferiore a tre anni e se rientrano nell’elenco dei cd. euro-reati; i provvedimenti sono veicolati verso lo Stato di esecuzione con un certificato-standard contenente le informazioni essenziali; i provvedimenti dello Stato di emissione vanno eseguiti senza ritardo e con velocità nonché priorità equivalenti a quelle riservate allo Stato di esecuzione; se necessario il congelamento immediato, lo Stato di esecuzione vi provvede entro le 96 ore; di regola poi, la confisca viene eseguita entro il termine di 60 giorni; il rifiuto di esecuzione è ammesso in limitati casi tassativamente previsti; è riconosciuto alle persone interessate il diritto di avvalersi dei mezzi di impugnazione nello Stato di esecuzione. L’accordo dell’8 dicembre 2017 - Quanto ai tipi di provvedimento assoggettati alla procedura del mutuo riconoscimento vi rientrano innanzitutto quelli che la citata Direttiva 2014/42 sul piano del diritto sostanziale ha inteso armonizzare, e cioè la confisca ordinaria (di proventi e strumenti di reato), la cosiddetta confisca allargata, la confisca per equivalente e la confisca senza condanna a causa di malattia o fuga dell’imputato. Ma non basta, perché come si legge nel testo di orientamento generale su cui il Consiglio è pervenuto all’accordo dell’8 dicembre 2017, il Considerando (13) della Proposta recita che il Regolamento dovrebbe applicarsi a tutti i provvedimenti di congelamento e confisca emessi nel quadro di un’azione penale, con l’avvertenza che “azione penale” è un concetto autonomo del diritto dell’Unione europea, e che pertanto il Regolamento dovrebbe coprire tutti i tipi di provvedimenti di congelamento e provvedimenti di confisca emessi in seguito a procedimenti connessi ad un reato e non solo i provvedimenti che rientrano nell’ambito di applicazione della Direttiva 2014/42 Ue, ma anche altri tipi di provvedimenti emessi in assenza di condanna definitiva. Benché tali provvedimenti possano non esistere nell’ordinamento giuridico di uno Stato membro, lo Stato membro interessato dovrebbe essere in grado di riconoscerli ed eseguirli se sono stati emessi da un altro Stato membro. Il Considerando (13) appena richiamato si ricollega alla modifica che lo stesso Consiglio ha apportato all’art.1.1 della proposta della Commissione. Così mentre in questa Il presente regolamento stabilisce le norme secondo le quali uno Stato membro riconosce ed esegue nel suo territorio un provvedimento di congelamento o di confisca emesso da un altro Stato membro nel quadro di un procedimento penale, nel testo emendato il quadro è ora divenuto quello di un’azione penale. Nella versione inglese il cambiamento si coglie in modo ancor più netto passandosi dal mutuo riconoscimento di congelamento e confisca disposti nell’ambito dei soli criminal proceedings a quello più ampio dei proceedings in criminal matters, e cioè da procedimenti penali in senso stretto ai procedimenti che hanno a vedere con affari criminali. Come sottolineato nel suo comunicato stampa dell’8 dicembre 2017, l’orientamento raggiunto dal Consiglio sulla proposta di Regolamento si propone, tra l’altro, di far sì che il mutuo riconoscimento copra un ampio spettro di confische, tra cui quelle adottate senza condanna ed inclusi taluni sistemi di preventive confiscation, purché via sia un legame con un delitto. La modifica testuale del citato articolo 1.1. ed il senso che le viene attribuito dalla stessa istituzione che l’ha promossa, costituiscono un’indubbia apertura alla domanda - e all’interesse- dell’Italia di vedere ammesso come degno di assistenza giudiziaria internazionale il proprio procedimento di prevenzione, tanto più a seguito del consolidamento operato con il Decreto Legislativo n.159 del 2011 e della riforma della Legge n.161 del 2017. Sul terreno del diritto pretorio, è bene ricordare che da tempo talune giurisdizioni di Stati membri - ma non solo - hanno accettato di dare esecuzione ai decreti di sequestro e confisca di prevenzione disposti da giudici del nostro Paese su beni allocati all’estero. Certo è che con l’adozione del Regolamento, queste prassi inevitabilmente frammentarie sono destinate, nell’ambito dell’UE, a divenire atti dovuti con evidenti vantaggi di certezza ed efficacia. L’inclusione del procedimento di prevenzione italiano - Vi sono almeno due buone ragioni per pensare che l’iter decisionale sul Regolamento, che vede al lavoro Commissione, Consiglio e Parlamento europei, possa pervenire all’inclusione del procedimento di prevenzione italiano nel meccanismo di mutuo riconoscimento. L’una e l’altra si collegano all’evoluzione che questo procedimento ha subito nel corso dei decenni in forza dei numerosi interventi operati da legislatore, Corte costituzionale e Corte di cassazione, quest’ultima in questi mesi impegnata a dare pronta risposta alle censure di indeterminatezza mosse ad alcune norme dalla Corte europea dei diritti umani nell’ormai famoso affaire De Tommaso contro Italia del febbraio 2017. Nel merito, la prima ragione è data dal profilo ormai consolidato del procedimento di prevenzione patrimoniale quale procedimento non solo giudiziario ma anche garantito: perché promosso nella quasi totalità dei casi da un pubblico ministero e sempre concluso da un giudice in esito ad udienza che si svolge nel contraddittorio delle parti e con il rispetto dei diritti fondamentali della difesa, ivi compreso quello di impugnazione. La seconda ragione si fonda sul legame che, nella legge come nella giurisprudenza, si fa vieppiù stretto tra decisioni di sequestro e confisca da un lato e delitti dall’altro. Vale qui richiamare il lungo elenco di gravi reati ex articolo 4 Decreto Legislativo n.159 che fondano il giudizio di pericolosità qualificata, presupposto delle misure ablative per coloro che ne sono indiziati. E del resto anche la pericolosità comune di cui all’articolo 1 comma 1 lettera a) e b) dello stesso Decreto Legislativo sussiste soltanto quando, in base ad elementi di fatto e non per mero sospetto, si è di fronte a soggetti che sono dediti abitualmente a traffici delittuosi ovvero che vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose. E perché l’una e l’altra ipotesi ricorrano, il giudice di legittimità ancora oggi non si stanca di ribadire la necessità che le attività delittuose vengano reiterate per un significativo arco di vita dell’autore, con produzione di profitto illecito e sua destinazione, anche solo parziale, al soddisfacimento dei bisogni di costui e della sua eventuale famiglia. Espulsione e trattamenti inumani e degradanti studiolegalebusetto.it, 28 dicembre 2017 La Corte di Cassazione penale, sez. I, con la sentenza n. 49242 del 26 ottobre 2017 ha stabilito che è ineseguibile l’espulsione nel caso in cui lo straniero rischi trattamenti inumani o degradanti. La sentenza in oggetto origina dal ricorso presentato da un detenuto, che aveva impugnato l’ordinanza del Tribunale di Sorveglianza di Venezia, il quale aveva respinto l’appello contro il diniego della revoca anticipata della misura di sicurezza dell’espulsione dal territorio dello Stato. Il detenuto sta espiando una pena di sei anni e otto mesi di reclusione per la violazione della disciplina di stupefacenti, quindi la domanda di revoca dell’espulsione, sulla scorta della particolare condizione di avente diritto alla protezione sussidiaria, che non veniva nemmeno esaminata in ragione del non prossimo fine pena. Secondo l’uomo la domanda di protezione sussidiaria poteva essere accolta in base all’art. 2 lett. G del D.Lgs n. 251/2007, dato che, all’esito della conduzione al Cie e qualora rimpatriato, il ricorrente paventava il grave rischio di condanna a pena di morte. Secondo il Tribunale invece, non vi era l’urgenza dell’immediato accertamento incidentale circa la condizione ostativa dell’espulsione. Contro tale provvedimento il detenuto aveva adito la Corte di Cassazione, deducendo una erronea applicazione delle norme regolatrici ed un vizio di motivazione. La Corte riteneva i motivi sopraesposti valevoli di accoglimento, sostenendo che la ratio decidendi offerta dal Magistrato di Sorveglianza non risultava conforme ai contenuti legali del sistema giurisdizionale di tutela della condizione soggettiva del destinatario della misura di sicurezza. La misura di sicurezza è rivedibile nella maggior parte dei casi, in relazione alla persistenza della pericolosità sociale. La Corte di Cassazione ha enunciato il seguente principio di diritto: “È l’assoluta inesistenza di una ragione giustificatrice del diniego alla rivedibilità della misura di sicurezza personale correlata alla non prossimità del fine pena del soggetto istante”. Poi, all’esito di una accurata analisi degli articoli 19 e 20 del D.Lgs. 251/2007 la Corte accoglieva il ricorso ed affermava i seguenti principi di diritto: “In sede di apprezzamento della domanda di revoca o di ineseguibilità della domanda o ineseguibilità in via anticipata della misura di sicurezza dell’espulsione, il Magistrato di Sorveglianza è tenuto ad esaminare i profili in fatto e in diritto introdotti dalla parte, risolvendo, ove necessario, ed in via incidentale ogni questione in tema di sussistenza dei presupposti per l’ammissione allo status di rifugiato o di persona avente titolo alla protezione sussidiaria. La disposizione di cui all’art. 20 del d.lgs n. 251 del 2077 in tema di protezione dell’espulso, nella parte in cui consente di procedere al respingimento per motivi di ordine e sicurezza interna non è applicabile alle ipotesi in cui il soggetto istante corra, ove ricondotto nel paese di origine, serio rischio di essere sottoposto alla pena di morte, alla tortura o ad altre pene o maltrattamenti inumani o degradanti”. Imputazione coatta del Gip: alle Sezioni unite i dubbi sul ricorso dell’indagato di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 28 dicembre 2017 Corte di cassazione - Ordinanza dicembre 2017 n. 57598. Saranno le sezioni unite a decidere se l’indagato può fare ricorso in Cassazione, contro il provvedimento con il quale il Gip respinge la richiesta di archiviazione e dispone la formulazione di imputazione per un reato diverso da quello per il quale il Pubblico ministero aveva chiesto l’archiviazione. La sesta sezione civile della Suprema corte, (ordinanza 57598) chiede di risolvere il contrasto sulla questione di diritto analizzata anche nell’ordinanza interlocutoria. I giudici si sono trovati a decidere sul ricorso proposto da un indagato contro l’ordine di imputazione coatta emesso dal gip per violenza privata: un reato diverso da quello per il quale era stato iscritto nel registro degli indagati per il quale il Pm aveva chiesto l’archiviazione. La Cassazione dà conto della una divergenza di opinioni. Per le Sezioni unite (4319/2013) é un atto abnorme, perché al di fuori dei poteri del Gip, l’ordine di imputazione coatta sia se emesso nei confronti di una persona non indagata, sia se diretto ad un indagato per reati diversi da quelli per i quali il Pm ha chiesto di archiviare. Il Gip dovrebbe limitarsi ad ordinare l’iscrizione nel registro delle notizie di reato, per evitare che l’organo giudicante invada il campo della pubblica accusa. Chiarito che l’atto é abnorme la giurisprudenza si è spaccata sui soggetti legittimati a ricorrere. Secondo un primo orientamento l’impugnazione è possibile solo per il Pm perché non è previsto dall’ordinamento un diritto dell’indagato a impugnare l’ordine di imputazione coatta del Gip, anche se il il Pm non ha ancora iscritto il suo nome nel registro. In questa fase, infatti, ad interloquire sono solo il giudice per le indagini preliminari e il pubblico ministero. La tesi opposta sostiene invece la legittimazione dell’indagato a fare ricorso (34881/2016), contro un provvedimento affetto da un vizio radicale, per il potere esorbitante esercitato dal Gip, che “travolge” sia le prerogative del Pm sia il diritto di difesa del soggetto non sottoposto a indagini per un determinato fatto, che si troverebbe ad essere ad essere, proprio per quella condotta, perseguito penalmente in violazione delle regole processuali sul contraddittorio. E, in assenza di una “reazione” del Pm, l’indagato sarebbe sottoposto ad azione penale senza la garanzia del “confronto” Bancarotta fraudolenta senza restrizione di libertà se il rischio ricaduta non è vicino di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 28 dicembre 2017 Corte di cassazione - Sezione V - Sentenza 27 dicembre 2017. Per applicare la misura cautelare restrittiva della libertà personale all’indagato per bancarotta fraudolenta non basta la dimostrazione che il soggetto può avere occasioni di ricaduta effettive, serve anche che queste si possano verificare in tempi vicini se non imminenti. La Corte di cassazione, con la sentenza 57582 accoglie il ricorso dell’indagato contro l’ordinanza di custodia cautelare emessa del Gip per il reato di bancarotta fraudolenta. Secondo l’accusa il ricorrente avrebbe contribuito, attraverso società ungheresi a lui riferibili - utilizzate per operazioni di cessione di quote e di scissione - alla distrazione di rilevanti risorse della Spa poi dichiarata fallita. Ulteriore accusa riguardava l’impiego di denaro di provenienza illecita, previsto dall’articolo 648-ter comma 1 del Codice penale, per occultarne l’origine. Per la difesa il Giudice per le indagini preliminari avrebbe imboccato la strada delle misure restrittive della libertà personale senza affrontare il tema della gravità indiziaria, anche alla luce della legge 47 del 2015. Il Gip aveva ravvisato il pericolo di recidiva dalle modalità con le quali era stata condotta l’azione, che denotavano una spregiudicatezza non comune. Inoltre era stato ipotizzato anche il rischio di fuga visto l’interesse dell’indagato nella società estere e la sua attitudine a viaggiare per ragioni di affari. Per finire era stato considerato possibile anche il depistaggio. Nel quadro c’erano tutti i tasselli utili alla richiesta delle misure cautelari. La Cassazione accoglie il ricorso e rinvia al Tribunale fornendo delle “linee guida”. Per quanto riguarda il pericolo di recidiva specifica la Suprema corte ricorda che questo per essere concreto ed attuale impone “che il soggetto abbia occasioni di ricaduta nell’illecito penale non solo effettive (piuttosto che meramente ipotetiche) ma altresì di vicina, seppure non imminente, probabilità di verificazione”. Nello specifico la Cassazione contesta al Tribunale di non aver chiarito se le condotte bollate come “spericolate” e sorrette da “intensità di volizione” abbiano riguardato solo la vicenda della spa fallita o se l’indagato sia dedito a operazioni finanziarie “senza rete”. Manca dunque un’adeguata argomentazione sulla propensione a commettere reati economici. Vero è per i giudici che il possedere società all’estero rende probabile l’occasione per commettere reati. Ma è altrettanto vero che la ripetuta o anche quotidiana possibilità di reiterazione di condotte criminose non comporta di per sé un pronostico di ricaduta. Ed è irrilevante a tale scopo anche la capacità di un soggetto di districarsi nel pur complesso settore delle operazioni finanziarie. Avellino: “cure sbagliate in carcere”; detenuto muore, la Procura indaga di Andrea Fantucchio ottopagine.it, 28 dicembre 2017 Per i familiari: “Lo hanno curato male in cella. Poteva salvarsi con la giusta terapia”. L’uomo, 66enne di Taurano, aveva un cancro al pancreas. Per i figli e fratelli in carcere lo avrebbero capito dopo quasi un anno. Contestata un’ecografia che avrebbe “consigliato ulteriori esami”. Un cancro diagnosticato con un anno di ritardo, un’ipotesi di reato di omicidio colposo a carico dell’ufficio sanitario del carcere di Bellizzi Irpino. È parte di un corposo fascicolo finito sulla scrivania del sostituto procuratore presso il tribunale di Avellino, Luigi Iglio. A presentare la denuncia i figli e i fratelli di un ex detenuto del penitenziario irpino, assistiti dai penalisti Annibale Schettino, Carolina Schettino e Antonio Mercogliano. “Ricorso respinto nonostante l’età e le malattie” - L’uomo, 66enne di Taurano, era stato condannato a quattro anni di reclusione nel maggio 2016. Era stata proposta l’attenuazione della misura cautelare. Richiesta motivata dall’età avanzata dell’imputato e dal fatto che fosse affetto da varie patologie fra le quali “diabete in stato avanzato, cardiopatia, deambulazione ridotta e male all’addome”. Il magistrato di sorveglianza aveva respinto l’istanza anche alla luce di un parere medico dell’ufficio sanitario del carcere. Non era stata evidenziata “alcuna sorta di gravità nella sintomatologia denunciata dal paziente”. La richiesta era stata poi respinta anche dal tribunale distrettuale di Sorveglianza di Napoli il 14 marzo 2017, nonostante la relazione sanitaria del consulente medico della difesa. Secondo la quale l’uomo, durante le visite dei parenti in carcere, aveva riferito “di avere dolore alla gambe e allo stomaco. Oltre a degli attacchi di diarrea che continuavano nonostante fosse stato curato con lo spasmex (farmaco per coliche e contrazioni). I familiari, preoccupati, avevano incaricato il consulente medico legale per una visita in carcere e lo specialista aveva confermato di procedere agli esami clinici con tac e altri accertamenti”. Erano state evidenziate alcune lesioni, controlli solo un anno dopo - Inoltre si contesta quanto venuto fuori da un’ecografia alla quale il detenuto è stato sottoposto. Nel cartella clinica si legge il 19 marzo, ma l’uomo in quella data non era in carcere. I denuncianti collocano gli esami tre mesi dopo: 19 giugno. Esame nel quale “sono state evidenziate alcune lesioni pericentrometriche”. Lo specialista avrebbe così consigliato ulteriori esami. Accertamenti arrivati, però, solo dopo: nell’aprile di quest’anno. Quando un’altra Tac ha evidenziato come “quelle stesse lesioni risultino essere un cancro pancreatico che aveva invaso tutto l’addome”. Secondo l’accusa, “non sarebbe stata portata all’attenzione del magistrato di sorveglianza la richiesta di approfondimento diagnostico del 19 giugno e del 27 aprile”. Oltre “all’assenza di una totale terapia idonea a curare quelle lesioni che potevano essere invece trattate con chemioterapia o altre terapie adeguate”. Le accuse a carico del personale medico - Di qui l’accusa a carico dei medici di aver causato la morte dell’uomo “per negligenza, imperizia e imprudenza”. Motivata anche dal parere contenuto dalla relazione stilata dal medico chirurgo Tommaso Esposito. Scrive: “La omessa o ritardata diagnosi ha negato sicuramente ogni approccio terapeutico precoce portando il paziente alla morte con atroci sofferenze”. Una denuncia che arriva dopo un’altra morte sospetta avvenuta in carcere. Quella del 30enne avellinese, C.T., deceduto nella notte fra il 24 e il 25 dicembre. Dopo essere stato arrestato con l’accusa di rapina, lesioni personali e sequestro di persona ai danni di una 70enne. Ma soprattutto un episodio che accende l’attenzione sull’assistenza medica che riguarda i detenuti. Nello specifico i penalisti che difendono l’uomo deceduto hanno presentato una richiesta di risarcimento al Ministero della Giustizia. E ricevuto una risposta che invita a rivolgersi all’Asl. Viene citato un decreto ministeriale del 2008 che sancisce il passaggio della sanità penitenziaria al Servizio sanitario nazionale. Incluso il trasferimento di risorse, attrezzature, personale. Una passaggio di consegna che, troppo spesso, ha finito però per ledere la qualità dell’assistenza fornita proprio ai detenuti. E generato inevitabili polemiche. Avellino: il garante Mele “blocco del turn over e pochi medici dell’Asl a disposizione” di Antonello Plati Il Mattino, 28 dicembre 2017 Sempre più difficile rispettare i diritti dei detenuti in queste condizioni di scarsa organizzazione. “Il carcere è un’istituzione talmente complessa che diventa difficile assicurare anche un diritto fondamentale dell’individuo come è quello alla salute”. Carlo Mele, direttore della Caritas diocesana di Avellino e Garante per i diritti dei detenuti della nostra provincia, commenta - “con estremo rammarico” - la tragica scomparsa del ragazzo di 30 anni avvenuta, per cause ancora in corso di accertamento, la notte di Natale nel penitenziario di Bellizzi Irpino. Ma sulla vicenda assicura: “Per salvare il ragazzo, è stato fatto tutto quanto era nella possibilità dei sanitari presenti nella struttura: purtroppo non c’è stato scampo alla morte”. Il giovane è deceduto ancor prima dell’interrogatorio di garanzia, era stato arrestato nella notte della Vigilia dai carabinieri della compagnia di Avellino: già noto alle forze dell’ordine, insieme a due complici, era accusato di rapina e sequestro di persona. Le cause del decesso saranno stabilite soltanto dopo l’autopsia disposta dall’Autorità giudiziaria sul corpo del trentenne. Dagli interrogatori degli altri due detenuti, potrebbero giungere elementi utili a chiarire la morte. “In questo momento - sostiene Mele - quello che purtroppo conta di più e rattrista è la perdita di una giovane vita all’interno di un’istituzione che deve fornire garanzie alla vita e consentire percorsi di recupero e reinserimento sociale”. Il sistema, secondo il Garante territoriale, sconta un colossale ritardo accumulato negli anni passati, quando i presidi sanitari carcerari non erano in grado di fornire tutte le prestazioni necessarie e il ricorso agli ospedali civili era pratica consueta. “La tutela della salute dei detenuti è una questione che è stata sempre centrale: è una di quelle sulle quali i Garanti di tutta Italia hanno concentrato le maggiori energie della propria attività. Questo perché si riscontrava - e in determinati contesti si riscontra ancora - una preoccupante dissonanza tra le prestazioni che un’Azienda sanitaria era in grado di offrire all’esterno e quanto era possibile fare dentro le carceri”. Mentre è già presente un padiglione riservato ai detenuti presso la Città ospedaliera “Moscati” di Contrada Amoretta, l’Autorità di garanzia nazionale, che fa capo al Ministero della Giustizia, ha agito anche in Campania e in Irpinia affinché gli ambulatori delle case circondariali raggiungessero standard accettabili. Prosegue Mele: “Le Asl hanno sempre lamentato l’impossibilità, dettata dal blocco del turn over, di inserire negli organici figure professionali stabili che assicurassero ogni tipo di cura o comunque di prima assistenza. Soltanto a settembre dell’anno scorso, per quanto riguarda i penitenziari della provincia di Avellino, è stato raggiunto un accordo, ratificato da una determinazione dell’Asl, con il quale si va verso una normalizzazione del servizio. Tuttavia, si tratta di un percorso lungo e, probabilmente, non facile”. Più in generale, Mele traccia un quadro a tinte fosche: “Per chi è costretto a passare lunghi periodi in prigione, ogni cosa diventa più complicata. Il punto è che è proprio il carcere a essere una struttura complicata e molto complessa: così dovrebbe essere sempre considerata da tutti. E dalla classe dirigente prima di tutti. Invece i tempi dei processi di cambiamento, in Italia, continuano a essere troppo lunghi: in contesti come questo, le lungaggini possono determinare effetti deleteri”. Terni: detenuto morto, indagati in quattro per “omicidio colposo” umbriaon.it, 28 dicembre 2017 Il 9 dicembre un uomo di 36 anni era stato trovato impiccato alle sbarre della propria cella. La procura dispone l’autopsia e apre un fascicolo per omicidio colposo. Vuole vederci chiaro la procura di Terni - l’indagine è condotta dal pm Marco Stramaglia - sulla morte del detenuto 36enne di origine magrebina che lo scorso 9 dicembre si è impiccato legando una coperta alla finestra della propria cella. Soccorso in condizioni disperate, l’uomo era morto poche ore dopo nel reparto di rianimazione del Santa Maria di Terni. Indagati Oltre a disporre l’autopsia sulla salma del 36enne, eseguita nella giornata di mercoledì a Roma dal medico legale Luigi Cipolloni che ora avrà 60 giorni di tempo per depositare le risultanze, l’autorità giudiziaria ha infatti indagato quattro persone per l’ipotesi di omicidio colposo. Un atto dovuto in questa fase delle indagini, che ha riguardato comunque due agenti della polizia penitenziaria in servizio presso il carcere di Terni, un medico ed un’infermiera della Usl, anche quest’ultimi operativi presso la struttura detentiva di vocabolo Sabbione. Fra i difensori dei quattro figurano gli avvocati Massimo Carignani, Giuseppe Sforza e Francesco Mattiangeli. Obiettivo della procura è capire chiaramente - come riportato nell’atto che dispone l’esame autoptico - quali siano le cause, i mezzi e l’epoca della morte e se le tracce siano ricollegabili alla condotta suicidaria o facciano ipotizzare altre cause. Il detenuto, la cui morte aveva portato a diverse prese di posizione, anche da parte dei sindacati della Polizia penitenziaria, pochi giorni prima di togliersi la vita - era metà novembre - si era reso protagonista di un grave episodio in carcere, quando aveva aggredito quattro agenti, causando la frattura del setto nasale ad uno di loro. Milano: tenta di impiccarsi all’Istituto penale minorile “Beccaria” Il Giornale, 28 dicembre 2017 Fp-Cgil: “il 17enne è malato, non è la struttura per lui”. Un altro tentato suicidio al carcere minorile Beccaria. La denuncia arriva dai sindacati della funzione pubblica. Ieri, si legge in una nota del coordinatore Fp Cgil Lombardia Calogero Lo Presti, “un ragazzo diciassettenne, nigeriano, condannato per piccoli reati, ha tentato di impiccarsi. Ha problemi di salute mentale, continua a fuggire dalla comunità dove è in cura e per questo viene riportato ogni volta in carcere ma non lo regge e da qui, probabilmente, la decisione del suo gesto estremo per fortuna fallito”. Non è la prima volta che succede nell’istituto penitenziario. “Tra i giovani detenuti - continua Lo Presti - ci sono soggetti fragili, con problemi di salute mentale, a cui occorre personale dedicato. Sedi dedicate”. Al contrario in tali situazioni complesse ci si affida spesso alla fortuna oppure alla sola responsabilità degli agenti penitenziari, cui è affidata la vita di questi detenuti: “Ancora più che per tutti gli altri detenuti, in questi casi specifici di vita in senso letterale stiamo parlando. Facciamo dunque di nuovo appello all’Amministrazione penitenziaria perché si attivi per i più opportuni provvedimenti”. Il sindacalista conclude con un’accusa diretta alle autorità competenti: “Il problema continua a essere serio e continua a essere ignorato. L’Amministrazione penitenziaria deve affrontarlo, a tutela dei detenuti e dei lavoratori del carcere minorile Beccaria”. La struttura del carcere minorile è fatiscente e sono stati segnalati gravi problemi igienici e sanitari. Gli interventi di manutenzione ordinaria tra l’altro sono sospesi in vista del trasferimento dei detenuti nella nuova ala del penitenziario. Palermo: il carcere di Pagliarelli intitolato ad Antonio Lorusso Adnkronos, 28 dicembre 2017 Il carcere dei Pagliarelli di Palermo sarà intitolato ad Antonio Lorusso, l’appuntato della Polizia Penitenziaria assassinato il 5 maggio del 1971, in via Cipressi, a Palermo, insieme al Procuratore Pietro Scaglione (primo magistrato ucciso dalla mafia e insignito della medaglia d’oro al merito della redenzione sociale per il suo impegno umanitario sul tema delle carceri). Venerdì 29 dicembre alle ore 11 si svolgerà, a Palermo, la cerimonia di intitolazione della Casa circondariale Pagliarelli di Palermo all’appuntato del Corpo degli Agenti di custodia, Antonio Lorusso. Tra gli altri, saranno presenti Santi Consolo, capo Dipartimento amministrazione penitenziaria; Antonio Scaglione, figlio del magistrato assassinato e i figli dell’agente Lorusso, Felice e Salvatore. Antonio Lorusso nacque a Ruvo di Puglia, in provincia di Bari, il 22 agosto del 1929, aveva 42 anni di età, era sposato con Maria Dora Medico (oggi deceduta) e aveva due bambini, Felice e Salvatore. Il Procuratore della Repubblica Scaglione, in una nota del 1964 indirizzata all’Amministrazione carceraria di Palermo, scrisse parole di elogio: “Significo che l’agente Antonio Lorusso espleta le mansioni commessegli dando quotidianamente prova di spiccata capacità, di moltissima operosità e di irreprensibile condotta. Dotato di proprio intuito, disciplinato e riguardoso, si distingue per encomiabile attaccamento al dovere, e per lo zelo e la precisione con cui disimpegna i vari incarichi affidatigli. Per tali doti si è meritato la stima e la considerazione personale”. Pesaro: il Natale in carcere dell’On. Preziosi, per rendersi conto delle criticità Corriere Adriatico, 28 dicembre 2017 Il parlamentare a Villa Fastiggi con Argomenti 2000. A Natale, in risposta ad un appello di Argomenti 2000 alcuni parlamentari, così come fanno ormai da anni, hanno redatto un documento che presenta alcuni aspetti problematici della situazione carceraria, insieme ai principali provvedimenti adottati in questi mesi e ad alcune priorità su cui è urgente intervenire. L’onorevole Ernesto Preziosi, promotore dell’iniziativa, nel giorno di Natale si è recato nel carcere circondariale di Villa Fastiggi, “un modo per rendersi vicini e per rendersi conto delle condizioni di coloro che vivono quella realtà o vi operano”. “Nelle carceri - prosegue - rimane il tema del sovraffollamento. Il numero di detenuti è intorno a quota 57mila, con quasi 3.000 unità in più rispetto allo scorso anno, con un tasso di sovraffollamento superiore al 110%. Entro fine anno, dopo più d 40 anni, avremo comunque una riforma del sistema penitenziario strutturale: una bella opportunità per le prospettive che apre nella gestione carceraria, e che dovrebbe tra l’altro risolvere la questione, più volte sollevata, del rischio di condanne da parte della Corte europea. Per Preziosi non c’è il rischio che l’opinione pubblica consideri inutile o secondario un impegno sulle carceri: “Ha detto giustamente il ministro Orlando che un carcere che funziona male è un carcere che genera insicurezza, dove aumenta la recidiva e dove alla fine i soldi spesi dai contribuenti rischiano di alimentare più la spirale criminale che non un percorso di rieducazione e di reinserimento. Sul carcere la società deve investire facendo sì che la pena sia, in linea con quanto dice la Costituzione, nel rispetto dei diritti della persona che non vengono meno neppure in carcere; una occasione per riparare e per ricostruire il legame con la società”. Alba (Cn): oltre le sbarre, il vino del riscatto di Alessandra Calzecchi Onesti cittadelvino.it, 28 dicembre 2017 Il tema è il lavoro all’interno e all’esterno degli istituti penitenziari e, in particolare, il ruolo che vino, agricoltura e ristorazione possono svolgere nel processo riabilitativo dei detenuti. Un tema che coinvolge non solo le istituzioni politiche nazionali e locali, ma anche gli enti del Terzo Settore e le realtà che operano nell’ambito d’interesse, chiamati a riflettere sull’importanza del recupero sociale e professionale dei detenuti e a comprendere facilitazioni, limitazioni e bisogni che permettano una multifunzionale applicazione della recente legge sull’Agricoltura Sociale promossa dal Mipaaf. Con l’approvazione di questa legge, ha dichiarato il Viceministro delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali Andrea Olivero, il Ministero intende promuovere iniziative di welfare che forniscono un’occasione concreta di riscatto e rinascita nella certezza che “dall’integrazione tra agricoltura, etica e legalità possa nascere una nuova stagione dei diritti e di coscienza civica”. Come infatti ha recentemente sottolineato Alessandro Prandi, Garante comunale albese dei detenuti, in occasione della settima edizione di Vale La Pena (un intenso programma di iniziative dedicate alle tematiche carcerarie), “investire nell’economia penitenziaria e nell’agricoltura sociale, in termini di competenze, sensibilità, promozioni di reti e sinergie, significa anche investire in sviluppo economico, coesione sociale e sicurezza per i cittadini. Su 10 persone che entrano nelle prigioni italiane, 7 ci torneranno; si tratta di una delle recidive più alte in Europa. Il rapporto si inverte se durante la carcerazione hai potuto seguire un percorso finalizzato ad acquisire o ampliare competenze in ambito lavorativo. Il lavoro e la formazione sono, infatti, a tutti gli effetti l’unico vero antidoto alla cosiddetta recidiva ossia la possibilità di compiere nuovamente reati una volta tornati in libertà”. Se all’interno della casa di reclusione c’è stato un percorso di riabilitazione attraverso un mestiere, solo una piccola parte di detenuti commette di nuovo reati quando esce. Se il format funziona i detenuti si rendono utili e trovano così il loro posto nel mondo, senza ricadere nella criminalità, e tutto il sistema ci guadagna. È quindi vitale sensibilizzare l’opinione pubblica, le istituzioni, le associazioni no-profit e il tessuto imprenditoriale sulle opportunità normative, fiscali e di crescita che questo investimento potrebbe comportare. Al di là del valore incorporato dal nesso tra vino e territori con significati socio-culturali che non sono necessariamente legati al suo contenuto materiale e organolettico, al di là del suo essere una filiera integrata multiforme che sa unire produzione agricola, dimensione industriale e commerciale sino alle suggestioni immateriali in quanto elemento identitario e conviviale, al di là della sua estrema varietà di offerta il cui filo conduttore è l’italianità che ne esalta la qualità delle senza alcuna pressione omologante, al di là ovviamente del valore di mercato e di potenzialità di sviluppo economico e turistico del nostro Paese, al di là di tutto questo l’Associazione delle Città del Vino ha da sempre creduto nel valore sociale del vino sia come veicolo della nostra cultura borghigiana, dell’educazione alla salute e alla sostenibilità, sia come strumento di sostegno per le fasce sociali più deboli dal punto di vista lavorativo e dell’integrazione (donne, giovani, immigrati, disabili, detenuti). Perché se la cultura enogastronomica locale è il principale serbatoio di risorse, anche umane, che consentono al sistema produttivo di valorizzare il Made in Italy, il vino è riuscito ad incamerare, forse meglio di altri prodotti, il valore sociale che era in grado di esprimere (forte radicamento culturale, valore simbolico, prodotto tipico e di provenienza specifica, marchio italiano, elevati standard qualitativi, basso impatto ambientale, mantenimento del paesaggio e salvaguardia delle tradizioni, prodotto salutare se usato bene, soggetto a rigore nei controlli), evolvendosi negli ultimi 15 anni da bene di puro consumo a bene voluttuario, incrementando il proprio valore di mercato ed offrendo un tipico esempio di come il valore sociale dipenda proprio dalla cultura enogastronomica di produttori e consumatori. Un processo di lunga deriva, strettamente connesso allo sviluppo sociale, culturale ed economico del nostro Paese, che ha visto la lenta trasformazione del settore primario dalla sua architettura arcaica ad un sistema produttivo avanzato, in grado di trattare e trasformare il frutto della terra in prodotti legati alla filiera agroalimentare, coniugando la cultura delle produzioni tradizionali con l’innovazione qualitativa dei prodotti. Il continuo lavoro di amalgama tra territorio e sapore è un patrimonio troppo prezioso per essere “sfruttato” senza essere continuamente ri-arricchito e i nuovi costi sociali generati di volta in volta dalla trasformazione dei consumi alimentari e dai nuovi processi produttivi sembrano aver sempre trovato adeguato bilanciamento in uguali o superiori benefici sociali. In Italia sono diversi ormai gli esempi virtuosi che rappresentano la congiunzione ideale tra l’esigenza di mettere in campo percorsi lavorativi e la capacità del settore agroalimentare e ristorativo di creare comunità solidali offrendo un’occasione concreta di riscatto e rinascita ai detenuti dopo il fine pena, soprattutto nel campo dell’enogastronomia. Dai dolci che ogni giorno escono dal carcere di massima sicurezza di Padova Due Palazzi per essere venduti in 165 negozi in Italia, online e all’estero, al “Progetto Olio”‘ del carcere fiorentino di Sollicciano dove Frescobaldi ha messo a disposizione dei detenuti gli agronomi aziendali che hanno curato la fase didattica e conoscitiva di olivicoltura e delle sue forme fino ad arrivare alla raccolta delle olive ed all’estrazione dell’olio. Dai primi ristoranti operativi all’interno di un carcere (come il Liberamensa al Vallette di Torino o InGalera nel carcere modello di Bollate) al libro/mostra itinerante “Cucinare in massima sicurezza” ideato e scritto con persone detenute nelle sezioni di Alta Sicurezza dei penitenziari italiane, dove vengono descritte le idee e le formule inventate dai detenuti per ricreare, nei luoghi in cui si trovano, una sorta di normalità quasi domestica. Vogliamo allora qui ricordare alcuni tra i migliori progetti rieducativi sviluppati in questi anni nell’ambito della vini-viticoltura, dell’agricoltura e della ristorazione e tradotti nel tempo in esperienze di particolare successo. Senza dimenticare che protagonista silenzioso di tutti questi progetti è la Polizia Penitenziaria, che quotidianamente e nonostante le carenze finanziarie e strutturali, con grande senso di responsabilità garantisce la sicurezza, permettendone la realizzazione. Sicurezza intesa non come passiva sorveglianza o assoluto controllo dei detenuti, ma come “conoscenza dinamica”, in cui gli operatori sono chiamati a riscoprire un’osservazione finalizzata ad acquisire tutti gli elementi utili per una più giusta valutazione dei soggetti. Roma: Natale a Trastevere e gli urli ai carcerati di Regina Coeli di Pietro Piovani Il Messaggero, 28 dicembre 2017 “Francé buon Nataleeeee”. “Te voglio beneeeee”. “Me manchiiiiii”. “Ho portato pure er pupooooo”. Le grida risuonano per via di San Francesco di Sales, squarciando il silenzio dei vicoli nella notte di Natale. Sono i messaggi che i parenti dei detenuti urlano verso le finestre di Regina Coeli. Stiamo parlando della notte di Natale dell’anno 2017, non di un secolo fa. In questa specie di macchina del tempo che chiamiamo Roma succede ancora oggi che le famiglie dei carcerati si affaccino dal Gianicolo, dal balcone sotto al faro, e sfruttando la cassa di risonanza naturale offerta dal colle facciano arrivare a chi è rinchiuso in cella messaggi d’amore o informazioni utili. Proprio come succedeva nell’Ottocento, e prima ancora come accadeva sotto le finestre di San Michele a Ripa, l’edificio che ospitava il carcere nell’epoca pontificia, da cui il celebre “Canto dei carcerati” (“Amore amore manname un saluto, sto dentro a San Michele carcerato”). Più di recente la scena è stata riprodotta in un film di Tomas Milian (“Manolesta” anno 1981). Rispetto ad allora un’innovazione in verità c’è stata: qualcuno ora usa un piccolo megafono, di quelli che si comprano dai cinesi. Così i messaggi possono arrivare più forti e nitidi al di là delle sbarre, dove saranno ascoltati con l’emozione che possiamo immaginare, certamente più graditi dei messaggi d’auguri in serie recapitati in questi giorni da WhatsApp sui nostri cellulari. Milano: la libertà in scena a San Vittore di Giuseppe Frangi Vita, 28 dicembre 2017 Un gruppo di detenute e di ex detenute hanno portato in scena “La tempesta” di Shakespeare, trasformandolo in un testo plurale, in cui hanno inserito le narrazioni delle loro “tempeste”. Uno spettacolo reso possibile grazie al lavoro del Cetec e al sostegno del Piccolo Teatro. L’Isola di Prospero, protagonista della Tempesta shakespeariana, è il rialzo al centro della Rotonda di San Vittore. Una volta lì c’era l’altare verso il quale confluivano i sei raggi. Oggi, al lato accoglie il presepe e per il resto lascia spazio alle attrici, detenute ed ex detenute, che mettono in scena Le Tempeste: uno spettacolo dove Shakespeare diventa un patrimonio plurale. Le Tempeste è l’esito del lavoro realizzato dal Centro europeo teatro e carcere diretto da Donatella Massimilla; uno spettacolo che il Piccolo Teatro ha inserito tra le sue produzione e che a marzo sarà possibile vedere anche fuori carcere. Intanto Le Tempeste sono andate in scena alla vigilia di Natale, alla presenza di un centinaio di detenute e detenuti e di un piccolo gruppo di ospiti esterni, tra i quali il direttore del Piccolo, Sergio Escobar. “Racconti, tempeste e naufragi” dice Donatella Massimilla, “sono specchio della deriva di ogni singolo e al tempo stesso l’arte, il teatro e la scrittura diventano il mezzo per salvarsi”. A partire da quella scatenata da Prospero, protagonista dell’opera di Shakespeare, “Le tempeste” sono infatti quelle che hanno segnato le biografie delle attrici che sono sulla scena. Salendo sul palcoscenico-isola, si alternano ai personaggi del testo teatrale, in un dentro e fuori che non conosce fratture. Ad un certo punto va in scena anche un monologo rivisitato dell’”essere o non essere”. “Qui a San Vittore ogni mattina ci confrontiamo con i quesiti più elementari e allo stesso tempo essenziali. Che faccio? Mi alzo o non mi alzo? Sto in piedi o distesa nel mio letto?... “Siamo o non siamo?”… perché a noi non è dato filosofeggiare”. “Le Tempeste” sono anche un dialogo sulla libertà, a partire dal monologo-filastrocca del Calibano shakespeariano, “allegria, libertà!”, riproposto dalla una delle attrici in scena. In effetti la favola di Prospero controfigura dell’autore che alla fine spezza la bacchetta magica dice di una libertà riconquistata, di un ordine ristabilito, in cui è possibile dare una risposta al “Siamo o non siamo”. Il teatro si fa compagnia di vita. “Il palcoscenico è la costruzione mutevole del mio essere, la scenografia di frammenti nostalgici del mio non voler che esserci”, scrive una delle detenute attrici. Quella del Cetec è un’esperienza di libertà in senso vero. “A volte i detenuti grazie alla Direzione e alla Magistratura escono accompagnati solo da noi”, racconta Massimilla, “replicano spettacoli di repertorio anche in tournée, del tutto uguali agli altri attori della nostra compagnia, con stesse responsabilità e di diritti”. Per alcuni il teatro diventa anche un lavoro fuori dal carcere, come ne caso dell’Ape Shakespeare, esperienza di “street theater” che gioca ironicamente su una variante del celebre quesito: “To be or not to be”, che diventa “To Bee or not to Bee”. “Sono loro, i nostri detenuti che prenderanno il nostro testimone, a loro chiediamo serietà e capacità di Re Esistere”, dice Massimilla. „Noi come Prospero, vorremmo scatenar Tempesta e ritrovare la nostra libertà”. Catania: “Sogno di una notte a Bicocca”, secondo appuntamento di Teatro Mobile newsicilia.it, 28 dicembre 2017 Il 2018 per la rassegna Teatro Mobile di Catania, diretta da Francesca Ferro, inizia con la messa in scena di “Sogno di una notte a Bicocca”, secondo spettacolo di stagione che vede una reinterpretazione dal sapore catartico di “Sogno di una notte di mezza estate” di William Shakespeare, nato dopo l’esperienza di un interessante laboratorio teatrale tra i detenuti. Una rappresentazione firmata e diretta da Francesca Ferro che andrà in scena venerdì 5 gennaio alle ore 21.00, sabato 6 gennaio alle 17:30 e alle 21:00, e domenica 7 gennaio alle ore 18:00 al Centro Zo. “Il carcere - spiega Francesca Ferro - sembra il posto meno adatto a sognare: la detenzione costringe a vivere lontano dal mondo esterno e dagli affetti, aliena l’essere umano privandolo del tempo e dello spazio così come li conosciamo noi. Nasce l’esigenza di uscire, di superare le mura e pensarsi in un altro luogo, protagonisti di una storia che non è la propria. Magari dentro un bosco in una notte d’estate”. Ed ancora aggiunge: “L’esperienza a Bicocca è stata forte e intensa. Lo spettacolo vuole essere il più possibile onesto e coerente con quello che erano i detenuti che ho conosciuto. Abbiamo voluto togliere il giudizio nei loro confronti, cercando di far venire fuori l’individuo prima del reo, l’umanità prima della colpa”. Sul palco gli attori Ileana Rigano, Agostino Zumbo, Mario Opinato, Silvio Laviano, Renny Zapato, Giovanni Arezzo, Francesco Maria Attardi, Giovanni Maugeri, Vicenzo Ricca, Antonio Marino, Dany Break che insieme all’aiuto regia Mariachiara Pappalardo, alla direzione allestimento di Arsinoe Delacroix, e all’assistenza alla regia di Verdiana Barbagallo, interpreteranno questo gruppo di detenuti diretti da una regista (Francesca Ferro) che ha l’importante compito di fare in modo che il teatro applichi la sua antica funzione catartica per le vite e le coscienze di ogni componente della compagnia. Ius soli. La minoranza Pd spera nella legge, ma non ci sono i numeri per approvarla di Marco Conti Il Messaggero, 28 dicembre 2017 Tra gli ultimi appelli in favore dello Ius soli, alcuni risentono di un certo sentimento da cupio dissolvi della legislatura e di una scarsa dimestichezza con il pallottoliere. Al netto di ciò che è accaduto a palazzo Madama prima di Natale, i numeri per l’approvazione della legge sulla cittadinanza dei minori che frequentano le nostre scuole, non ci sono. Giova ricordare che i centristi di Ap, che hanno votato a palazzo Madama la legge, si sono sfilati da tempo e che, a differenza di quanto è accaduto in occasione dell’approvazione del biotestamento, anche il M5S non ci sta mentre FI e Lega sono fermamente contrari. Eppure anche ieri una buon gruppo di parlamentari si è espresso a favore della legge che effettivamente anche Paolo Gentiloni aveva inserito nel programma del suo governo. A rivolgersi direttamente al presidente Mattarella affinché conceda ancora una manciata di giorni in più alla legislatura è Luigi Manconi. “Due settimane” in più chiede il senatore del Pd che nei giorni scorsi si è speso con scioperi della fame e iniziative pubbliche per il buon esito dell’iniziativa. Manconi accusa anche il suo partito citando “quei 29 senatori assenti” in aula al momento della conta sul numero legale che indicano come “il Pd non ci credeva abbastanza”. Pallottoliere alla mano si comprende che anche tutti i senatori del Pd e tutti della sinistra di Leu non sarebbero bastati per portare a casa un provvedimento carico di migliaia di emendamenti. Poi ci sono i cultori della “bella morte”, come la senatrice di SI Loredana De Petris secondo la quale “approvare lo Ius Soli è ancora possibile ma per farlo c’è una strada sola: le Camere non devono essere sciolte e il governo deve mettere la fiducia su quella legge. Invece di vaneggiare su scenari falsi”. Lo scenario falso sarebbe la più che probabile caduta del governo e l’archiviazione dello Ius soli anche per la prossima legislatura visto che una legge bocciata da un Parlamento difficilmente viene riproposta nel successivo. Sulla stessa linea sono anche i Radicali italiani con Igor Boni che chiede a Mattarella di “rinviare lo scioglimento delle Camere fino alla discussione e al voto”. È vero, come ricorda Gianni Cuperlo, esponente della minoranza del Pd, che la legge è “attesa da 800 mila ragazze e ragazzi che rischiamo di mortificare e deludere ancora una volta”, ma in questi giorni post natalizi non un leader di partito si è mosso per spingere il provvedimento come invece è accaduto di recente sul biotestamento, legge contestata dai centristi della maggioranza, ma che è passata perché il Pd ha unito i propri voti con quelli di Leu, M5S e parte di FI. Considerazioni che domani Gentiloni farà al Quirinale nel corso dell’incontro con il capo dello Stato durante il quale si avrà modo di considerare che gli appelli di singoli, seppur autorevoli parlamentari che da tempo sostengono la legge, non cambiano i numeri di palazzo Madama, e consegnano il tema allo scontro della campagna elettorale che permette ai partiti contrari al provvedimento di replicare. Su tutti la Lega Nord che esulta da giorni considerando sua la vittoria per il mancato numero legale che ha affossato il provvedimento. Ius Soli. Manconi: “vicenda tra il grottesco e l’indegno” Dire, 28 dicembre 2017 “Attribuisco la colpa per un verso alla destra, che ha mobilitato la paura manipolandola e presentando questo provvedimento sacrosanto e saggio come una misura che puntasse ad attribuire la cittadinanza italiana a coloro che sbarcano quotidianamente sulle nostre coste, il che rappresenta un falso clamoroso. E per un altro verso al Pd perché quei 29 senatori assenti dicono che il Pd non ci credeva abbastanza. Il dato politico è inequivocabile”. Sono le parole di Luigi Manconi, Senatore Pd, presidente della Commissione dei diritti umani intervenendo questa mattina ai microfoni di Radio anch’io su Rai Radio 1. “Lo dico con tranquillità e con dolore - prosegue il senatore dem - visto che il Pd è il mio partito. La cittadinanza di cui parliamo riguarda i bambini che nascono in Italia da genitori stranieri residenti regolarmente. Il compito della politica deve essere quello di spiegare, motivare. Ben 6 Ministri dell’interno hanno sottoscritto un documento in cui si dice che la riforma della cittadinanza è un contributo prezioso alla sicurezza collettiva. L’epilogo di questa vicenda oscilla tra il grottesco e l’indegno”. Sullo stesso tema è intervenuto anche Gianmarco Centinaio, presidente dei senatori della lega nord: “Ci riteniamo vincitori morali di questo percorso e di questo stop a questa legge assurda e inutile che è stata voluta da chi poi, l’ha pure affossata”. Migranti. L’Italia e i diritti umani violati in Libia di Marina Mancini affarinternazionali.it, 28 dicembre 2017 In un rapporto del 12 dicembre, Amnesty International ha accusato i Paesi dell’Unione europea, e in particolare l’Italia, di essere complici nelle gravi violazioni dei diritti umani commesse nei confronti dei migranti recuperati in mare dalla Guardia costiera libica (Gcl) e trasferiti nei centri di detenzione del Dipartimento per la lotta all’immigrazione illegale libico (Dliil). Migliaia di migranti (inclusi quelli meritevoli di protezione internazionale) sono reclusi in questi centri per periodi di tempo indefiniti, senza alcuna possibilità di ricorso contro la detenzione, in condizioni gravemente al di sotto degli standard umanitari minimi, come già denunciato nel dicembre 2016 dalla Missione Onu di supporto in Libia e dall’Ufficio dell’Alto Commissario Onu per i diritti umani. Le misure adottate dall’Italia - Ciononostante, fin dai giorni successivi alla sua nomina, il Governo Gentiloni si è impegnato nella definizione e attuazione, con il sostegno politico e finanziario dell’Ue, di una serie di misure volte a rafforzare la capacità di azione della Gcl e del Dliil, nell’intento di porre un freno al flusso di migranti provenienti dalla Libia. È stata innanzitutto deliberata una missione di assistenza alla Gcl, comportante (1) l’addestramento del suo personale a bordo di quattro motovedette temporaneamente cedute dal Governo Berlusconi a Gheddafi e in seguito ritrasferite in Italia per essere riparate, nonché (2) la manutenzione ordinaria delle stesse. Le motovedette sono state riconsegnate al Governo di riconciliazione nazionale libico ad aprile e maggio scorsi. Con il Memorandum Gentiloni-Serraj del 2 febbraio 2017, poi, sono state previste ampie forme di cooperazione finalizzate ad arginare i flussi migratori illegali. In particolare, l’Italia si è obbligata a fornire supporto tecnico e tecnologico alla Gcl e al Dliil e a cooperare all’adeguamento e finanziamento di quelli che sono definiti in maniera più che edulcorata “centri di accoglienza” per migranti illegali in Libia. Nel quadro della cooperazione prevista dal Memorandum, alla fine di luglio scorso, su richiesta del Governo Serraj, è stata deliberata una missione aeronavale incaricata di: (1) proteggere e difendere i mezzi della Gcl impegnati nel contrasto dell’immigrazione illegale; (2) fornire consulenza alla Gcl e alla Marina libica; (3) collaborare alla creazione in Libia di un centro operativo per la sorveglianza marittima e il coordinamento delle attività marittime congiunte; e (4) contribuire a ripristinare l’efficienza delle infrastrutture e dei mezzi da impiegare nel contrasto all’immigrazione illegale. Infine, negli stessi giorni, è stato adottato un codice di condotta per le Ong attive nel salvataggio dei migranti in mare che impegna quelle che lo sottoscrivono a non entrare nelle acque territoriali libiche, tranne in situazioni che richiedano un’assistenza immediata, e a non ostacolare l’attività di ricerca e salvataggio della Gcl, la quale sistematicamente trasferisce i migranti salvati o comunque intercettati in mare nei centri di detenzione gestiti dal Dliil. I risultati conseguiti e le complicità italiane - L’insieme delle suddette misure ha comportato una consistente riduzione dei migranti sbarcati in Italia (33.288 tra luglio e novembre 2017, il 67% in meno dello stesso periodo del 2016, secondo Amnesty International), ma anche un significativo aumento di quelli recuperati in mare dalla Gcl e trasferiti nei centri di detenzione gestiti dal Dliil (19.900 migranti detenuti all’inizio di novembre, secondo il Dliil). Le condizioni di questi centri sono di conseguenza ulteriormente peggiorate. Sovraffollamento, scarsa ventilazione, malnutrizione, assenza di cure mediche e violenze sistematiche da parte delle guardie rendono la vita al loro interno un vero inferno. In considerazione di quanto sopra, l’accusa di complicità dell’Italia nelle violazioni dei diritti umani fondamentali dei migranti commesse in Libia non è infondata. Secondo il diritto internazionale consuetudinario, uno Stato è complice, e perciò soggetto a responsabilità internazionale, quando presta aiuto o assistenza a un altro Stato nella commissione di un illecito internazionale se (1) è consapevole delle circostanze che rendono il comportamento di quest’ultimo illecito; e (2) esso stesso commetterebbe un illecito, qualora tenesse lo stesso comportamento (art. 16 del Progetto di articoli sulla responsabilità internazionale degli Stati). Nel caso di specie, entrambe le condizioni appaiono soddisfatte. Il Governo italiano è certamente a conoscenza delle condizioni inumane in cui sono detenuti i migranti. Inoltre, la detenzione arbitraria e la sottoposizione a tortura e a trattamenti inumani o degradanti costituirebbero illeciti internazionali anche qualora fossero commessi direttamente dall’Italia. Non vale ad escludere la responsabilità internazionale di quest’ultima un preteso stato di necessità, implicitamente richiamato dal ministro dell’Interno Marco Minniti, il quale ha evocato “un rischio per la tenuta democratica del Paese”. Per quanto concerne la violazione del divieto di tortura, lo stato di necessità non è invocabile, data la natura cogente della norma (art. 26 del Progetto). Riguardo alla violazione di altre norme internazionali, questa può essere giustificata dallo stato di necessità solo quando (1) sia l’unico mezzo per salvaguardare un interesse essenziale dello Stato da un pericolo grave e imminente; e (2) non pregiudichi gravemente un interesse essenziale dello Stato o degli Stati nei cui confronti l’obbligo sussiste o della comunità internazionale nel suo complesso (art. 25 del Progetto). Necessaria un’inversione di rotta - Nel caso in esame, l’interesse dell’Italia alla sua sicurezza è senz’altro qualificabile come un interesse essenziale dello Stato; è tuttavia discutibile che, prima dell’adozione delle misure descritte, esso fosse minacciato da un pericolo grave e imminente. Inoltre, misure alternative al trasferimento dei migranti in Libia erano certamente esplorabili, in collaborazione con l’Ue e gli altri Stati membri, al fine di alleggerire la pressione migratoria sull’Italia, come ad esempio la piena attuazione e l’ampliamento del programma di ricollocazione dei richiedenti protezione internazionale deciso dall’Ue nel 2015. Infine, la detenzione arbitraria, la sottoposizione a trattamenti inumani o degradanti e le altre gravi violazioni nei confronti di migliaia di migranti sono chiaramente in contrasto con l’interesse essenziale della comunità internazionale alla tutela dei diritti fondamentali dell’uomo. Il contenimento del flusso migratorio verso l’Italia non può avvenire a scapito della protezione dei diritti umani dei migranti. Questa deve ritornare al centro della politica migratoria italiana. Come richiesto dal Comitato contro la tortura, occorre stabilire un meccanismo che subordini qualsiasi forma di supporto e assistenza agli organi libici competenti in materia di immigrazione illegale al rispetto dei diritti umani fondamentali dei migranti, emendando di conseguenza il Memorandum Gentiloni-Serraj. Migranti. “Meglio annegare che finire nelle carceri libiche” Adnkronos, 28 dicembre 2017 “Rischiamo la vita, ma è meglio annegare che essere arrestato dalla Marina libica. È come se stessimo vivendo di nuovo la schiavitù. I neri sono i loro schiavi, questo è quello che pensano in Libia oggi”. È quanto ha detto un giovane del Mali ai soccorritori di Sos Mediterranee, raccontando di avere già tentato tre volte la traversata: “La prima volta siamo stati arrestati dagli Asma Boys, i banditi”. L’ultima volta, il gommone sul quale viaggiava è stato intercettato dalla Marina libica: “Quando la nave è arrivata e abbiamo visto la bandiera libica, abbiamo tentato di fuggire. Tutti erano preoccupati. Non ci hanno lasciato scappare, ma hanno continuato a seguirci. Per non rischiare la vita delle persone, perché c’erano molte donne e molti bambini in mezzo a noi, li abbiamo lasciati fare. Nessuno è caduto in acqua, grazie a Dio”, ha detto. “Anche ieri quando la barca spagnola è arrivata eravamo preoccupati, ma dopo ho detto ai miei amici: “Guardate come queste persone ci trattano bene” - ha aggiunto. Sulla nave libica, non ci hanno dato neanche acqua. Una volta sulla nave, sono andati in bagno a lavarsi prima di mangiare, lasciandoci senza cibo”. Il giovane ha raccontato anche di essere stato condotto in prigione, una volta riportato a Tripoli: “Quando siamo arrivati al porto di Tripoli, le organizzazioni umanitarie c’erano, hanno preso i nostri indirizzi. Poi siamo stati messi sul bus e ci hanno portati nelle prigioni. Le prigioni non sono organizzate, si stava molto stretti, anche stare seduti era impossibile. Si cammina gli uni sugli altri. Là le organizzazioni umanitarie non c’erano. Anche avere dell’acqua era difficile. Bevevamo lentamente perché non sapevamo se dopo ci avrebbero portato altra acqua”. “Un giorno hanno portato 5 litri di acqua, e poi abbiamo passato tre giorni senza - ha proseguito. Abbiamo cominciato a bere acqua cattiva e ci davano da mangiare pasta cruda. Meglio rimpatriare rapidamente che essere nelle carceri libiche. Altri dicono che è meglio annegare che stare nelle carceri libiche. Rischiamo la vita, ma è meglio annegare che essere arrestato dalla Marina libica. È come se stessimo vivendo di nuovo la schiavitù. I neri sono i loro schiavi, questo è quello che pensano in Libia oggi”. Migranti. I tutori per i minori stranieri “Più garanzie ai volontari” di Elisabetta Pagani La Stampa, 28 dicembre 2017 Autorità per l’infanzia e associazioni: “Legge da perfezionare. Si aggiungano permessi di lavoro e criteri per la selezione”. “Sono ragazzi che hanno affrontato il mare e il deserto: ora devono essere aiutati ad affrontare la normalità in un Paese complesso come il nostro”, spiega Filomena Albano, giudice e Garante nazionale per l’infanzia e l’adolescenza. Ad affiancarli - “speriamo presto” - saranno i tutori volontari per minori stranieri non accompagnati, figura introdotta dalla legge Zampa (47/2017). Se infatti finora - salvo esperienze pilota in Veneto, a Trento o a Palermo - a rappresentare legalmente bambini e adolescenti sbarcati da soli in Italia erano cariche istituzionali, come i sindaci, a cui venivano assegnate decine di minori, da quest’anno ogni cittadino (residente in Italia, maggiore di 25 anni e senza carichi penali) può candidarsi come tutore di un singolo ragazzo. L’obiettivo è creare un rapporto uno a uno che vada oltre l’aiuto nello svolgimento delle pratiche burocratiche (come la richiesta del permesso di soggiorno o la firma del consenso in caso di interventi sanitari): una sorta di “genitorialità sociale” sintetizza Albano, che preside l’Autorità per l’infanzia, che coordina la selezione e la formazione dei tutori. In questi mesi si sta concludendo la prima tornata dei corsi per i quasi 2800 candidati. Un “numero alto, se si considera che l’impegno è consistente e l’attività gratuita - sottolinea - ma non sufficiente visto che i minori stranieri soli in Italia sono coltre 18 mila”. A rispondere in modo più caloroso è stato il Piemonte (533 candidati compresi quelli della Valle d’Aosta, che però sono poche unità), seguito da Lazio e Lombardia. Una volta formati, i volontari devono confermare il consenso ad assumere il ruolo e quindi essere iscritti negli elenchi del tribunale dei minorenni, da cui il giudice attingerà per associarli ai ragazzi. Ma se l’Autorità promuove la legge, lancia però un appello perché vengano aggiunte tutele. Sia per i tutori sia per i ragazzi (la maggioranza adolescenti maschi provenienti dall’Africa). Tre le lacune secondo la Garante, che ha da poco inviato una lettera alle istituzioni: “Non sono previsti permessi dal lavoro per svolgere la funzione di tutore. E nemmeno un’assicurazione, utile nel caso in cui si dovessero pagare danni arrecati dal ragazzo quando si trova col tutore. Infine, ferma restando la gratuità del servizio, manca il rimborso per le spese vive”. Integrazioni vengono chieste anche dalle associazioni coinvolte: “Devono essere perfezionati i criteri di selezione e abbinamento adulto-ragazzo - aggiunge Pippo Costella, direttore di Defence for children, che sta curando la formazione in Sicilia e Liguria - e bisogna dare al minore la possibilità di giudicare o cambiare il tutore. Che aiuto riceve se con il suo unico referente ha problemi?”. “Non si tratta di affido - specifica la Garante - perché tutore e ragazzo non convivono, ma comunque di un rapporto stretto. Il tutore dovrebbe essere una guida morale, affettiva”. È un “rapporto a 360° - sottolinea Costella - e un’opportunità di crescita anche per il tutore, che non deve essere lasciato solo”. Proprio per questo l’associazione sta lavorando per creare una rete locale di sostegno ai tutori: in Sicilia, dove l’emergenza è maggiore perché “ospita quasi 8 mila minori soli”, come a Como, altro luogo di frontiera che vive una situazione delicata. In attesa che la Lombardia si metta in moto - è una delle regioni in cui i corsi sono al palo - in città si è creata “una rete capitanata dal tribunale - spiega Elena Zulli, referente del Centro servizi per il volontariato sul tema tutori - che ha tenuto i corsi a novembre”. Corsi che, in tutta Italia, alla fine registrano qualche rinuncia. “Il 10% forse - stima la Garante - ma siamo contenti che sia così. È un ruolo impegnativo, è giusto che non lo si prenda sotto gamba. Che chi va fino in fondo sappia di volerlo e poterlo fare”. Le carceri ungheresi, catene per l’Europa di Domenico Letizia* e Elisabetta Zamparutti** Il Dubbio, 28 dicembre 2017 Il parlamento ha approvato una risoluzione contro le politiche restrittive del Governo Orban. L’Europa rischia un deterioramento dello stato di diritto e la cartina di tornasole di tale fenomeno è monitorabile al suo confine orientale. Un caso particolarmente problematico è quello dell’Ungheria. La risoluzione del Parlamento Europeo, approvata nel maggio 2017, denuncia le numerose obiezioni riportate al governo Orban, dalla restrizione delle libertà individuali al controllo sulla stampa, dalla volontà di controllare il sistema formativo a riforme costituzionali dubbie, fino alla mancata solidarietà europea sul problema delle migrazioni. “Grave deterioramento dello Stato di diritto e della democrazia” è ciò che la risoluzione denuncia e su cui tutti dovremmo riflettere. La particolare situazione politica ungherese è degenerata con l’arrivo del periodo autunnale e le condizioni in termini di democrazia e diritto sono visionabili da ciò che denunciano gli attivisti dei diritti umani e dalle problematiche legate alla detenzione e alla giustizia. L’Ungheria è divenuto uno dei pochi paesi dell’Europa Orientale in cui le organizzazioni non governative non possono monitorare la situazione delle carceri e visionare le condizioni di lavoro della polizia penitenziaria. Gli attivisti e gli esperti del Comitato Helsinki per i diritti umani dell’Ungheria hanno visto interrompersi bruscamente una collaborazione con il Servizio Penitenziario Ungherese (Bvop), dopo 18 anni di collaborazione reciproca e ispezioni regolari, in varie strutture penitenziarie del paese. Fino a non molto tempo fa, il Comitato Helsinki per i diritti umani dell’Ungheria inviava regolarmente gruppi di avvocati, analisti e medici nelle strutture penitenziarie per effettuare ispezioni, parlare con i detenuti e con il personale di tutta la comunità penitenziaria. Gli esperti, successivamente, elaboravano rapporti sulle condizioni monitorate, i servizi sanitari e i ritmi di lavoro sostenuti dalla polizia penitenziaria. L’estrema efficacia di tale azione di monitoraggio è dimostrata dalla anomalie e problematiche che venivano segnalate, argomentazioni che spesso il Servizio Penitenziario Ungherese ignorava e non aveva approfondito. La preoccupazione riguarda anche le procedure per la vita di una Ong che può ricevere finanziamenti dall’estero, come il Comitato Helsinki per i diritti umani dell’Ungheria. Proprio come in Russia, le Ong finanziate dall’estero, sono considerate organizzazioni che producono o possono promuovere azioni di spionaggio. Il parlamento ungherese ha approvato una legge, nel giugno, che obbliga le Ong a versare 24.000 euro per potersi registrare come “Organizzazione sostenuta dall’estero”. L’Unione Europea guarda con preoccupazione tali sviluppi e ha avviato una procedura di infrazione nei confronti dell’Ungheria. Ma non basta. Inoltre, non dobbiamo dimenticare, che la modifica costituzionale ha permesso al governo di dichiarare lo stato di emergenza in situazioni descritte in modo generico, potendo esercitare controllo capillare e repressione con scarsa supervisione democratica. I rom continuano a subire discriminazioni e a essere vittime di crimini d’odio. Inoltre, il paese ha proseguito nella sua politica di repressione sistematica dei diritti di rifugiati e migranti, nonostante le crescenti critiche internazionali. L’Ungheria e il suo apparato carcerario appaiono un preoccupante laboratorio di violazioni nel pieno dell’Europa, quella corrosione dello stato di diritto denunciata fino alla morte da Marco Pannella e oggetto di studio e azione da parte del “Global Committee for the Rule of Law”, visione di Pannella, ma solida realtà animata dall’Ambasciatore Giulio Terzi, Matteo Angioli e tanti altri attivisti del Partito Radicale Nonviolento. *Consiglio direttivo di Nessuno Tocchi Caino e analista dell’Istituto di ricerca di economia e politica internazionale **Membro del Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa e tesoriera di Nessuno Tocchi Caino Tangenti, dittatori e libertà la protesta riparte dal Perù di Daniele Mastrogiacomo La Repubblica, 28 dicembre 2017 Alberto Fujimori è libero. Dopo 12 anni. “L’accordo di Natale” ha funzionato. Il presidente del Perù Pedro Pablo Kuczynski (Pkk) ha accolto la domanda di indulto presentata dall’ex dittatore che ha potuto così lasciare la sede dell’Esercito dove stava scontando la condanna a 25 anni per grave violazione dei diritti umani. Adesso si trova ricoverato nel centro di terapia intensiva della clinica Centenario dove sono subito accorsi i figli Keiko e Kenji, i due fratelli protagonisti del clamoroso e contestatissimo provvedimento di libertà. Kuczynski paga il prezzo degli 8 voti che gli hanno consentito di restare in sella ed evitare la destituzione “per manifesta incapacità morale”. Coinvolto nello scandalo Odebrecht, per una mazzetta ricevuta quando era ministro dell’Economia del governo di Alejandro Toledo, l’ex alto esponente del Fondo Monetario internazionale era riuscito a farsi eleggere alle ultime elezioni vincendo per un pugno di voti contro la sua tenace e molto popolare avversaria Keiko Fujimori. Con la liberazione di Fujimori e la salvezza di Kuczynski si conferma la linea dell’impunità che contagia l’America Latina. È la rivincita dei corrotti. Non solo in Perù, ma in Brasile con Michel Temer, anche lui salvato dal Parlamento in due richieste di incriminazione per associazione a delinquere e corruzione passiva. In Honduras dove il riconfermato Juan Orlando Hernández è sfiorato dallo scandalo Odebrecht. Per non parlare del Venezuela, dell’Ecuador, di Panama, della Repubblica Domenicana. Difficile vedere in carcere i protagonisti di una “ sistema corruttivo” applicato per 20 anni in 12 paesi del Continente e in almeno due dell’Africa. Opportunità, calcolo politico, ragion di Stato. In Perù, i voti raccolti da Fuerza Popular alle ultime elezioni avevano reso difficile l’azione del governo. Il 19 dicembre la situazione era precipitata. L’azione della magistratura anticorruzione aveva svelato dettagli su una serie di corruzioni avvenute sotto gli ultimi tre governi, compreso quello di Pedro Pablo Kuczynski. L’opposizione fujimorista, dominante al Congresso, aveva deciso di promuovere un impeachment raccogliendo gli 87 voti necessari a farlo approvare. La fine del presidente sembrava segnata. Al momento della votazione, il colpo di scena: il fratello minore di Keiko si dissocia dal partito e annuncia di votare contro la mozione. Otto voti fondamentali che segnano una vittoria insperata per Kuczynski. Tutti sanno che il contributo faceva parte di un accordo più vasto. Kenji, a differenza della sorella, ha sempre lottato per far liberare il padre. Un tema delicatissimo, molto sentito in Perù: Alberto Fujimori è amato e odiato. Perché ha sconfitto il terrorismo di Sendero Luminoso ma governato con il pugno di ferro. Ha sciolto d’autorità il Parlamento, ha abolito le libertà costituzionali. È stato travolto dalla corruzione e dai ricatti di Vladimiro Montesino, il suo braccio destro, vero Rasputin delle Ande, ed è fuggito di notte, come un ladro, in Giappone. Qui in Perù migliaia di persone sono scese in piazza, si sono scontrate con la polizia, hanno protestato contro un accordo che appare vergognoso. Ma necessario. Il Perù è l’unico Paese dell’America Latina che vanta anche quest’anno una crescita del 4.5 per cento. Se Kuczynski fosse stato dimesso, l’economia sarebbe crollata. Il presidente ha spiegato di aver concesso ciò che aveva sempre promesso di non concedere “per ragioni umanitarie”. “Fujimori”, ha ricordato in tv, “ha fatto molto per il Perù, anche se è incorso in violazioni significative della legge, al rispetto della democrazia e dei diritti umani”. Fujimori, circondato dai suoi due figli Keiko e Kenji, in un video postato su Facebook, ha difeso “i risultati del mio governo” ma anche riconosciuto che “ho defraudato altri compatrioti. A loro chiedo perdono dal profondo del mio cuore”. Tutti contenti. La lotta alla corruzione può attendere. Argentina. Il giudice scomodo: non si uccise, fu omicidio di Giampiero Gramaglia Il Fatto Quotidiano, 28 dicembre 2017 Non è stato suicidio: è stato omicidio. Chi abbia ammazzato il magistrato argentino Alberto Nisman, ancora nessuno lo sa. Ma chi avesse un movente per farlo, lo sanno tutti: l’ex presidente, e ora senatrice, Christina Kirchner e il suo clan. La vicenda giudiziaria, sfruttata dagli avversari della Kirchner, appare politicamente inquinata: la verità è oggi forse più vicina, ma resta lontana. Le conclusioni dell’inchiesta del giudice federale Julián Ercolini, contenute in un documento di 656 pagine, aggravano indubitabilmente la posizione dell’ex presidente, proprio mentre l’Argentina riscopre la protesta dei caceriolazos - i gruppi di manifestanti che usano le pentole come strumento per esprimere il dissenso - e vive un clima da guerriglia urbana contro la riforma delle pensioni promossa dal suo successore Mauricio Macri. Il giallo della morte di Nisman avvelena da tre anni la vita politica argentina. Il procuratore venne trovato morto nel suo appartamento di Buenos Aires il 19 gennaio 2015, con un colpo di pistola calibro 22 alla testa: il corpo stava in una pozza di sangue, l’arma era lì accanto ma non era sporca. Ercolini ritiene di avere raccolto prove sufficienti per concludere che la ferita letale non sia stata auto-inflitta, ma che sia stata inferta. Alcuni giorni prima della morte, il procuratore Nisman aveva presentato un atto d’accusa contro l’allora presidente Cristina Kirchner - sarebbe rimasta in carica fino al dicembre 2015 - e altri funzionari per aver insabbiato il ruolo dell’Iran nell’attentato del 1994 contro un centro ebraico di Buenos Aires, l’Amia: una bomba esplose e fece 85 morti e oltre 300 feriti, in quello che resta l’atto antisemita più cruento di tutti i tempi nel continente americano. Dopo tre anni di indagini, la morte di Nisman resta tuttavia misteriosa: le circostanze dell’omicidio, gli autori, i mandanti, nulla è definito. Ercolini ha incriminato Diego Lagomarsino, ex collaboratore del procuratore, di complicità nell’omicidio: Lagomarsino ha riconosciuto di avergli prestato (disse “per autodifesa”) la pistola con cui venne poi ucciso. Una circostanza che sembra indicare che Nisman temeva per la propria sicurezza personale. A inizio anno, l’ex presidente è stata accusata di tradimento, in base alle prove raccolte da Nisman sul suo ruolo per coprire gli agenti iraniani nell’attacco all’Amia, per tutelare i rapporti con l’Iran e ottenere petrolio a prezzo di favore, riferisce Haaretz, quotidiano israeliano. Un giudice ha anche chiesto l’arresto dell’attuale senatrice. Perché il provvedimento possa scattare, è però necessario che, prima, il Congresso le tolga con un voto l’immunità parlamentare. Per l’ex presidente, i guai, di questi tempi, si succedono: un procuratore vuole processarla per frode ai danni dello Stato e associazione illecita, perché avrebbe manipolato contratti pubblici a vantaggio d’un imprenditore attualmente detenuto con l’accusa di riciclaggio di fondi illeciti; un altro uomo d’affari legato ai Kirchner - prima di Cristina, fu presidente suo marito Nestor: una staffetta che ricorda le vicende peroniste - s’è appena costituito (è accusato di frode aggravata ai danni dell’erario); e un suo ex ministro è agli arresti domiciliari per la vicenda Nisman. Myanmar. Reporter arrestati: in carcere almeno fino al 10 gennaio Dire, 28 dicembre 2017 Prorogata in Myanmar almeno fino al 10 gennaio la detenzione per due reporter dell’agenzia di stampa Reuters arrestati due settimane fa: lo ha annunciato oggi il giudice Ohn Myint, del tribunale di Yangon, secondo il quale “gli interrogatori proseguono”. Wa Lone e Kyaw Soe Oo, di 31 e 27 anni, sono stati arrestati dalla polizia il 12 dicembre con l’accusa di detenzione di documenti riservati. I due stavano indagando sulle accuse di “pulizia etnica” nei confronti delle comunità Rohingya da parte dell’esercito birmano. Secondo l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani, non sarebbe esclusa “la possibilità di un genocidio” a danno delle comunità, di religione musulmana. Accuse respinte dall’esercito e dal governo birmano. “Dite a tutti i giornalisti di essere molto cauti” ha detto Kyaw Soe Oo in tribunale. “Tutto ciò è molto inquietante, non abbiamo fatto nulla di male”. I due cronisti sono apparsi oggi per la prima volta dal giorno del loro arresto. Nei giorni scorsi nemmeno familiari e avvocati avrebbero potuto incontrarli. I fatti per i quali i reporter sono accusati sono punibili con 14 anni di carcere.