Viaggio nel lavoro delle Commissioni per la riforma dell’esecuzione penale di Teresa Valiani Redattore Sociale, 26 dicembre 2017 Il presidente e una componente dei gruppi di lavoro raccontano 5 mesi di impegni pressanti e ritmi serrati, tra professionalità, studio, rinunce e passione. Due anni di studi e ricerche, registrati sotto il nome di “Stati generali dell’esecuzione penale”, con migliaia di pagine di documenti da passare al setaccio e tradurre in norme. Poi la nomina delle commissioni, a luglio, e l’avvio di incontri, confronti, scontri, anche, per sostenere le proprie posizioni e aprirsi a quelle degli altri. Una spada di Damocle a forma di clessidra sulla testa di ognuno, a dettare i ritmi serratissimi di un lavoro non retribuito, svolto solo per passione e dovere verso lo Stato. E, alla fine, la soddisfazione di aver contributo a scrivere una parte delle leggi che mirano a cambiare la vita a migliaia di persone, e, con esse, una pagina importante della storia del nostro Paese: quella che vuole riportare sullo stesso binario le parole carcere, giustizia e dignità. Ma cosa significa lavorare in una commissione ministeriale, quali sono gli impegni, i tempi, gli imprevisti? Lo abbiamo chiesto al presidente della Commissione per la riforma dell’ordinamento penitenziario e coordinatore delle altre due commissioni (minorile e misure di sicurezza), Glauco Giostra, già coordinatore del comitato scientifico degli Stati generali e al timone, in passato, di altre commissioni ministeriali. E alla giurista Lina Caraceni, docente di Diritto penitenziario all’Università di Macerata e componente della Commissione sui minori. “E’ la prima volta che parlo dei lavori della Commissione che ho avuto l’onore di presiedere - spiega il presidente Giostra. Ed è la prima volta per una precisa scelta: ci è sembrato inopportuno, a me e a tutti i componenti delle Commissioni, riferire delle proposte che andavamo elaborando prima che il Ministro operasse le sue scelte politiche. Posso dire che l’impegno delle Commissioni è stato davvero eccezionale, non pensavo si potesse contare su studiosi e professionisti di prim’ordine che in modo assolutamente gratuito fossero disposti a sacrificare ferie estive, impegni professionali, doveri familiari per cercare di imbastire, in tempi strettissimi, la più importante riforma penitenziaria dopo quella del 1975. Ovviamente, senza neppure la gratificazione di un riconoscimento o di un sostegno esterno. Anzi”. Come è cominciata questa nuova esperienza professionale? “Tutto è iniziato alla fine di luglio, quando il Ministro Orlando, nel discorso di insediamento delle tre Commissioni, ci ha precisato che l’anno previsto per l’esercizio della delega si riduceva a pochissimi mesi, incluso quello di agosto. Era consapevole del sacrificio che ci chiedeva, ma dovevamo far del tutto per conseguire l’obbiettivo, magari consegnando parti del lavoro strada facendo. In particolare, per quanto riguarda la mia Commissione, ci siamo subito organizzati in Sottocommissioni tematiche (di cui è traccia evidente nell’impianto dello schema di decreto legislativo approvato ieri). E dopo aver lavorato separatamente in estate, a settembre abbiamo iniziato l’esame in plenaria delle proposte formulate dalle singole Sottocommissioni”. Che aria si respirava all’interno delle Commissioni? “Si è trattato di un lavoro serrato e ultra vires - spiega Glauco Giostra, ma condotto sempre con grandissima motivazione ideale. Ci si incontrava tutte le settimane per due giorni al Ministero. Si usciva provati da quelle riunioni no-stop, ma con soddisfatto entusiasmo. Il week end, poi, era dedicato alla messa a punto di quanto deciso in Commissione, alla elaborazione di una relazione illustrativa, alla predisposizione di ‘emendamenti’ migliorativi, al coordinamento delle proposte delle diverse Sottocommissioni. Ricordo scambio di mail alle 4 del mattino, quando chi riusciva a tirare in lungo la notte passava ‘il testimone’ a chi sapeva essere già operativo in ore antelucane. So bene che dall’esterno tutto ciò possa apparire poco credibile o, peggio, retorico. In tempi come questi in cui conta più chi parla di chi lavora, chi critica di chi costruisce, si guarda con comprensibile incredulità ad una narrazione che riferisce di autorevoli professionisti che hanno dato ogni energia per servire una causa ideale, ben sapendo che nessuna gratitudine sarà loro espressa e nessuna critica sarà loro risparmiata. Eppure le cose stanno proprio così”. “Pur provenendo da esperienze e storie molto diverse - sottolinea il presidente, respiravamo un senso di appartenenza ad una squadra e ad un importante compito civile. Ma non posso concludere questa risposta senza dirle che abbiamo avuto sempre durante i lavori, fatto non meno anomalo per la mia ormai non breve esperienza, una stimolante interlocuzione e un proficuo dialogo con il Capo dell’ufficio legislativo, in uno spirito di costruttiva e serena collaborazione, pur nella diversità dei ruoli. Come pure abbiamo potuto contare, in tutti i momenti più delicati, sul costante, convinto sostegno del Capo di Gabinetto. Ora continueremo ad affiancare il Ministro nel corso del successivo iter istituzionale della riforma, con la speranza che riesca nel non facile compito di condurre in porto questo suo alto disegno innovatore, cui ha lavorato con lungimiranza sin dall’istituzione degli Stati generali dell’esecuzione penale”. Professione: docente di Diritto penitenziario all’Università di Macerata, Lina Caraceni ha fatto parte della Commissione presieduta dal magistrato Francesco Cascini e che si è occupata del settore minorile. “La mia esperienza è stata davvero straordinaria - racconta la docente, un’occasione dal punto di vista personale e professionale di grande crescita. Perché un conto è studiare le norme, un altro è produrle. Bisogna tenere conto dell’obiettivo che si vuole raggiungere e scriverlo in poche righe. Occorre che abbiano un linguaggio tecnico appropriato, comprensibile e mantengano il significato che si vuole dare a quelle parole. Non è così semplice, soprattutto quando si lavora da punti di vista diversi, tenendo conto delle professionalità e anche del retroterra culturale che ognuno porta con sé. E’ un lavoro complesso ma molto stimolante e arricchente proprio perché il tuo punto di vista si deve confrontare e resistere, a volte, alle obiezioni che nascono dagli altri. E da questo confronto costante e costruttivo viene fuori, poi, la sintesi delle posizioni, quella che ci consente di raggiugere l’obiettivo”. Dal punto di vista personale che cosa vuol dire lavorare in commissione? “E’ stata un’esperienza straordinaria ma anche molto faticosa - sottolinea Lina Caraceni: io non ho avuto un giorno di ferie o di riposo dal 19 luglio. Perché devi lavorare ai testi su cui poi ti confronti, una volta che hai partecipato alla discussione si torna a casa e si ragiona sui punti di vista proposti dagli altri per vedere di trovare la quadra delle diverse posizioni. Ogni tanto arriva uno stimolo da qualcuno e si ricomincia a lavorare, daccapo. Ed è stato così, ogni giorno, dal 19 luglio. Ovviamente tutto deve essere conciliato con la vita personale e quella professionale perché niente può restare in sospeso e il lavoro della commissione è qualcosa che si aggiunge a quello che già stai facendo. E, anzi, che dà anche un altro senso a quello che stai facendo: per esempio, per un professore universitario aver lavorato alla stesura di un testo che poi dovrà spiegare ai propri studenti nelle aule, significa aver un punto di vista privilegiato, che ci consente anche di trasmettere ai nostri studenti, che saranno poi gli operatori della giustizia di domani, il significato e il senso profondo che sta dietro un testo che hai contributo a elaborare”. Ai vertici dell'antimafia un condannato per la "macelleria messicana" alla scuola Diaz di Marco Preve La Repubblica, 26 dicembre 2017 Gilberto Caldarozzi, 3 anni e 8 mesi per i falsi del G8, è il numero 2 della Dia. Per i giudici ha "gettato discredito sulla Nazione agli occhi del mondo intero"- Più che la rabbia della vittima c’è il senso di sconfitta del cittadino di fronte al Potere, negli occhi di uno degli ex ragazzi che nel luglio del 2001 attraversarono le notti della macelleria messicana della Diaz e del carcere cileno di Bolzaneto. Gilberto Caldarozzi, condannato in via definitiva a tre anni e otto mesi per falso, ovvero per aver partecipato alla creazione di false prove finalizzate ad accusare ingiustamente chi venne pestato senza pietà da agenti rimasti impuniti, è oggi il numero 2 - Vice direttore tecnico operativo - della Direzione Investigativa Antimafia, ovvero il fiore all’occhiello delle forze investigative italiane, la struttura alla quale è affidata la lotta al cancro criminale. La nomina, decisa dal ministro dell’Interno Marco Minniti, passata quasi in sordina ed ignorata dalla politica, risale a poche settimane fa. Se ne sono accorti, quasi casualmente nei giorni scorsi i reduci del Comitato Verità e Giustizia per Genova, un gruppo formato da ex arrestati della Diaz e di Bolzaneto e dai loro famigliari. “Molti dei ragazzi tedeschi, vittime della polizia nel luglio 2001 - racconta un membro del Comitato - spiegano di avere provato paura quando, ritornati in Italia per i processi o per le vacanze hanno incontrato agenti in divisa. Mi chiedo come si possa dire a queste persone che l’Italia è cambiata se uno dei massimi dirigenti del nostro apparato di sicurezza è oggi proprio colui che ieri fece di tutto per accusarli ingiustamente e coprì gli autori materiali dei pestaggi e delle torture”. Caldarozzi, ex capo dello Sco, la Sezione criminalità organizzata, considerato un “cacciatore di mafiosi”, per la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo è invece uno dei responsabili dei comportamenti di quella notte del 2001 e dei successivi comportamenti degli apparati di Stato, che sono valsi al nostro paese due condanne per violazione alle norme sulla tortura. Scrissero i giudici della Cassazione per Caldarozzi e gli altri condannati: “hanno gettato discredito sulla Nazione agli occhi del mondo intero”. Non esattamente una medaglia da inserire nel proprio curriculum. D’altra parte, a luglio di quest’anno sono scaduti i cinque anni di interdizione dai pubblici uffici e i dirigenti condannati per la Diaz che non erano andati in pensione sono rientrati in polizia. In un intervento sulle sentenze della Cedu, pubblicato sul sito Questione Giustizia di Magistratura Democratica, il pm del processo Diaz Enrico Zucca affronta il caso Caldarozzi: “L’ultimo dei rientri, che si fa fatica a conciliare con quanto espresso nei confronti del condannato in sede di giudizio di Cassazione, è quello che riguarda l’attuale vice-capo della Dia, che vanta così nel suo curriculum il “trascurabile” episodio della scuola Diaz”. Il capo della polizia, il prefetto Franco Gabrielli, in un’intervista a Repubblica dell'estate ha voluto finalmente affrontare il tema G8 senza tabù, dichiarando che lui al posto di “Gianni De Gennaro (allora capo della polizia oggi presidente di Finmeccanica, ndr) si sarebbe dimesso”. A quanto si sa, i funzionari rientrati in polizia sarebbero stati destinati a ruoli non di primo piano. Ma Caldarozzi è sfuggito a questa logica. Essendo la Dia una struttura che dipende direttamente dal Ministero, per lui, che vanta con Minniti e con il gruppo De Gennaro un’antica amicizia, si sono spalancate le porte dei piani alti. Il suo esilio, per altro non è stato quello di un appestato. Gli anni di interdizione li ha trascorsi lavorando come consulente della sicurezza per le banche e poi come consulente per la Finmeccanica dell’ex capo De Gennaro. Si parlò anche di “collaborazioni” con il Sisde, i servizi segreti, proprio come, sempre a stare alle voci, si racconta intrattenga oggi il anche pensionato Franco Gratteri, ex capo della Direzione centrale anticrimine, il più alto in grado fra i condannati della Diaz. Nonostante l’Italia, tra molte contestazioni e distinguo, si sia dotata da qualche mese di una legge sulla tortura, sembra essere completamente inevaso uno degli aspetti più volte ricordati dai giudici europei. Quello che riguarda non gli autori materiali delle torture bensì tutta la scala gerarchica e i regolamenti interni che non provvedono a isolare i torturatori e chi li ha coperti nelle fase preliminare delle indagini, e che poi non provvede, se non a radiarli, perlomeno a bloccare le progressioni di carriera, o in estremo subordine ad assegnarli ad incarichi non operativi. Diciassette anni dopo aver disonorato - lo dicono, per sempre, i giudici della Cassazione, anche se molti poliziotti e altrettanti politici non hanno mai accettato questa sentenza - la polizia italiana, Gilberto Caldarozzi viene premiato con una delle poltrone più importanti della lotta al crimine. La “macelleria messicana” è stata archiviata dallo Stato. Latina: lavori socialmente utili, i posti scarseggiano di Alessandro Martufi ilcaffe.tv, 26 dicembre 2017 Nel capoluogo, così come nel resto della provincia, quello dei lavori di pubblica utilità è un universo su cui si dovrebbe porre la lente d’ingrandimento non solo per chi deve “guadagnarsi” uno status di rifugiato, ma anche per chi deve scontare una pena o evitare una condanna. Per questi ultimi, nel sistema pontino si cela una sorta di paradosso: non ci sono infatti abbastanza posti per far fronte in maniera fluida a tutte le richieste di attivazione di percorsi di cosiddetta giustizia riparativa. “C’è una netta forbice tra enti accreditati presso il Tribunale di Latina ed effettiva richiesta di soggetti inseriti nell’ambito del programma relativo all’esecuzione penale esterna”, ci spiega Angelo Raponi, segretario della Caritas di Latina. La mensa Caritas, situata a Latina in via Cicerone, è uno dei punti d’approdo per chi viene affidato ad un percorso di giustizia riparatoria ed attualmente vi sono due soggetti che stanno completando il programma stabilito dal tribunale. Tredici dal 2012, anno in cui è stata sottoscritta la convenzione; di questi 5 erano minori. Messa alla prova: ne usufruiscono 30 soggetti all’anno - In provincia di Latina, a distanza di tre anni, mancano ancora all’appello diversi comuni nella lista di quelli che hanno sottoscritto una convenzione con il tribunale per la “messa alla prova”, che serve ad evitare all’imputato l’ascrizione del reato, quindi una sentenza di condanna, tramite lavori socialmente utili. Il Comune di Latina è tra quelli in regola, al pari di Aprilia. Ma nella pratica gli ingranaggi hanno bisogno di più di qualche oliata. “A Latina il progetto della messa alla prova non è purtroppo ancora decollato”, confessa al Caffè Nunzia Calascibetta, responsabile dell’Ufficio di esecuzione penale esterna di Latina. Solamente una media di 30 soggetti l’anno in tutta la provincia pontina ne usufruiscono. Una criticità che abbraccia in proporzioni meno preoccupanti il servizio di pubblica utilità per chi una sentenza di condanna l’ha già subita, abbinata ad una conversione della pena, e che deve dunque estinguere il reato. “Nonostante abbiamo ricevuto un notevole appoggio dalle istituzioni locali, in primis con l’ente provinciale - continua - serve una rete di comunicazione più solida tra gli enti e il mondo dell’associazionismo”. Enti e organizzazioni che dovrebbero fornire i posti necessari a coprire il fabbisogno di percorsi legati a misure alternative. Una copertura che ad oggi a Latina e provincia non è completa e che genera un pellegrinaggio di avvocati tra le varie organizzazioni in cerca di un posto per il proprio assistito. Le conseguenze del meccanismo che non ingrana - Un quadro che spesso li spinge a chiedere e ad ottenere misure diverse da quelle dei lavori socialmente utili come ad esempio la sospensione della pena classica abbinata ad una sanzione pecuniaria. O che porta a relegare la prestazione di tale servizio essenzialmente a chi è condannato o imputato per guida in stato d'ebrezza, dimenticando reati come detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti (un solo caso in 5 anni, preso in carico dalla Caritas) e misure di sospensione o di arresti domiciliari che vanno ad appesantire la pressione sulle aule di tribunale. La messa alla prova, infatti, può essere attivata a partire dalle indagini preliminari e il percorso può essere portato a termine prima del dibattimento di primo grado, rendendo più snelli tempi e costi della giustizia. Uno snellimento che potrebbe abbracciare procedimenti in cui è stata già emessa una sentenza di condanna, evitando ricorsi su ricorsi e appianando gli oneri per il sistema giudiziario Se solo fosse più semplice poterne usufruire. Roma: il ministro Lorenzin passa il Natale con i detenuti dell’Isola Solidale quotidianosanita.it, 26 dicembre 2017 La struttura accoglie detenuti che hanno commesso reati per i quali sono stati condannati, che si trovano agli arresti domiciliari, in permesso premio o che, giunti a fine pena, si ritrovano privi di riferimenti familiari e in stato di difficoltà economica. Il Ministro della Salute, Beatrice Lorenzin ha visitato l'Isola Solidale, la struttura che da oltre 50 anni accoglie detenuti - grazie alle leggi 266/91, 460/97 e 328/2000 - che hanno commesso reati per i quali sono stati condannati, che si trovano agli arresti domiciliari, in permesso premio o che, giunti a fine pena, si ritrovano privi di riferimenti familiari e in stato di difficoltà economica. Il Ministro ha preso parte anche al pranzo con gli ospiti e i volontari della struttura. Erano presenti anche Mons. Paolo Lojudice, vescovo ausiliare per il settore Roma-Sud e Alessandro Pinna, presidente dell'Isola Solidale. "Una visita gradita - spiega Alessandro Pinna, presidente dell'Isola Solidale - del Ministro della Salute che da sempre è vicina alla nostra associazione. è stata una mattinata vissuta con quello spirito di famiglia e di semplicità che rappresenta un vero dono per i nostri ospiti alla vigilia del santo Natale". Massa: visita di Natale al carcere di Massa per il sottosegretario Ferri gonews.it, 26 dicembre 2017 Il Sottosegretario di Stato alla Giustizia Cosimo Maria Ferri si è recato questa mattina all’interno della Casa di reclusione di Massa per porgere gli auguri di Natale al personale della Polizia Penitenziaria in servizio ed ai detenuti. Ferri ha ringraziato il personale per il prezioso lavoro, costante, professionale, umano, ha rivolto un pensiero anche alle famiglie del personale che durante i giorni di festa non possono condividere alcuni momenti importanti con chi è di turno all'interno delle strutture Penitenziarie. Ferri ha poi girato nelle sezioni dove si trovano i detenuti intrattenendosi per gli auguri e si è fermato con una delegazione della sala teatro dove ha offerto il panettone natalizio. Oggi presso l'istituto massese si trovano 178 detenuti e circa il 70 per cento è impegnato in attività all'interno utili per il percorso rieducativo. È evidente, ha detto Ferri, come nei giorni di festa in questi luoghi si crei maggior solitudine non solo per i detenuti ma anche per i loro familiari. Al termine della visita il sottosegretario si è recato presso la Caritas di Marina di Carrara dove "ha ringraziato i volontari e Don Cesare per lo straordinario lavoro di accoglienza, di solidarietà, di umanità che svolgono verso la collettività, un impegno costante che consente a chi si trova in difficoltà di avere punti di riferimento certi. Ha aggiunto Ferri: "I volontari svolgono questo servizio con entusiasmo, con umiltà, con amore e dobbiamo essere tutti loro grati. I giorni di festa in luoghi diversi tra loro, ma indicativi per capire quanto persone si trovino in difficolta, sole, e spinte dallo spirito di ripartire, ma quanto sia importante trovare punti di riferimento, motivazioni, speranza". Natale tra i detenuti per l’arcivescovo Delpini, a San Vittore con il sindaco Sala di Valerio Renzi fanpage.it, 26 dicembre 2017 Prima Natale come arcivescovo di Milano per Mario Delpini, che questa notte ha detto messa in Duomo. Poi questa mattina la guida della Chiesa Ambrosiana si è recato nel carcere di San Vittore per celebrare il Natale assieme ai detenuti, assieme anche al sindaco Giuseppe Sala. Oggi è stata la prima messa di Natale per monsignor Mario Delpini da arcivescovo di Milano. La guida della Chiesa Ambrosiana si è rivolta ai fedeli in un Duomo gremito lanciando un messaggio di fiducia e speranza, invitando i milanesi ad aver fiducia nella luce e di rifuggire dalle tenebre che rischiano di avvolgerci in questi tempi difficili e incerti, pieni di contraddizioni. L'arcivescovo ha chiesto ai fedeli di lasciar cadere la maschera dell'ipocrisia per lasciare spazio alla verità. "Mi hanno detto che la gente della mia città preferisce le tenebre alla luce: è insidiata dalla paura che venga alla luce ciò di cui si vergogna, teme che si scopra il lato di sé che vuole nascondere, è oppressa da sensi di colpa, da complessi di inadeguatezza, dal soffrire come una umiliazione la propria fragilità. - ha detto Delpini con parole chiare - Mi hanno detto che la mia città preferisce le tenebre alla luce, preferisce la maschera alla verità, preferisce l'apparenza artificiosa alla semplicità, preferisce narrare storie di progressi infiniti". "Io, però - ha continuato - non mi rassegno, noi non ci rassegniamo a preferire le tenebre: siamo convocati per celebrare il mistero dell'irrompere della luce e accogliamo Gesù e nella sua luce vediamo la luce. E l'irradiarsi della sua luce, il diffondersi della sua gloria manifesta che le paure della mia gente non sono fondate, che la verità più profonda di noi stessi non è la desolazione per il male commesso, la vergogna per la parte di noi stessi che non ci piace". Verità e luce che vanno cercati nel messaggio di Cristo: "Il mondo è stato fatto per mezzo di lui. Siamo fatti di luce, siamo fatti a immagine del Verbo pieno di grazia e di verità. Siamo autorizzati ad avere stima di noi stessi: abbiamo contemplato la sua gloria, gloria del figlio unigenito. A quanti lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio". Come da tradizione poi questa mattina Delpini ha vistato il carcere di San Vittore, dicendo messa per i detenuti e portando loro il conforto della chiesa. Presenti anche il sindaco di Milano Giuseppe Sala, la vice Anna Scavuzzo e il direttore del carcere Giacinto Siciliano. Latina: Monsignor Gaid celebra al carcere “vi porto l’abbraccio di Papa Francesco” agensir.it, 26 dicembre 2017 “Il mio essere qui, oggi, in mezzo a voi è soprattutto il voler portare a tutti, e a ciascuno singolarmente, il saluto, l’abbraccio, l’augurio di ogni bene da parte di Sua Santità Papa Francesco, che, attraverso piccoli e semplici doni, desidera farvi giungere il suo augurio di un Santo Natale e la sua benedizione apostolica”. Lo ha detto mons. Yoannis Lahzi Gaid, secondo segretario personale di Papa Francesco, durante l’omelia della celebrazione eucaristica che ha presieduto, sabato 23 dicembre, nel carcere di Latina. Ai detenuti ha presentato la risposta delle persone alla venuta di Gesù. E così, durante la Messa alla quale hanno partecipato la direttrice del carcere, Nadia Fontana, e il cappellano, padre Nicola Cupaiolo, ha parlato delle persone “disinteressate” o “scoraggiate”. Sono “le persone troppo prese dalla vita e dagli affari, talmente presi che non si rendono neanche conto dell’arrivo del Signore. Sono accecati da se stessi, dagli affanni e dagli affari della vita - ha aggiunto -, dai sentimenti negativi: odio, vendetta, violenza, invidia, avversità, rabbia, malvagità, rancore. A loro Gesù viene, bussa, cerca posto ma loro non lo sentono, non lo vedono, non lo accolgono e, qualche volta, lo cacciano perfino fuori dalla loro vita”. La chiosa di mons. Gaid è netta: “Per loro il Natale non significa niente. Il sole sorge ma loro chiudono gli occhi e continuano a vivere nel buio”. Sulla stessa frequenza le persone “potenti” o “prepotenti”, cioè “le persone che trovano in Cristo un pericolo da eleminare”. “Confidano nella loro forza, ricchezza, gioventù, conoscenze, mettono la loro speranza nella loro forza fisica, professionale, sociale, nelle cose che periscono. A loro viene Gesù ma loro non lo accolgono - conclude, anzi cercano di ucciderlo, parlando male di Lui, considerando i credenti persone sciocche, per loro il Natale rappresenta un peso”. Cina. Il blogger Wu Gan condannato a 8 anni per sovversione del potere statale La Repubblica, 26 dicembre 2017 La sentenza della Corte del Popolo numero 2 ha anche inflitto all'attivista per i diritti umani la pena di cinque anni di privazione dei diritti politici. L'attivista per i diritti umani e blogger cinese Wu Gan, noto per l'uso di ironia e umorismo nelle sue campagne, è stato condannato da un giudice, nella città di Tianjin, a otto anni di carcere per "sovversione del potere statale". Al termine del processo, avviato il 14 agosto alla Corte del Popolo numero 2, a Wu è stata anche inflitta una pena a cinque anni di privazione dei diritti politici. Come è successo all'inizio del processo, la polizia oggi ha impedito ai giornalisti di entrare negli spazi del Tribunale. Wu, 45 anni, è stato accusato di "diffusione di informazioni false su Internet, di esagerazioni nei casi controversi e attacchi al regime", secondo i media ufficiali cinesi. L'attivista, soprannominato il "macellaio volgare", era stato arrestato nel maggio 2015 quando aveva protestato a Nanchang, una città nel sud-est del Paese, per l'arresto di quattro persone poi torturate per estorcere confessioni forzate nel coinvolgimento in un reato (un anno più tardi sono stati assolti). Nell'agosto 2016 era stato nuovamente arrestato e ha sostenuto di essere stato torturato mentre la sua famiglia sarebbe stata minacciata. Wu è diventato famoso nel 2009 denunciando il caso di Deng Yujiao, una giovane donna cinese che uccise un politico locale nella provincia di Hubei (nel sud del Paese) quando questi cercò di abusare sessualmente di lei. Il caso fu molto mediatico e suscitò un'ondata di simpatia per le donne nell'opinione pubblica cinese e ha anche ispirato parte del film "A Touch of Violence" del regista cinese Jia Zhangke, premiato al Festival di Cannes 2013 per la migliore sceneggiatura.