Meno carcere più pene alternative: ecco la riforma di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 27 dicembre 2017 L’Ordinamento Penitenziario del 1975 sarà finalmente aggiornato. serve solo il parere delle Commissioni di Camera e Senato sui decreti attuativi. Lo spirito della riforma dell’ordinamento penitenziario, che è ad un passo dall’attuazione, si può sintetizzare così: meno carcere e più pene alternative. Il 22 dicembre scorso, in extremis, il Consiglio dei ministri ha infatti approvato, in esame preliminare, i decreti attuativi: ora le commissioni Giustizia di Camera e Senato hanno a disposizione, anche nel caso di scioglimento del Parlamento, quarantacinque giorni per esprimere un parere sulla conformità dei decreti alla legge delega. Solo a quel punto l’ordinamento penitenziario del 1975 sarà finalmente aggiornato mettendo in atto altre concezioni più avanzate, per dare un senso all’esecuzione penale che ha come faro il principio dell’articolo 27 della Costituzione italiana Soprattutto nella parte dell’articolo 27 che recita: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Un principio, quest’ultimo, che non ha ancora trovato piena applicazione, come dimostrano le sentenze della Corte Europea e le bacchettate da parte di diversi organismi internazionali come l’Onu. I principi ispirati dagli Stati Generali - Ancora non si conoscono nel dettaglio i contenuti dei decreti, ma sappiamo che si sono ispirati ai lavori degli Stati generali sull’esecuzione della pena - istituiti dal ministro della Giustizia Andrea Orlando - che si erano conclusi a maggio del 2016. Furono diciotto i tavoli ed erano composti da operatori penitenziari, giuristi, componenti dell’associazione come Antigone e anche personalità politiche come Rita Bernardini, della presidenza del Partito Radicale. Il lavoro degli Stati generali ha fornito indicazioni preziose per l’attuazione della delega in materia penitenziaria, ma, soprattutto, configura una grande operazione culturale volta a superare un sistema ancora carcero- centrico, che identifica troppo sbrigativamente la sanzione penale con la reclusione in carcere. I lavori dei 18 tavoli hanno caratterizzato una nuova e inedita attenzione agli spazi architettonici, ai luoghi e tempi (verso una detenzione meno “carceraria), all’affettività e alla sessualità in carcere, alle vulnerabilità sociali dietro le sbarre (minori, donne, tossicodipendenti), al disagio psichico e alle sue conseguenze sul trattamento, ai sistemi di contenimento della pericolosità sociale dei soggetti non imputabili (pensiamo alle Rems), alla valorizzazione degli elementi del trattamento (tipo l’istruzione, la cultura, lo sport) e, infine, al lavoro carcerario. Non è stata esclusa nemmeno un’attenzione particolare alla pena perpetua (in particolare l’ergastolo ostativo), nel senso di una sua progressiva “umanizzazione”, come anche una riconsiderazione delle finalità e dei presupposti dei regimi “differenziati” (il 41bis e circuito “alta sicurezza”) e del sistema delle preclusioni (art. 4bis) per dare nuovo slancio e contenuto alla “discrezionalità” delle decisioni della magistratura di sorveglianza sui percorsi rieducativi del singolo. Probabilmente, gli ultimi punti riguardanti i reati ostativi, - forse anche per l’opposizione del Movimento Cinque Stelle - non sono stati presi in considerazione dai decreti attuativi della riforma. I criteri direttivi dei decreti approvati - In attesa di conoscere i testi approvati, un primo obiettivo che traspare dalla lettura dei criteri direttivi è quello dell’ampliamento dell’ambito di operatività delle misure alternative alla detenzione, anche attraverso la semplificazione delle procedure di accesso. In sintesi, ci sarà l’allargamento della popolazione carceraria che potrà ottenere i benefici di legge, come la “messa alla prova” e il lavoro esterno, o altre forme di espiazione della pena come la cosiddetta “giustizia riparativa”. Tutte misure che favoriscono l’abbattimento della recidiva. In altri termini si sono, in concreto, poste le basi per semplificare le procedure davanti al magistrato di sorveglianza, facilitare il ricorso alle misure alternative, eliminare automatismi e preclusioni all’accesso ai benefici penitenziari, incentivare la giustizia riparativa, incrementare il lavoro intramurario ed esterno, valorizzando il volontariato, riconoscere il diritto all’affettività e gli altri diritti di rilevanza costituzionale ed assicurare effettività alla funzione rieducativa della pena. Da dette procedure restano esclusi - come già detto - i condannati all’ergastolo per mafia e terrorismo e i casi di eccezionale gravità e pericolosità. A questo si aggiunge la valorizzazione al mantenimento delle relazioni familiari anche attraverso l’utilizzo di collegamenti via Skype, al riordino della medicina penitenziaria, all’agevolazione dell’integrazione dei detenuti stranieri, alla tutela delle donne e, nello specifico, delle detenute madri, al rafforzamento della libertà di culto. Va però sottolineato che il diritto alla sessualità sembra per ora impraticabile per via delle strutture inesistenti e non basterebbero i soldi previsti dalla legge di bilancio. L’impegno delle Commissioni e del Garante - I decreti sono stati elaborati dalle tre commissioni coordinate da Glauco Giostra e istituite dal ministro Orlando quando, a giugno del 2017, la legge penitenziaria passò in via definitiva. Le tre commissioni avevano tempo di elaborare i decreti attuativi entro fine dicembre, ma grazie anche alla pressione esercitata dal Partito Radicale attraverso lo sciopero della fame di Rita Bernardini e Deborah Cianfanelli e ai 30 mila detenuti che hanno aderito al Satyagraha, i componenti delle commissioni hanno lavorato ininterrottamente per cinque mesi fino a consegnare con largo anticipo, sul tavolo di Palazzo Chigi, i testi dei decreti. Quest’ultimi erano poi stati tramessi all’ufficio del Garante nazionale dei diritti dei detenuti, presieduto da Mauro Palma e composto da Emilia Rossi e Daniela De Robert, per visionarli e apportare delle osservazioni. L’11 dicembre scorso, il Garante aveva consegnato l’ultima parte dei decreti e il resto della storia la conosciamo. Il 22 dicembre il Consiglio dei ministri ha approvato in maniera preliminare tutti i testi. Il guardasigilli, all’indomani dell’approvazione, ha espresso felicitazioni e, soprattutto, ha ringraziato il Partito Radicale per il suo impegno. “Se si deve citare una forza politica - ha detto il ministro Orlando ai microfoni di Radio radicale devo ringraziare i radicali. A volte loro diffidavano delle reali opportunità di riuscita di questo lungo percorso e per questo mi sono sentito messo in mora da loro, ma senza questo stimolo non saremmo arrivati dove siamo arrivati. La battaglia pubblica e politica - chiosa Orlando l’hanno fatta i Radicali”. Parla Rita Bernardini. “Grazie ai 30mila detenuti e alla lezione di Marco Pannella” di Valentina Stella Il Dubbio, 27 dicembre 2017 “La resistenza più potente è stata quella dei media che hanno alimentato campagne d’odio, omettendo di riconoscere che una pena riumanizzante dà alla società molta più sicurezza”. Se la riforma dell’ordinamento penitenziario è arrivata in questa legislatura, lo si deve anche allo sforzo inesauribile del Partito Radicale e di Rita Bernardini che con continui solleciti al governo e con costanti digiuni di dialogo - anche pericolosi per la salute della dirigente radicale, insieme con altri esponenti radicali come Deborah Cianfanelli, sono riusciti ad incassare questo risultato. In extremis, o come ha scritto lei in “zona Cesarini”, il governo ha approvato i decreti attuativi della riforma dell’ordinamento penitenziario. Meglio tardi che mai. In molti non ci credevano. Credo che sia stato vincente il modo che ci ha insegnato Pannella nell’agire politico: comportati “come se” il risultato sia stato già raggiunto e vedrai che la realtà intorno a te cambia nella direzione che auspichi. È una questione di convinzione. Quali gli aspetti positivi del provvedimento? Posso rispondere solo per grandi linee perché i testi ancora non si conoscono. Credo che l’aver indirizzato l’esecuzione penale più sulle misure alternative che sul carcere sia ottimo, sempre che si destinino risorse umane ed economiche a questo scopo. Riservare il carcere solo ai casi più gravi significa ridurne drasticamente la popolazione e, di conseguenza, avere la possibilità e i mezzi per aumentare le attività risocializzanti, quali scuola, lavoro, sport, cultura, affetti: tutto questo lo si può avere però solo se il carcere non diviene estraneo, come è purtroppo oggi al territorio ove si trova, e alle istituzioni rappresentative. Quali gli aspetti negativi? Si doveva avere il coraggio di abolire il doppio binario che esclude dal trattamento individualizzato alcune categorie di detenuti quali quelli dichiarati appartenenti alla criminalità organizzata: anche per loro occorre prevedere una pena costituzionale. La pena nella pena del 41- bis e l’isolamento devono scomparire se vogliamo essere uno Stato di diritto ove vigono i diritti umani fondamentali, quelli universalmente riconosciuti. Questa riforma arriva dopo 4 anni la condanna da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per le condizioni inumani e degradanti delle nostra carceri. Quali sono state le resistenze più forti che hanno impedito il risultato appena ottenuto? La resistenza più potente è stata quella dei mass-media che hanno alimentato campagne d’odio, omettendo di riconoscere quanto ci dicono le indagini scientifiche e cioè che una pena riumanizzante dà alla società molta più sicurezza della semplificazione contenuta nella drastica e definitiva segregazione carceraria. Quanto ha pesato l’apporto di Marco Pannella prima e del Partito Radicale adesso? Io credo molto se è stato lo stesso ministro della Giustizia a riconoscerlo. Anche quando Orlando ha richiamato l’importanza del messaggio alle Camere di Napolitano del 2013 occorre ricordare quanto Marco Pannella abbia stimolato il Presidente che per buona parte del suo duplice mandato aveva invece ritenuto inutile rivolgersi al Parlamento con lo strumento previsto dall’art. 87 della Costituzione. Commentando la riforma il ministro Orlando a Radio Radicale ha ringraziato prima i radicali, poi Napolitano e il Papa. Una scelta non casuale? Mi ha fatto davvero piacere: direi che ci sia stata, nel dialogo, una felice sinergia. Come dimenticare la telefonata di Bergoglio a Pannella in sciopero della sete? E, a pensarci bene, gli unici che hanno richiesto la vietatissima “amnistia” sono stati proprio Pannella (per una vita), Napolitano (con il messaggio alle Camere), Papa Francesco (con il Giubileo dei carcerati e non solo). Lei ci ha tenuto subito a ringraziare “30.000 detenuti che hanno aderito al Satyagraha, a coloro che hanno digiunato partecipando alle diverse fasi della lotta nonviolenta dall’estate del 2016”. Una lotta nonviolenta, costante, fuori dai riflettori ma che è stata un pezzo importante del puzzle. Il filosofo Aldo Masullo riferendosi al digiuno di decine di migliaia di detenuti ha parlato di “salto culturale” della popolazione reclusa, un loro “ritorno alla società” pur rimanendo segregati in una cella. Un tempo c’erano le rivolte, oggi c’è questa forma nonviolenta di reagire alla violenza delle istituzioni spesso incapaci di rispettare le loro stesse leggi. È un notevole passo avanti. Una massa critica capace di cambiare la realtà circostante cambiando in primo luogo se stessa. Quali saranno i prossimi passi? Ah, ora comincia il bello non solo perché in Italia ottenuta una riforma occorre fare in modo che questa sia attuata, ma perché la lotta più profonda e difficile deve necessariamente riguardare il fronte della Giustizia che da noi è il più grande problema sociale, istituzionale e civile che abbiamo. La tradizione non cambia: anche quest’anno il 31 e l’anno prossimo - il primo gennaio - sarà prima a Rebibbia e poi a Regina Coeli. Il 31 con Sergio D’Elia ed Elisabetta Zamparutti diremo addio all’anno appena trascorso assieme ai detenuti e ai “detenenti” di Rebibbia, mentre il primo giorno dell’anno sarò felice di visitare Regina Coeli insieme all’Ambasciatore Claudio Moreno che in quel carcere c’è stato da detenuto più di vent’anni fa: sarà interessante ripercorrere con lui quei corridoi, quelle sale, quelle celle per rivivere situazioni e condizioni vedremo quanto diverse da quelle di tanti anni fa. Questo risultato arriva qualche giorno dopo il superamento dei 3000 iscritti al Partito Radicale che lo hanno salvato dallo scioglimento. Cosa si augura per il 2018? Di completare l’obiettivo dei 3.000 anche per il 2018 e, quindi, di convocare il Congresso ordinario nel 2019 per progettare e costituire insieme agli iscritti, centinaia dei quali non italiani, il Partito della nonviolenza transnazionale e transpartito, dello Stato di diritto, degli Stati uniti d’Europa, del diritto umano alla conoscenza. Il Partito Radicale organizza visite nelle carceri anche durante le festività Askanews, 27 dicembre 2017 Dopo le visite effettuate nei giorni scorsi negli Istituti penitenziari di Reggio Emilia, Roma-Rebibbia, Palermo-Ucciardone, Napoli-Poggioreale, Milano-San Vittore, Foggia, Napoli-Secondigliano, Catanzaro, Lucera, Palermo-Pagliarelli, durante le festività il Partito Radicale sarà ancora presente in alcune carceri italiane secondo programma riportato di seguito. “In questi giorni di festa - ha dichiarato in un comunicato Rita Bernardini della presidenza del Partito Radicale - è particolarmente importante essere vicini alla comunità penitenziaria tenuta ancora così lontana dai principi costituzionali basati su una pena che non umili la dignità della persona e che sia improntata alla rieducazione e al reinserimento sociale. Oggi, dopo l’approvazione da parte del Governo della Riforma dell’Ordinamento penitenziario, riforma che dovrebbe essere meno carcerocentrica e più indirizzata alle pene alternative, possiamo forse portare un po’ di speranza in quei luoghi dove spesso la disperazione prende il sopravvento.” Ecco il programma di visite del Partito Radicale Nonviolento Transnazionale Transpartito. Giovedì 28 dicembre: Carcere di Castelvetrano (TP), delegazione guidata da Donatella Corleo (ore 8:30). Carcere di Trapani, delegazione guidata da Donatella Corleo (ore 12:00). Locri (RC), delegazione guidata da Gianpaolo Catanzariti (ore: 9:00) Venerdì 29 dicembre: Carcere di Reggio Calabria-Panzera, delegazione guidata da Gianpaolo Catanzariti (ore 9:00). Sabato 30 dicembre: Carcere di Milano-Opera, delegazione guidata da Mauro Toffetti (ore 10:30). Domenica 31 dicembre: Carcere di Roma Rebibbia-Nuovo Complesso, con Rita Bernardini, Sergio D’Elia, Elisabetta Zamparutti (ore 18:00). Lunedì 1° gennaio 2018: Carcere di Roma - Regina Coeli, con Rita Bernardini e Claudio Moreno (autore del libro “Un ambasciatore a Regina Coeli) (ore 10:00). Martedì 2 gennaio 2018: Carcere di Palmi (RC), delegazione guidata da Gianpaolo Catanzariti (ore 9:00). Mercoledì 3 gennaio 2018: Carcere di Reggio Calabria-Arghillà, delegazione guidata da Gianpaolo Catanzariti (ore 9:00). Giovedì 4 gennaio 2018. Carcere di Laureana di Borrello, delegazione guidata da Gianpaolo Catanzariti (ore 9:00). Usava gli agenti di scorta come maggiordomi, generale condannato di Marco Preve La Repubblica, 27 dicembre 2017 Enrico Ragosa è un “mito” della Polizia penitenziaria. Ha creato i Gom del G8 2001, dovrà risarcire 324 mila euro. Fino ad oggi il generale Enrico Ragosa, 72 anni, genovese di Voltri, era noto soprattutto per essere un “duro” delle carceri, prima al servizio di Giovanni Falcone e poi di Giancarlo Caselli, Ragosa è l’inventore dei Gom, i Gruppi operativi mobili, i reparti speciali che nella prigione scandalo di Bolzaneto al G8 di Genova si trasformarono nelle squadracce di picchiatori e torturatori. Da oggi Ragosa, considerato un “mito” da una parte degli agenti penitenziari è un truffatore. Ma non uno qualsiasi. La sua truffa, lo dicono due sentenze di primo grado, penale e contabile, è uno sberleffo ai suoi uomini: avrebbe approfittato del suo potere per trasformare la scorta in un servizio di maggiordomi e autisti che scorrazzavano fra Roma e Genova lui e i suoi famigliari, soggiornando per più settimane in missione a Genova, magari accompagnando parenti a fare la spesa o occupandosi della sua barca. Tutto a spese dei contribuenti, secondo i giudici e le prove raccolte dalla guardia di finanza, mentre i sindacati della polizia penitenziaria lamentano tagli agli organici e fondi sempre più risicati. In queste ultime settimane Ragosa, dopo la condanna penale dove era accusato di peculato, falso e truffa, è stato condannato anche dalla Corte dei Conti del Lazio: dovrà risarcire l’amministrazione penitenziaria per una cifra che sfiora i 324 mila euro per episodi accaduti nel periodo compreso fra il 2009 e il 2011. In quegli anni, nonostante il suo livello di scorta fosse stato ridotto, lui continuava ad utilizzare due auto invece dell’unica assegnatagli oltre a gestire i suoi sottoposti per fini privati. Ragosa era all’epoca il potente direttore generale della Direzione generale delle risorse materiali, dei beni e dei servizi dell’Amministrazione penitenziaria. Scrivono i giudici nella sentenza che “erano emerse condotte illecite… danno cagionato da fruizione illecita delle prestazioni lavorative di 14 dipendenti che comandava in missione da Roma a Genova per ragioni falsamente attinenti alla sua tutela e che, in realtà, conducevano veicoli del Dap diversi dall’auto specializzata… destinati l’uno al trasporto del Ragosa e talvolta di persone al seguito, l’altro al trasporto dei bagagli, effetti personali e masserizie nonché per gli spostamenti nella città di Genova e dintorni”. Le voci di danno sono state calcolate fra stipendi, missioni, carburante, riparazioni di auto, trasporto animali domestici oltre alla mancata utilizzazione del personale. Davanti alla Corte dei Conti la difesa di Ragosa ha sostenuto la regolarità del suo operato per la difesa del generale stesso e dei suoi famigliari. Ma i giudici, anche in virtù della sentenza penale di condanna, hanno bocciato le tesi difensive. Il generale, secondo la Corte “ comandava in missione da Roma a Genova per ragioni attinenti alla sua tutela, risultate non veritiere”, e ancora “reiterate condotte poste in essere dal convenuto, con conseguente abuso dei poteri”, inoltre Ragosa avrebbe dimostrato “una sprezzante volontà di violare le regole di condotta con conseguente lesione degli interessi e dei valori costituzionalmente significativi”. Accuse e considerazioni pesanti: “In considerazione del ruolo ricoperto all’interno del Dap e dei rapporti instaurati con il personale posto alle sue dipendenze ed utilizzato scorrettamente”. Rileva il grado della colpa medica di Riccardo Borsari Il Sole 24 Ore, 27 dicembre 2017 Sezioni unite - Informazione provvisoria n. 31 - 21 dicembre 2017. A meno di un anno dall’entrata in vigore della riforma della responsabilità sanitaria (legge 24/17, la cosiddetta Gelli-Bianco), le Sezioni unite della Cassazione sono state chiamate a risolvere un delicato contrasto giurisprudenziale sorto in seno alla IV Sezione penale circa il perimetro applicativo della nuova disciplina e i correlati profili di diritto intertemporale. La riforma, infatti, ha abrogato la previgente disciplina (legge 189/12 “Balduzzi”) e ha introdotto nel Codice penale l’articolo 590 sexies, sulla cui interpretazione è scaturita una profonda difformità di vedute, specie con riferimento alla punibilità dell’errore del sanitario nel momento esecutivo. In sintesi, alla stregua di un primo orientamento (sentenza 28187/2017) la disciplina previgente risulta più favorevole, in quanto esclude la rilevanza penale delle condotte caratterizzate da colpa lieve in contesti regolati da linee guida e buone pratiche accreditate, mentre quella sopravvenuta ha eliminato la distinzione tra colpa lieve e grave ai fini dell’attribuzione della responsabilità penale, dettando, al contempo, un’articolata disciplina sulle guidelines, parametro di valutazione della colpa per imperizia in tutte le sue manifestazioni. Questa pronuncia, in particolare, nell’ambito di un approccio critico verso la riforma, evidenzia l’impossibilità di fondarsi sull’interpretazione letterale della disposizione, onde evitare gravi pregiudizi al diritto alla salute e seri dubbi di legittimità costituzionale. Ma la sentenza propone anche una lettura che, muovendo dal dato letterale, non manchi di valorizzare le finalità della legge e riconosca al sanitario la pretesa a vedere il proprio comportamento giudicato alla stregua delle medesime direttive impostegli, non indugiando in automatismi e, per converso, riconoscendo la non rilevanza ai fini della non punibilità delle condotte che non risultino disciplinate in quel contesto regolativo (come, appunto, le ipotesi di errore nell’esecuzione). L’opposto indirizzo (sentenza 50078/2017), invece, ritiene più favorevole la Gelli-Bianco, che prevede una causa di esclusione della punibilità del sanitario alle condizioni dell’articolo 590 sexies del Codice penale, nel solo caso di imperizia, “indipendentemente dal grado della colpa”.Tale indirizzo individua l’unica residua ipotesi di rilevanza penale dell’imperizia sanitaria nell’assecondamento di linee guida inadeguate al caso concreto, mentre non sarebbe punibile il medico che abbia applicato in maniera imperita le linee guida prescelte (incorrendo, pertanto, in un errore in executivis). Questa opzione interpretativa è fondata sulla ritenuta individuazione della volontà legislativa di favorire la posizione del medico in caso di imperizia, rispetto alla colpa per negligenza ed imprudenza. Stante la difficoltà di comporre queste divergenze interpretative, non rimaneva che affidarsi alle Sezioni Unite: se, infatti, da un lato la sentenza 28187, mossa dall’intento di recuperare la nuova fattispecie rispetto ai dubbi di legittimità costituzionale derivanti dalla interpretazione letterale, prospettava una lettura restrittiva al punto da comportarne una quasi sostanziale inapplicabilità, la sentenza 50078, dall’altro lato, pareva eccessivamente appiattita sulle intenzioni del legislatore. A quanto risulta dalla informazione provvisoria sulla pronuncia resa all’udienza pubblica dello scorso 21 dicembre le Sezioni unite hanno almeno in parte assunto un punto di vista differente e indicato i casi nei quali il sanitario potrà essere considerato penalmente responsabile. Ciò accadrà allorquando: • la colpa (anche “lieve”) si esplichi in un ambito differente rispetto a quello della perizia (quindi negligenza o imprudenza); • per il caso di imperizia si sia in presenza di un errore rimproverabile (per colpa anche “lieve”) nell’individuazione e nella scelta di linee guida o buone pratiche che non risultino adeguate alle specificità del caso concreto; • si sia in presenza di un rimproverabile errore (per colpa anche “lieve”) esecutivo dell’atto medico ove nel caso concreto non siano disponibili linee guida né buone pratiche clinico-assistenziali; • si sia in presenza di un errore esecutivo rimproverabile e qualificabile in termini di colpa grave laddove esistano linee guida o, in mancanza, buone pratiche clinico-assistenziali adeguate alle specificità del caso e a cui il sanitario si sia attenuto, tenuto conto del grado di rischio da gestire e delle specifiche difficoltà tecniche. A una primissima lettura le Sezioni Unite sembrerebbero dunque tuttora inclini ad attribuire rilevanza al grado della colpa, riconoscendo l’operatività dell’articolo 590-sexies, 2° comma, del Codice penale nei soli casi di imperizia in cui vi sia un lieve errore esecutivo di linee guida o, in mancanza, di buone pratiche clinico-assistenziali adeguate alle specificità del caso concreto. Sembrerebbe in via di accantonamento quell’interpretazione letterale del nuovo articolo 590 sexies che, come paventato dalla sentenza 28187, depotenzierebbe la tutela della salute, escludendo la punibilità del medico che, pur avendo cagionando un evento lesivo per imperizia, in qualche momento della relazione terapeutica abbia comunque fatto applicazione di direttive qualificate, anche se estranee al momento topico in cui l’imperizia lesiva si sia realizzata. Misure cautelari: escluso il ricorso “fai da te” di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 27 dicembre 2017 Sezioni unite penali - Informazione provvisoria n. 30 - 21 dicembre 2017. La possibilità di fare ricorso in cassazione personalmente, esclusa dopo le modifiche apportate al codice di rito penale, vale anche per le misure cautelari personali. Questa la soluzione adottata dalle Sezioni unite e resa nota con un’informazione provvisoria. Il Supremo consesso si è espresso per dirimere i dubbi, sollevati con l’ordinanza interlocutoria 51068/2017, sulla portata degli interventi messi in atto con la legge di riforma 10372017 e, in particolare sulla modifica all’articolo 311 del codice di procedura penale sul ricorso alla Suprema corte, una norma alla quale la legge di riforma non fa un esplicito riferimento. Le Sezioni unite fanno una scelta diversa da quella indicata nell’ordinanza di remissione, nella quale il collegio aveva ritenuto, ammissibile, anche nel vigore della nuova disciplina il ricorso sottoscritto dall’imputato. Per il collegio remittente, infatti, l’articolo 311, rimasto immutato, continua a contemplare la facoltà del ricorso personale in sintonia con la regola generale dettata dall’articolo 571 comma 1 del codice di rito sull’impugnazione dell’imputato. Per la sezione remittente se il legislatore avesse voluto prevedere la difesa tecnica anche nel caso delle misure cautelari lo avrebbe fatto espressamente. Un’opinione diversa era stata espressa della Cassazione con la sentenza 103/2017 con la quale si era giunti alla conclusione diametralmente opposta proprio guardando alla ratio del legislatore. I giudici in quell’occasione si erano basati sulla relazione illustrativa del DDl e sugli atti parlamentari, dando un peso allo scopo di evitare il proliferare dei ricorsi “fai da te” destinati a cadere sotto la scure dell’inammissibilità per mancanza dei requisiti di forma e contenuto, oltre che all’obiettivo di scongiurare un ricorso strumentale da parte di difensori non abilitati al patrocinio in Cassazione. Da un punto di vista più squisitamente tecnico i giudici, contrari al ricorso in prima persona, avevano affermato che i nuovi articoli 571 e 613 del codice di rito contrappongono al principio generale della legittimazione personale all’impugnazione, la regola generale, sia pur settoriale della difesa tecnica. Una conclusione avallata dalle Sezioni unite, con quali motivazioni si saprà solo dopo il deposito della sentenza. Avvocati: il sostituto del “dominus” non può costituirsi parte civile di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 27 dicembre 2017 Sezioni unite - Informazione provvisoria n.29 - 21 dicembre 2017. Il sostituto processuale del procuratore speciale nominato dalla persona offesa non può costituirsi parte civile al posto del suo dominus. Le Sezioni unte della cassazione, con l’informazione provvisoria n. 29 del 21 dicembre scorso, anticipano la risposta al quesito posto dalla sesta sezione sulla legittimazione o meno. Una problematica rispetto alla quale in sede di legittimità si era registrato un’evidente contrasto. Per l’interpretazione più restrittiva, avallata dalle sezioni unite, il difensore munito di procura speciale, non può delegare il suo sostituto nel processo attribuendogli il potere di costituirsi nel giudizio penale per rappresentare la parte civile. La possibilità di nominare un sostituto, prevista dall’articolo 102 del Codice di procedura penale non attribuisce, infatti, a quest’ultimo il potere di costituirsi parte civile. Un orientamento non in linea con la tesi più “aperta” abbracciata da parte dei giudici di legittimità, secondo i quali la facoltà prevista esplicitamente nella procura speciale in capo al difensore di fiducia, di designare sostituti al fine di presentare la costituzione di parte civile, configura una “legittimazione alla causa” anche rispetto a questi ultimi, purché ritualmente e specificamente designati. Per le Sezioni unite però solo il “titolare” cassazionista può costituirsi parte civile. Avellino: arrestato per tentata rapina, muore in carcere di Pierluigi Melillo La Repubblica, 27 dicembre 2017 24enne avellinese trovato senza vita in cella dagli agenti di Polizia penitenziaria. La Procura ha aperto un’inchiesta: forse il giovane aveva fatto uso di droga prima di essere trasferito nel penitenziario. Era stato arrestato per un tentativo di rapina ai danni di un’anziana. Lo hanno trovato senza vita nella cella, all’interno del penitenziario di Bellizzi Irpino. La Procura della Repubblica di Avellino dovrà chiarire le cause del decesso di un 24enne avellinese, C.T., morto nel sonno. E’ stata disposta l’autopsia, mentre è stata avviata anche una indagine interna. Sono stati gli agenti di polizia penitenziaria a lanciare l’allarme, questa mattina, ma ogni tentativo di soccorso si è rivelato inutile. Si ipotizza che il giovane sia stato stroncato da una dose di droga di cui aveva fatto uso prima di entrare in carcere. Circostanze che saranno, però, chiarite dagli esami tossicologici disposti dalla magistratura. Il giovane aveva aggredito con la complicità della fidanzata un’ anziana nel centro di Avellino per derubarla. L’episodio si era verificato la mattina del 23 dicembre: le indagini dei carabinieri di Avellino hanno poi portato all’arresto eseguito nel pomeriggio di ieri. Nella notte la tragedia in carcere. Catania: come prevenire il rischio di suicidio tra i detenuti di Nuccio Sciacca blogsililia.it, 27 dicembre 2017 Siglato dall’Asp di Catania un protocollo d’intesa con le Case circondariali. Un protocollo d’intesa è stato stipulato fra l’Azienda sanitaria catanese e le Case circondariali della provincia di Catania, finalizzato all’implementazione delle attività per la prevenzione del rischio suicidario nelle carceri e nelle strutture di giustizia minorile del territorio. Presenti Giuseppe Giammanco (direttore generale Asp di Catania), Daniela Faraoni e Franco Luca (rispettivamente direttore amministrativo e direttore sanitario dell’Azienda sanitaria), Elisabetta Zito (direttore della Casa circondariale di “Piazza Lanza”), Giovanni Rizza (direttore della Casa circondariale di “Bicocca”), Giuseppe Russo (direttore della Casa circondariale di Caltagirone), Aldo Tiralongo (direttore della Casa circondariale di Giarre), Giuseppe Fichera (direttore del Dsm dell’Asp di Catania), Carmelo Florio (direttore del modulo Dsm-Catania sud), Salvina Riillo (direttore del Distretto sanitario di Catania), Roberto Ortoleva (dirigente psichiatra Staff Dsm e referente di progetto), Santo Messina (direttore Uoc Affari generali e del personale). Il protocollo sarà sottoscritto nei prossimi giorni anche dal Centro Giustizia minorile di Catania, diretto dalla Rosaria Antonia Gallo. Giammanco ha porto ai presenti i saluti dell’assessore regionale alla Salute, Ruggero Razza, e il suo apprezzamento per un progetto d’avanguardia e di civiltà che mette al centro la persona e se ne fa carico. L’evento suicidio ha un impatto psicologico devastante sulla comunità, in qualsiasi contesto esso si verifichi. In carcere, luogo in cui il sistema delle responsabilità e dei rapporti istituzionali è particolarmente complesso, il suicidio rappresenta un fenomeno drammatico che non solo destabilizza e annichilisce familiari e conoscenti ma scompagina e produce inquietudini, sofferenza e confusione in tutti i gruppi di operatori coinvolti, esplodendo con la violenza di un gesto tragico, temuto e irreversibile. “Abbiamo intessuto - ha spiegato Giammanco - in piena condivisione una rete di collaborazioni e di operatività che ha messo a sistema, in una logica di programmazione e di innovazione, da un lato una prassi d’intervento consolidata nel lavoro dei nostri psichiatri e dall’altro l’insieme delle competenze professionali maturate sul campo dagli operatori dell’amministrazione penitenziaria. Il risultato è un lavoro d’integrazione, di sinergia e di grandi e ampie visioni”. Il progetto di prevenzione del rischio suicidario prevede l’attivazione di tutti gli interventi idonei alla promozione e alla tutela della salute dei soggetti (minori, giovani, adulti) privati o limitati della libertà personale e/o sottoposti a procedimento penale. Tali interventi verranno predisposti a cura dell’Asp di Catania, attraverso il Dipartimento di salute mentale, di concerto, per quanto di competenza, con i servizi della sanità penitenziaria. L’Asp si impegna a garantire la continuità assistenziale per i soggetti in carico, anche tramite i contatti con le famiglie. “I protocolli sono stati costruiti tenendo conto delle specificità dei singoli Istituti e ponendo grande attenzione alla questione etica - ha detto Zito -. Tutto ciò si è sostanziato nella previsione di precisi strumenti a garanzia di tutti gli attori coinvolti e nella valorizzazione di nuove opportunità di promozione e di crescita relazione; formando, ad esempio, i detenuti in attività di cargivers”. Gli obiettivi progettuali, illustrati da Fichera, mirano a: individuazione degli strumenti per intercettare il rischio autolesivo/suicidario, formando a tal fine gli operatori; creazione di Pdta (percorso diagnostico-terapeutico-assistenziale) specifici per una presa in carico efficace dei disturbi psichici; formazione di detenuti peer supporter; attivazione di tecniche di “debriefing” (quando avvengono casi di suicidio per attenuare le conseguenze emotive dell’evento, allentare le conflittualità e cercare di apprendere dalle esperienze); stimolare azioni di sistema per migliorare le condizioni di vita carceraria. “È un percorso di collaborazione virtuoso fra le istituzioni, purtroppo non frequente né scontato nella nostra realtà - ha sottolineato Rizza, che ha reso agevole la costruzione di una rete fra le varie componenti e i vari servizi sia dell’amministrazione penitenziaria sia dell’Asp di Catania, finalizzata al conseguimento di un obiettivo di civiltà”. Rientrano, nell’ambito del protocollo sottoscritto, anche i corsi di formazione rivolti agli operatori dei cinque istituti penitenziari coinvolti, per la condivisione dei percorsi di valutazione e di cura da attivare nei servizi della sanità penitenziaria, relativi alla prevenzione dei suicidi e degli atti autolesivi. “Il percorso che abbiamo intrapreso - ha detto Russo - segna l’inizio di un nuovo lavoro, con obiettivi di sicurezza ancora più sfidanti e un più efficace coordinamento fra le istituzioni, che ha visto, fino a ora, l’impegno costante dell’amministrazione penitenziaria e degli operatori sanitari nei confronti dei detenuti più deboli”. Le azioni formative - realizzate secondo le linee guida regionali di prevenzione del rischio autolesivo e di suicidio nelle carceri - sono state attivate nel mese di maggio (le prime in Sicilia) e si svilupperanno nell’arco di un triennio. Sono stati già 200 gli operatori formati. I docenti impegnati svolgono la loro attività gratuitamente. Campobasso: morto d’infarto in cella, chiesta indagine interna al carcere primonumero.it, 27 dicembre 2017 Alessandro Ianno morì il 19 marzo 2015 nella Casa circondariale di Campobasso dopo un arresto cardiaco. La famiglia e l’avvocato Silvio Tolesino si sono opposti alla richiesta di archiviazione avanzata dal Pm per una serie di anomalie evidenziate durante i soccorsi del malore avvertito da Ianno. Ora chiedono un’indagine interna al carcere di via Cavour. Alessandro Ianno, morto in carcere il 19 marzo 2015, poteva salvarsi. Ma se non poteva, nei momenti in cui avrebbe avuto bisogno del necessario intervento medico non è stato fatto tutto quello che si poteva. Parte da qui la richiesta avanzata dall’avvocato Silvio Tolesino, su richiesta della famiglia del detenuto, per che vuole tra le altre cose un’indagine interna al carcere di Campobasso che (almeno all’epoca dei fatti) si presume fosse privo di defibrillatori. Strumenti utili, invece, per salvare la vita in caso di arresto cardiaco. E, secondo il legale, avrebbero potuto salvare la vita di Ianno. I motivi per cui quella morte non convince familiari e avvocato sono racchiusi in 13 pagine, ferme sul tavolo del giudice Teresina Pepe, chiamata ora a rispondere se aprire un’inchiesta interna alla Casa circondariale di Campobasso o meno. Chiamata a decidere se riaprire il caso e fare luce su quella morte “sospetta”. Troppe le incongruenze rilevate. Prima di tutto il consulente medico del Pm rimette in capo a Ianno la responsabilità di non aver ragguagliato a sufficienza i sanitari in carcere sulle proprie condizioni di salute. Per Tolesino questa conclusione è ingiusta “un paziente - spiega, infatti - può essere poco istruito o incapace di fornire al sanitario una quadro anamnestico completo ma questo non giustifica l’imperizia di chi, sulla sorta delle proprie competenze trascuri sintomatologie lampanti (come il dolore al petto e allo stomaco) rappresentate dal paziente”. Inoltre, le manovre per rianimarlo. Per il consulente del PM, iniziarono alle 16.27 di quel giorno. Ma Ianno si sarebbe accasciato al suolo privo di sensi alle 16.15 - 16.20 “quindi le manovre sarebbero iniziate sette minuti dopo il decesso, periodo incomprensibilmente lungo e deleterio, atteso che dalla cessazione del battito cardiaco anche i secondo sono importanti”. Ma c’è anche altro. Ci sarebbe, secondo la ricostruzione fatta dal legale, una mancata valutazione delle dichiarazioni testimoniali rese dai detenuti che erano presenti durante l’accaduto e che hanno parlato dello stato di sofferenza lamentato da Alessandro Ianno già da quella mattina “sottovalutato o male interpretato dai sanitari della struttura”. Tolesino sottolinea anche che nella ricostruzione eseguita dalla Procura esiste “un mancato accertamento della cronistoria dei fatti, in particolare sulle discordanze tra l’orario del decesso in cui vengono verbalizzate le terapie”. Il signor Ianno era infatti diabetico e aveva bisogno dell’insulina. “Paradossalmente - sottolinea lo studio legale - l’ora del decesso viene certificata alle 17 mentre le terapie insuliniche vengono attestate dai sanitari alle 18 e alle 18.30. Non si comprende - dice Tolesino - come possano essere state praticate terapie insuliniche ad un cadavere”. Su questi discordanze il Pm non ha eccepito nulla così come nulla è stato chiesto ai consulenti sulle probabilità salvifiche che vi sarebbero state con un intervento tempestivo. “Non solo - continua l’avvocato - non si fa cenno neanche ad un’eventuale elettrocardiogramma condotto su Ianno o ad una successiva defibrillazione”. E qui il punto diventa assai rovente. Perché a tutt’oggi non si capisce se “tale attrezzatura (che dovrebbe essere obbligatoria all’interno di un penitenziario) sia presente e non è stata utilizzata in quella circostanza oppure se vi sia la totale assenza di questi strumenti all’interno della struttura, cosa che non esonerebbe comunque i sanitari dall’obbligo di valutare subito il problema cardiaco e di contattare il 118”. E dunque l’avvocato insista perché il Gip disponga anche questo tipo di accertamento. Insomma, per la famiglia di Alessandro Ianno è necessario che ci sia adesso un’indagine suppletiva riguardo alle responsabilità emerse per il decesso di Alessandro Ianno. E dunque nei prossimi giorni se il Gip non accoglierà la richiesta di archiviazione avanzata invece dal Pm, sarà fissata l’udienza in Camera di consiglio per disporre la prosecuzione delle indagini preliminari sui fatti e sugli elementi descritti nel racconto descritto dall’avvocato Tolesino. Napoli: tra le rivoluzioni e l’assuefazione al crimine di Marco Demarco Corriere della Sera, 27 dicembre 2017 Dalla gang dei bimbi alle pallottole vaganti: una terra divisa in due tra clan e assediati. Cosa sta succedendo a Napoli? Il catalogo è vario. Va dal drammatico al grottesco. C’è il quattordicenne di Parete, paesone in provincia di Caserta ma a due passi dalle piazze di “Gomorra”, viene ridotto in fin di vita da una pallottola “vagante”: passava lì dove altri stavano regolando i conti a colpi di pistola, e di conseguenza non potrà essere dove avrebbe voluto, e cioè a firmare per l’Avellino calcio. C’è il diciassettenne che, reduce dalla vittoria a un certamen pirandelliano, mentre in tv la gelida Patrizia di Secondigliano uccide l’incontenibile Scianèl e Genny Savastano, in lacrime, pone fine alla leggenda di Ciro l’Immortale, viene accoltellato più volte e ferocemente da una baby gang. E ci sono altri ragazzini che nella centralissima Galleria Umberto I tornano a violare l’albero di Natale messo sotto scorta perché ritrovato dopo essere stato già abbattuto una prima volta: niente a che vedere con le poetiche scene di un film di qualche anno fa, “Il segreto”, che raccontava di bambini-formiche intenti a trascinare giganti abeti postnatalizi per il falò di Sant’Antonio. Ora tutto assume il tono e il ritmo di una sfida spettacolare. Allo Stato? Forse. Alla legalità? Anche. Alla Napoli “borghese”. Nessuno può ormai escluderlo. Tant’è che il questore invita a reagire, a utilizzare i telefonini per inviare agli inquirenti foto e video utili alle indagini. Eppure, per certi versi, a Napoli non sta succedendo nulla che non sia già successo. Fu una pallottola vagante, due anni fa, a uccidere il giovane Genny Cesarano nel quartiere Sanità. Fu uccisa così, venti anni fa, anche la madre di Alessandra Clemente, l’attuale assessore ai giovani. E le inventò il compianto don Riboldi, a Ottaviano, quasi un quarto di secolo fa, le marce anticamorra. Ma da qui all’assuefazione del “che vuoi che sia” il passo potrebbe essere breve. E sarebbe paradossale perché, adattando a Napoli ciò che Giorgio Agamben dice per altri contesti, in città sta succedendo qualcosa che sarebbe da irresponsabile sottovalutare. Qui, infatti, “vi sono tanto una polemologia, una teoria della guerra, che una irenologia, una teoria della pace, ma non esiste una stasiologia, una teoria della guerra civile”. E qualcosa di molto simile a una guerra civile non ufficializzata - tra città armata e città assediata - è appunto ciò che la cronaca ci restituisce. Tradotto, vuol dire che oggi a Napoli c’è chi, come Saviano, spiega tutto, o quasi, in termini di scontro criminale, di guerra tra clan rivali per il controllo di tutti i quartieri. E chi, come il sindaco, garantisce invece che “Napoli non è più violenta di Milano”; e che il clima che si respira in città è quello di una rinascita civile e culturale. Manca invece - nonostante i cinquanta e più scrittori pubblicati che Napoli può vantare, il più alto numero in Italia - il racconto complesso di una città divisa, contraddittoria, impaurita eppure pronta a prendere d’assalto i baretti della movida. Non è un caso che tutti oggi si affannino a parlare di “rivoluzione”. C’è la rivoluzione arancione di de Magistris, appunto. Ma c’è anche la “rivoluzione” del governatore De Luca a proposito del Pil campano schizzato al +3,2%, il più alto in assoluto. O, ancora, la “rivoluzione” a cui accennano i ministri quando parlano dei turisti a Pompei o del futuro, dopo 25 anni di sprechi, nell’area di Bagnoli. La rivoluzione è infatti, spiegano gli storici, l’altra faccia della guerra civile. È lo stesso processo visto dalla parte dei “buoni”. È la storia che si compie in modo irreversibile. Più che fotografie del reale, però, queste visioni rivoluzionarie annunciate a Napoli non sono altro che proiezioni positive. Buone intenzioni. E se perfino il picco del Pil campano dice che non basta una ripresa economica a risolvere il problema criminale dell’intera area metropolitana, resta il fatto che troppe cose restano così come sono sempre state. Due anni fa, quando alla Sanità fu ammazzato Genny Cesarano, nella top ten nazionale delle scuole con più bocciati Napoli ne aveva cinque. Oggi “nell’unica scuola superiore del rione Sanità - sottolinea padre Alex Zanotelli - il dato percentuale dei bocciati è del 74%. Iscritti 140, promossi 57. E c’è anche una classe in cui su 16 iscritti, solo uno è stato promosso”. Conclusione: “Dove è finito il lavoro dei professori? I ragazzi sono in strada a cercare l’unica cosa che gli interessa: fare soldi e fare in fretta; e a scuola ci sono prof che pensano solo allo stipendio”. La provocazione brucia. Ma è evidente che, esagerazione a parte, nella guerra civile napoletana si è aperto un altro fronte. Sotto accusa, ora, non sono solo lo Stato nazionale o le istituzioni locali. Ma anche i professori, una volta intoccabili. Gli stessi professori, però, che seriamente si interrogano sul cosa fare (“in realtà come queste non è una buona soluzione l’alternanza scuola-lavoro, con 400 ore sottratte alla formazione”) e che partecipano alla mobilitazione contro la camorra. Salerno: carcere di Fuorni, padre e figlio pestati a sangue Il Mattino, 27 dicembre 2017 Dante e Vincenzo Zullo aggrediti da altri detenuti. Il Sappe: agenti abbandonati a se stessi. Natale di sangue nel carcere di Fuorni, due detenuti, padre e figlio originari di Cava de? Tirreni, sono stati pestati dopo le 21 di lunedì durante il momento di socialità ed apertura della celle. Dante e Vincenzo Zullo, agli arresti per reati estorsivi con l’aggravante del metodo mafioso si trovano entrambi nel reparto di alta sicurezza ma in celle diverse e su piani diversi. A Natale stavano condividendo qualche momento insieme quando, all’improvviso, approfittando del fatto che l’agente in servizio stava eseguendo il suo giro di controllo, sono stati aggrediti da altri detenuti. Vincenzo, secondo quanto accertato poi dalla penitenziaria, avrebbe alzato un po’ il gomito: brillo, avrebbe iniziato ad andare in escandescenza. Così i suoi compagni di reparto lo avrebbero inviato in malo modo a tacere, aggredendolo. Il giovane sarebbe allora sceso dal padre al piano di sotto, eludendo la sorveglianza. Ma il padre, visto nella sua sezione, ha iniziato anche lui ad arrabbiarsi. È stato allora che gli altri detenuti, per mettere fine alla discussione tra i due, hanno iniziato a picchiarli. Calci e pugni dati con una certa violenza hanno steso a terra i due uomini, causando ad entrambi gravi lesioni al volto ed al cranio. I due sono stati immediatamente trasferiti all’ospedale San Giovanni di Dio e Ruggi d’Aragona. Qui i sanitari hanno riscontrato a Dante Zullo una situazione drammatica che rende ora necessario un intervento di maxillofacciale. Tutto questo perché non ci sarebbero regole sull’uso dell’alcol pro capite, soprattutto durante i giorni di festa. Soltanto qualche giorno fa vi era stata un’altra aggressione ai danni di un altro carcerato. Una situazione esplosiva e di tensioni sulla quale interviene ora il sindacato Sappe della polizia penitenziaria, artefice non soltanto di una serie di interrogazioni parlamentari sulla sicurezza all’interno degli istituti penitenziari ma anche di diverse ispezioni del Dap e Prap organi ispettivi dell’amministrazione ma, si legge in una nota, “tutto sembra cadere nell’oblio”. “Il personale in servizio alla vigilia di Natale - denuncia Emilio Fattorello, segretario nazionale per la Campania del sindacato - era abbandonato a se stesso: ha fronteggiano l’emergenza in maniera encomiabile con poco organico e con ruoli esecutivi basti osservare che l’istituto era affidato ad un assistente capo in un momento cosi critico che può essere la vigilia di Natale”. E ancora: “L’apertura dei detenuti non può essere fronteggiata da un personale carente nei numeri e dalla assenza di supporti tecnologici come videosorveglianza con registrazioni e sistemi di allarme adeguati per non parlare di una organizzazione dei servizi interni non rispettosa degli accordi sottoscritti con la nostra organizzazione”. Donato Capece, segretario generale, continua: “Il sistema delle carceri non regge più, è farraginoso. I vertici dell’amministrazione penitenziaria e del ministero della Giustizia hanno smantellato le politiche di sicurezza delle carceri preferendo una vigilanza dinamica e il regime penitenziario aperto, con detenuti fuori dalle celle per almeno 8-10 ore al giorno con controlli sporadici e occasionali. Altro che le favole che raccontano taluni politici che nessuna rappresentanza hanno nel Parlamento e che sfruttano le criticità penitenziarie per avere una visibilità che altrimenti non avrebbero. Il carcere non è terra di presunti innocenti e disgraziati. E? anche terreno fertile di violenti, criminali e delinquenti che sfogano la loro frustrazione verso le leggi dello Stato contro le donne e gli uomini appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria, che stanno in prima linea 24 ore al giorno e non solamente i pochi minuti di annunciate visite politiche, utili solo alla visibilità di chi le effettua”. Benevento: il Vescovo “rendiamo visibile il sostegno a carcerati e poveri” Il Mattino, 27 dicembre 2017 Un abbraccio e un incoraggiamento. Quello delle carceri e dei diritti dei detenuti è stato un motivo centrale del Natale per la Chiesa beneventana. L’arcivescovo lo aveva annunciato nel suo messaggio in cui aveva fatto appello ai beneventani affinché si mostrassero generosi e destinassero quello che avrebbero speso per scommesse e videogiochi nel tentativo di intercettare la fortuna, per acquistare, attraverso la Caritas, prodotti per l’igiene per i detenuti e pannolini e altri supporti per i bambini in difficoltà. “Spendiamo tempo e denaro - ha detto Accrocca - per cose futili e spesso pericolose, come nel caso del gioco d’azzardo, ma non riusciamo a cogliere le occasioni per dimostrare in concreto che siamo i primi ad annunciare ai bisognosi la speranza. Basta, a volte, un gesto semplice ma spesso neanche questo riusciamo a fare in questi giorni, tutti catturati dalle apparenze e dagli scenari mondani”. “Un’occasione privilegiata per incontrare Gesù” ha detto il presule al suo arrivo nella casa circondariale di Benevento, accolto dalla responsabile pro tempore Marianna Adanti, dove ha celebrato la messa di Natale. Ha ribadito il concetto anche prima di sedersi al tavolo della “Cittadella della Carità”, insieme alla sua famiglia (papà, sorella e nipoti) e naturalmente gli ospiti, tutti coloro non avevano una famiglia con cui condividere l’amicizia e il calore di un giorno come il Natale. Poveri di diritti e spesso di dignità umana e poveri figli della crisi. Categorie che Accrocca ha bene identificato con i suoi gesti. Rinnovare, quindi, la speranza è un impegno che coinvolge tutti, secondo il presule, sempre che si ritrovi un clima di comunione in cui potere condividere generosamente il presente e operare perché il futuro sia meno difficile. Certo i pranzi offerti dalla Caritas e tanti gesti che testimoniano la solidarietà cristiana, non risolvono i problemi, lo ha ribadito lo stesso arcivescovo, ma serve una “strategia solidale che possa spezzare la spirale di povertà che spesso viene alimentata ance dal mancato ascolto dei veri problemi da parte di chi invece dovrebbe portarli in cima all’agenda delle cose da fare”. Un problema politico chiamato disuguaglianza di Angus Deaton Il Sole 24 Ore, 27 dicembre 2017 La disuguaglianza è stata considerata la colpevole degli exploit populisti del 2016 e 2017. Ma cos’è? E che ruolo gioca nell’inibire o incoraggiare la crescita o nel minacciare la democrazia? La disuguaglianza uccide, portando le persone al suicidio o alle “morti per disperazione”? Oppure è un male necessario che dobbiamo tollerare a certi livelli? Queste sono le domande che spesso mi fanno. Ma, a dire la verità, nessuna di queste è particolarmente utile, degna di una risposta o anche soltanto ben posta. La disuguaglianza non è tanto una causa dei processi economici, politici e sociali quanto una conseguenza. Alcuni di questi processi sono positivi, altri no, e alcuni sono davvero deleteri. Solo distinguendo il buono dal cattivo possiamo comprendere la disuguaglianza e capire cosa fare. Disuguaglianza e ingiustizia - Inoltre, la disuguaglianza non è la stessa cosa dell’ingiustizia; e, secondo la mia opinione, è quest’ultima che ha alimentato così tanto le turbolenze politiche nel mondo ricco di oggi. Alcuni dei processi che generano disuguaglianza sono ampiamente considerati come giusti. Ma altri sono profondamente e ovviamente ingiusti, e sono diventati una fonte legittima di rabbia e disaffezione. Nel primo caso, è difficile andare contro gli innovatori che diventano ricchi introducendo prodotti o servizi che vanno a vantaggio di tutto il genere umano. Alcune delle maggiori disuguaglianze oggi sono “figlie” delle rivoluzioni industriali e sanitarie cominciate intorno al 1750. Da principio, questi processi sono andati a vantaggio solo di qualche Paese nell’Europa nordoccidentale. Ma nel tempo hanno migliorato le condizioni di vita e la salute di miliardi di persone nel mondo. Le disuguaglianze che derivano da questi progressi sono benefiche e giuste, e rappresentano una caratteristica chiave del progresso in generale. Dall’altro lato, diventare ricchi corrompendo lo stato in cambio di favori è chiaramente ingiusto. Molte persone negli Stati Uniti - più che in Europa - automaticamente considerano le conseguenze del capitalismo o del mercato come giuste e l’azione governativa come arbitraria e ingiusta. Si oppongono al governo o a programmi sponsorizzati dalle università che sembrano favorire gruppi particolari, come minoranze o immigrati. Ciò contribuisce a spiegare perché molti americani della classe operaia bianca si sono rivoltati contro il Partito democratico, che vedono come il partito delle minoranze, degli immigrati e delle élite. Ma un’altra ragione del crescente malcontento pubblico è che i salari mediani reali (ovvero corretti per gli effetti dell’inflazione) negli Usa ristagnano da 50 anni. Due spiegazioni possibili - Ci sono due spiegazioni sulla divergenza tra i redditi mediani e quelli elevati, ed è molto importante quale delle due sia corretta. La prima attribuisce questo divario a processi inarrestabili come la globalizzazione e l’innovazione tecnologica, che hanno svalutato il lavoro non qualificato e favorito le persone ben istruite. La seconda spiegazione è più sinistra e sostiene che la stagnazione dei redditi mediani è in realtà il risultato diretto dell’aumento dei redditi e della ricchezza ai vertici. In questo scenario, i ricchi diventano sempre più ricchi a spese di tutti gli altri. Studi recenti suggeriscono che ci sia del vero nella seconda spiegazione, almeno negli Stati Uniti. Anche se la globalizzazione e il cambiamento tecnologico hanno scombinato le tradizionali modalità di lavoro, entrambi i processi hanno il potenziale per avvantaggiare tutti. Il fatto che non abbiano apportato vantaggi diffusi suggerisce che i ricchi abbiano tenuto i benefici per sé stessi. Ci vorrà molto più lavoro per determinare quali politiche e processi stanno frenando le retribuzioni delle classi media e operaia, e di quanto, ma quello che segue è un elenco preliminare. Le rendite della sanità - In primo luogo, il finanziamento dell’assistenza sanitaria sta avendo un effetto disastroso sui salari. Dal momento che l’assicurazione sanitaria della maggior parte degli americani è fornita dai datori di lavoro, i salari dei lavoratori stanno di fatto finanziando i profitti e gli alti stipendi nell’industria medica. Ogni anno, gli Stati Uniti sprecano mille miliardi di dollari - circa 8mila dollari per famiglia - in più rispetto ad altri Paesi ricchi per i costi eccessivi dell’assistenza sanitaria, ottenendo peraltro risultati peggiori di quasi tutti gli altri. Un qualunque modello alternativo di stampo “europeo” potrebbe recuperare quei fondi, ma innescherebbe la fiera resistenza di coloro che ora traggono profitto dallo status quo. Un problema correlato è il crescente processo di consolidamento del mercato in molti settori dell’economia. Come risultato delle fusioni ospedaliere, ad esempio, i prezzi degli ospedali sono aumentati rapidamente, ma i salari ospedalieri no, nonostante una carenza decennale di infermieri. L’aumento della concentrazione del mercato è probabilmente un fattore alla base della crescita lenta della produttività. Dopo tutto, è più facile raccogliere profitti attraverso la ricerca di posizioni di rendita e monopoli che attraverso l’innovazione e gli investimenti. Salari, clausole, migranti e outsourcing - Un altro problema è che il salario minimo federale degli Stati Uniti - 7,25 dollari all’ora - non cresce dal luglio del 2009. Nonostante l’ampio sostegno pubblico, aumentare il salario minimo è sempre difficile, a causa dell’influenza sproporzionata esercitata sul Congresso dalle grandi imprese e dai donatori più facoltosi. A peggiorare le cose, oggi oltre il 20% dei lavoratori è vincolato da clausole di non concorrenza, che riducono il potere contrattuale dei lavoratori - e quindi i loro salari. Allo stesso modo, 28 Stati degli Stati Uniti hanno ora emanato le cosiddette leggi sul “diritto al lavoro”, che proibiscono accordi di contrattazione collettiva che richiederebbero ai lavoratori di unirsi ai sindacati. Di conseguenza, le controversie tra imprese e consumatori o lavoratori sono risolte sempre più spesso per via extragiudiziale attraverso arbitrati - un processo enormemente favorevole alle imprese. Ancora, un altro problema è l’esternalizzazione, non solo all’estero, ma anche negli Stati Uniti, dove le imprese stanno sostituendo sempre più lavoratori salariati o a tempo pieno con lavoratori autonomi. I lavoratori nel settore della ristorazione, i custodi e gli addetti alla manutenzione che facevano parte di aziende di successo ora lavorano per entità con nomi come Aaa-Service Corporation. Queste aziende operano in un settore caratterizzato da salari decisamente bassi e offrono pochi, o nessun, benefit e modeste opportunità di avanzamento. Il credito d’imposta sul reddito (Eitc) ha garantito un aumento degli standard di vita per molti lavoratori americani a basso reddito. Ma, poiché è disponibile solo per coloro che lavorano, tende a comprimere i salari, cosa che con benefici incondizionati, per esempio con la concessione del reddito di base, non avverrebbe. Anche l’immigrazione non qualificata rappresenta un problema per gli stipendi, anche se si tratta di un argomento controverso. Si dice spesso che gli immigrati prendono posti di lavoro che gli americani non vogliono. Ma tali affermazioni sono prive di significato senza fare riferimento ai salari. È difficile credere che gli stipendi degli americani poco qualificati sarebbero rimasti così bassi come è successo, in mancanza di flussi di immigrati non qualificati. Come ha sottolineato l’economista Dani Rodrik 20 anni fa, la globalizzazione rende la domanda di lavoro più elastica. Quindi, anche se la globalizzazione non riduce direttamente i salari, rende più difficile per i lavoratori ottenere un aumento di stipendio. La minaccia della deregulation - Un altro problema strutturale è che il mercato azionario non premia solo l’innovazione, ma anche la redistribuzione dal lavoro al capitale. Ciò si riflette nella quota degli utili rispetto al Pil, che è cresciuta dal 20% al 25% in un periodo in cui i salari mediani sono rimasti fermi. L’aumento sarebbe ancora più alto se i salari dei top manager fossero considerati come profitti piuttosto che come salari. L’ultimo problema di questo elenco preliminare è politico. Siamo entrati in una stagione di falò di regolamentari. L’Ufficio per la protezione finanziaria dei consumatori, nonostante abbia scoperto importanti scandali, è sotto minaccia, così come la legge Dodd-Frank del 2010, che ha introdotto misure per prevenire un’altra crisi finanziaria. Inoltre, il presidente Usa Donald Trump ha dichiarato di voler eliminare una legge che impone ai gestori di risparmi di agire nel migliore interesse dei loro clienti. Tutte le “riforme” di deregolamentazione attualmente proposte andranno a beneficio del capitale e a spese dei lavoratori e dei consumatori. Lo stesso vale per le sentenze della Corte Suprema degli Stati Uniti degli ultimi anni. La decisione della corte nel caso Citizens United v. Fec (Federal Election Commission), ad esempio, ha offerto agli americani facoltosi e persino alle multinazionali la possibilità di spendere somme quasi illimitate per sostenere i candidati e ottenere risultati legislativi e normativi favorevoli. Un raggio di speranza - Se questo quadro fatto di salari medi stagnanti e salari alti in aumento è corretto, allora potrebbe esserci un raggio di luce nella nostra era della disuguaglianza, poiché significherebbe che il mercato del lavoro disfunzionale degli Usa non è la conseguenza di processi inarrestabili come la globalizzazione e il cambiamento tecnologico. Il progresso condiviso può essere raggiunto con politiche pensate per avvantaggiare consumatori e lavoratori. E tali politiche non devono neanche includere un meccanismo di redistribuzione su base fiscale che molti lavoratori disapprovano. Piuttosto, possono focalizzarsi sui modi per incoraggiare la competizione e scoraggiare la ricerca di rendite. Con le giuste politiche, la democrazia capitalista può lavorare meglio per tutti, non solo per i ricchi. Non dobbiamo abolire il capitalismo o nazionalizzare in maniera selettiva i mezzi di produzione. Ma dobbiamo riportare il potere della competizione a servizio delle classi medie e operaie. Le parole giuste per raccontare il femminicidio di Vincenzo Vita Il Manifesto, 27 dicembre 2017 Nei giorni scorsi l’ordine dei giornalisti del Lazio ha promosso un seminario di grande interesse su “Il Manifesto di Venezia: come raccontare il femminicidio”. Si trattava di un corso di formazione, non a caso. Infatti, il primo punto del documento veneziano sottolinea proprio la necessità di inserire nell’aggiornamento la disamina del linguaggio appropriato nei caso di violenza sulle donne e sui minori. Ma tutti i dieci “comandamenti” sono puntuali: dall’attenzione alla terminologia evitando gli stereotipi, all’uso corretto del femminile per indicare i ruoli ricoperti dalle donne, alla “par condicio” di genere nei programmi di informazione, all’evitare le diverse forme di sottovalutazione, al non dividere le violenze in serie A e serie B, all’illuminazione dei casi più trascurati come quelli che riguardano prostitute e transessuali, al risalto da dare alle storie di coraggio, al contrasto dello sfruttamento commerciale, alla cura per le parole rispettose e non fuorvianti. Un decalogo impegnativo, volto a responsabilizzare coloro che lavorano nei media. Il Manifesto - preparato dalla Commissione pari opportunità della federazione della stampa, dal sindacato dei giornalisti della Rai (Usigrai) e dall’associazione Giulia - fu varato il 25 novembre, nella giornata internazionale contro la violenza sulle donne, celebrata con una efficace e partecipata manifestazione alla Camera dei deputati su iniziativa di Laura Boldrini. Quanto mai opportuna un’iniziativa tesa a mettere in discussione il maschilismo imperante nella semantica e nei comportamenti. Tanto più che nella normativa e nella stessa cultura di massa italiane (e non solo) i reati contro le donne sono stati considerati a lungo meno rilevanti, se è vero (lo ha ricordato Silvia Garambois) che fino al 1981 erano ancora in vigore gli articoli del codice Rocco, con tanto di “delitto d’onore”, e che si dovrà aspettare il 2013 per vedere finalmente legiferato il “femminicidio”. Solo negli ultimi anni si avranno le convenzioni di Istanbul e di Lanzarote. Tuttavia, a fronte di un quadro giuridico meno aberrante, permane un’inclinazione profondamente sbagliata nel racconto della violenza, come hanno messo in luce le relazioni del seminario, a partire dalle introduzioni di Paola Spadari, Silvia Resta, Alessandra Mancuso e Luisa Betti Dakli. Si tende ad amplificare taluni particolari raccapriccianti, raddoppiando così il disagio della donna colpita: oggetto spesso di una narrazione del dolore e di una “vittimizzazione” strumentali, con il fine dell’audience o di qualche copia venduta in più. Serafina Strano, recentemente aggredita al pronto soccorso di Catania, ha confermato - con l’incisività del dramma vissuto direttamente - l’urgenza di un racconto non viziato dal voyeurismo o dai luoghi comuni, con il pannicello caldo delle interviste con il viso coperto: a mo’ dei pentiti di mafia. Mentre andrebbe compresa l’enorme difficoltà delle donne a denunciare, a parlare, a superare la tragedia che colpisce gli strati profondi, indisponibili dell’identità della persona. Vittima quattro volte, ha detto la procuratrice aggiunta di Roma Maria Monteleone: degli aggressori, di certi comportamenti delle forze dell’ordine, dei sistemi sanitari, dei media. Non stupisce, quindi, che le denunce non superino il 10/15% dei casi e che, mentre diminuiscono gli eventi meno gravi, aumentano i femminicidi. Un quadro dei dati è stato offerto da Linda Laura Sabbadini, con riferimenti utili alla comprensione di un fenomeno tanto sottovalutato quanto mediatizzato. La presidente di “Differenza donna” Elisa Ercoli ha evocato la necessità di un approccio nuovo, come la criminologa Luana Conte, e in sintonia con la dirigente penitenziaria Antonella Paloscia. Quest’ultima ha descritto i “sex offenders”, vale a dire gli uomini violentatori. La punta estrema e deviante dell’universo maschile, colpevole di sovente - però - di violenza simbolica, anche se non fisica. Verrà istituito un Premio, intitolato alla giovane giornalista scomparsa giovanissima, che molto scrisse sull’argomento, Tania Passa. “L’Europa taglia i fondi e i migranti continuano a morire in mare” di Francesco Lo Dico Il Dubbio, 27 dicembre 2017 Parla il direttore della Fondazione Migrantes, don Giovanni De Robertis. L’ennesimo dramma in mare ha scosso la notte di Natale, dopo mesi di relativa calma in cui ci si era illusi che gli sbarchi fossero ormai soltanto un ricordo sbiadito. Impegnate nella ricerca di migranti le due navi di Proactiva open arms e Aquarius, che hanno soccorso circa 400 persone in un quadro ancora poco chiaro, nel quale non si esclude che altre giovani vite siano state inghiottite dai flutti gelidi dell’inverno. “La speranza è che il Natale ci riservi l’ottima notizia che sono stati salvati tutti”, auspica il direttore della Fondazione Migrantes, don Giovanni De Robertis. I soccorsi della scorsa notte riaccendono i riflettori su un fenomeno che ormai sembrava aver superato la sua fase acuta. C’è il rischio che gli scafisti possano tornare a inzeppare di disperati le loro bagnarole? Non dobbiamo dimenticare che il 2017 è stato un anno tragico. Nel Mediterraneo sono morte negli ultimi dodici mesi 3500 persone: dieci persone al giorno annegate nel tentativo di raggiungere le nostre coste alla ricerca di una vita migliore. E non dobbiamo dimenticare neppure che tutto ciò è accaduto nell’indifferenza e nell’inerzia dell’Europa. Il problema delle partenze resta in tutta la sua drammatica attualità: è inaccettabile che se ne torni a parlare di tanto in tanto, in un sussulto di emozione estemporanea, come è accaduto nel caso del piccolo Aylan. Servono piuttosto misure strutturali, che però Bruxelles continua ad annunciare senza mai passare dalle parole ai fatti. Data la concorrenza legale dei corridoi umanitari, e il rischio più elevato nella stagione invernale, i trafficanti hanno abbassato di molto le tariffe per i loro passeggeri. C’è da attendersi che il low cost porti a una nuova massiccia ondata? Sono dinamiche alle quali abbiamo già assistito al tempo dell’emigrazione dall’Albania: più è difficile partire, più scendono giù i prezzi delle tratte e aumentano i pericoli. Per impedire una pericolosa corsa al ribasso, occorre rafforzare i canali di emigrazione legale, proprio come avvenuto ai tempi dell’emergenza nell’Adriatico. Già allora, per disarmare i trafficanti, bastò introdurre i permessi di soggiorno. È la linea che sembra voler perseguire il ministro degli Interni, Marco Minniti: l’anno prossimo voli umanitari per 10mila profughi. È la direzione giusta? La Chiesa ripete ormai da tempo che oltre ad assicurare il diritto di partire, occorre tutelare il diritto di restare: è per questa ragione che ha stanziato 30 milioni per assicurare la libertà di andare, quanto quella di rimanere. Assicurare il diritto di restare, significa impedire, ad esempio, che le terre dell’Africa finiscano preda alle multinazionali e che i contadini che le coltivano si trovino da un giorno all’altro senza lavoro e siano costretti ad espatriare. Ciò significa, per fare un altro esempio, contrastare le dittature e le ingiustizie, invece di assecondarle e alimentarle con il traffico d’armi che coinvolge anche l’Italia. Giova ricordare il recente accordo tra Stati Uniti e Arabia Saudita ad esempio: ai sauditi finiranno armi per milioni di dollari che saranno usate tra l’altro per continuare a mietere vite nella silenziosa strage in Yemen. Perseguire la logica dei respingimenti nell’idea di fermare i flussi, è pura illusione. Occorre cominciare a occuparsi delle persone che lasciano la loro terra, e delle ragioni che provocano questo esodo. Un prete missionario mi raccontava proprio ieri, che molte migranti, in Congo, subiscono iniezioni nei campi profughi che ne provocano la menopausa affinché possano essere vendute ai mercati occidentali della prostituzione. Eppure l’indifferenza delle istituzioni domina incontrastata. L’Europa aveva peraltro annunciato un “grande piano Marshall per l’Africa” di decine di miliardi di euro. Che nel caso di Erdogan, e della frontiera balcanica, sono subito arrivati a destinazione senza indugio. In Europa si procede da anni all’insegna di gare declamatorie: proclami che non arrivano mai a nulla perché sono privi di sostanza strategica. A dispetto di appelli vibranti, si continuano a tagliare i fondi per la cooperazione, salvo poi scoprire che quando si tratta di investire in violenza, nel fragore delle armi, i milioni piovono in abbondanza. A dispetto degli annunci in Italia è rimasto lettera morta anche lo Ius soli. Un’occasione sprecata? Se ne è parlato per due anni, ma la promessa è stata tradita in nome del mero calcolo politico e della menzogna. Ha vinto la bugia, ha vinto la cattiva coscienza di chi esulta per aver sabotato tutto, di chi, mentendo e sapendo di mentire, ha voluto mischiare il tema della cittadinanza per i piccoli bambini che studiano e vivono qui, con quello degli sbarchi che non ha nulla a che fare con una misura di civiltà e di amore cristiano. Sono state le forze politiche populiste a generare un clima di allarme nei confronti dei migranti, che spesso è sfociato nel razzismo? Le colpe di certa politica non devono distoglierci dal fatto che la responsabilità di un clima di diffidenza è anche individuale e interroga ciascuna delle nostre coscienze. E c’è poi l’indubbia responsabilità di certa cattiva accoglienza, quella che troppo spesso in Italia ha puntato sui migranti soltanto in nome dell’arricchimento personale. Un meccanismo cinico, fondato sul lucro, che ha innestato paura e ansia nell’opinione pubblica. E spesso ci ha fatto dimenticare che i migranti sono nostri fratelli e nostre sorelle. Come diceva don Tonino Bello, la vera integrazione è nella “convivialità delle differenze”. In Campania il ministro Minniti ha annunciato un progetto pilota che consentirà ai migranti di fare lavori socialmente utili, ad esempio nei musei. Come valuta l’iniziativa? La Chiesa non può che essere favorevole: chi vive il territorio ogni giorno sa bene quanto i migranti ospitati qui in Italia desiderino poter costruire un percorso di vita piuttosto che restare parcheggiati come cose. Il lavoro, a patto che sia tutelato e non sconfini nello sfruttamento, crea dignità e integrazione. È un tema caro anche a papa Francesco, che non a caso, il 14 gennaio prossimo, ricorderà nel suo messaggio per la Giornata mondiale del migrante e del rifugiato, che accogliere non basta. Ciò che davvero conta, è promuovere e proteggere la dignità di questi nostri fratelli che arrivano dal mare in cerca del nostro aiuto, ma anche di un’occasione per ricominciare da capo Ius soli, appello a Mattarella: “Non lasciateci soli ancora una volta” Corriere della Sera, 27 dicembre 2017 L’associazione “Italiani senza cittadinanza” ha scritto al capo dello Stato per chiedere di fare il possibile perché venga approvata in extremis la legge per gli stranieri nati in Italia. Appello del movimento “Italiani senza cittadinanza” al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, per far sì che lo Ius soli non rimanga nel dimenticatoio. In una lettera aperta, ragazzi e ragazze del movimento - che conta un milione di giovani residenti in Italia ma senza cittadinanza, la maggior parte nati nel nostro Paese - torna a sollecitare il via libera della legge sulla cittadinanza che in realtà sembra ormai destinata all’oblio. Specie dopo la mancanza del numero legale al Senato nell’ultima seduta prima della pausa natalizia. “Talvolta le autorità di un Paese democratico sono chiamate dalla storia a promuovere leggi che possono apparire divisive ma che in realtà sono necessarie a potenziare gli anticorpi e a creare argini contro la deriva di forze antidemocratiche e destabilizzanti. Non lasciateci soli ancora una volta” si legge nella lettera aperta. Il testo - “Egregio presidente della Repubblica - scrivono gli esponenti di `Italiani senza cittadinanza´ - il 27 dicembre ricorrono i settant’anni della promulgazione della Costituzione del nostro Paese. In una giornata così bella e fondamentale per le nostre vite e per la nostra democrazia, è nostro dovere ricordarle come molte e molti di noi abbiano imparato a conoscerla tra i banchi di scuola, imparandone i valori fondamentali di libertà, uguaglianza, pace, rispetto, imparando a diventare di fatto cittadini e non più sudditi, secondo gli auspici di Piero Calamandrei e le opportune circolari ministeriali che spingono i docenti a seminare semi di cittadinanza attiva nei loro allievi e nelle loro allieve”. Quindi, prosegue: “Tutti e tutte noi l’abbiamo letta, riletta e riscoperta in questo anno di mobilitazione a favore della riforma della cittadinanza, ci siamo riconosciuti profondamente nei suoi valori, e in particolare nell’articolo 3, il cui secondo, magnifico comma, concepito dal padre costituente Lelio Basso, che recitando “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che limitando di fatto l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”, prospetta un orizzonte di riduzione delle diversità e di accesso ai diritti fra le varie componenti della Nazione e di progressivo ampliamento dei diritti e della platea degli aventi diritto come inscritto nell’intelaiatura profonda della Repubblica”. L’appello a Mattarella - Facendo riferimento quindi alla mancanza del numero legale di sabato scorso in Senato, la lettera aperta di “Italiani senza cittadinanza” sottolinea: “Caro Presidente, concorderà con noi che il 23 dicembre la Repubblica ha fallito nella rimozione di questi “ostacoli”, mantenendo di fatto una distinzione netta tra cittadini e non, basata su una concezione prettamente elitaria ed economica della cittadinanza. La cittadinanza è qualcosa di più di un diritto. La grande filosofa Hannah Arendt l’ha definita “il diritto ad avere diritti” in quanto solo il riconoscimento della cittadinanza trasforma un individuo in un soggetto giuridico detentore di diritti”. Quindi la richiesta al Capo dello Stato: “Non lasci che questa battaglia, iniziata con le prime mobilitazioni della Rete Nazionale Antirazzista nel 1997, quando molti e molte di noi non erano ancora nati, cada in un nulla di fatto. Anche perché così non è. Il quadro che consegnerebbe al Paese la rinuncia a discutere in aula la riforma della cittadinanza è ben diverso da quello che si presentava all’inizio della legislatura. In questi mesi, forze oscure che puntano a indebolire le ragioni della convivenza e dello stato di diritto sono cresciute, proprio cavalcando le ragioni del fronte del no alla riforma, riattivando la memoria di parole d’ordine che credevamo dimenticate, legate al fascismo e del colonialismo. Qui, non si parla di una battaglia che punta semplicemente alla conquista di un accesso alla cittadinanza più semplificato, con la nostra battaglia puntiamo ad ottenere, finalmente, il nostro riconoscimento come categoria sociale finora ignorata e dimenticata; con la nostra battaglia puntiamo ad una politica di ampio respiro, al passo con i tempi e che soprattutto sappia riconoscere i cambiamenti sociali e culturali del proprio Paese. Con la nostra battaglia, inoltre, puntiamo ad ottenere un’applicazione ancora più incisiva della nostra Costituzione Italiana”. Lo Ius soli è stato rinviato al prossimo 9 gennaio ma se - come sembra ormai probabile - il presidente della Repubblica scioglierà le Camere il 28 dicembre, il provvedimento sulla cittadinanza non potrà diventare legge. Da una guerra “umanitaria” all’altra di Tommaso Di Francesco Il Manifesto, 27 dicembre 2017 No allo ius soli, sì a una nuova avventura militare. L’annuncio della nuova missione militare in Niger. Da una guerra “umanitaria” all’altra. La scia nefasta non si ferma. Nemmeno a Natale, nemmeno per le feste. Così il presidente del Consiglio Gentiloni, ex pacifista - insieme all’altra ex pacifista, la ministra della difesa Pinotti - proprio dal ponte di una nave militare ha annunciato l’ennesimo intervento militare mascherato da soccorso umanitario. Dove? Siccome abbiamo sconfitto il jihadismo dell’Isis a Mosul, sposteremo quelle truppe nell’Africa sub-sahariana, per fermare “i flussi dei migranti e il terrorismo”. A Mosul i bersaglieri ufficialmente proteggevano la diga di Mosul e gli investimenti lì dell’impresa italiana del gruppo Trevi (famosa per i recenti crolli in borsa). A Mosul l’estremismo jihadista, la cui origine deriva dalla distruzione dello Stato iracheno per effetto di tre guerre occidentali - del terrore provocato da queste guerre si preferisce tacere, lascia sul campo il corpo dilaniato dell’Iraq in un conflitto intestino che ancora brucia. La frontiera del sud-Sahara è lunga più di 5mila chilometri, più che impossibili da controllare, più che permeabili alle fughe dei disperati dall’Africa in generale e dal Sahel in particolare; da quell’Africa dove divampano 35 guerre e dove il nostro modello di rapina depreda le risorse e per farlo unge le corrotte leadership locali (dalla Nigeria al Niger, dal Mali al Ciad al Burkina Faso, ecc.). In questa situazione il governo che si avvia a chiudere i battenti, dentro una legislatura finita, annuncia l’invio di centinaia di soldati italiani, facendo perfino trapelare la possibilità - e sarebbe la vergogna delle vergogne - che sulla missione, della quale non sappiamo nemmeno il costo e chi la pagherà, si voti subito. Insomma, no allo ius soli ma sì ad una nuova avventura militare africana. Come se quella in Libia del 2011 non si fosse dimostrata insieme fallimentare e generatrice del disastro che ne è seguito e del quale vediamo le conseguenze ogni giorno, nelle morti a mare e nelle guerre mediorientali che non finiscono. Dobbiamo però stare tranquilli dicono i generali che già prendono armi e parole: sarà una missione “no combat”. Ma che senso hanno regole d’ingaggio affidate alla televisione e che presentano i militari italiani come “addestratori”, quando in loco - in Niger - invece già si combatte duramente e da tempo, come dimostra la recente uccisione proprio in Niger - con tanto di polemica tra le famiglie delle vittime e uno sprezzante Donald Trump - di quattro marines delle forze speciali Usa? Naturalmente “addestrarli” - facendo un favore al neocolonialismo francese di Macron che in Niger è di casa - vuol dire “aiutarli a casa loro”, aiutarli a rinfocolare la guerra che alimenta il circolo vizioso delle stragi, delle fughe e dei profughi. Per le quali c’è una svolta: una sorta di Concordato sulle migrazioni. È stato in questi giorni l’altro campione governativo, il coloniale Minniti che ha ricevuto, insieme al benedicente cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della Conferenza episcopale italiana (Cei) l’arrivo di 162 migranti salvati con un corridoio umanitario “legale” dai centri di detenzione in Libia, indicando anche che potrebbero essere 10mila i migranti che potranno arrivare in Europa regolarmente dai campi e dalle carceri libiche, con la garanzia dell’Unhcr, che verificherà in Libia chi ha diritto alla condizione di rifugiato e chi no, e della Conferenza episcopale italiana; e poi, secondo gli obiettivi attribuiti all’Organizzazione mondiale dei migranti (Oim), dovrebbero essere invece 30mila i migranti giudicati senza diritto d’asilo, che dovranno tornare a casa con rimpatri “volontari”. Onestamente, siamo davvero contenti per i primi arrivati, i 162 liberati dalle condizioni di detenzione in Libia, e davvero felici per l’annuncio dei, forse, 10mila nel 2018 - meno invece per i 30mila già previsti come “ricacciati” a casa. Ma perché intanto il governo italiano ha contribuito a chiudere la rotta del Mediterraneo intrappolando in Libia da 700mila a un milione di persone - dalle stime della stessa Onu? Perché, per un esodo che è epocale, abbiamo criminalizzato le Ong che soccorrono sulle coste libiche i migranti? Perché li abbiamo consegnati al controllo delle cosiddette autorità libiche, le stesse che dovrebbero garantire la svolta natalizia-concordataria di Minniti, e che invece continuano a non controllare alcunché, in un Paese in guerra e in mano a centinaia di milizie che volta a volta si chiamano esercito governativo o guardia costiera, ognuna delle quali gestisce centri di detenzione e di tortura fin qui per conto nostro? Di quell’Italia ormai capofila, con il Codice Minniti, dell’Unione europea sui migranti, mentre i Paesi europei a ovest si aprono a parole e a Est si chiudono minacciosi e razzisti con i muri, rifiutando perfino la misera ripartizione di un’accoglienza che invece dovrebbe essere epocale. Mentre scriviamo è stato salvato nella notte un barcone con 250 migranti, ma si teme per la sorte di altre due imbarcazioni di fortuna per ora pericolosamente disperse tra Libia e Canale di Sicilia. Francamente, gli annunci del trio Gentiloni-Minniti-Pinotti risultano angusti e oscuri anche da un punto di vista elettorale. Così accontentiamoci del solo principio che avanza, anche quello fortunato per chi capita. È il principio della lotteria. Come per il migrante numero centomila sbarcato a Lampedusa prima dell’estate: grazie alla nascita miracolosa della piccola Miracle, avrà l’atto di nascita della figlia e quindi forse la possibilità di ottenere il diritto d’asilo. Cooperazione allo sviluppo, la “discriminazione” sub sahariana di Raffaele K. Salinari* Il Manifesto, 27 dicembre 2017 Il grosso divario degli aiuti nei paesi martoriati da fame e guerre. La gestione dei flussi migratori pone all’Europa, e al nostro paese in particolare, il problema della coerenza delle politiche di cooperazione allo sviluppo. Le migrazioni, infatti, sono solo un effetto che rileva di cause molteplici, tra cui la povertà, i mutamenti climatici, le guerre, e la mancanza dei più elementari diritti umani. Sono tutte situazioni che oggi vedono tragicamente accumunata quell’area geopolitica che va sotto il nome di zona sub sahariana. Ora, e a ragione, questa vasta zona che comprende Paesi come Niger, Mali, Senegal, Guinea Bissau, Ciad, Gambia, Sud Sudan, Burkina Faso, Mauritania, è stata dichiarata prioritaria per la cooperazione allo sviluppo italiana, con una lungimiranza che, però, dovrebbe essere resa coerente con le scelte concrete. I risultati del bando di finanziamento per i progetti delle Ong italiane da parte dell’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo nei Paesi prioritari della zona sub sahariana, vedono infatti su un totale di 28 interventi, per un totale di circa 18 milioni di euro, una decisa prevalenza di concentrazione su due Paesi non certo sub saheliani: il Mozambico con ben 10 progetti ed il Kenya con 5. Seguono poi il Sud Sudan con 4, il Burkina Faso con 3, l’Etiopia con 2, altrettanti per il Senegal e Guinea Bissau e solo 1 per il martoriato Niger. Sono dati che, di fatto, pur rispettando l’autonomia progettuale delle Ong italiane, ridimensionano le dichiarazioni che volevano la zona strettamente sub sahariana come priorità di intervento. Si rischia di produrre così una discrasia nel sistema Paese tra una cooperazione allo sviluppo carente proprio in quelle zone dell’Africa oggi maggiormente esposte ad instabilità politica interna ed anche per questo utilizzate come rotte dei migranti, e la gestione sub specie ordine pubblico mediterraneo dei flussi tanto cara alle sensibilità degli attuali Governi europei. Da parte nostra ci impegneremo affinché in un prossimo futuro si colmi questo divario sia in termini geografici che finanziari *Presidente Cini (Coordinamento Italiano Network Internazionali) L’Egitto mette a morte 15 jihadisti, impiccagione di massa in due carceri globalist.it, 27 dicembre 2017 Quindici miliziani jihadisti, accusati di avere partecipato ad un attacco armato nel 2013, contro una postazione dell’Esercito egiziano, nel Sinai, sono stati impiccati all’alba. Le condanne capitali, secondo quanto reso noto dalle autorità egiziane, sono state eseguite nelle due carceri dove i quindici miliziani islamici si trovavano reclusi dopo che contro di loro era stata emessa la sentenza. Si è trattata della più grande esecuzione in Egitto dopo l’impiccagione, nel 2015, di cinque jihadisti, anch’essi accusati di attacchi armati. Le impiccagioni arrivano una settimana dopo che l’Isis ha attaccato, con un missile anticarro, un elicottero in un aeroporto del nord della Penisola del Sinai, durante la visita dei ministri degli Interni e della Difesa. I ministri sono rimasti incolumi nell’attacco, ma hanno perso la vita un aiutante del ministro della Difesa ed un pilota. Arabia Saudita. Riabilitazione di lusso per jihadisti di Francesca Del Vecchio Il Manifesto, 27 dicembre 2017 La paradossale filiera di Riyadh. Deradicalizzazione soft nel centro che rispecchia la linea del principe ereditario Bin Salman. Riyadh, fortezza del wahabismo e del conservatorismo islamico dei Saud, è anche la sede di un centro di riabilitazione di lusso per jihadisti. Una compresenza paradossale, se si pensa alla posizione dell’Arabia Saudita sullo scacchiere mediorientale: da un lato alleato dell’Occidente - in primis degli Usa, dall’altro principale mecenate ideologico della cultura islamista. Il Mohammed Bin Nayef Counseiling and Care Center è una struttura di deradicalizzazione e reinserimento per terroristi. Piscina coperta, terrazze solarium e spazi dedicati alla pratica di svariati sport sono solo alcuni dei comfort offerti dal complesso. Il centro è un luogo di transizione tra carcere e libertà, il cui obiettivo dichiarato è la guarigione ideologica, piuttosto che la coercizione. Alla guida della struttura, religiosi e psicologi si concentrano sulla riabilitazione dei jihadisti, per evitare che questi ricadano nella “seducente” trappola della propaganda. Dal 2003, quando è stato aperto, il centro ha ospitato oltre 3.300 soggetti, inclusi alcuni detenuti di Guantanamo. Secondo il suo direttore, Yahya Abou Maghayed, intervistato da France Press, il percorso di riabilitazione ha un tasso di successo dell’86%. Ex membri di al-Qaeda o talebani seguono percorsi psicologici specifici improntati sulla riflessione, sullo studio dei testi sacri e sul rafforzamento dei legami familiari, compresi matrimoni e nascite. L’evoluzione psicologica del paziente - definito tale poiché la filosofia del centro respinge etichette come “detenuto” o “prigioniero” - viene valutata anche attraverso una terapia artistica: i dipinti prodotti all’inizio del soggiorno vengono confrontati con quelli realizzati dopo alcuni cicli di cure. “Coloro che dopo tre mesi dall’ingresso rifiutano il percorso di riabilitazione morbido - dice Abou Maghayed - vengono trasferiti al normale processo giudiziario”. Il centro sembra operare in linea con il programma politico del 31enne principe Mohammed Bin Salman, designato come prossimo erede al trono. Per rendere tangibile la svolta politica del suo futuro regno, ha già redarguito l’intero clero saudita, esortandolo a imprimere una svolta moderata nell’Islam. Durante l’incontro dell’Alleanza islamica contro il terrorismo, tenutosi a Riyadh, il principe ha poi affermato che la coalizione si è impegnata a fare tutto il possibile per sradicare il terrorismo dalla società. L’alleanza, che nell’anno della sua fondazione (2015) contava 34 Paesi, oggi ne riunisce 41, escludendo - ça va sans dire - Siria e Iraq, accusati di aver foraggiato gli Hezbollah in Libano e l’Iran, colpevole di aver fornito strumenti tecnologici alla minoranza degli Houthi dello Yemen, ritenuti responsabili dei continui attacchi ai sauditi. Oltre all’azione militare, l’Alleanza ha sottolineato la necessità di piani culturali e d’informazione che contrastino il terrorismo, specie quelli rivolti ai giovani. Ma il programma della monarchia del Golfo appare ben più controverso di quanto dichiarato. Tralasciando l’episodio delle dimissioni in diretta televisiva - su un canale saudita - del Primo Ministro libanese Saad Hariri, di fatto ostaggio di Riyadh, non si può non tener conto che l’Arabia Saudita, da sempre, finanzia e diffonde ogni sorta di estremismo sunnita nelle sue forme più dogmatiche e intolleranti come il wahhabismo e il salafismo. La posta in gioco è l’isolamento di Teheran attraverso la neutralizzazione dei suoi principali alleati regionali - Siria e Iraq - per rilanciare una campagna denigratoria nei confronti degli sciiti. Fa pensare che questo apparente cambio di rotta sia arrivato a pochi mesi dalla visita del presidente Donald Trump a Riyadh, il maggio scorso, quando il tycoon aveva firmato con re Salman un accordo da 110 miliardi di dollari per la compravendita di armi e sistemi di sicurezza da parte dei sauditi. Ma l’obiettivo, ancora più ambizioso, è quello di raggiungere la cifra di 350 miliardi in 10 anni. Dopo gli anni di cautela di Obama, l’asse Washington - Riyadh sembra tornato quello di un tempo. Natale di morte in Yemen: oltre 130 vittime in 48 ore di Chiara Cruciati Il Manifesto, 27 dicembre 2017 Almeno 70 i civili uccisi, colpiti mercati e abitazioni. E per uccidere un leader Houthi l’Arabia saudita bombarda due edifici a Sana’a. L’inviato Onu vola ad Aden per rilanciare il dialogo, ma manca il partner: da Riyadh zero concessioni. Non è previsto Natale nel paese più povero del Golfo, attraversato da una delle escalation militari peggiori degli oltre mille giorni di conflitto già trascorsi. Le agenzie, tra lunedì e ieri, battevano a ritmo continuo per tenere il conto dei bombardamenti aerei sauditi e del numero delle vittime in 48 ore di ordinario massacro in Yemen. Un conto chiuso ieri - temporaneamente - dalla notizia dell’uccisione di sei contadini a Hodeida, costa occidentale, tra i più sanguinosi teatri della guerra in corso per la sua importanza strategica e commerciale. È qui che ha sede il principale porto del paese, insieme a quello di Aden, a sud, via di transito del greggio diretto in Europa. Ed è qui che ieri all’alba un raid della petro-monarchia saudita ha centrato una fattoria a Khokhah, lasciandosi dietro sei vittime. Nelle stesse ore iniziava il tour regionale dell’inviato speciale delle Nazioni Unite per lo Yemen, Ismail Ould Cheikh Ahmed: a capo di un team di esperti, doveva atterrare ad Aden, capitale ufficiosa del governo yemenita in esilio (non è ancora chiaro quanto forzato) in Arabia saudita. Raggiungerà nei prossimi giorni (o settimane) Sana’a, capitale ufficiale, dal settembre 2014 controllata dal movimento Ansar Allah. L’idea, dicono fonti interne, è (ri)lanciare un piano di pace, proporre alle parti un nuovo tavolo negoziale se “mostreranno una volontà sincera di raggiungere una soluzione politica pacifica”. E la voragine si apre: se l’Onu si attende dagli Houthi un rallentamento delle rappresaglie contro le forze fedeli al defunto ex dittatore Saleh prima di mandare a Sana’a il proprio inviato, è a Riyadh che si deve guardare. È lì, nella capitale saudita, che la volontà sincera anelata dalle Nazioni Unite pare mancare del tutto. Lo dimostra il bagno di sangue dei giorni di Natale e Santo Stefano: sarebbero oltre 70 le vittime civili e una sessantina i combattenti Houthi uccisi in raid della coalizione sunnita a guida Saud, piovuti su tutto il paese, su zone residenziali, campi militari e mercati cittadini. Una famiglia di nove persone, di cui cinque bambini, è stata sterminata a Sana’a da cinque missili caduti sulla loro casa. Sempre nella capitale, due edifici nel quartiere di Hay Asr sono stati rasi al suolo uccidendo undici persone, di cui tre bambini e due donne; il target era l’abitazione di un leader di Ansar Allah, Mohammed al-Raimi. Ad Hodeida sono morti otto civili, di cui due donne; a Dhamar quattro persone. Bombe anche sui manifestanti scesi in piazza ad Arhab contro la decisione del presidente statunitense Trump di riconoscere Gerusalemme capitale di Israele. E ancora 18 morti a Hais, a sud di Hodeida; 35 a Tahita; 50 vittime (secondo la tv al-Masirah, vicina agli Houthi) e 50 feriti nella città di Al-Ta’iziyeh, provincia di Taiz (altro epicentro del conflitto), nel bombardamento di un mercato. La popolazione yemenita paga il prezzo più alto delle diverse guerre che si combattono in Yemen. Quella degli Houthi che cercano di ottenere la partecipazione politica ed economica che i regimi precedenti gli hanno negato e che Riyadh non intende riconoscergli. Quella per procura tra Arabia saudita e Iran, con Teheran che osserva ufficiosamente in disparte l’incancrenirsi del conflitto voluto dai sauditi per ridefinire le influenze regionali. Quella dei secessionisti meridionali, pronti a vestire la casacca più opportuna pur di limitare l’avanzata Houthi e lavorare a una nuova separazione tra nord e sud. E quella di al Qaeda nella Penisola Arabica che sguazza nel vuoto di potere e mangia territori, un passo avanti e uno indietro, ma ormai capace di radicarsi facendo leva sui clan locali e le necessità belliche della coalizione saudita. Impossibile, in tale scenario, dare torto a Tim Lenderking, responsabile del Golfo per il Dipartimento di Stato Usa, che pochi giorni fa ha dato voce alla presunta visione trumpiana della crisi yemenita: “Non c’è soluzione militare - ha detto. C’è spazio per una partecipazione politica degli Houthi”. Giusto. Peccato che abbia dimenticato di menzionare l’attivo ruolo militare statunitense nel paese, il sostegno indefesso al processo di armamento continuo dei Saud e l’accusa agli Houthi di essere meri proxy iraniani. Indulto umanitario all’ex presidente, il Perù insorge La Stampa, 27 dicembre 2017 Migliaia di persone sono scese in piazza a Lima per protestare contro la grazia concessa all’ex presidente, Alberto Fujimori, che sta scontando una condanna a 25 anni per violazione dei diritti umani, corruzione e sostegno alle squadre della morte. Secondo quanto riferisce la Bbc, scontri sono stati segnalati tra manifestanti e polizia che ha usato i lacrimogeni per disperdere la folla. “No alla grazia”, hanno urlato i dimostranti nel secondo giorno di proteste iniziate alla vigilia di Natale. La folla ha cercato di raggiungere l’ospedale dove Fujimori, 79 anni, è ricoverato da sabato per un abbassamento della pressione, ma è stata bloccata dalla polizia. L’attuale presidente del Perù, Pedro Pablo Kuczynski, ha riconosciuto la rabbia per la sua decisione, ma ha spiegato che non poteva “permettere a Fujimori di morire in prigione”. Ha quindi negato di aver concesso la grazia come parte di un accordo con il suo partito per evitare il proprio impeachment, per aver ricevuto pagamenti illegali dal gigante edile brasiliano Odebrecht. L’indulto è stato annunciato nella sera di Natale dal presidente dell’attuale presidente del Perù, Pedro Pablo Kuczynski con un comunicato in cui ha detto di aver deciso di liberare Fujimori per “ragioni umanitarie”. Il 79enne Fujimori, presidente del Perù dal 1990 al 2000, è una figura divisiva nel paese. Alcuni peruviani lo apprezzano per avere sconfitto il movimento di guerriglia maoista Sendero Luminoso, mentre altri lo criticano per le violazioni dei diritti umani. Fujimori era stato trasferito dal carcere in una clinica sabato, dopo aver subito un abbassamento di pressione. La legge peruviana stabilisce che una persona condannata per omicidio o rapimento non può ricevere la grazia presidenziale a meno di essere malata terminale. Tre precedenti richieste di grazia di Fujimori a partire dal 2013 erano state rigettate dopo che i medici avevano detto che l’ex presidente non è malato incurabile.