Ragazze dentro. Chi sono le minorenni recluse negli Istituti penali di Tania Careddu Left, 25 dicembre 2017 La giustizia è (dovrebbe essere) uguale per tutti ma lo sforzo che il sistema compie per ricorrere al carcere per i minori in maniera residuale è ancora troppo condizionato non dalla gravità del reato quanto dalla difficoltà, dovuta al profilo di radicale marginalità e fragilità sociale da cui provengono, di trovare per loro una collocazione in percorsi diversi dalla detenzione. E, a giudicare dai risicatissimi numeri, si sarebbe potuto sospettare che quello stesso sforzo fosse maggiore nei riguardi delle ragazze rispetto ai ragazzi. No. I dati fanno scoprire l’esatto contrario: tra il 2007 e il 2016, infatti, le ragazze in carico agli Uffici di Servizio Sociale per i minorenni (USSM) erano l’11 per cento ma la percentuale di quelle entrate nei sedici Istituti penali per minorenni (IPM) è stata pari al 12 per cento. “Le ragazze vanno ‘molto’ in carcere probabilmente non perché sono ragazze, ma perché sono prevalentemente straniere”, si legge nel quarto Rapporto Guardiamo Oltre, redatto dall’Associazione Antigone. La prevalenza straniera della componente femminile all’interno del circuito del sistema giudiziario minorile italiano non è una novità ma è un dato, erroneamente, ancora poco considerato. Dal 2002 a oggi, le ragazze straniere hanno sempre rappresentato la maggioranza di quelle in ingresso, con percentuali sempre sopra l’80 per cento e sopra il 70 per cento negli IPM; per il 57 per cento minori di sedici anni contro il 38 per cento delle italiane, ben nove ragazze straniere non sono neppure quattordicenni mentre nessuna ragazza italiana ha meno di quattordici anni. Nel primo semestre del 2017, le ragazze rappresentano il 9 per cento dei minori detenuti negli IPM e il 15 per cento degli ingressi nei Centri di prima accoglienza (CPA) e, mentre le ragazze italiane rappresentano solo il 6 per cento degli ingressi di minori italiani nei CPA e poco più del 5 per cento delle presenze italiane negli IPM, quelle straniere rappresentano il 25 per cento degli stranieri entrati nei CPA e il 13 per cento di quelli detenuti. I freddi dati quantitativi poco dicono, però, sulle loro storie personali, le esigenze, le reazioni, i legami affettivi capaci di spiegare la condizione in cui si trovano. “Non condividiamo - si legge nel Rapporto - quella rappresentazione sociale che fa leva esclusivamente sulla condizione di vittima di queste minori, mettendo a fuoco unicamente lo choc psicologico o il dramma sociale. Preferiamo fare riferimento al concetto di crisi, il cui etimo rinvia a discernimento, racchiudendo, dunque, la possibilità di una scelta e la promessa di una opportunità”. Adolescenti provenienti da una “prigionia a priori”, la trappola in cui, spesso, si trovano strette le loro vite non è che l’antitesi al carcere: il passaggio dall’infanzia all’essere adulte avviene in modi segnati, sotto pressione degli adulti di riferimento da cui fanno fatica a liberarsi perché appartenenti a contesti che risentono dell’assenza di fattori identitari e affettivi. Serbe e bosniache, coinvolte, più che altro, in reati contro il patrimonio, “alcune ragazze - racconta nel dossier, la dirigente del Dipartimento per la giustizia minorile, Donatella Caponetti - manifestano la voglia di restare fuori dalla cultura rom, ma quando si ipotizza un progetto, si cercano strade e si trovano soluzioni, la famiglia le riassorbe nella cultura rom”. Poco scolarizzate e tanto oppresse da un’idea, molto viva nella loro cultura, di un rapporto impari fra uomo e donna, le ragazze non sono consapevoli dei loro diritti e si rimettono a un ruolo predeterminato, inclusa l’accettazione del carcere come rischio ineluttabile che fa parte della loro esistenza. “Belle, simpatiche, allegre, piene di vita. Gli si illuminano gli occhi quando fanno cose nuove. Hanno molte capacità di adattamento”, sostiene un’educatrice dell’IPM di Roma, Elisabetta Ferrari - ma non è affatto facile motivarle all’istruzione scolastica. Deprivate dalle esperienze precedenti, a volte, però, sono più determinate dei coetanei perché inseguono l’impegno a superare la condizione di detenzione (e non solo) come un riscatto personale e verso l’autonomia (di pensiero). “Probabilmente - si legge nel Rapporto - la motivazione scatta quando si comincia a scoprire se stessi, le proprie capacità su cui contare, attuali o potenziali, interessi ignoti prima (…) che permettono di non negare più le proprie aspirazioni e di immaginarsi in progetti di una vita altra”. Anche (o soprattutto) dentro gli Istituti di pena è “la creazione di relazioni umane che danno senso alle esperienze, tutto si appoggia sul rapporto che si stabilisce”. Altrimenti, per esempio, “le ragazze, se si sentono osservate come animali rari, si contrappongono apertamente”, diversamente, (e se) reggono al “ricatto affettivo” della famiglia, riescono a sostenere la cesura netta con la distruttività. E a guardare oltre le sbarre. Baby criminali. La pm Simonetta Matone: “Serve il carcere per i delitti gravi” di Giovanni Panettiere quotidiano.net, 25 dicembre 2017 “Lo choc dell’arresto è così forte per certi ragazzi che diventa l’unica maniera per farli smettere”. “Dobbiamo fare i conti con un sistema di giustizia minorile che purtroppo considera il carcere quale extrema ratio. La nostra cultura giuridica nei confronti dei minorenni è tutta improntata al recupero del reo, ma, spesso e volentieri, dimentica l’aspetto retributivo della pena, cioè il fatto di pagare quanto dovuto per il danno commesso”. Davanti all’escalation della criminalità tra gli under 18, Simonetta Matone, dal 2015 sostituto procuratore generale presso la Corte di Appello di Roma, “processa” la mentalità imperante fra i giudici chiamati ad applicare la procedura penale ai casi dei baby delinquenti. Un po’ più di carcere non guasterebbe, insomma? “Penso a quei minorenni, che si macchiano di reati orribili e che, invece di finire negli istituti detentivi, vengono subito messi in comunità. Dal mio punto di vista, in presenza di delitti molto, molto gravi, per esempio in situazioni come quella di quei ragazzini che a Napoli hanno ferito gravemente il 17enne Arturo, credo che l’arresto sia uno strumento necessario per la sua funzione educativa imprescindibile”. Perché dice questo, dottoressa? “Per i giovani autori di reati così efferati è talmente forte lo choc innescato dall’arresto che diventa l’unico modo per farli smettere”. Sta di fatto che, dati alla mano, gli ingressi di minori/giovani adulti negli ex riformatori sono aumentati nel nostro Paese: erano 992 nel 2014, sono stati 1.141 un anno fa. “È evidente che assistiamo a un preoccupante incremento della criminalità fra gli under 18 che possiamo spiegare, da un lato, con il crescere delle nuove forme di povertà e, dall’altro, col venir meno del controllo sociale e dei modelli educativi all’interno delle famiglie. Quando un minorenne finisce per consumare un reato, non possiamo mai prescindere dalla valutazione della responsabilità in capo ai suoi genitori”. Fino a 14 anni un ragazzino non è imputabile. Come deterrente potremmo considerare l’ipotesi di abbassare l’asticella anagrafica? Il Codice Zanardelli, vigente sino al 1930, puniva anche i bambini di 9 anni... “No, non credo che sia da mettere in discussione quella che ritengo essere una conquista di civiltà. Così come non ha troppo senso pensare a un inasprimento della pena nella fascia di età compresa tra 14 e 18. Serve piuttosto una certa applicazione del diritto, evitando un uso un po’ troppo snello della libertà condizionale per quei giovani che hanno appena iniziato a scontare le loro colpe in carcere”. Il 63% dei minori condannati esce e torna a delinquere, la percentuale scende e di molto (22%) nel caso di ragazzi che, al contrario, una volta sospeso il processo, sono messi alla prova. “Quest’ultimo istituto giuridico funziona, non posso dire diversamente. Tuttavia, data la scarsità di risorse a disposizione del sistema, viene applicato soltanto in certi casi e generalmente dopo la prima condanna. L’ideale sarebbe mettere alla prova tutti questi baby delinquenti, perché sono dei giovani senza regole, ma purtroppo non è possibile. Quello che di sicuro non va bene è questa sregolatezza consentita fin a quando non si arriva al redde rationem. Di fronte a reati gravissimi la risposta deve essere ferma”. Quando voce e cuore cambiano la vita, la musicoterapia nelle carceri di Alice Zampa lifegate.it, 25 dicembre 2017 Dalle carceri agli ospedali la musicoterapia ha il potere di abbattere le barriere e ridare speranza. In prima linea c’è Mozart 14, l’associazione che ha raccolto l’eredità del maestro Claudio Abbado. Tutti abbiamo sentito parlare dei benefici della musicoterapia in contesti di sofferenza o disagio sociale. Ma non tutti abbiamo avuto occasione di scoprire e approfondire quale enorme ripercussione questa attività possa avere su tutta la società e quindi su ciascuno di noi. A lavorare proprio nel solco di questa consapevolezza è Mozart 14, associazione con sede a Bologna, che porta la musica nelle carceri, nei reparti di pediatria e neonatologia, e nei contesti segnati da disabilità. Tante attività portate avanti con passione e determinazione da operatori e volontari, con un potere terapeutico capace di influenzare positivamente tutti i soggetti coinvolti. A godere dell’effetto benefico di note e armonie vocali non sono, infatti, soltanto i diretti interessati ma tutti i soggetti coinvolti o toccati dall’esperienza. A raccontarcelo proprio loro: i responsabili e i musicoterapeuti della Mozart 14. Nata nel 2014, l’associazione porta avanti la missione sociale ed educativa avviata da Claudio Abbado, il grande maestro d’orchestra scomparso nello stesso anno. A guidarla oggi è sua figlia Alessandra Abbado, un compito che lei assolve con passione e convinzione: “Nella mia vita ho avuto la fortuna di stare affianco a persone che hanno dato molto alla società: i miei genitori”, ci ha detto nel corso della conferenza stampa, organizzata a lo scorso 7 novembre presso Anteo Spazio Cinema a Milano, per raccontare le iniziative di musicoterapia portate avanti dall’associazione. “Con Mozart 14 desidero continuare a restituire dignità alla sofferenza e al disagio sociale attraverso i valori musica. L’obiettivo è farlo donando speranza, cultura e bellezza a chi non ce l’ha davanti agli occhi o a chi, magari, non l’ha mai vista”. Ambasciatore internazionale e grande sostenitore di Mozart 14 è il pianista e compositore Ezio Bosso, presente all’incontro di Milano. “Io vivo e credo nella musica”, ha detto Bosso, il quale dal 2011 convive con una sindrome neurodegenerativa che però non gli ha mai impedito di continuare a suonare. “La musica è capace di salvarti e cambiarti la vita. Non è un fenomeno consolatorio o d’intrattenimento, ma è parte della nostra vita. Qui non si tratta solo di ‘carcerati che suonano’ perché i carcerati siamo tutti noi. Il primo imprigionato sono io in tanti momenti e ne sono testimone anche per questo”. Profondamente legato all’associazione e ad Alessandra Abbado che considera “come una sorella”, Bosso ha sottolineato con forza la responsabilità di tutti i soggetti coinvolti a sostenere e divulgare realtà e iniziative come quelle promosse da Mozart 14, perché “la musica migliora la vita di tutti”. Una delle espressioni più note dell’impegno dell’associazione è il Coro Papageno, primo coro composto da detenuti e detenute della Casa circondariale Dozza di Bologna, inaugurato nel 2011 proprio per iniziativa di Claudio Abbado e oggi diretto dal maestro Michele Napolitano. Da qualche anno è lui a svolgere le lezioni settimanali con i coristi. “È un amalgama bellissimo quello che si crea durante le prove d’assieme, che coinvolgono carcerati, carcerate e coristi volontari” ci spiega la coordinatrice dei laboratori Matilde Davoli, “non solo dal punto di vista musicale ma anche da quello umano”. I momenti clou di questa attività sono i due concerti annuali, uno dei quali aperto al pubblico. Un’occasione d’incontro unica, in cui tutta la società può partecipare e godere di quegli effetti benefici generati dalla musicoterapia. Una sorta di catena virtuosa di bellezza che genera bellezza, che prende vita in un contesto dove le barriere più invalicabili sono, spesso, proprio quelle del pregiudizio culturale e dell’incomunicabilità. Qui la musica diventa più che mai “esercizio all’ascolto dell’altro”, quale “fondamento della convivenza civile”. E proprio la grande umanità che la musicoterapia riesce a tirare fuori dalle persone è al centro del documentario Shalom! La musica viene da dentro. Viaggio nel Coro Papageno diretto dalla regista Enza Negroni e presentato al 13esimo Biografilm Festival di Bologna. Un film commovente, in grado di raccontare con sensibilità il percorso personale delle carcerate e dei carcerati coinvolti nel coro. Dalle prove settimanali fino al concerto conclusivo, il documentario ripercorre i momenti cruciali di un anno eccezionale segnato dall’incontro con la pop star Mika (entrato in carcere per registrare con i coristi l’Ave Verum di Mozart per la sua trasmissione Casa Mika), dall’esibizione in Senato in occasione della festa europea della musica, e da quella nella Basilica di San Pietro in Vaticano davanti a Papa Francesco al giubileo dei carcerati. Oltre alla musica e ai canti che accompagnano tutto il documentario sono le testimonianze dirette dei detenuti e delle detenute ad accorciare le distanze con contesto così lontano dalla nostra esperienza quotidiana. Il velo del pregiudizio viene lacerato dai racconti a cuore aperto. Il carcere male necessario, l’impunità crea la recidiva di Luca Fazzo Il Giornale, 25 dicembre 2017 Il carcere, diceva Francesco Saverio Borrelli, è un sistema brutale, ma finora non ne sono stati inventati di più efficaci. Questa dolorosa verità appare estranea allo spirito con cui il ministro Andrea Orlando ha voluto - e alla spensieratezza con cui venerdì sera il governo intero l’ha approvato - il decreto sull’ordinamento penitenziario che si avvia a diventare legge, ultimo atto di una maggioranza in via di estinzione. A un profano, il testo del decreto può apparire incomprensibile, denso com’è di commi abrogati, di rimandi e di parole aggiunte e tolte, ma la filosofia è chiara: meno carcere e più “misure alternative”, ovvero semilibertà, arresti domiciliari, comunità, servizi sociali, tutto il nobile armamentario cui si ricorre nella convinzione che sia più rieducativo per il detenuto e quindi, in prospettiva, più utile alla società. Per questo le procedure vengono semplificate, i tetti alzati, i requisiti per l’ammissione allargati. In alcuni passaggi, la sconsideratezza delle innovazioni appare evidente, a partire dalla più vistosa - di cui il Giornale ha dato conto ieri - cioè l’innalzamento a quattro anni del limite di pena sotto il quale il condannato evita di passare anche un solo giorno in carcere, restando libero in attesa dell’affidamento o di altri benefici: l’intera categoria degli autori di “reati predatori” rischia di venire beneficiata da questo allargamento. E che dire dell’articolo 11, che ammette ai benefici anche chi è già evaso dal carcere, o chi ne abbia già goduto e ne abbia violato le regole, e persino i criminali recidivi? Si potrebbero fare altri esempi, e tutti dimostrerebbero che l’intero decreto è animato da una certezza di fondo: la pena non rieduca, il carcere incattivisce e rende più criminali gli uomini che vi vengono rinchiusi, e che se inseriti in strutture aperte possono compiere percorsi di recupero. La realtà è l’opposto: a produrre la recidiva è l’impunità; mentre un carcere umano, dove non si venga chiusi in gabbia ventitré ore al giorno, e il trattamento educativo sia reale, ha il duplice effetto di dissuadere dal ripetere il crimine e di spiegare che il crimine è sbagliato. È questo doppio binario l’unico in grado di produrre effetti positivi. Ma carcere deve essere. Dell’Utri a casa, per farsi curare. Non fa domanda di grazia. Ma di giustizia di Januaria Piromallo Il Fatto Quotidiano, 25 dicembre 2017 Molti conoscono il mio pensiero, quanto più lontano si possa immaginare dal berlusconismo, eppure eccomi qui a battermi insieme ad Achille Saletti per chiedere la sospensione della pena di Marcello Dell’Utri. La Procura Generale di Caltanissetta si è pronunciata a favore dell’ex senatore di Forza Italia, detenuto per scontare una condanna definitiva a sette anni per concorso in associazione mafiosa. Non entro nel merito della condanna (colpevole o innocente) ma, carte alla mano, quest’uomo ha già scontato oltre metà della pena e per gravi motivi di salute può chiedere la sospensione (a prescindere dalla buona condotta e dall’accesso ai benefici della legge). Provvedimenti, tra l’altro, già applicati in passato per Adriano Sofri. Achille, criminologo, dal 1999 presidente del gruppo Saman, dirige comunità finalizzate alla cura di dipendenze, si occupa dei diritti dei carcerati, di associazionismo e di impresa sociale. In una parola sola, vorrebbe un carcere più umano. Più giusto. Ad Achille e alla sottoscritta una fonte autorevole (che non possiamo citare) ci informa che proprio dentro Forza Italia (il partito fondato da Dell’Utri) ci sarebbe qualche gola profonda che insinuerebbe che le perizie mediche sarebbero false e che avrebbe soltato dei calcoli alla cistifellea A noi verrebbe da pensare che a “qualcuno” di Forza Italia convenga di più che l’ex senatore rimanga in carcere. Anziché uscire e togliersi qualche macigno dalle scarpe. Un’intera montagna, diremmo. Che rimanga lì, come capro espiatorio. Che paghi lui per tutti. Io ne conosco uno, si chiama Sergio Cusani, con dignità (troppa) ha scontato fino all’ultimo giorno, quattro anni e mezzo di carcere (troppi). Quante perizie sono state fatte fin ora a Dell’Utri? L’ultima risale a un paio di settimane e parla di “condizioni di salute assolutamente non compatibili con il regime carcerario”. Ha un tumore alla prostata e necessita urgentemente cure fuori dal carcere. Ecco, io proporrei di fargliene fare un’altra da un medico specializzato scelto da qualcuno al di sopra delle parti. Io e Achille, intanto, chiediamo che ritorni a casa e si faccia curare al meglio. Ritrovi un po’ d’affetti, basterebbe solo quello per farlo “rinascere”. Perché non dimentichiamolo, è anche la famiglia a scontare la stessa pena. E per loro è ancora più dura. In fondo, il Natale è il miracolo della rinascita. Il carcere migliora le persone, le mette davanti a uno specchio, fa cadere ogni “maschera” sociale. Dell’Ultri in carcere si è comportato da gentiluomo del sud e anche di questo bisogna tener conto. Non ha fatto domanda di grazia, ma domanda di giustizia. A chi si trova dietro le sbarre, colpevole, innocente o in attesa di giudizio, buon Natale dal profondo. Sondrio: concerto in carcere, il coro degli studenti regala forti emozioni di Giuseppe Maiorana La Provincia di Sondrio, 25 dicembre 2017 Giornata di festa e, soprattutto, di grandi emozioni alla Casa circondariale di Sondrio: una trentina di ragazzi e ragazze del liceo “Piazzi-Perpenti” di Sondrio, componenti del coro dello stesso istituto scolastico sono infatti stati ospiti della struttura per alcune ore. Nella palestra della casa circondariale i ragazzi hanno tenuto un concerto che ha avuto come spettatori i detenuti e il personale della struttura con in prima fila la direttrice Stefania Mussio. L’esibizione I giovani artisti, guidati dal maestro Walter Mazzoni e accompagnati dal professor Massimo Dei Cas hanno eseguito con anche i loro strumenti musicali, alcuni brani e successi della musica italiana e internazionale, prima in coppia o da solisti (da “Numb” dei Linkin Park a “Can’t help falling in love with you” di Elvis Presley; da “I don’t know my name” di Grace Vanderwaal a “Esseri umani” di Marco Mengoni) e poi come coro al completo, accompagnati alla tastiera proprio dal professor Mazzoni (tra le altre,”I will follow him”, “Hallelujah” di Leonard Cohen e “Seasons of love”). Tutte le esibizioni sono state molto apprezzate dai detenuti, dal personale della casa circondariale e dall’attrice Astra Lanz, anche lei in platea, che hanno riservato ai ragazzi applausi scroscianti e una standing ovation: in particolare, però, a colpire la platea sono state “Che sia benedetta” di Fiorella Mannoia, eseguita da una voce solista, per la quale i detenuti hanno richiesto a gran voce un bis, e il rap “Natale insieme”, inedito scritto da due ragazzi del coro e per il quale la direttrice del carcere Mussio ha chiesto la possibilità di aver trascritto il testo su un foglio da appendere poi sulle pareti del corridoio della casa circondariale. “Sono felicissima - ha detto Mussio - e, come spesso accade quando invito ragazzi delle scuole mi commuovo molto. Il futuro è dei giovani e devono essere proprio loro a testimoniare un impegno, come stanno facendo oggi. Grazie a chi riesce a motivarli e alle loro famiglie e grazie a loro per il grande gesto di solidarietà che stanno compiendo”. La solidarietà Una solidarietà diffusa, visto che gli stessi ragazzi del coro del liceo “Piazzi-Perpenti” hanno poi distribuito ai detenuti i regali di Natale che poi loro potranno consegnare ai loro figli. I regali sono stati acquistati anche grazie alla generosità dei cittadini sondriesi e dei volontari attivi proprio all’interno del carcere di Sondrio. L’appuntamento si è concluso con una “pizzata” e la pizza è stata preparata per l’occasione dagli stessi detenuti della casa circondariale; le teglie per la loro preparazione sono state invece prestate da don Maurizio Divitini, parroco di Mossini, mentre le sedie sono state recuperate grazie alla collaborazione del Comune di Ponte e del suo sindaco Franco Biscotti. Augusta (Sr): teatro, gli attori sono ragazzi disabili e detenuti al 41 bis di Marta Silvestre meridionews.it, 25 dicembre 2017 Un laboratorio teatrale durato dieci mesi all’interno della casa circondariale della cittadina megarese fra uomini sottoposti al regime del carcere duro e giovani con disabilità. Sul palco le storie di Giufà e Colapese. “I disabili vogliono bene senza limiti e i detenuti avevano solo bisogno di essere guardati in faccia con innocenza”. Smile and Fly. Letteralmente, sorridere e volare. Sono queste le due parole chiave che hanno dato il titolo al progetto di laboratorio teatrale fra ragazzi disabili e detenuti del carcere di Augusta, in provincia di Siracusa. Dodici ragazzi con sindrome di down e ritardi mentali medi e gravi delle associazioni augustane Progetto Icaro e Asd Nuova Augusta insieme a venti detenuti reclusi in regime di alta sicurezza. “È stato un incontro emozionante fin dal primo momento”, racconta a Meridio News l’ideatrice e realizzatrice del progetto, Michela Italia. “L’idea era quella di unire due mondi che, pensavo, non potevano che farsi del bene. E così è stato”, dice Michela, 35enne di professione insegnante di sostegno. “I disabili vogliono bene senza limiti e sono goffi e sinceri nei loro abbracci e i detenuti avevano solo bisogno di contatto, di vita vera, di autenticità senza pregiudizi, di essere guardati in faccia con innocenza”. Dieci mesi di prove per dare vita a uno spettacolo di teatro terapia nell’auditorium Enzo Maiorca della casa di reclusione della cittadina megarese. “Alcuni disabili hanno chiesto “che cosa devo fare per stare qui e avere una cella anche io?”. La domanda non ci ha preoccupati - afferma - perché semplicemente rispecchiava il clima quasi familiare che si era venuto a creare. Abbiamo risposto sempre cercando di non infondere in loro il germe del pregiudizio”. Musiche, poesie e miniminagghie siciliane. È stato questo il linguaggio che ha unito i due mondi con la leggenda di ColaPesce e le storielle di Giufà (personaggio letterario della tradizione orale popolare della Sicilia e giudaico-spagnola), “famoso per essere intelligente ma anche sciocco, al punto di arrivare anche a delinquere. Non poteva esserci personaggio migliore - sorride Michela - per creare un punto di continuità”. Nei mesi di preparazione allo spettacolo, uno dei detenuti che è laureato all’accademia delle belle arti ha tenuto un corso durante il quale sono stati realizzati tutti gli attrezzi di scena con la carta pesta. “Ha voluto pagare i materiali necessari di tasca propria e si è dedicato con cura a questi ragazzi, anche perché è padre di un ragazzo con una grave disabilità”, racconta Michela, spiegando che per la riuscita dello spettacolo finale a ogni detenuto è stato affidato un disabile. “I detenuti, tutti sottoposti al regime speciale del 41 bis per reati connessi all’associazione mafiosa, si sono sentiti per tutto il tempo del laboratorio responsabili nei confronti di qualcuno, e per di più di un particolare pezzo di società”. L’intero progetto è stato realizzato senza fondi, solo con il supporto della Croce Rossa per la serata finale. “Mi piacerebbe rifarlo il prossimo anno, anche se le difficoltà pratiche sono state molte: i ragazzi - spiega - hanno difficoltà a memorizzare, nonostante i suggerimenti dei detenuti. Dunque la mezza idea che ho in testa riguarda qualcosa che abbia più a che fare con la musica cantata e ballata. Se tutto questo è possibile - conclude Michela - è grazie al direttore del carcere, Antonio Gelardi, che coinvolge e sprona i detenuti in tante attività diverse, puntando sempre alla loro inclusione sociale”. Termini Imerese (Pa): una giornata con le famiglie dei detenuti al Cavallacci teletermini.it, 25 dicembre 2017 Il 21 dicembre le porte della Casa Circondariale di Termini Imerese, diretta dalla Dott.ssa Nunziella Di Fazio, si sono aperte ancora una volta, come ogni anno per accogliere le famiglie dei detenuti per la grande festa di Natale che il personale della casa Circondariale, i volontari e la scuola hanno organizzato per loro. Grazie in particolare agli Educatori Pina Abbruscato, Giusi Pastorello e Rosario Gervasi, al progetto finanziato dal Cpia Pa 2 e alla dott. Patrizia Graziano, è andato in scena lo spettacolo teatrale interamente interpretato dai padri detenuti per i loro bambini. Lo spettacolo è nato da un felice incontro fra teatro e musica. Il progetto teatrale di Daria Castellini s’intreccia armoniosamente con l’ideazione musicale di Valeria Graziani, accompagnata dalle note di Sara Romano (chitarra e voce) e Antonio Putzu (zampogna e flauto). I detenuti nelle vesti di attori e cantanti si sono esibiti in una riduzione teatrale del famoso “Canto di Natale” di C. Dikens scelto per i suoi contenuti fortemente legati all’idea di trasformazione e riscoperta della propria umanità. Gli stessi detenuti, con la guida dei docenti della scuola, si sono occupati di tutto, di montare lo spazio scenico, di allestire le scenografie di far scorrere il sipario, gentilmente prestato dalla LTT Laboratorio Teatrale Tusano Onlus. Il protagonista della storia è un uomo che quasi per tutta la vita si è dedicato unicamente alla carriera e all’accumulare denaro. Uomo incattivito, solitario e profondamente inaridito che grazie all’opportunità di ripercorrere criticamente la propria vita si riscopre ancora capace di nutrire sentimenti di solidarietà e compassione, ritrovandosi a gioire della compagnia altrui e a godere del senso profondo della condivisione del Natale. Tra i più famosi canti di natale e quelli della tradizione siciliana, tra musiche delle etnie dei detenuti coinvolti, tra le note di reginella e della vie en rose, questo è il dono che i detenuti faranno ai loro figli e alle loro mogli: un piccolo momento di riscatto e, perché no, di rinascita. All’inizio dello spettacolo, palloncini e panettoni con Padre Agatino e i Volontari Francescani. Subito dopo la consegna dei doni acquistati dai bambini della 4C della Scuola elementare Garzilli e dai bambini delle scuole Pitrè, Capuana, Convitto Nazionale e Ardizzone (scuola dell’infanzia) di Palermo, coordinati dalle Maestre Maria Montoleone e Silvana Moscato. Alla fine della mattinata, l’Associazione Il Segno, in collaborazione con Padre Calderone, ha offerto e organizzato il pranzo di Natale che i detenuti, le loro famiglie e tutti gli ospiti presenti, compreso i Volontari, hanno consumato insieme Gentiloni: “Soldati italiani in Niger, per bloccare il traffico dei migranti” Corriere della Sera, 25 dicembre 2017 L’annuncio del capo del governo durante il saluto sulla nave della Marina Militare. La conferma arriva direttamente dal premier Paolo Gentiloni: l’Italia ritirerà una parte dei soldati attualmente schierati in Iraq e invierà un contingente in Niger. Dopo le indiscrezioni dei giorni scorsi è dunque pronto il piano di intervento. Il capo del governo sceglie la vigilia di Natale per formalizzare l’annuncio e lo fa durante il suo intervento di saluto all’equipaggio della Nave Etna che opera nell’ambito di Eunavfor Med Operazione Sophia al fianco della ministra della Difesa Roberta Pinotti. E dichiara Gentiloni: “Proporrò al Parlamento di inviare i nostri militari in Niger. L’Italia ha l’obiettivo di costruire dialogo, amicizia e pace nel Mediterraneo e nel mondo. Il 2017 è stato l’anno della sconfitta militare del Daesh, che non controlla più un territorio come Stato. L’Italia con i suoi 1400 militari è la seconda forza in Iraq. Ora che Mosul è stata liberata, ci sono le condizioni perché il nostro contributo in Iraq diventi un contributo al consolidamento di quel Paese”. La lotta ai trafficanti - Gentiloni affronta anche l’emergenza legata ai trafficanti di uomini: “L’Italia ha uno dei suoi punti di forza nella sua capacità attraverso i mari. Siamo il Paese delle Repubbliche marinare, la nostra capacità di marineria è conosciuta e apprezzata in tutto il mondo. Oggi questa tradizione, grazie al vostro lavoro e al lavoro della missione Sophia, è un lavoro che si indirizza ad uno interessi strategici fondamentali del nostro Paese che è la lotta ai trafficanti di esseri umani. L’Italia è un Paese che accoglie, che è in prima linea contro i trafficanti e che è in prima linea con i diritti umani, aprendo i corridoi umanitari dalla Libia - ha aggiunto - Noi siamo fieri dell’Italia Paese più pronto quando c’è da salvare vite umane. Contemporaneamente lavoriamo per sconfiggere lo schiavismo dei tempi moderni, il lavoro che si fa per identificare gli scafisti ha raggiunto risultati straordinari. Abbiamo inferto dei colpi che neanche immaginavamo essere possibile infierire”. La nave della Marina - Pinotti ha sottolineato come “il Mediterraneo allargato è stato al centro delle strategie di Difesa dell’Italia e noi siamo qui, su una nave della Marina italiana dove c’è un comando di una missione europea. E questo è un altro punto fondamentale del lavoro che abbiamo fatto in questi anni. L’Italia ha avuto un ruolo importantissimo nella costruzione di un percorso verso la cooperazione rafforzata perché siamo sempre stati generosi, non abbiamo mai lesinato le nostre capacità mettendole a posizione della Comunità europea. E credo che questo ci sia riconosciuto dagli alleati”. Natale in Europa. Profughi siriani in viaggio (sicuro) verso il Belgio Redattore Sociale, 25 dicembre 2017 Dopo Italia e Francia, il Belgio è il terzo paese che dice sì ai corridoi umanitari, gli arrivi secondo gli accordi siglati con la Comunità di Sant’Egidio e le confessioni religiose: sbarcate a Bruxelles le prime due famiglie di profughi siriani provenienti dal Libano. Si aggiungono alle 3 mila persone accolte da Roma e Parigi. Sono arrivati a Bruxelles, all’aeroporto. In tutta sicurezza, con un volo proveniente dal Libano. Si tratta di due famiglie di profughi siriani, le prime di un gruppo che arriverà scaglionato nei prossimi mesi, accolto in Belgio sulla base dell’accordo firmato fra il governo belga e la comunità di Sant’Egidio, con la collaborazione di tutte le confessioni religiose riconosciute dal paese. Il Belgio è così il terzo paese, dopo Italia e Francia, ad aderire ai “corridoi umanitari”, l’iniziativa sviluppata a partire dal dicembre 2015 e che prevede l’arrivo sicuro e organizzato di circa 3 mila profughi, mille dei quali effettivamente già arrivati nei due paesi. “Un’iniziativa - affermano dalla Comunità di Sant’Egidio - ormai diventata un modello europeo, capace di aprire nuove vie per l’accoglienza e l’integrazione e di offrire soluzioni concrete per la gestione di un fenomeno così complesso come quello dell’immigrazione”. Le due famiglie sono atterrate all’aeroporto di Bruxelles - Zaventem qualche giorno prima di Natale, ad un mese esatto di distanza dalla firma dell’accordo quadro fra Sant’Egidio e il Segretario di Stato per l’asilo e la migrazione Theo Francken. Ad accoglierli all’aeroporto c’erano il presidente di Sant’Egidio Belgio Hilde Kieboom, con i rappresentanti delle varie confessioni religiose: il vescovo cattolico di Liegi mons. Jean-Pierre Delville, il metropolita della Chiesa ortodossa Athenagoras Peckstadt, il presidente dell’esecutivo musulmano in Belgio Salah Echallaoui e l’esponente della Chiesa protestante unita del Belgio, Steven Fuite. Le prime due famiglie a ricevere un visto umanitario provengono dal Libano, dove erano riparate dopo aver lasciato la Siria, paese nel quale non possono tornare. In Belgio hanno presentato domanda di asilo e vivranno accolte da una comunità protestante e da una cattolica, una in Vallonia e l’altra nelle Fiandre. “È una piccola, ma significativa storia di Natale contemporanea, nel mezzo di un mondo in cui tanti cercano protezione”, ha affermato la responsabile di Sant’Egidio in Belgio, Hilde Kieboom. “Per queste famiglie in fuga c’è spazio nell’albergo”, dice riferendosi al passo evangelico secondo il quale Maria partorì Gesù in una stalla perché non vi era altro posto per lei e Giuseppe in quel di Betlemme. “Questo - ha continuato - è un segnale che le nostre società possono fare di più in termini di ospitalità e che le persone comuni possono fare la differenza”. In totale saranno 150 i rifugiati siriani che arriveranno in questo modo nei prossimi mesi: persone scelte sulla base della loro vulnerabilità: si tratta di famiglie con bambini, vittime di una delle parti della guerra civile siriana, di persone con problemi medici speciali, malati o disabili. Nella decisione si tiene conto anche dell’appartenenza ad una minoranza etnica o culturale, e alla presenza di eventuali legami con il Belgio. Sono le confessioni religiose riconosciute ufficialmente dallo Stato belga ad essere le responsabili dell’accoglienza dei rifugiati, che vengono assistiti nell’iter della procedura di asilo. La loro permanenza in Belgio non è quindi a spese del governo. Le organizzazioni religiose aiuteranno le persone accolte e il loro processo di integrazione nel paese anche dopo che sarà stato concesso lo status di rifugiato. Come detto le 150 persone, in arrivo nei prossimi mesi in Belgio vanno ad aggiungersi alle 3.000 stabilite in due anni da diversi accordi, che Sant’Egidio ha condiviso in Italia con la Fcei e la Tavola Valdese (mille i profughi già arrivati) e con la Cei (il primo gruppo è giunto dall’Etiopia a novembre), e in Francia con le locali associazioni cattoliche e le Chiese protestanti. Anche qui - specifica Sant’Egidio - “si tratta di progetti autofinanziati che mettono in risalto una felice sinergia tra Stati europei e società civile”. Del resto, i corridoi umanitari - dice la Comunità - hanno anche aiutato l’opinione pubblica ad avere una percezione diversa del fenomeno immigrazione perché coniugano la presenza di progetti di integrazione con la sicurezza (sia per chi parte, che non rischia la vita affidandosi a trafficanti senza scrupoli, sia per chi accoglie, che già conosce la storia di chi arriva). Corte Usa stabilisce diritto a tutela legale combattente Isis Askanews, 25 dicembre 2017 Una giudice federale Usa ha stabilito che il Pentagono deve consentire a un combattente dello Stato islamico di nazionalità americana l’accesso a un avvocato in seguito a un ricorso presentato dall’American Civil Liberties Union (Aclu). Tanya S. Chuktan, giudice della Corte federale distrettuale di Washington, ha stabilito che all’Aclu si dovrà dare “temporaneo, immediato e non controllato accesso” per stabilire se il detenuto vuole che agisca per suo conto. L’Amministrazione Trump aveva sostenuto che l’Aclu non aveva titolarità legale per presentare ricorso, perché non aveva conferito con l’uomo e non poteva quindi “provare di agire nel suo interesse”. Chuktan, nella sentenza, ha respinto la posizione del govenro come “falso, nel migliore dei casi”, dato che il Dipartimento alla Difesa ha impedito l’accesso dell’Aclu al detenuto e questa è l’unica ragione per la quale l’organizzazione non ha potuto conferire con il militante. La sentenza, inoltre, ha sottolineato che l’uomo ha richiesto assistenza durante gli interrogatori del Fbi, sostenendo che il fatto che il Dipartimento alla Difesa abbia ignorato la richiesta come “degno di nota e preoccupante”. Il New York Times la scorsa settimana ha riferito che i funzionari avrebbero deciso di tentare di trasferirlo in Arabia saudita, visto che ha doppia cittadinanza. Ma la giudice Chutkan ha ordinato che il detenuto non sia trasferito finché l’Aclu “non avrà informato la corte sulla volontà del detenuto”. Venezuela. Prime uscite dal carcere per i prigionieri politici in attesa di misure alternative Nova, 25 dicembre 2017 Sono usciti dal carcere alcuni degli 80 prigionieri politici venezuelani che beneficeranno di alcune misure straordinarie adottate ieri dalle autorità di Caracas. Secondo quanto riferiscono i media locali, almeno 13 detenuti sono stati trasferiti dal penitenziario alla sede dell’Assemblea nazionale costituente (Anc) per comparire dinanzi alla Commissione della verità, giustizia, pace e tranquillità pubblica, secondo quanto aveva indicato ieri la presidente dell’Anc, Delcy Rodriguez. Ai prigionieri, tra cui si conta anche il noto leader oppositore Alfredo Ramos, Rodriguez ha parlato di un incontro pensato “per creare uno strumento di pace. Dobbiamo avvicinarci attraverso la comprensione, la convivenza democratica e pacifica. Io so che tutti voi avete questo impegno”, ha detto. Il direttore dell’organizzazione non governativa Foro Penal, Alfredo Romero, ha diramato una nota nella quale sostiene che “materialmente non ci sono state scarcerazioni”, dal momento che i detenuti sarebbero stati riportati all’Helicodie, sede dei servizi di intelligence, per “esami medici”. Il passo compiuto dalle autorità venezuelane “rafforza le aspettative di un accordo di convivenza democratica e di pace per il paese”, ha detto l’ex presidente del governo spagnolo José Luis Rodriguez Zapatero, uno dei mediatori del dialogo tra governo e opposizioni che si sta tenendo in queste settimane a Santo Domingo. “Desidero esprimere la mia soddisfazione per la decisione”, ha detto il leader socialista spiegando che si tratta di un passo in direzione della “riconciliazione e la pace”. Con questa mossa, ha fatto eco il ministro degli esteri della Repubblica dominicana Miguel Vargas, Caracas “manifesta la sua disponibilità a continuare il dialogo negoziale per raggiungere un accordo mediante una soluzione pacifica, democratica e stabile.