Lettere di Natale dal carcere Ristretti Orizzonti, 24 dicembre 2017 A Papa Francesco Al Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella Al ministro della Giustizia, Andrea Orlando Per favore, date un po’ di speranza alle persone detenute e alle loro famiglie Ci rivolgiamo a voi, alla vigilia di Natale per un motivo preciso. Il Consiglio dei Ministri ha appena approvato i decreti attuativi della legge delega sull’Ordinamento penitenziario, noi vi chiediamo di renderli pubblici prima di Natale, nella speranza che ci siano buone notizie in particolare per le famiglie delle persone detenute, quelle famiglie che ogni anno passano un brutto Natale per l’assenza di un padre, o di un figlio, o di un fratello rinchiusi in un carcere, e perché oggi la legge consente davvero pochissimi contatti fra loro e i loro cari. A Papa Francesco, poi, che ha condannato con forza la pena che non prevede speranza, l’ergastolo, chiediamo di farsi ancora portavoce dei famigliari degli ergastolani, e di chiedere insieme a loro che questa pena disumana venga cancellata dalle nostre leggi, anche perché temiamo che nei decreti attuativi non ci sia nulla che accenda un po’ di speranza in chi sta scontando questa pena, le persone detenute, ma anche le loro famiglie, condannate a scontarla con loro. Quelle che seguono sono alcune “lettere di Natale” di persone detenute e loro famigliari, con piccole e grandi richieste, alcune richieste che sarebbero realizzabili subito, altre che per ora restano solo sogni. La redazione di Ristretti Orizzonti Perché non posso sperare in un futuro migliore del mio passato? Oggi voglio immaginare di essere un bambino che si rivolge a Babbo Natale. Caro Babbo Natale, anche quest’anno io mi sono comportato bene, sono andato a scuola, ho studiato e non ho fatto arrabbiare i miei genitori, adesso non voglio stare ad elencare tutte le cose buone che ho fatto per avere un regalo, ma vorrei dirti un’altra cosa: perché non posso sperare in un futuro migliore di quello che è stato il mio passato? Sono stato punito una volta e per sempre, con l’ergastolo, senza alcuna possibilità di rimediare agli errori che ho fatto, eppure sono convinto che oggi non rifarei mai quelle stesse cose, ma tutti questi pensieri positivi non cambieranno mai il mio marchio di cattivo per sempre. Non potrò mai più essere un bambino libero, non potrò più vivere la normalità di un rapporto affettivo con una persona a cui voglio bene, sarò costretto per tutta la vita a curare quella specie di malattia che è la carenza d’affetto attraverso qualche telefonata o qualche ora di visita dei miei familiari. Io nonostante le condizioni in cui, oggi, mi ritrovo a vivere non smetterò di credere in un futuro migliore e cercherò di continuare nel percorso in cui credo, che è la scuola, il confronto e l’avvicinamento al mondo esterno, ma comunque sia è come vedere le caramelle su un tavolo, che è troppo alto da raggiungere per me, anzi, impossibile. E tu che sei una di quelle poche persone che può aiutarmi perché non vuoi neanche ascoltarmi? Quando ero più piccolo ho commesso tanti sbagli perché non capivo e non conoscevo i valori della vita e l’importanza della famiglia, in quello che è il suo vero motivo di esistenza, cioè il sostegno reciproco, il conforto, l’amore incondizionato, e ho finito per tradire tutti questi valori senza sapere neanche che esistessero. Ora che mi rendo conto di quanto sia importante avere al proprio fianco delle persone che ti vogliono bene è troppo tardi, dire ad una madre che il proprio figlio non uscirà più dal carcere non è facile, ma vivere con la consapevolezza di essere stato l’unico responsabile per far si che questo accadesse lo è ancor meno. Penso che sia giusto punire una persona che ha sbagliato, ma sia anche giusto dirgli quando finirà questa punizione. Giuliano Napoli Caro Presidente, mandami un po’ più vicino a casa Sono il detenuto Biagio Vecchio, mi rivolgo a voi con questo mio scritto perché avrei un desiderio nel cuore, che poche persone potrebbero far sì che si avverasse: sono entrato in galera poco più che maggiorenne, ora di anni ne ho 28, è per colpa di una strada sbagliata che ho intrapreso che mi sono rovinato gli anni della giovinezza. Come ben sapete molti istituti penitenziari italiani non sono a norma come la CEDU impone. Mi trovo qui a Padova da tre anni, da una parte sono avvantaggiato perché sono in uno dei pochi carceri che è non dico all’avanguardia, ma almeno dignitoso, anche se dopo il cambio di due direttori rischia un po’ di andare a picco. Ma dall’altra parte con questa mia lontananza dalla terra in cui abito e abitano i miei parenti (la Calabria) ho perso e sto perdendo quello che mi resta di più caro, la famiglia, che è davvero la cosa più importante che esiste. La mia richiesta è quella di poter essere trasferito in un’altra Casa di reclusione, quella di Laureana di Borrello, per essere più vicino a casa e per coltivare gli affetti famigliari, non so se è possibile visto che non tutti possono entrare in quell’istituto particolare, ma spererei che questo mio desiderio si avverasse perché la distanza e tanta galera mi stanno allontanando del tutto da quello che mi resta della famiglia. Non so se mai si avvererà questo mio desiderio, e anche se un desiderio non si dovrebbe esprimere pubblicamente, perché si dice che in tal caso non si avvererà mai, io lo esprimo come una richiesta chiara e precisa, il rispetto di un diritto mio e dei miei cari ad avermi vicino, e non più come quella cosa che desidero e basta… Biagio Vecchio Mi auguro con tutta me stessa che mio padre possa finalmente tornare a casa Sono Francesca Romeo, figlia di un detenuto condannato all’ergastolo. È da 25 anni che mio padre è in carcere, e per questo motivo mi sono ritrovata a dover girare parecchi carceri d’Italia, vivendo in modo straziante la triste realtà della detenzione e il duro rapporto padre/figlia, quando il padre è detenuto. Purtroppo è da quando avevo un anno che mio padre non è a casa, io l’ho conosciuto soltanto all’interno di un carcere e non riesco a ricordarlo dentro casa mia. Ricordo solo che facevo e che faccio a tutt’oggi viaggi lunghissimi per vederlo per qualche ora. Ho conosciuto anche il regime del 41-bis, purtroppo è vero anche noi figli insieme ai nostri padri scontiamo il carcere. Il 41-bs è una forma di carcere duro, così duro che non ti è permesso neanche di toccare la mano di tua figlia o di tua moglie, perché i colloqui si effettuano dietro un vetro blindato, dove ricordo che appoggiavo la mia mano per far finta di sfiorare la mano di mio padre, ma in realtà toccavo soltanto un vetro freddo. Questo distacco ha distrutto il nostro rapporto, quel vetro freddo ha raffreddato i nostri cuori e i nostri sentimenti per sette lunghissimi anni, ad oggi mi domando che senso ha avuto far passare anche a noi figli questo strazio? Per fortuna dopo sette anni a mio padre è stato tolto questo 41-bs ed è stato trasferito nel carcere di Padova. Qui a Padova ho conosciuto una realtà diversa, che non ero abituata a vedere, a cominciare dai colloqui, che si svolgono in salette con dei tavolini dove io ho potuto abbracciare e toccare mio padre, ma devo essere sincera le prime volte non è stato facile, non ero più abituata ai suoi baci e ai suoi abbracci e un po’ all’inizio mi vergognavo o mi dava fastidio essere abbracciata, ma poi lui è stato bravo a ricostruire il nostro rapporto, ha lavorato molto ma ce l’ha fatta. Ricordo anche che nei primi colloqui trascorsi a Padova lui ci parlava molto di Ristretti Orizzonti, grazie a questo percorso, mio padre è cambiato, è diventato un altro uomo, più sereno, e soprattutto ha capito cosa significa cambiare con la consapevolezza dei propri errori. Mio padre dentro il suo cuore si è pentito degli errori che ha fatto in passato, sentendosi anche in colpa di non aver potuto crescere le sue figlie. E sono convinta che ogni sera dentro la sua cella fa i conti con la propria coscienza, perché sa cosa abbiamo passato e stiamo passando noi figlie senza di lui. Purtroppo ad oggi la sua condanna è a vita e io non riesco ad accettare questo. A Padova è stata la prima volta nella mia vita, che vicino a mio padre ho conosciuto persone premurose, umili e rispettose. Ho vissuto, insieme a questi volontari, momenti ed emozioni indimenticabili senza sentirmi mai giudicata o condannata anche io come figlia di un carcerato, mentre il resto della società l’ha sempre fatto. Loro sono riusciti a fare uscire qualcosa di davvero bello e buono da questi uomini ombra. L’aspetto che più mi ha colpito da subito e che tuttora mi lascia stupita, è la loro determinazione nel voler accompagnare le persone detenute a mettere in discussione i loro pensieri e la personalità, facendogli capire cos’è la vita nella legalità. Questo, in particolare, grazie al progetto di confronto tra le scuole e il carcere, dove le dure domande degli studenti hanno fatto riflettere questi uomini, i quali hanno dato dei consigli, o meglio indicato delle lezioni di vita, per non cadere in strade sbagliate, che ti portano a rischiare di finire male. E per me questo è il vero cambiamento, perché lo vedo in mio padre, oltre che nei suoi occhi, anche nei suoi atteggiamenti. Spero che le istituzioni possano crederci e dargli una possibilità per dimostrarlo anche a loro, per vivere una seconda vita. A causa dell’ergastolo ostativo però noi figli non abbiamo più la speranza che gli uomini come mio padre possano uscire, anche se sono persone completamente cambiate. Mi auguro con tutta me stessa che mio padre possa finalmente tornare a casa per fargli ritrovare a Natale il regalo che ogni anno, in questi lunghissimi 25 anni, ho messo sotto l’albero per lui! Francesca Ho deciso di dimenticare tutti i Natali passati e futuri, a Natale non voglio esserci Mi chiamo Bruno, sono in carcere da tanti anni. Quei pochi Natali che ho trascorso insieme alla mia famiglia li ricordo tutti perfettamente, in questi anni li ho rivisitati scansionati e rielaborati. Li ho rivissuti attimo per attimo. Fino a qualche anno fa sognavo come sarebbe stato il prossimo Natale con la mia famiglia, soprattutto con i miei nipoti e nipotini che adoro nel vero senso della parola, ma li conosco così poco… Ora ho deciso di dimenticare tutti i Natali passati e futuri, di non farmi altro male, ma di non farne soprattutto alla mia famiglia. Perciò a Natale non voglio esserci, nel senso più profondo del termine. Per questo Natale vorrei che la mia famiglia, e tutte le persone che mi sono care con le quali a Natale mi stringerei, possano essere felici e viverlo con gioia almeno loro, possibilmente allontanando la tristezza della mia assenza, dimenticandomi quel giorno. Io chiedo solo tanta felicità e tanta gioia per loro. Questo, forse, sarà il mio Natale più bello. Bruno Turci Serve un cambiamento forte nel modo di considerare i nostri affetti Sono ventidue i Natali che ho trascorso nelle carceri, a volte mi assale il senso di solitudine, lo sconforto di stare lontano dalla mia famiglia. Lo sconforto nasce non tanto dal fatto di restare solo, chiuso in una fredda cella, ma per il fatto di sapere che in quel giorno qualcuno dei miei guarderà quel posto vuoto accanto a sé, e soffrirà della mia stessa solitudine. È per questo che vorrei rivolgermi al Presidente della Repubblica, al Ministro della Giustizia, al Papa, per chiedere con forza un cambiamento nella cura dei rapporti con le famiglie, quelle famiglie che spesso sono a loro volta vittime nostre, dei loro stessi famigliari. La mia famiglia vive in Ungheria e io non ho la possibilità di fare frequenti colloqui, ma dopo tante richieste la direzione finalmente mi ha dato l’opportunità di fare alcuni colloqui in videochiamata Skype per vedere i miei cari: la tecnologia aiuta a ricongiungere la famiglia, anche per quelle persone che sono distanti e disagiate. Ma troppo spesso le regole dell’amministrazione penitenziaria sono carenti di sensibilità verso i familiari, il diritto di amare il proprio congiunto viene ignorato o messo in secondo piano, o viene gestito con quelle stesse dure regole con cui viene spesso trattata la persona detenuta. Eppure basterebbe un poco di sensibilità, basterebbe immedesimarsi nella persona che nei giorni di festa guarda sempre un posto vuoto a tavola per capire la sofferenza che potrebbe portare nel cuore una moglie, una madre, un figlio di una persona detenuta. La mia lettera l’ho scritta per chiedere un cambiamento forte nel modo di considerare gli affetti delle persone private della libertà, nella tutela di tutti i familiari che, malgrado già abbiano subito quella umiliazione di trovarsi con una persona cara in carcere, sono costretti a subire anche l’ingiustizia di vedere ignorato il diritto all’affetto. Perché il sistema carcerario a volte è distante dai problemi che affliggono le famiglie, non tanto perché non vuole riconoscere un diritto, quanto piuttosto perché è semplicemente assente, distratto, lontano. Eppure, se si guardasse con attenzione alla condizione di mogli, figli, madri, padri delle persone detenute, ci si accorgerebbe che ci sono tante piccole cose, piccole umiliazioni, indifferenza, che causano tanta sofferenza, e a volte basterebbe un po’ di sensibilità in più, un po’ di attenzione per salvare quei rapporti familiari, che con il tempo si deteriorano sempre di più. Auguri di Buon Natale per tutte le persone che vivono in solitudine, per le persone anziane, per tutti coloro che vivono negli ospedali, per tutti i bambini del mondo. Agostino Lentini, ergastolano Mi manca il coraggio per dire a mia figlia anche questo Natale di non aspettarmi Mi chiamo Gaetano, sono in carcere da tanti anni, dagli anni 90, uscii per qualche mese nel 1999 e mi sposai, qualche mese dopo diventarono definitive le condanne e mi presentai al carcere per scontare la mia pena. Ne ho già scontati circa 23, di anni. Per Natale mi piacerebbe ricevere tante belle cose, ma c’è una cosa che desidero soprattutto, di fronte alla quale tutti gli altri desideri diventano superflui, inutili, e ci rinuncerei senza esitazione per questo sogno che si perpetua da anni. Vorrei poter stare insieme a mia figlia il giorno di Natale a casa nostra dove lei è nata. Mia figlia è nata dopo il mio arresto, io scelsi di consegnarmi alla giustizia proprio per lei. Per lei decisi di chiudere con quel passato ormai lontano. Da qualche tempo posso usufruire di permessi premio e ho potuto incontrare mia figlia e mia moglie in una struttura di accoglienza controllata. Mia figlia, tuttavia, sogna di vedermi tornare a casa. Anni fa quando mi trovavo sottoposto al regime di detenzione duro del 41 bis, mia figlia rimase traumatizzata e non riuscì più a varcare la soglia del carcere per stare con me. Speravo che crescendo riuscisse a superare questo trauma, ma la struttura controllata assomiglia molto a un carcere e lei non riesce più a stare lì anche se ci siamo io e sua madre. Io sento tutto il peso di questa colpa per aver fatto vivere a mia figlia questo dramma. Mi rendo conto che lei, per causa mia, sta espiando una pena più dura della mia. L’ultima volta che mi furono concessi tre giorni di permesso a novembre lei mi disse che soffriva a stare in un luogo così privo di intimità, che assomigliava tanto al carcere poiché non potevo uscire dalla struttura, perciò lei non poteva camminare per la strada con me, stretta al mio braccio. Mi disse che lei, fin da piccolina, sognava il giorno che sarei tornato a casa nostra e lei sarebbe stata lì sulla porta di casa ad aspettarmi. Aggiunse che questo Natale mi avrebbe aspettato sulla porta di casa, come aveva fatto tutti i giorni di Natale della sua infanzia, perché non abbiamo mai potuto stare insieme a Natale. Questa promessa non me la sentii di farla, tra qualche giorno telefonerò a casa e non so dove trovare il coraggio per dirle anche questo Natale… di non aspettarmi. Gaetano Fiandaca, ergastolano Vorrei rivedere mio fratello, anche lui detenuto come me Mi chiamo Antonio Papalia, sono un ergastolano in carcere da 25 anni e mezzo. Mi rivolgo a voi per chiedervi, in questo periodo delle Sante Feste, di farmi la grazia di poter abbracciare mio fratello Domenico, detenuto nel carcere di Oristano, che non vedo da vent’anni. Tempo addietro il magistrato di Sorveglianza di Sassari aveva accolto l’istanza presentata da mio fratello, per essere trasferito per un breve periodo di tempo nel carcere di Padova, per poter fare qualche colloquio con il sottoscritto. Sembrava cosa fatta, ed aspettavo con ansia di poterlo incontrare ed abbracciarlo, ma così non è stato in quanto l’Amministrazione Penitenziaria, tramite l’ufficio matricola del carcere di Oristano, ha notificato a mio fratello che non intende eseguire l’ordinanza emessa dal magistrato di Sorveglianza che qui di seguito riporto: “Oggetto: comunicazione redatta in data 16-08-2017 nei confronti di Papalia Domenico nato in Platì (Rc) il 18-04-1945. Si comunica che con riferimento all’ordinanza del Magistrato di Sorveglianza n° 2017/2375 SIUS del 12-07-2016, i superiori Uffici Dipartimentali con nota n° Gdap 0259812 del 09-08-2017, hanno valutato di non dare esecuzione alla richiesta del Magistrato di Sorveglianza con l’ordinanza in questione, per motivi ostativi”. Mi domando se tutto ciò sia giusto, mio fratello non ha chiesto la libertà ma solo di poter incontrare un proprio congiunto che non vede da due decenni. Penso che sia un mio diritto incontrare un mio familiare, anche se entrambi siamo in carcere. Pertanto mi rivolgo alle S.V. Ill.me affinché si adoperino per concedermi di poter abbracciare mio fratello. Colgo l’occasione per porgere i miei più sentiti auguri di buon Natale e felice anno nuovo. Antonio Papalia, ergastolano Caro Papa Francesco, aiutaci ad avere un futuro Il nostro è un Natale in bianco e nero, senza luci colorate nei corridoi del carcere. Qui manca quel tocco di magia che farebbe sorridere anche le persone recluse, è sempre triste il Natale lontano dalle persone che si amano, non esiste un pensiero di felicità. Tutto scorre come se nulla fosse, c’è una forma di rassegnazione, le sezioni dei detenuti sono spoglie e dalle finestre sbarrate non entra nessuna luce particolare se non quella solita delle giornate invernali. In questo periodo di feste la persona reclusa accende la sua memoria per arrivare ad un ricordo di quando si sedeva a tavola con la famiglia, ma poi finisce che dobbiamo sopprimere certe emozioni per non cadere nella trappola della nostalgia. Il bianco e nero del Natale per chi deve scontare la sua pena, e per chi come me ha una pena senza fine, significa anche lasciare al di là del muro di cinta le speranze tipiche di chi attende un giorno migliore. Per noi non ci saranno giorni migliori. Chi è più fortunato riesce almeno a fare il suo colloquio di poche ore che scorrono rapide come una valanga in caduta libera, chi invece si trova fuori dalla propria regione si fa forza nel sentire la famiglia al telefono per dieci minuti alla settimana. Alla fine ognuno il Natale un po’ lo aspetta ugualmente, ma poi alla fine quando arriva senti il peso del momento perché sai che farai il tuo pranzo nel solito piatto di plastica, con le posate di plastica e il bicchiere usa e getta. Quando cadono queste ricorrenze cosi sentite nella sezione di Alta Sicurezza in cui mi trovo, con tante persone condannate all’ergastolo, si vedono quei volti e corpi svuotati dal tempo, dietro un sorriso spento perché il detenuto pensa anche alla sua pena con la consapevolezza di pagare il suo debito per il male fatto. È sempre cosi il Natale in carcere, qualcuno si ricorda che ci sono dei corpi che camminano nei corridoi, c’è sempre la brava persona che magari si sofferma per stringerti la mano con buona educazione senza pensare al tuo reato, magari si manda qualche cartolina e si riceve una lettera. Ma il resto rimane immobile, perché in carcere non cambia quasi nulla, la vita qui dentro fa sempre lo stesso tragitto breve, dalla tua cella al passeggio per qualche ora d’aria. Quello che non possiamo certo dimenticare è che non ci sarà mai un futuro per chi deve scontare un ergastolo. Oggi però voglio sognare che Papa Francesco convinca tutti che l’ergastolo è una pena davvero priva di qualsiasi umanità. Giovanni Zito, ergastolano Ma come fanno i miei compagni ergastolani a vivere senza speranza? Sono un detenuto della Casa di reclusione di Padova Due Palazzi. Quando mi hanno arrestato avevo 21 anni e ho trascorso la prima parte della mia carcerazione in carceri diverse, fino a quando sono arrivato a Padova. Nella sezione dove io vivo sono circondato da tanti altri detenuti con pene alte, ma soprattutto ergastolani. Ad alcuni di loro in particolare io sono molto legato e tante volte passiamo del tempo insieme. Quando viene l’orario di chiuderci ognuno nella propria cella, spesso penso a come fanno queste persone a vivere ogni giorno senza speranza. E anche se hanno trascorso quasi 30 anni di carcerazione in varie carceri d’Italia, per il loro futuro non si sa ancora niente. Queste persone quando hanno commesso i loro errori avevano poco più di vent’anni, dopo 20-30 anni di carcere una persona cambia. Cambia mentalità, cambia modo di affrontare la vita. Però se non viene data loro nessuna possibilità di fare vedere a tutta la società che loro sono cambiati, che senso ha questa pena? allora questa è una pena di morte nascosta, come tante volte l’ha definita anche papa Francesco. E secondo me non è giusto che in Italia esista ancora questa pena crudele, che in quasi tutti i paesi europei civilizzati non esiste più. Io per fortuna non ho questa pena, però vedo nei loro volti ogni giorno che cosa significa sapere che non verrai mai messo in liberta e che devi morire in carcere. Vorrei fare i miei auguri di Natale al Presidente della Repubblica italiana e vorrei chiedere un regalo di Natale non per me, perché io tra 2-3 anni verrò rimesso in libertà come una persona diversa da prima, perché qui sto facendo un percorso di reinserimento con gli studi universitari e partecipo anche al lavoro della redazione di Ristretti Orizzonti, però il regalo lo vorrei per queste persone che vivono ogni giorno senza speranza. Vi chiedo come istituzioni di cambiare questa pena in modo che queste persone abbiano un motivo per fare un percorso di reinserimento dentro al carcere, e che un giorno venga data a tutti la possibilità di essere liberi. I mei profondi ringraziamenti e auguri di un sereno Natale a tutti. Armend Squarci di luce che illuminano gli angoli bui delle carceri di Agnese Moro La Stampa, 24 dicembre 2017 Le feste ebree e cristiane della seconda metà di dicembre, al di là degli specifici contenuti religiosi e di fede, richiamano la nostra attenzione sul continuo confronto tra luce e tenebra che il progressivo abbreviarsi delle giornate mette sotto i nostri occhi. Allargandosi dall’ambiente fisico, a quello sociale ed esistenziale. Le tenebre dentro di noi e intorno a noi infatti non mancano. Come non mancano coloro che provano a squarciarle per far passare un poco di luce, anche nei luoghi più oscuri e inaccessibili. E’ uno dei tanti modi con cui si può descrivere il senso di ciò che fanno coloro di cui questa rubrica si sforza di parlare. Tra questa moltitudine di persone oggi vorrei ricordare coloro che, in tanti modi diversi, provano a illuminare quei luoghi davvero bui che sono le nostre carceri. Ancora più bui in questi giorni che chiamano vicinanza e affetti, ai quali quei luoghi riservano pochissimo spazio. Per farlo prenderei a prestito l’esperienza di Ristretti Orizzonti, attiva nel carcere Due Palazzi di Padova e non solo, che celebra in questi giorni i 20 anni di attività. C’è il buio della invisibilità del carcere per chi non ci vive, lavora, va a trovare qualcuno o vi svolge un’attività di volontariato. I muri che impediscono ai detenuti di uscire, impediscono anche a chi sta fuori di vedere, di sapere. C’è poi il buio delle coscienze dei colpevoli che non hanno ancora capito le proprie responsabilità; e quello di coloro che le hanno capite e che non possono cambiare ciò che è stato. C’è il buio della disperazione di chi ha subito lunghe condanne, e quella dei loro incolpevoli familiari. C’è il buio del pregiudizio di chi sta fuori che “nessuno cambia davvero”. O quello ancora più insidioso “io non sono come loro”. C’è il buio di chi sta lì innocente e spera che qualcuno si accorga di lui. La luce portata da Ristretti Orizzonti ha avuto la forma della rottura dell’isolamento e dell’ignoranza, con continue iniziative di comunicazione dall’interno all’esterno e viceversa, con il sito internet (ristretti.org), la rivista, i convegni con il coinvolgimento di tecnici, familiari e vittime, e, soprattutto, con gli incontri dentro e fuori del carcere tra i detenuti e i ragazzi delle scuole che tanti frutti ha portato per entrambi. Guidata dalla intelligente, cocciuta e umile speranza di quelli di Ristretti Orizzonti che tutto possa cambiare. Ordinamento penitenziario, il lungo cammino dell’attesa riforma di Patrizio Gonnella Il Manifesto, 24 dicembre 2017 Con il varo dei decreti delegati si è concluso un percorso iniziato nel 2013. Ma c’è ancora molto da fare. In extremis, il governo ha approvato le nuove norme penitenziarie. La riforma è quasi arrivata al traguardo a quarantadue anni dall’entrata in vigore dell’ordinamento penitenziario che a sua volta sostituiva il regolamento fascista del 1931 (fondato sugli assiomi del lavoro obbligatorio, del silenzio e della preghiera) e a quattro anni abbondanti dalla condanna umiliante della Corte europea dei diritti umani per le condizioni degradate di vita e i diritti negati nelle nostre carceri. Le Commissioni Giustizia delle due Camere hanno a disposizione, anche nel caso di scioglimento delle stesse, quarantacinque giorni per esprimere un parere sulla conformità dei decreti alla legge delega. La riforma è esito di un percorso lungo, articolato, importante che merita di essere riassunto seppur in poche righe. Molti sono i protagonisti di questo processo. Era il 2009 quando l’Italia fu condannata dalla Corte di Strasburgo nel caso Sulejmanovic per violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea sui diritti umani del 1950 che proibisce la tortura e i trattamenti inumani e degradanti. Il detenuto era costretto a vivere in uno spazio troppo ristretto - meno di tre metri quadri - per un periodo di tempo significativo. Inoltre mancava nel nostro ordinamento un meccanismo di tutela giurisdizionale effettiva nel caso di violazione dei diritti del recluso. Nel frattempo il numero di detenuti cresce a dismisura, fino a quasi 68 mila unità alla fine del 2010. Il sovraffollamento raggiunge il tasso drammatico del 170%, ossia cento posti per centosettanta detenuti. Il Governo Berlusconi dichiara addirittura lo stato di emergenza nazionale prodotto dal sovraffollamento, come se fosse una catastrofe naturale e non invece l’esito di tre legge malefiche, ossia la Bossi-Fini sull’immigrazione, la Fini-Giovanardi sulle droghe, la ex Cirielli sulla recidiva. In quel periodo, Antigone organizza, direttamente o indirettamente, una vera e propria class action. Più di mille detenuti sono aiutati a presentare ricorso alla Corte europea. Altri tremila si muovono per altre vie. Sino al 2013 non accade nulla, tanto da costringere i giudici europei a emettere una sentenza di condanna “pilota”, che riconosce il carattere sistemico delle violazioni riscontrate. A gennaio 2013 l’Italia è condannata all’unanimità nel caso Torreggiani. La decisione è confermata dalla Grand Chambre a maggio 2013. Nelle prigioni italiane la gente reclusa è ordinariamente maltrattata. È a questo punto che parte un processo riformatore. Non era scontato che avvenisse. Della giustizia internazionale c’è chi come il Regno Unito ha deciso di fare carta straccia. La neo-nominata ministra della Giustizia Anna Maria Cancellieri nomina due commissioni. Quella presieduta da Mauro Palma elabora una serie di proposte che mirano a stravolgere in meglio la vita dentro le galere: si scrive che essere detenuto non significa essere costretto a stare ventidue ore in una cella (spesso stretta, affollata e malmessa). L’altra commissione, con finalità di revisione normativa, è presieduta dal professore Glauco Giostra. Ovviamente le resistenze sono molte. A lavorare per superarle l’instancabile Marco Pannella con il suo mondo Radicale e l’allora capo dello Stato Giorgio Napolitano che invia su questo tema un messaggio alle Camere, l’unico nei suoi nove anni presidenziali. Tra la fine del 2013 e il 2015 vengono approvate norme importanti in materia di liberazione anticipata, misure alternative, custodia cautelare, rimedi giurisdizionali, rimedi risarcitori, istituzione di autorità di garanzia alla quale è nominato proprio Mauro Palma. La Corte Costituzionale, nel frattempo, cancella pezzi significativi della legge Fini-Giovanardi sulle droghe. Alla Giustizia arriva il ministro Andrea Orlando che ha un’intuizione importante: istituisce gli Stati generali sull’esecuzione della pena. Diciotto tavoli con la partecipazione di operatori penitenziari, accademici, esperti, componenti di associazioni. Duecento persone a lavorare per proporre radicali cambiamenti normativi e operativi nella vita penitenziaria. A fine 2015 i detenuti sono 52mila circa, ossia 16mila in meno rispetto a due anni prima. Un risultato notevole ottenuto senza far uso di provvedimenti di clemenza. A maggio 2016 gli Stati generali concludono i loro lavori alla presenza del capo dello Stato nel carcere romano di Rebibbia. Il clima politico e culturale inizia però a deteriorarsi. La riforma penitenziaria va a finire in un grande contenitore dove ci sono anche norme di classica ispirazione securitaria, come l’aumento di pene per i furti. A giugno 2017 la legge penitenziaria passa in via definitiva. È una legge delega. Alcuni punti (quali ad esempio diritti dei detenuti stranieri, libertà di culto, diritti delle donne, nuove regole per i minori) sono il frutto di uno specifico lavoro di advocacy che Antigone ha svolto con i componenti delle commissioni Giustizia di Camera e Senato. A luglio il ministro Orlando nomina tre commissioni per elaborare i decreti. A coordinare i lavori viene richiamato Glauco Giostra. Un ampio gruppo di esperti coordinato da Antigone elabora proposte alternative avendo contezza che nelle commissioni ci sono molte anime, alcune delle quali conservatrici. Forte è la pressione della radicale Rita Bernardini per far sì che i lavori si accelerino. Siamo al dunque. I decreti per riformare l’ordinamento penitenziario per adulti, per istituirne uno per minori, in materia di misure di sicurezza, di misure alternative e sulla giustizia riparativa hanno preso forma. Non ne conosciamo ancora i contenuti. Essendo un articolato lungo e complesso, va analizzato norma per norma. Quello che vorremmo, affinché non possa considerarsi un’aspettativa delusa, è un grande rilancio delle misure alternative (di buon auspicio la previsione nella legge di stabilità dell’assunzione di circa trecento assistenti sociali) togliendo paletti e preclusioni, il superamento dell’ergastolo ostativo, una forte liberalizzazione della vita carceraria improntata troppo spesso alla vessatorietà inutile, l’intensificazione dei rapporti tra i detenuti e il mondo esterno anche attraverso la tecnologia, il riconoscimento del diritto alla sessualità, l’abolizione delle misure di sicurezza detentive, un ordinamento penitenziario per gli istituti per i minori improntato a una logica esclusivamente pedagogica nonché mille altre cose di buon senso come l’attenuazione del modello disciplinare. Il detenuto non è un oggetto nelle mani dei suoi custodi. Per questo motivo è previsto nella legge delega che il regime di vita nelle carceri debba sempre essere rispettoso della dignità della persona. È questo un cambio di paradigma che forse non travolgerà lo spirito correzionalista della legge penitenziaria del 1975 ma potrebbe fungere da limite a tentazioni di abusi, arbitrii, maltrattamenti. Nel nome della dignità ad esempio va radicalmente ridotto l’impatto dell’isolamento per gli adulti e ancor di più per i ragazzi. L’isolamento fa male alla salute fisica e a quella psichica. La dignità umana è non degradazione dell’uomo a cosa. È fondamento di tutti i diritti. Il 2017 è stato un anno odioso per i diritti umani. Sono stati sdoganati razzismo e intolleranza. In questo clima arriva la riforma penitenziaria. I detenuti sono risaliti fino a 58 mila unità. Il sovraffollamento si è riproposto come tema pubblico. Taluni sindacati autonomi di Polizia penitenziaria hanno iniziato a contestare riforme di buon senso come la sorveglianza dinamica, ossia il fatto che il detenuto non debba stare chiuso in cella tutto il giorno come un animale in gabbia. Va dato atto al ministro della Giustizia Orlando di avere resistito alla platea giustizialista. Ora si tratterà di vedere cosa è scritto nelle norme, ossia se trattasi di una piccola o di una grande riforma. Non sarà facile nei prossimi anni avviare un altro percorso riformatore. Quello iniziato nel 2013 si è concluso. Speriamo bene e auguri per un 2018 con meno sbarre e più dignità. Cambia il carcere ora cambiamo anche lo sguardo di Paolo Borgna Avvenire, 24 dicembre 2017 Ogni tanto, anche dalla politica, giungono buone notizie. I decreti legislativi di riforma dell’ordinamento penitenziario emanati dal governo sono un’ottima notizia. Siamo di fronte a un importante aggiornamento dei principi della legge penitenziaria del 1975, operato sulla scia della giurisprudenza costituzionale ed europea. Riforma attesa e giusta, da far capire e far funzionare. I decreti legislativi di riforma dell’ordinamento penitenziario emanati dal Consiglio dei ministri, in forza della delega del giugno scorso, sono un’ottima notizia. La riforma accoglie, su quasi tutti i punti, un intenso lavoro preparatorio, portato a termine in pochi mesi dalla Commissione presieduta, con grande capacità di composizione, dal professor Glauco Giostra; attingendo all’elaborazione culturale degli “Stati generali dell’esecuzione penale” voluti dal ministro Orlando nel 2015 e formati da giuristi, operatori penitenziari, professori, rappresentanti di associazioni e ministri di culto. Siamo di fronte a un importante aggiornamento dei princìpi della legge penitenziaria del 1975, operato sulla scia della giurisprudenza costituzionale ed europea, della evoluzione del costume e del mutamento della popolazione carceraria (basti pensare che, nel 1975, gli stranieri presenti nelle carceri italiane erano l’1%, mentre oggi sono il 33%). Sono i principi della nostra Costituzione, che indicando, come finalità della pena, la “rieducazione del condannato”, bandisce tutti i “trattamenti contrari al senso di umanità” (art. 27, comma 3) e “ogni violenza fisica e morale sulle persone sottoposte a restrizione di libertà” (art. 13, comma 4). Sono i principi che, nella Carta del 1948, segnarono il felice incontro tra lo spirito d’umanità dell’Illuminismo (la “dolcezza della pena” raccomandata dal Beccaria) e il senso di fraterna solidarietà che scriveva Calamandrei - “è l’immenso dono fatto dal Cristianesimo alla civiltà”. Sono i princìpi che noi troviamo realizzati nel quotidiano comportamento di tanti operatori e volontari del carcere, che ci insegnano che dignità e rispetto di ogni persona vanno pensate e difese ogni giorno, soprattutto quando riguardano un uomo o una donna privati della libertà. Perché l’offesa a questa dignità ci riguarda sempre: anche se distante da noi. E quando si smarrisce questo sentimento di reciprocità umana, di uguale e insopprimibile dignità di ogni persona, anche le virtù civiche, come l’amore per la legalità, possono generare mostri. Sono i princìpi che avevano ispirato l’ordinamento penitenziario del 1975: che aveva definitivamente affermato che, oltre alla perdita della libertà personale, il detenuto non può essere privato di altri diritti e dunque deve poter mantenere il più possibile i legami con la società, a cominciare dalla famiglia; non deve perdere il diritto alla speranza; deve poter studiare e, volendo, imparare un lavoro. Questi princìpi, la riforma varata ieri li ha rinverditi, rafforzati e meglio ancorati a una normativa pazientemente studiata e calibrata: superando troppo rigide presunzioni legali di irrecuperabilità sociale per gli autori di reati gravi; rendendo più facili i colloqui, anche pervia telematica (soprattutto per gli stranieri che spesso non hanno familiari m Italia) ; facilitando la possibilità di comunicare e di accedere alle informazioni; prevedendo un nuovo permesso per ragioni familiari di particolare rilevanza; tutelando meglio le detenute donne e madri; favorendo le attività riparative in favore della vittima del reato; rendendo più facile il dialogo con i ministri di culto e più organico il ruolo dei mediatori culturali. Allo stesso tempo, la riforma ha accentuato la possibilità di accedere a pene extra murarie e alle cosiddette “misure di comunità”, anche diminuendo i tempi di decisione della magistratura. Affiancando però a queste misure alternative una maggiore responsabilizzazione del condannato, un arricchimento delle prescrizioni che le devono accompagnare e modulando meglio i controlli sulla loro osservanza. Il governo non ha invece esercitato la delega sul punto della Legge che - in sintonia con altre legislazioni europee - prevedeva il “riconoscimento del diritto all’affettività delle persone detenute”. È un punto delicato, al cui accoglimento ostavano problemi di varia natura (anche di edilizia carceraria), su cui si dovrà tornare con tempi più lunghi, non infinitamente dilazionabili. L’intera riforma è sorretta da un’idea di fondo: un carcere che rinuncia a educare, che isola completamente il detenuto dal mondo esterno, non crea maggiore sicurezza ma alimenta rancori profondi che, alla lunga, generano maggiore devianza, odio, radicalizzazioni sociali (nutrite anche da strumentalizzazione della religione). Spiegare questo ai cittadini che, giustamente, chiedono maggiore sicurezza, è in questo momento storico impresa difficile ma non impossibile. Un’impresa che presuppone una forte attitudine di leadership: la capacità di ascoltare le diverse esigenze e richieste dei cittadini, di coniugarle in una mediazione superiore e di dare a esse risposte ponderate ed effettive, senza andare a rimorchio dello “spirito del tempo” ma essendo capace di spiegare e convincere. Il fatto che la politica abbia, oggi, affrontato questa sfida - cercando, su questo difficile terreno, un ruolo di guida e informazione degli elettori - è un buon segnale. Appunto: una buona notizia che ci viene dalla politica. Carcere, si cambia: il consiglio dei ministri avvia la riforma Orlando di Teresa Valiani Redattore Sociale, 24 dicembre 2017 Approvati i decreti delegati. In primo piano: misure alternative, riforma dell’assistenza sanitaria, semplificazione dei procedimenti, eliminazione di automatismi e preclusioni, volontariato e vita penitenziaria. Restano al palo affettività e lavoro. Prospettive incerte per minori, giustizia riparativa e misure di sicurezza. Meno carcere e incremento delle misure di comunità “che senza indebolire la sicurezza della collettività, riportano al centro del sistema la finalità rieducativa della pena” indicata dalla Costituzione che impone di sottoporre il condannato ad un programma individualizzato, eliminando preclusioni all’accesso dei benefici sulla base della tipologia di reato. Riorganizzazione delle attività negli uffici del settore penitenziario per restituire efficienza al sistema, riducendo i tempi dei procedimenti e risparmiando sui costi. Diminuzione del sovraffollamento, “sia assegnando formalmente la priorità del sistema penitenziario italiano alle misure alternative al carcere, sia potenziando il trattamento del detenuto e il suo reinserimento sociale in modo da arginare il fenomeno della recidiva. Valorizzazione del ruolo della Polizia Penitenziaria, ampliando lo spettro delle sue competenze”. Sono questi i principi fondanti dello schema di decreto legislativo di riforma dell’ordinamento penitenziario elaborato dal ministro della Giustizia, Andrea Orlando, e approvato ieri, in esame preliminare, dal Consiglio dei Ministri. Un’approvazione arrivata nell’ultimo momento utile, mentre all’interno degli istituti di pena italiani il sovraffollamento ha ricominciato a mordere con 58.115 detenuti presenti, rispetto ai 50.511 previsti dalla capienza regolamentare. Un provvedimento che dimostra la forte volontà nel portare a termine il complesso lavoro di riforma, avviato 3 anni fa con gli Stati generali sull’esecuzione penale promossi dallo stesso Guardasigilli, e che tende a restituire dignità all’esecuzione penale italiana, assicurando, al tempo stesso, maggiore sicurezza al Paese. Un risultato commentato positivamente e che si propone di cambiare il volto del sistema carcere italiano, nel recente passato al centro anche di sanzioni europee. “Il provvedimento - si legge in una nota del Ministero -, redatto avvalendosi dei lavori della commissione istituita dal ministro Orlando nel luglio 2017 e presieduta dal prof. Glauco Giostra (presidente della Commissione per la riforma dell’ordinamento penitenziario e coordinatore dei lavori delle altre due commissioni, n.d.r.) si inserisce nel più ampio programma sotteso alla riforma della materia penale ed è volto principalmente a rendere più attuale l’ordinamento penitenziario previsto dalla riforma del 1975, per adeguarlo ai successivi orientamenti della giurisprudenza di Corte Costituzionale, Corte di Cassazione e Corti europee”. “Lo schema di decreto legislativo è suddiviso in 6 parti - spiega la nota -, corrispondenti ad altrettanti capi, dedicate alla riforma dell’assistenza sanitaria, alla semplificazione dei procedimenti, alla eliminazione di automatismi e preclusioni nel trattamento penitenziario, alle misure alternative, al volontariato e alla vita penitenziaria”. Restano fuori dal documento approvato le proposte in tema di lavoro penitenziario (programma rimasto al palo per mancanza di risorse economiche) e di affettività. Appare di esito politico incerto la sorte della proposta delle altre due commissioni: quella su minori e giustizia riparativa, e quella sulle misure di sicurezza. Anche se, per quanto riguarda i minori e la giustizia riparativa, gli addetti ai lavori confidano nel fatto che una volta incardinata la riforma penitenziaria, le relative proposte possano essere veicolate dagli altri decreti in itinere e vedere finalmente la luce. Quello che si registra, dunque, è un risultato parziale, ma pur sempre molto significativo, sia per il periodo storico che per l’importanza che riveste per migliaia di persone e per la sicurezza di tutto il Paese. I commenti. “È un lavoro durato molti anni e del quale sono orgoglioso - ha commentato a caldo il ministro della Giustizia, Andrea Orlando - Questa per me è una giornata molto importante”. “Esprimo sincera soddisfazione per l’esercizio da parte del Governo della delega in materia penitenziaria - dichiara Marcello Bortolato, presidente del tribunale di Sorveglianza di Firenze e componente della Commissione Giostra, quella che ha lavorato sulla riforma dell’ordinamento penitenziario -, auspicando che l’approvazione dei decreti attuativi, primo intervento organico a quarant’anni dalla riforma del 1975, costituisca l’inizio di una nuova stagione per l’affermazione dei diritti in carcere e per l’effettiva realizzazione del principio costituzionale del finalismo rieducativo della pena. In attesa di esaminarne il contenuto e valutarne l’impatto sugli uffici di sorveglianza, auspico una rapida conclusione dell’iter di definitiva emanazione, pur nell’ormai prossima conclusione della legislatura, per restituire al sistema nel suo complesso garanzie, dinamismo ed efficacia”. Soddisfazione anche dal garante nazionale dei diritti dei detenuti e delle persone private della libertà personale, Mauro Palma. “Si tratta di un passo importante - sottolinea il Garante - che riguarda la vita detentiva, l’accesso alle misure alternative, con la semplificazione di molte procedure, e l’introduzione di percorsi di giustizia riparativa”. “Il Garante - si legge in una nota del suo ufficio - auspica che le modifiche introdotte, fortemente volute dal ministro Orlando e definite attraverso un’ampia consultazione, trovino al più presto una concreta attuazione”. Ferranti (Pd): nessun automatismo su esclusione carcere per condanne fino a 4 anni Adnkronos, 24 dicembre 2017 Con l’approvazione del decreto Orlando da parte del Consiglio dei ministri di ieri va avanti l’attuazione della riforma dell’ordinamento penitenziario voluta dalle Camere, attesa da anni, ora le commissioni competenti dovranno dare il proprio parere”. Lo afferma la presidente della commissione Giustizia della Camera, Donatella Ferranti. “Purtroppo - aggiunge - un provvedimento così complesso viene strumentalizzato e ridotto ad una barzelletta da alcuni esponenti politici. Non esiste nessun automatismo che preveda l’esclusione dal carcere per chi è condannato ad una pena inferiore ai quattro anni. Questa è una totale stupidaggine. E ricordo che siamo stati noi, a proposito di severità nei confronti di chi commette un crimine, a volere l’innalzamento delle pene minime per i reati di allarme sociale come furti in abitazione o rapine, proprio per garantire pene certe e rigorose ai responsabili. Il Pd, inoltre, ha voluto prevedere nella legge di bilancio l’assunzione di ben 300 nuovi assistenti sociali che andranno a rafforzare gli uffici Uepe che dovranno proprio occuparsi dell’affidamento in prova”. Orlando “libera” i ladri ma condanna i reati d’odio di Luca Fazzo Il Giornale, 24 dicembre 2017 La riforma del Guardasigilli azzera le pene inferiori ai 4 anni: niente più carcere per truffatori e spacciatori. Da una parte l’onda inarrestabile dei furti, delle rapine, dei “reati predatori” che popolano le paure degli italiani; dall’altro l’allarme sulla presunta recrudescenza razzista e neofascista. Messo di fronte questi due pericoli, il ministro della Giustizia Andrea Orlando sceglie di dare risposte diverse, che la dicono lunga su quale consideri la vera emergenza: la seconda, quella dei cosiddetti “reati d’odio”. Così precetta i magistrati italiani, ordinando corsi accelerati di severità verso questi reati. Mentre ieri sera porta in Consiglio dei ministri e fa approvare la riforma che apre le porte al trattamento morbido dei reati da strada: d’ora in avanti, chi viene condannato con pene fino a quattro anni non passerà più per il carcere, e potrà accedere direttamente ai percorsi di riabilitazione. La novità sta nel testo del decreto di riforma dell’ordinamento penitenziario, che è stato approvato ieri dal governo e dovrà affrontare ora i pareri delle commissioni giustizia delle due Camere. Ma il percorso è già segnato nel comma 85 della legge delega del giugno scorso: “Prevedendo che il limite di pena che impone la sospensione dell’ordine di esecuzione sia fissato in ogni caso a quattro anni”. Significa che anche una condanna definitiva a tre anni e undici mesi non verrà espiata, e il colpevole rimarrà libero in attesa dell’affidamento in prova: in questo tetto rischiano di ricadere la grande maggioranza dei condannati per reati contro il patrimonio dei cittadini, da chi truffa le vecchiette a chi scippa, a chi irrompe di notte nelle ville. È una riforma che Orlando ha portato avanti tenacemente con l’obiettivo dichiarato di utilizzare sempre meno lo “strumento carcere” e di facilitare il ricorso alle pene alternative, come la semilibertà e l’affidamento ai servizi sociali. Orlando ha scelto anche di sfidare l’impopolarità che potrebbe derivargli da misure che vanno a beneficiare i responsabili della “paura diffusa” che secondo l’ultimo rapporto Istat “Delitti, imputati e vittime dei reati” colpisce trasversalmente gli italiani di ogni grado di cultura. È una paura cui lo stesso rapporto riconosce di essere basata su dati di fatto, ovvero la crescita costante tra il 2010 e il 2014 dei furti e delle rapine in abitazione. È una crescita che solo nell’anno successivo ha segnato una lieve inversione di tendenza, ma restando su numeri impressionanti: che dicono - per esempio - come ogni giorno nove italiani subiscano lo choc di trovarsi i rapinatori in casa. La percentuale degli autori di questi reati che viene scoperta e processata è quasi insignificante: nel 2014, solo il 2,7% dei furti in abitazione è stato risolto. Ora la riforma Orlando offre una via d’uscita soft anche ai pochi casi in cui il responsabile si ritrova davanti al giudice: tutto nell’ottica di ridurre l’affollamento carcerario e di favorire il reinserimento sociale dei condannati. Contemporaneamente, Orlando invoca invece condanne più severe nei confronti di quella che considera la vera minaccia alla convivenza democratica, i cosiddetti reati d’odio. In una lettera alla Scuola di formazione della Magistratura il ministro maltratta i giudici che non hanno inflitto condanne esemplari ai responsabili dei reati di antisemitismo: categoria non prevista dal codice, sotto la quale il ministro sembra ricomprendere l’istigazione all’odio razziale e anche l’apologia di fascismo. Secondo Orlando, “pare cogliersi un calo dell’attenzione tanto nel contesto sociale quanto nelle risposte giudiziarie, oscillanti e non sempre assistite da percorsi motivazionali compiutamente sviluppati”. E chiede corsi appositi, per insegnare ai magistrati a essere meno indulgenti: almeno su questo versante. È allarme malattie mentali nelle carceri italiane di Nadia Francalacci Panorama, 24 dicembre 2017 Un nuovo percorso di monitoraggio all’ingresso permetterà di valutare l’esistenza di patologie psichiatriche. Tre detenuti su 4 soffrono di una malattia mentale. All’interno delle carceri italiane, secondo la ricerca svolta dalla Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria in collaborazione con la Società Italiana di Psichiatria nell’ambito del “Progetto Insieme”, la maggior parte della popolazione carceraria è affetta da depressione, in forma più o meno grave, da disturbi psicotici e della personalità. Dietro le sbarre, la prevalenza di queste patologie sarebbe nettamente più alta rispetto alla popolazione generale. Secondo le stime, infatti, il 4% dei detenuti è affetto da disturbi psicotici contro l’1% della popolazione generale. La depressione, invece, colpisce il 10% dei reclusi contro una percentuale che oscilla tra il 2 e 4% tra i soggetti liberi mentre i disturbi della personalità raggiungono il 65% con una percentuale dalle 6 alle 13 volte superiore rispetto a quella che si riscontra normalmente (5-10%). Come funziona il “Progetto Insieme” - “In base al nuovo protocollo previsto dal Percorso Diagnostico Terapeutico Assistenziale (Pdta), tutti i detenuti che entreranno in una struttura carceraria verranno sottoposti ad una accurata visita psicologica che determinerà la presenza o meno di disturbi mentali - spiega a Panorama.it, il dottor Giuseppe Quintavalle, Direttore Generale Asl Roma 4 e promotore di “Progetto Insieme”- Si tratta di un passaggio indispensabile per avere un quadro completo delle patologie presenti all’interno di ogni singolo istituto penitenziario e per seguire, in modo più preciso, il carcerato con patologia”. Ad essere sottoposti al check di ingresso non sono solo i detenuti che varcano la soglia di un carcere per la prima volta, ma anche coloro che vengono trasferiti da un penitenziario ad un altro. “Il progetto Pdta mira ad uniformare anche le tempistiche e le modalità di trattamento delle malattie psichiatriche nelle carceri del nostro Paese, secondo un modello omogeneo di intervento, nel rispetto delle diversità delle varie realtà carcerarie - continua Quintavalle - In sostanza, permette al personale sanitario e non, di intervenire anche in modo tempestivo in caso di bisogno”. Corsi di formazione ai detenuti - Il progetto però, prevede anche la formazione degli agenti della polizia penitenziaria e di una piccola parte dei detenuti. Quest’ultimi, infatti, svolgeranno un ruolo di sostegno nei confronti di altri con problematiche mentali. Dopo essere stati selezionati, in base al grado di cultura, sensibilità ed istruzione, questi detenuti saranno istruiti per supportare i compagni di cella che presentano fragilità psicologiche. “Progetto Insieme è un percorso innovativo, perfettamente in linea con le iniziative che vengono attuate a livello governativo come ad esempio - conclude Quintavalle - il recente Piano nazionale per la prevenzione delle condotte suicidarie nel sistema penitenziario per adulti”. Il Natale pensando alle carceri di Mauro Del Bue avantionline.it, 24 dicembre 2017 Non si potrebbe meglio onorare la memoria di quel che per me é stato un amico e un punto di riferimento politico per tante battaglie di libertà, e cioè Marco Pannella, che pensando ai tanti italiani che sono in carcere. E ai quali, mentre scontano una pena a volte meritata e a volte no, nessuno ritiene di riservare un pensiero e una visita. Tranne Marco, e prima di lui quel grande papa dal cuore d’oro che fu Giovanni XXIII. In carcere non c’è il Natale. CI e la sofferenza e la solitudine. C’é spesso la rassegnazione e a volte la tentazione dei suicidio. Il sovraffollamento é sotto i nostri occhi. La vita in pochi metri e con servizi unici dietro le sbarre é spesso insopportabile e degradante. Lo dico mentre taluni invocano un ambiguo diritto alla vita per chi non ha più vita e non la garantiscono dignitosa per chi invece dovrebbe trovarsi in un luogo di recupero e di rieducazione. Dunque per chi la vita dovrebbe ricostruirsela. Quando nel 2007 votammo l’indulto in un Parlamento che si trovò alle prese con un’insolita maggioranza garantista, formata da Forza Italia, Pd, Rosa nel pugno, Dc-Nuovo Psi, Udeur, Rifondazione comunista contro la quale si schierarono Pdci, Lega, Italia dei valori, An, forte fu la sensazione che il tema dei diritti e delle garanzie fosse davvero trasversale e che su questi temi si potesse creare un nuova maggioranza libertaria. Un fronte che dai comunisti di Diliberto (Bertinotti li volle definire addirittura “stalinisti”) arrivava alla destra estrema, passando da Di Pietro, era un’opposizione che calzava a pennello con le nostre idee. Invece quel fronte si é presto dissolto come neve al sole. Avrebbe dovuto affrontare il tema della riforma carceraria e di quella della giustizia in chiave europea, con sdoppiamento delle carriere dei magistrati e doppio Csm, con la revisione del reato di carcere preventivo, con la specificazione di quello di “concorso esterno in associazione mafiosa”. A proposito di quest’ultimo occorre ora prendere atto della decisione del sostituto della Corte d’Appello di Caltanissetta che sostiene che la pena che sta scontando Marcello Dell’Utri (oggi alle prese con una grave malattia) vada immediatamente sospesa, trovandosi quest’ultimo nelle identiche situazioni di Bruno Contrada, assolto dalla Corte europea dei diritti dell’uomo in quanto il reato non era “sufficientemente chiaro”. Lo abbiamo già scritto sull’Avanti, sfidando anche l’impopolarità. E lo ripetiamo invitando la sinistra e il centro-sinistra ad essere coerente. Sogno una sinistra che difende i diritti del suo più spietato avversario. Allora questa sarà fino in fondo casa mia. E credo di poter dire “casa nostra”. Venezia: “le carceri sono al collasso”, interrogazione al ministro di Eugenio Pendolini La Nuova Venezia, 24 dicembre 2017 I deputati di Mdp chiedono una risposta sull’allarme lanciato dai sindacati. “È la seconda volta in due anni, aveva promesso più controlli, nulla è cambiato”. Le carceri veneziane finiscono in Parlamento. Dopo il campanello d’allarme suonato dalla Cgil, che aveva definito drammatica la situazione lavorativa all’interno dei due istituti di Santa Maria Maggiore e della Giudecca, giovedì scorso alla Camera è stata presentata un’interrogazione parlamentare per far luce sulla questione, firmata dai deputati Michele Mognato, Delia Murer e Davide Zoggia di Articolo 1 - Mdp (Liberi e Uguali). Numerosi i punti su cui i tre deputati chiedono un chiarimento al ministro della Giustizia, Andrea Orlando. In primis, il problema del sovraffollamento. Dopo una precedente interrogazione del 2015, il ministro aveva ammesso assicurato “un attento monitoraggio e controllo”. A distanza di due anni, sostengono i tre firmatari, la situazione delle strutture detentive di Venezia sconta le stesse criticità. I numeri, infatti, dicono che nella casa circondariale maschile di Santa Maria Maggiore sono presenti 230 detenuti (114 in attesa di giudizio, 116 con pena esecutiva) a fronte di una capienza massima di 163 unità. Nel carcere femminile della Giudecca, la situazione è più contenuta (78 detenute su una capienza di 115 unità), con un elevato numero di detenute straniere (oltre l’80%). A questo, poi, si aggiunge quanto denunciato da Antonio Battistuzzo (Fp-Cgil): cronica carenza di personale, con conseguenze gravi sulla salute degli operatori penitenziari e sulla sicurezza interna delle stesse strutture. Tra le spinosità elencate dal sindacato, ad esempio, una situazione interna ingestibile da quando le celle sono state aperte (in ottemperanza alle sentenze che condannavano l’Italia per violazione della metratura minima riservata ai detenuti). Impossibile svolgere una sorveglianza adeguata dato il numero ridotto di personale e la struttura architettonica dell’edificio. Le telecamere ci sono, ma una sola persona deve controllare 60 monitor, con turni di 6 ore anziché 2 come dice la norma. “Il rischio di stress lavorativo è alto” ha dichiarato Battistuzzo. “È chiaro che manca un intervento strutturale: o rinforzi il personale o diminuisci i detenuti”. Secondo i deputati di Mdp, la situazione interna espone l’intero sistema detentivo di Venezia al “rischio di un vero e proprio stallo”. “Quali misure vuole adottare il Ministro per risolvere il sovraffollamento degli istituti veneziani” conclude l’interrogazione parlamentare - e per assicurare alle strutture coinvolte nella gestione del percorso detentivo il potenziamento del personale assegnato?”. La parola ora passa al ministro. Milano: rapinatore di farmacie per la droga. I genitori “nostro figlio stia in cella” di Andrea Galli Corriere della Sera, 24 dicembre 2017 I genitori del 30enne arrestato: meglio il carcere che vederlo così. I coniugi Iuliano vengono dal Sud, lei lucana e lui campano; hanno sessant’anni, sono emigrati a Milano nel 1985, lavorano come portinai e abitano a Rogoredo, a breve distanza dal bosco della droga. De Simone ha fatto della caccia al rapinatore seriale, primo “colpo” datato marzo e ultimo lunedì quand’è stato arrestato, una delle “priorità” di quest’anno investigativo, una delle tante. Marcantonio ha rilevato la farmacia “Boifava”, nell’omonima via, sul finire del 2016, senza badare alle voci che raccontavano di un quartiere “Bronx” dov’è impossibile campare e lavorare. Di notte al bosco - Il rapinatore Giovanni, trent’anni d’età, un fratello e una sorella entrambi con famiglia e figli, viveva nella stessa casa dei genitori, adesso indecisi se, almeno per il Natale, concedere al loro ragazzo una visita in prigione. La mamma forse vorrebbe mentre il papà, che conduce questo colloquio con il Corriere, è deciso a chiudere l’argomento. “Vede, noi siamo gente semplice che evita di dar fastidio e quindi figurarsi rubare. Spiace per quella farmacia, era diventata il bancomat di Giovanni e non finiremo mai di chiedere scusa. Giovanni è sempre stato attratto dalle brutte amicizie, si è fatto tirare dentro nella droga. Non incolpo gli altri, lui ha una famiglia perbene e ha la sua testa: dico che nessuno l’ha obbligato... È nato irrequieto... Da piccolo l’avevamo mandato dai Salesiani che l’avevano un poco raddrizzato. Avevamo risparmiato per farlo studiare alle superiori e aveva preso un diploma in elettricista... Ma non aveva voglia di faticare... Sei anni fa sono cominciati i problemi con la cocaina. S’era messo a spacciare, l’avevano beccato, aveva la sorveglianza e non la rispettava: usciva quando non doveva, di notte, andava a comprare la droga, s’avventurava in quel posto là, il bosco... Ha in mente che cosa è? Io all’inizio l’ho pedinato per fermarlo e riportarlo indietro. Qualche volta ce l’ho fatta ma alla lunga mi ha sfiancato, sul lavoro dormivo per la stanchezza e non possiamo permetterci, mia moglie e io, di perdere il posto. Nel 2025 andiamo in pensione, abbiamo già fatto tutti i calcoli, non dobbiamo commettere errori”. Il Sert di via Boifava - Mamma e papà avevano spinto per un percorso in comunità, per ricevere l’aiuto dal Sert. E proprio il Sert di via Boifava aveva “permesso” a Iuliano di scoprire la farmacia e decidere che era “perfetta” per un assalto. Assalti ripetuti per dieci mesi, modificando giorni e orari, armi (mani nude, un punteruolo, una pistola) ma non il modus operandi, visto che irrompeva con in testa un casco. I singoli “colpi” han fruttato anche 1.500 euro. Iuliano ha risparmiato la farmacia solo d’estate: era partito per le ferie, s’ignora dove di preciso. Dice il papà: “Non ci parlava più, trattava la casa come un albergo e noi come i servitori. Nell’ultimo periodo era sparito del tutto, dal giorno della festa dell’Immacolata. L’abbiamo rivisto l’altra sera, con intorno i poliziotti”. Preso in flagranza - Carla Marcantonio, la titolare della “Boifava”, giura di non parlare per il politicamente corretto ma per intima convinzione: “So benissimo che le rapine erano parecchie, sembrava una persecuzione; ma dal commissariato siamo state rassicurate con la garanzia che l’incubo sarebbe finito. Abbiamo avuto fiducia... e abbiamo forse rischiato: nel senso che ho farmaciste coraggiose e in un’occasione, quando quella persona si era fermata lunghi minuti, una mia ragazza voleva ribellarsi e gli stava lanciando addosso uno sgabello”. Ovviamente non si poteva ipotizzare che una pattuglia di agenti stesse l’intero giorno davanti alla “Boifava” in attesa del bandito. Il che non cambia il risultato, con il posizionamento degli uomini di De Simone al momento giusto e la cattura in flagranza. “Ci hanno citofonato. Mia moglie e io siamo usciti, c’erano dei poliziotti e Giovanni. Loro hanno detto che dovevano salire per prendere delle cose, io mi sono rifiutato. Hanno spiegato che a mio figlio servivano vestiti per il carcere, allora ho acconsentito. A mia moglie, Giovanni ha detto: “Mi spiace, mamma, spiace davvero”. Facile dirlo con le manette ai polsi... Che se ne stia in carcere. E badi bene, non abbiamo il cuore di pietra. Anzi, l’esatto opposto, ed è forse uno dei nostri grandi limiti”. Terni: dalla Caritas iniziative a favore dei detenuti della Casa Circondariale orvietonews.it, 24 dicembre 2017 Sempre vicini al mondo del carcere, la Caritas diocesana e l’associazione di volontariato San Martino, in occasione del Natale, hanno donato alla Casa Circondariale di Terni 300 panettoni della pasticceria Sant’Angelo per il pranzo di Natale e per quello del nuovo anno. Inoltre, come ormai da diversi anni i volontari della Caritas, che durante l’anno attraverso il centro di ascolto hanno un continuo contatto per dare aiuto materiale e spirituale ai detenuti, organizzano momenti di festa insieme con tombolate mercoledì 27 e giovedì 28 dicembre, mercoledì 3 e giovedì 4 gennaio 2018 alle 14 con tanti premi utili alle esigenze dei detenuti. Un particolare contributo spirituale e morale a favore dei detenuti viene dall’opera del cappellano padre Massimo Lelli, che la Caritas sostiene materialmente per dare in questo periodo natalizio un ulteriore contributo ai detenuti più bisognosi. Grande è stata la solidarietà ricevuta dalla Caritas diocesana con le raccolte alimentari natalizie effettuate dagli studenti universitari, quelli del liceo artistico e dal mondo del lavoro, che hanno donato in totale circa 5 quintali di alimenti e prodotti per l’igiene personale per gli Empori solidali di Terni e Amelia. Gli studenti e docenti del liceo Artistico di Terni per il quarto anno hanno effettuato la raccolta di prodotti da destinare all’emporio solidale della Caritas diocesana che sono stati consegnati dagli studenti e dalla dirigente scolastica Roberta Bambini, dalla professoressa Cecilia Giuli, dalla vicepreside Maria Rita Proietti, al direttore della Caritas Ideale Piantoni che, ringraziando tutti coloro che hanno dato il loro contributo, ha ricordato come sia importante questo gesto di solidarietà che ha lo scopo specifico di aiutare le persone non solo ad avere un aiuto materiale quanto piuttosto a sostenerle nella gestione della quotidianità di vita, nell’acquisto dei beni necessari e nell’accompagnamento ad un inserimento sociale. Al quinto anno, invece, l’iniziativa che si è svolta presso il Dipartimento di Economia dell’Università degli Studi di Perugia sede di Terni fra le studentesse, gli studenti, gli ex-studenti, i docenti, tutto il personale, in occasione del Natale, con la raccolta a favore della Caritas diocesana di Terni-Narni-Amelia e della San Vincenzo de Paoli della Diocesi. Una raccolta di generi alimentari a lunga conservazione ed una raccolta di beni destinati ai bambini (matite, penne, colori, quaderni, libri di fiabe e di divulgazione scientifica, giocattoli anche usati, animali di peluche, strumenti musicali giocattolo) con il contributo anche della Coop Centro Italia consegnata dal professor Loris Nadotti e dalla professoressa Cristina Montesi. Ed infine la raccolta effettuata dalla multinazionale francese Faurecia, presso lo stabilimento di Terni, a favore dell’Emporio della Solidarietà, che ha coinvolto tutti i dipendenti dell’azienda di Terni, che hanno donato beni di prima necessità e effettuato anche una raccolta in denaro. “Sono significativi e importanti segni di solidarietà a favore dei più bisognosi - spiega il direttore della Caritas diocesana Ideale Piantoni, che coinvolge in modo concreto e diretto, ma che è anche un’occasione di conoscenza e sensibilizzazione rispetto a quelle che sono le problematiche e povertà che caratterizzarono il nostro territorio. L’emporio della solidarietà ha lo scopo specifico di aiutare le persone non solo ad avere un aiuto materiale quanto a sostenerle nella gestione della quotidianità di vita, nell’acquisto dei beni necessari e nell’accompagnamento ad un inserimento sociale”. Milano: Natale in carcere, tra ricordi, nostalgia e un futuro da costruire Corriere della Sera, 24 dicembre 2017 Le lettere dei detenuti di San Vittore: “Le feste amplificano le lontananze”. Ma in questo caso hanno deciso di condividere i loro pensieri in positivo. Ecco i racconti e le riflessioni che hanno maturato parlandone insieme: “Si vive per i propri cari, niente altro”. Il periodo di Natale, come tutte le festività ma questa in particolare, in carcere è sempre un mezzo tabù. Si fa ma non si dice, se cominci a pensarci da qui dentro poi ti viene un senso di colpa tremendo. La famiglia, i figli a cui fai pagare con la tua assenza colpe che non hanno: eccetera, avete capito. Però alla “Nave” di San Vittore, il reparto per il trattamento avanzato delle dipendenze in cui ci troviamo, su al terzo raggio, alla riunione del mercoledì per il nostro mensile L’Oblò abbiamo deciso di parlarne lo stesso tra noi, del Natale. Senza fare i piangina, come si dice a Milano. Ma anzi, proprio per raccontarci quel che di bello ci hanno lasciato finora i Natali delle nostre vite. Tornati in cella, alcuni per conto proprio e altri in gruppo hanno buttato giù quel che ci siamo detti. Per condividerlo anche coi lettori del Corriere e di Buone Notizie. “Entra e vieni a tavola” Era il 1972, i miei si erano appena trasferiti a Milano dalla Puglia. Quella sera di Natale faceva molto freddo e nevicava. Eravamo a tavola quando sentimmo bussare alla porta. Mio padre andò ad aprire e trovò di fronte uno dei famosi vucumprà, carico di tappeti. Era bagnato e infreddolito. Mio padre lo invitò a entrare, a posare i tappeti, e lo fece sedere a tavola con noi. Vidi negli occhi di mio papà una cosa che non sapevo descrivere, ma che oggi chiamerei tenerezza. Lui se ne accorse, mi guardò, mi disse che quando si vuole aiutare qualcuno bisogna farlo col cuore, senza starci a pensare, e che lassù c’è un Dio che guarda giù. Paolo Rossi I tre giorni più lunghi “I Natali che ricordo con più emozione sono quelli che festeggiavo da bambino, quando tutta la famiglia si riuniva. I giorni frenetici prima della vigilia. La spesa per un mangiare che sarebbe dovuto durare tre giorni, perché da noi al Sud in Natale darà del 24 al 26 compreso. Tavolate da venti persone. Sento ancora i profumi e le voci di quei momenti. Che bello sarebbe poterli rivivere. Daniele Ciannella “Altri sogni non ce n’è” Almeno una volta, quella notte, la domanda ce la siamo fatta tutti: da dove arriverà Babbo Natale. Per un po’ è stato il nostro più grande mistero. Finché abbiamo scoperto che a sistemare i regali di notte, furtivo come un ladro, era il papà. La renna, la slitta, tutte bugie: forse è quel giorno che impari a mentire. Ancora più tardi, da grande, il 2 gennaio avrai preso dieci chili e perso tutti i soldi a sette e mezzo. E avrai capito che l’unica cosa per cui si vive è stare coi propri cari, che altro sogno non c’è. Finché non arriverà una voce bambino a svegliarti: “Ma papà, dov’è l’iPhone che avevi promesso?”. Mimmo Cristian Ivan Andrea Enzo La sedia del nonno Per i bambini Natale vuol dire festa. Almeno per i più fortunati. Io penso di essere tra questi. Da piccolo poco prima di mezzanotte mia mamma mi portava in camera dicendomi “sta arrivando”. Sembravano ore. Io lasciavo vicino all’albero un bicchiere di latte e qualche biscotto per il vecchio. Che infine arrivava, mangiava tutto, suonava la campana, e poi ripartiva a razzo. Era bello uscire e trovare tutti quei regali, e il latte e i biscotti spariti. Il giorno dopo sarebbe stato il vero Natale, quello del pranzo. Quando sono cresciuto ho scoperto la verità sui regali. Ma in cuor mio il piacere del pranzo aveva sempre superato quello dei doni. Un giorno di febbraio morì mio nonno. Il dolore fu immenso. Ricordo ancora la sua sedia vuota il Natale dopo. Oggi pagherei per giocare di nuovo con lui a rubamazzetto. Fu quella sedia a farmi capire il vero senso di questa festa: non le cose materiali, ma le persone che ti amano e che ami. Abbiatene cura. Buon Natale. Daniele Businaro Bari: nel carcere minorile il sogno di Otello trasporta oltre le sbarre di Antonella Gaeta La Repubblica, 24 dicembre 2017 Nel buio del sipario che si chiude (anche se sipario non c’è) tuona sonoro un “buonanotte!”. Non si sa chi l’abbia pronunciato tra i giovani detenuti dell’Istituto penale Fornelli di Bari che hanno appena assistito allo spettacolo nella Sala Prove e, dunque, non si conosce la sua storia. Si sa, invece, almeno per somme traiettorie geografiche, quella di Ahmed e Galal, che vengono rispettivamente dalla Tunisia e dall’Egitto. Dopo l’incriminazione in Italia, avrebbero dovuto scontare la pena nelle carceri rispettivamente di Treviso e di Roma ma, “per una di quelle tante storie di cui è pieno l’ecumene penitenziario italiano, per sovraffollamento insomma, sono arrivati a Bari, e qui, a mille chilometri di distanza, per caso, hanno incontrato il teatro. Nella Sala Prove ne abbiamo tirato fuori due attori, perché attori lo sono anche un po’ nella vita” racconta il direttore dell’istituto, Nicola Petruzzelli, e non si sbaglia. Ahmed e Galal, Otello e Jago, sono gli interpreti della pièce “Il mio folle amore lo soffio al cielo”, che celebra vent’anni di attività nella Sala Prove del Fornelli. È ideato e diretto da Lello Tedeschi, insieme a Piera Del Giudice (che va anche in scena sia come Desdemona che come Emilia), perché con il Teatro Kismet, storicamente a curare in carcere quella che è una sezione staccata ma fondante della loro azione teatrale cittadina, c’è quest’anno anche la compagnia CasaTeatro, da lei guidata. Questo è il secondo atto di un primo, presentato a ottobre. Hanno lavorato insieme, avendo a disposizione poco più di un mese, a questo studio sull’Otello, da Shakespeare, naturalmente, passando per Agostino Lombardo e Carmelo Bene, ma anche dal Pier Paolo Pasolini di Che cosa sono le nuvole?. C’è tutto un passaggio del film breve con Otello- Ninetto Davoli e Jago-Totò recitato da Ahmed e Galal, che maneggiano come due giocolieri impacciati la sfuggente lingua italiana, quello che riguarda la verità, ciò “che ciascuno sente dentro di sé, ma che appena viene nominata non c’è più”. Perché Pasolini, attraverso le sue marionette, in quel punto lì si interroga sulla sostanza del delitto che compie il Moro, africano, di pelle scura proprio come loro, si divertono a ribadire gli attori. Giocano sul “razzismo” di alcuni termini del testo, ma anche, insieme a Piera Del Giudice, sul ruolo della donna, che cerca di parlare, di inserirsi mentre loro non fanno che ciarlare in arabo. “Non è stato facilissimo - commenta Lello Tedeschi -, non stanno mai zitti né fermi, poi c’era il problema della lingua in testi non certo facili, da imparare in così poco tempo. Anche l’attraversamento di temi difficili non è stato niente male, ma alla fine ce l’abbiamo fatta, risuonavamo un po’ tutti”. Ahmed e Galal, diciassettenni che si chiamano l’un l’altro fratelli, si sono conosciuti qui in carcere. “Sì, la storia di Otello la conoscevamo, più o meno” dialogano con il pubblico a fine spettacolo, con un sorriso stampato in faccia, orgogliosi, si capisce, dell’impresa appena compiuta. A una domanda sul concetto di inganno rispondono che per loro riguarda principalmente l’idea che avevano dell’Italia prima di arrivarci, fondamentalmente tradita, oppure sono loro che hanno operato in qualche modo un tradimento, visto che sono rinchiusi qui, ma non per sempre. “Perché - ricorda il direttore Petruzzelli - il carcere è fatto di sbarre, cancelli, mura, ma anche qui posso nascere funghi di libertà. Vogliamo che per loro Bari, la Puglia e l’Italia rappresentino anche una prospettiva di vita e di inserimento. E che la loro avventura, le loro peripezie, cominciate su un barcone non si concludano con la firma del questore sotto un foglio di via, piuttosto con la stessa firma sotto un bel permesso di soggiorno”. Napoli: il carcere di Secondigliano apre le porte alla cultura irpinianotizia.it, 24 dicembre 2017 Nella giornata di oggi, alle ore 14:00, presso il Teatro della Casa Circondariale di Secondigliano, per celebrare le festività natalizie ha avuto luogo una giornata speciale dedicata a tutti i detenuti, all’insegna della cultura e dello svago. Il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Campania, Samuele Ciambriello, in collaborazione con il grande Massimiliano Gallo, Marco Palmieri e Antonio maielloi coadiuvati dalla Santi Bailor Film, innovativa Casa di produzione televisiva tutta Partenopea hanno dato vita ad un eclettico show, fatto di performance musicali, poesie, monologhi e suggestive interpretazioni. I detenuti hanno accolto con grande entusiasmo l’iniziativa, partecipando attivamente ai vari interventi proposti, a riprova del desiderio di ritrovare una propria dimensione di intimità introspettiva, mezzo di evasione e strumento di libertà scandito tramite la cultura, la fantasia, le arti più nobili e raffinate. La giornata ha offerto l’occasione per effettuare alcune riprese all’interno del Carcere, volte a documentare la vita quotidiana dei detenuti di massima sicurezza in occasione delle festività natalizie, lontani dagli affetti più cari, nonché il loro modo di approcciarsi durante lo sconto della pena, negli ultimi anni sempre più orientato verso la funzione rieducativa ed il recupero sociale dei valori di convivenza civile. Il frutto di tale lavoro, sarà raccolto in un documentario prodotto dalla Santi Bailor Film e sarà messo a disposizione degli Istituti scolastici come strumento di educazione e conoscenza. Roma: su Radio Vaticana gli auguri di Natale al Papa dai detenuti di Rebibbia La Stampa, 24 dicembre 2017 Sono i protagonisti di uno spot in rotazione in questi giorni. Mentre il 24 e 25 interverranno nell’ambito della striscia quotidiana “Il Vangelo Dentro”. Radio Vaticana Italia rivolge gli auguri di Natale a papa Francesco attraverso i detenuti della Casa di Reclusione di Rebibbia a Roma. Sono i protagonisti di uno spot in rotazione in questi giorni dove dedicano un pensiero anche agli ascoltatori dell’Emittente radiofonica. Mentre il 24 e 25 dicembre faranno gli auguri al Papa nell’ambito della striscia quotidiana “Il Vangelo Dentro”, il progetto ideato dal prefetto della Segreteria per la Comunicazione della Santa Sede, monsignor Dario Edoardo Viganò, e curato da Davide Dionisi in collaborazione con Luca Collodi, coordinatore di Radio Vaticana Italia. C’è chi riflette sull’errore commesso: “In una società violenta nella quale viviamo, il perdono è un argomento difficile da affrontare. Come si può perdonare chi ha distrutto una famiglia, chi ha commesso un crimine efferato?”. E c’è chi pensa alle persone che vivono la loro stessa situazione: “Il Natale per i detenuti è un momento di grande sofferenza. Per questo i nostri auguri vanno alle persone sole come noi”. Altri, invece, parlano degli affetti familiari e del loro disagio in un momento come questo. C’è persino chi rivolge un augurio “che arriva da un cuore sofferente, ma carico di amore e di speranza”. Il Programma andrà in onda nelle due giornate alle 09,54; 12,16 e 19,35 sulle frequenze di Radio Vaticana Italia: 105FM e 103.8FM a Roma e provincia. In tutta Italia sulla Radio Digitale DAB+ e il canale 733 del digitale televisivo terrestre. Palermo: Natale anche dietro le sbarre, a offrire il pranzo è il centro Padre Nostro palermotoday.it, 24 dicembre 2017 L’iniziativa in collaborazione con Cot ristorazione è rivolta ai carcerati indigenti. Artale: “Il 29 inauguriamo le due stanzette che abbiamo allestito per le persone che non possono usufruire delle uscite premio perché senza residenza”. Pranzo speciale per i detenuti indigenti del carcere Ucciardone. A offrirlo è stato il centro di accoglienza Padre Nostro di Brancaccio, con l’aiuto di Cot ristorazione. “I nostri volontari hanno addobbato la sala refettorio - spiega Maurizio Artale, presidente del centro Padre Nostro - in modo da servire adeguatamente il pranzo completo dall’antipasto al dolce a 150 detenuti che non vivono queste particolari giornate come gli altri. Abbiamo chiesto alla Cot di aiutarci a completare con quello che ci mancava e la risposta è stata come sempre immediata”. “Impossibile dire di no a questa richiesta di aiuto - afferma Emanuele Ribaudo, presidente di Cot ristorazione, che ha appena festeggiato i suoi primi 25 anni di vita - e non solo perché all’Ucciardone siamo presenti con i pasti forniti al personale penitenziario. Noi siamo una realtà che è cresciuta grazie al lavoro di squadra. Senza il grande impegno dei nostri dipendenti non saremmo ciò che siamo. Così nel territorio, senza la collaborazione e la condivisione, di risposte se ne possono dare ben poche”. Ed è proprio un lavoro di squadra quello che dà modo al centro creato da padre Pino Puglisi 25 anni fa di occuparsi dei detenuti che non hanno nessuno a attenderli fuori dal carcere. “Proprio il 29 inauguriamo le due stanzette che abbiamo allestito da noi per quelle persone che non possono usufruire delle uscite premio perché senza residenza. Sono quei soggetti le cui famiglie li hanno rinnegati, rifiutati - aggiunge Artale - e, non avendo nessun parente a cui appoggiarsi fuori, perdono questo beneficio. Abbiamo acquistato una casetta sotto il centro e l’abbiamo destinata anche a loro. La inaugureremo nel corso di una giornata durante la quale faremo il punto su tante cose. Sarà un grande anno, quello che ci attende, da condividere con tutti”. Prato: il vescovo Agostinelli alla messa di Natale tra i detenuti della Dogaia Il Tirreno, 24 dicembre 2017 Le chiese e parrocchie di Prato sono pronte a celebrare la veglia solenne nella notte di Natale. Per il vescovo Franco Agostinelli anche quest’anno il giorno della Natività si apre con la celebrazione della messa nel carcere della Dogaia per i detenuti. Mentre nel giorno della vigilia monsignor Agostinelli porterà il suo saluto agli operatori dell’Associazione La Pira impegnati a preparare il tradizionale pranzo natalizio per i poveri della città (quest’anno sarà negli spazi dell’associazione in via del Carmine e non nella chiesa di San Bartolomeo). Domenica 24 dicembre a sera in tutte le chiese di Prato si celebra la messa nella notte di Natale, in cattedrale si comincia alle 23 con l’Ufficio delle Letture. Il giorno successivo, lunedì 25 dicembre, in duomo il pomeriggio di Natale è tipicamente pratese con l’ostensione del Sacro Cingolo e l’esposizione della reliquia di Santo Stefano al termine dei vespri solenni delle ore 17. Martedì 26 dicembre si rinnova l’appuntamento con la festa patronale: il pontificale teletrasmesso in diretta su Tv Prato comincerà alle ore 10. In questo giorno vengono proclamati i vincitori del Premio Santo Stefano, il riconoscimento che la città consegna alle aziende virtuose del distretto pratese. Di seguito il calendario con tutte le celebrazioni e gli eventi in programma in cattedrale. Domenica 24 dicembre. Vigilia di Natale. Ore 19: messa della vigilia di Natale; ore 23: Ufficio delle Letture a cui seguirà la messa della Natività. Celebra il vescovo, monsignor Agostinelli. Lunedì 25 dicembre. Santo Natale e Ostensione. Al mattino, alle 8,30, mons. Agostinelli sarà al carcere della Dogaia per celebrare la messa di Natale per tutti i detenuti. In cattedrale messe alle 7,30-9 -10,30- 12-19; 10,30: solenne pontificale celebrato dal vescovo; ore 16: musiche d’organo, esegue il maestro can. Romano Faldi. Alle 17 mons. Agostinelli guiderà il canto dei Vespri e al termine officerà l’ostensione del Sacro Cingolo, all’interno del duomo e dal pulpito di Donatello, per tutti i fedeli della città. A seguire l’esposizione del “sasso” di Santo Stefano. In processione sarà portato, dalla Cappella del Sacro Cingolo all’altare maggiore, il reliquiario contenente il sasso che la tradizione vuole sia stato uno di quelli con cui fu lapidato il Santo patrono di Prato. Martedì 26 dicembre. Santo Stefano, patrono di Prato. Il 26 dicembre la città e la diocesi di Prato festeggiano il patrono Santo Stefano. Alle 10 in cattedrale si tiene il solenne pontificale presieduto dal Vescovo e concelebrato dai sacerdoti diocesani. Partecipano le autorità cittadine e i rappresentanti dei Comuni facenti parte del territorio diocesano e le forze dell’ordine. Presta servizio la Cappella musicale della cattedrale. Alla messa monsignor Agostinelli ha invitato tutti i chierichetti delle parrocchie pratesi a prestare servizio liturgico. Al termine della messa monsignor Agostinelli, a nome del Comitato promotore formato da Diocesi, Comune e Provincia di Prato, Fondazione Cassa di Risparmio e Camera di Commercio, annuncerà i nomi delle aziende vincitrici della ottava edizione del premio Santo Stefano per la tenuta del lavoro a Prato. Stop allo Ius Soli, manca numero legale. Il Senato rimanda al 9 gennaio di Franco Stefanoni Corriere della Sera, 24 dicembre 2017 Calderoli: “Colpito e affondato. Morto e sepolto. Per me è una grande vittoria, perché sono stato io in questi due anni e mezzo, con decine di migliaia di emendamenti, a bloccarlo”. Unicef: “Pagina incivile”. Stop all’esame del ddl sullo ius soli al Senato per mancanza del numero legale. L’Aula di Palazzo Madama dopo l’ok alla manovra ha iniziato la discussione sul provvedimento con l’esame delle pregiudiziali di costituzionalità. Ma, su richiesta del senatore Roberto Calderoli, il presidente Pietro Grasso ha proceduto alla verifica del numero legale dei presenti in Aula: numero che mancava. Grasso, quindi, ha fissato la nuova seduta a martedì 9 gennaio, alle 17: all’ordine del giorno “comunicazioni del presidente”, ha affermato. Il vicepresidente del Senato: “Definitivamente naufragato” - Il senatore Roberto Calderoli, vice presidente del Senato: “Sulla mia pregiudiziale di costituzionalità sullo ius soli, e sulla mia richiesta di verifica del numero legale, nell’aula del Senato è mancato il numero legale e lo ius soli, come avevo già annunciato ieri, è definitamente naufragato. Colpito e affondato. Morto e sepolto. Per me è una grande vittoria, perché sono stato io in questi due anni e mezzo, con le mie decine di migliaia di emendamenti, a bloccare in commissione e poi in Aula questa assurda e inutile proposta di legge che serviva solo a regalare un milione di nuovi voti al Pd. E ora tutti quelli che a sinistra fingevano di digiunare per lo ius soli, saltando il pranzo ma non la cena, possono anche tornare a mangiare, anche se temo che il panettone stavolta gli andrà di traverso”. Unicef: “Pagina incivile” - “Doveva essere un gesto di civiltà come qualcuno ha detto tempo fa, invece si chiude nel modo più incivile possibile: lo ius soli non verrà approvato, basta ipocrisie elettorali”: è quanto dichiara Andrea Iacomini, portavoce dell’Unicef Italia. “Le Camere stanno per sciogliersi, come anche l’ipotesi di approvazione di questa legge, come neve al sole. Non lo sapeva nessuno? Chiediamo scusa agli 800 mila compagni di classe dei nostri figli, adulti di domani, che vedranno negati ancora una volta i loro diritti. Provo vergogna nel vedere come una riforma moderata nei contenuti e così necessaria nella sostanza non trovi spazio al pari di tante altre” prosegue Iacomini. “Ciò che fa più male sono le ostinate dichiarazioni di alcuni esponenti politici di primo piano che fino a questa mattina, in pubblico e in privato, insistono nel dire che la legge verrà approvata, mentendo sapendo di mentire. È un atteggiamento davvero inaccettabile quando si tratta di bambini e ragazzi. L’Italia ha violato l’articolo 2 della Convenzione sui Diritti dell’infanzia e dell’adolescenza in materia di non discriminazione, è un dato di fatto malgrado le continue raccomandazioni dei comitati Onu. Questi giovani italiani finiscono nel dimenticatoio mentre parte la gara alle candidature, le trattative sui collegi, le maratone tv” s’indigna Iacomini. “In tanti però si sono spesi per questa causa: esiste una buona Italia che come sempre sopperirà alle assurdità dei calcoli elettorali. Saranno quei cittadini della società civile e delle associazioni che continueranno a lavorare seriamente ogni giorno per arginare i danni di questo ennesimo scempio parlamentare e faranno capire a questi 800mila minori quanto essi contino per gli adulti responsabili del Paese”, conclude il portavoce Unicef. Ius soli, ha vinto l’ideologia della paura di Luigi Manconi Il Manifesto, 24 dicembre 2017 Concludo ora, e dopo oltre quattro giorni e mezzo, lo sciopero della fame intrapreso a sostegno dell’approvazione del provvedimento sullo ius soli e culturae. Insieme a me hanno digiunato una dozzina di senatori; e hanno espresso il loro favore alla campagna “Non è mai troppo tardi” alcuni ministri, da Graziano Delrio a Marco Minniti, quattro ex ministri dell’Interno (Annamaria Cancellieri, Rosa Russo Iervolino, Enzo Bianco e Beppe Pisanu), centinaia di parlamentari, numerosissime associazioni religiose e laiche, un esteso numero di artisti e intellettuali, da Ermanno Olmi ad Alessandro Bergonzoni, e - soprattutto - le organizzazioni degli stranieri di seconda generazione e quei circa 815mila minori che rappresentano “gli italiani senza cittadinanza”. Oggi, la mia è una dichiarazione di resa, è l’ammissione di una sconfitta. Provvisoria, ma certa e inequivocabile. Ma se io, se noi siamo gli sconfitti, allora chi sono i vincitori? A vincere non è stata la pavidità spaccona della Lega e della destra, entrambe afflitte da un’ossessiva sindrome dell’invasione e da una torva nevrosi da assedio, che si trasformano in panico di fronte a minori richiedenti la piena titolarità di doveri e diritti. E a vincere, non è stato nemmeno l’opportunismo piccino del Movimento 5 Stelle. Un soggetto politico che ha la civetteria di definirsi movimento, ma che rivela tutto l’apparato culturale e psicologico di un partito leninista e autoritario. Conosco personalmente diversi deputati e senatori dei 5 Stelle che condividono interamente il disegno di legge sullo ius soli, ma da loro non è venuta una sola parola di dissenso o una sola manifestazione di obiezione di coscienza. Potranno avere, i 5 Stelle, grandi consensi, ma il loro futuro è già pesantemente compromesso da questo impermeabile e tetragono conformismo. Dunque, a vincere in questa vicenda è stata l’ideologia della paura e un’idea pre-moderna della cittadinanza. Lo ius sanguinis esprime una concezione primitiva, elementare, regressiva e, in ultima istanza, barbarica della cittadinanza. Una concezione fondata su enclave autoreferenziali e difensive, chiuse e rigide, destinate a esaurirsi e inaridirsi. All’opposto, lo ius soli esprime nella maniera più autentica i principi della nostra civiltà giuridica, della nostra antica tradizione culturale di ispirazione greca e romana. La cittadinanza come sistema di doveri e diritti, come reciproco scambio e condivisione di valori, in ultima analisi, come essenziale statuto di coesione sociale. È questa idea di cittadinanza che avete rifiutato, ma siete contro la storia e dunque destinati a perdere. Ho fiducia: è solo questione di tempo. Egitto. Quei giornalisti in carcere solo per aver svolto il loro lavoro di Riccardo Noury Corriere della Sera, 24 dicembre 2017 Ieri, 23 dicembre, mentre veniva disposto l’ennesimo rinvio, per l’esattezza il quarantunesimo, del processo contro Mohamed Abu Zeid (noto come Shawkan, di cui potete leggere qui il calvario giudiziario cui va incontro dall’agosto 2013), Mahmoud Hussein, news producer di al-Jazeera, entrava nel suo secondo anno di detenzione senza processo. Mahmoud Hussein (con la secondogenita Zahra in una foto dell’archivio privato della famiglia Hussein), è stato fermato il 20 dicembre 2016 all’aeroporto internazionale del Cairo, al rientro in Egitto per un periodo di vacanze. Tre giorni dopo, recatosi alla sede dell’Agenzia per la sicurezza nazionale per ritirare il passaporto che gli era stato sequestrato in aeroporto, è stato arrestato. Contestualmente il procuratore per la sicurezza dello stato lo ha accusato di “pubblicazione di notizie false”, “ricevimento di fondi dall’estero” e “appartenenza a un gruppo illegale”. Il 25 dicembre 2016 dal ministero dell’Interno hanno dichiarato in una nota ufficiale che Mahmoud Hussein era in carcere per “istigazione contro le istituzioni dello stato e messa in onda di notizie false allo scopo di creare il caos” e per aver lavorato con al Jazeera per produrre “documentari falsi” sulle istituzioni egiziane. Da allora, la detenzione di Mahmoud Hussein viene rinnovata periodicamente: l’ultima estensione, per ulteriori 45 giorni, risale a 10 giorni fa. Mahmoud Hussein ha potuto incontrare i familiari solo due mesi dopo l’arresto. Si trova in una cella singola, senza servizi igienici e priva di ventilazione salvo una fessura nella porta che viene aperta e chiusa dal personale della prigione. Quest’anno a giugno si è rotto un braccio ma la direzione del carcere ha rifiutato di trasferirlo in un ospedale. Per la libertà di stampa in Egitto è un periodo terribile. Oltre a Mahmoud Hussein e a Shawkan, almeno altri 12 giornalisti e operatori dell’informazione si trovano in carcere, raggiunti da accuse non corroborate da alcuna prova. Dal 24 maggio le autorità del Cairo hanno bloccato l’accesso a oltre 465 siti, 97 dei quali sono portali informativi o di organizzazioni per i diritti umani. Questo spiega perché nell’Indice mondiale sulla libertà di stampa di quest’anno, redatto da Reporter senza frontiere, l’Egitto è al posto numero 161 su 180. Stati Uniti. 30 anni in prigione dove impara a fare il cuoco, oggi apre il suo ristorante. di Anna Guaita Il Messaggero, 24 dicembre 2017 Vorrei chiudere quest’anno con una vicenda umana che allarga il cuore e dà speranza. È la storia di Candido Ortiz, un uomo di 57 anni, che ha appena aperto un ristorante a Jersey City, al di là dell’Hudson River da Manhattan. Non ci sarebbe nulla di strano nella sua storia, se non fosse che Ortiz è stato rinchiuso in prigione 30 anni. Ed è proprio in prigione che ha imparato il mestiere di cuoco. Quando è uscito dal carcere federale di Fort Dix, era diventato capo cuoco e cucinava ogni giorno per 2500 detenuti. Ortiz era finito in prigione per traffico di droga, e doveva restarci fino al 2035. Ma nel 2016 il presidente Barack Obama gli ha concesso la riduzione di pena, abbonandogli gli ultimi 19 anni di una condanna che molti avevano giudicato eccessiva. Ortiz effettivamente aveva dato prova di meritarsi un aiuto. Se a 27 anni quando è stato arrestato faceva il trafficante di cocaina, in prigione ha cercato la redenzione. Ha preso il diploma di liceo, e ha seguito tutti i possibili corsi che il sistema carcerario offriva per imparare a fare lo chef. Piano piano ha cominciato anche a lavorare nelle cucine, e da lì “ha fatto carriera”, diventando appunto il capocuoco dell’istituzione, e guidando altri 20 cuochi per la preparazione di tre pasti al giorno per 2500 detenuti. “Mi piace mangiare - ha raccontato al New York Times -. E non servirò nulla ai clienti se prima non l’ho assaggiato io stesso e non sono convinto che sia buono”. Ma la storia ha un altro risvolto. Se Ortiz ha potuto realizzare il sogno di costruirsi un futuro e di lavorare onestamente, si deve all’aiuto di un’altra persona che ha saputo riscattarsi dai suoi errori. Quando Ortiz, che era arrivato da ragazzo nel New Jersey dal nativo Portorico, è uscito di prigione non aveva un dollaro, non aveva amici o parenti, non aveva neanche il certificato di nascita che gli sarebbe servito per i documenti e quindi la possibilità di lavorare. È stata l’associazione “New Jersey Reentry Corporation”, un gruppo umanitario che aiuta gli ex carcerati a rientrare nella società ad aiutarlo in tutto e a organizzare una raccolta di fondi presso aziende ispaniche per aiutarlo ad aprire il locale, “El Sabor del Cafe”. E il fondatore di questa associazione è l’ex governatore del New Jersey James McGreevey, che nel 2004 dovette dimettersi sotto lo scandalo di aver concesso un posto nell’amministrazione statale a un suo amante. McGreevey, che era sposato e aveva bambini, ammise allora di essere gay, si dimise, divorziò e cominciò una nuova vita. Oggi è un sacerdote episcopaliano, e lavora nelle carceri per aiutare i detenuti. “Everybody deserves a second chance”, tutti si meritano una seconda opportunità, dicono gli americani. Ortiz e McGreevey ne sono un esempio. E comunque Ortiz si merita anche il nostro plauso, se non altro perché ha promesso che cucinerà sempre la pasta “al dente”: in prigione ha conosciuto vari italiani, racconta, e loro gli hanno insegnato che la pasta va cotta in modo giusto “sennò non è degna di essere messa a tavola”.